psichiatria
La follia da condizione criminosa a malattia da curare
La psichiatria è quella branca della medicina che studia e cura i disturbi della mente, ossia le malattie mentali. Alcune malattie mentali, come depressione, schizofrenia e vari tipi di disturbi d’ansia, sono molto diffuse nelle società avanzate. Fino all’inizio del 18° secolo le misure nei confronti dei malati di mente non differivano da quelle riservate ai delinquenti comuni perché la pazzia era ritenuta condizione pericolosa, inguaribile e che perciò richiedeva la segregazione. Tale impostazione cambiò nella seconda metà del Settecento, quando la medicina iniziò a studiare e a considerare il ‘disordine mentale’ come una malattia che poteva essere adeguatamente curata in apposite strutture chiamate manicomi, la cui utilità è però stata successivamente messa in discussione
Il disturbo mentale, che condiziona chi ne è affetto nel modo di manifestarsi ed esprimersi, ha sempre causato timore nell’uomo sano ‘normale’, rispetto al quale il malato di mente risulta un ‘diverso’. Comportamenti bizzarri sono stati interpretati nel tempo in vario modo: nell’antichità si pensava al matto come a persona in preda al diavolo o a forze maligne che lo inducevano a strani atteggiamenti; nel Medioevo il malato di mente era di solito assimilato a un criminale comune, da tenere a distanza per le sue eventuali azioni a danno della società; fino al Settecento, il pazzo era comunque un emarginato, da isolare e da allontanare dalla comunità civile.
Alla base di tali giudizi stava il fatto che il disturbo mentale non veniva considerato come una vera e propria malattia da curare, riconoscimento che avvenne quando cominciò ad affermarsi nel 18° secolo la psichiatria, disciplina medica che studia le malattie della psiche, ossia della mente, e i relativi rimedi.
La storia della psichiatria è anche la storia dei luoghi in cui i pazzi sono stati ricoverati. Lasciati in genere a sé stessi, a vagare per campagne e città, nei primi secoli dopo il Mille i malati di mente cominciarono a essere rinchiusi in conventi o altre istituzioni religiose che accudivano loro per spirito caritativo. L’alternativa era rappresentata dal carcere, quando il pazzo, ritenuto comunque pericoloso, commetteva un reato. È dal ricovero per poveri e vagabondi che comincia a delinearsi nel 19° secolo la struttura manicomiale, sorta di ospedale destinato a ospitare solo chi presenta disturbi mentali e ha bisogno di un medico e di ricovero in una struttura specializzata per essere adeguatamente curato. Ciò comporterà un cambiamento graduale nel modo di considerare il malato di mente: il folle non doveva più essere ignorato ed emarginato, ma aveva diritto alla cura come qualsiasi altro malato. Il suo ricovero, che poteva durare anche molto tempo, doveva avvenire in un luogo organizzato in modo da essere come un villaggio, con strade, edifici, giardini e piazze, dove il malato poteva trovare le cure richieste e, nello stesso tempo, essere convenientemente controllato e trascorrere una vita quanto più possibile normale. Tale modello fu adottato per esempio per i manicomi di Siena, Roma, Reggio Emilia e Lucca.
Il manicomio stesso era considerato un mezzo terapeutico in quanto avrebbe dovuto offrire al malato una vita ordinata, serena, disciplinata, tramite quelli che gli psichiatri di metà Ottocento ritenevano i tre essenziali metodi di recupero: la cura morale, cioè dare al malato fiducia, speranza, affetto; il lavoro, che con la regolarità di un orario, l’attenzione richiesta, l’obbligo di raggiungere un risultato, impegna e responsabilizza; lo svago, considerato una ricompensa alla settimana lavorativa, ma solo se ben condotta. Uno dei lavori più comuni svolti all’interno dei manicomi era quello dello sparto, ossia della lavorazione della paglia. Oltre che nei laboratori per lo sparto, il degente poteva essere impiegato nelle officine (di fabbro, falegname, calzolaio), nella campagna attorno al manicomio dove si coltivavano ortaggi, frutta, cereali e si allevava bestiame, nelle cucine, nel guardaroba, nella lavanderia e in tutti i servizi presenti nel manicomio.
La situazione reale dei degenti in manicomio non era però così rosea: molte di queste strutture sono progressivamente diventate lager in cui i degenti vivevano in uno stato deplorevole di abbandono, e in cui le uniche ‘cure’ praticate per lo stato di agitazione e il potenziale pericolo di atti di violenza contro sé stessi e gli altri erano la contenzione fisica – con catene, cinghie di cuoio, camicie con legacci (la camicia di forza), docce fredde – e la somministrazione di forti dosi di farmaci sedativi. Uno dei rimedi più traumatici, adesso quasi abbandonato, è stato l’elettroshock, introdotto dallo psichiatra Ugo Cerletti. Esso consisteva nel provocare una convulsione generalizzata tramite l’applicazione di corrente elettrica; il medico sperimentò per la prima volta il metodo nel 1938 su un malato che girovagava nella stazione Termini di Roma in stato confusionale.
Lo psichiatra italiano Francesco Basaglia, che dirigeva l’ospedale psichiatrico di Gorizia, formulò un approccio terapeutico della malattia mentale basato sul recupero del malato psichiatrico tramite il suo reinserimento nella società, in quanto considerava che il ricovero in una struttura specializzata contribuisse più alla cronicizzazione che alla risoluzione della malattia: egli ha profondamente influito sulla riforma psichiatrica del 1978 che ha portato alla legge che prevedeva la chiusura dei manicomi. Tale rivoluzionaria scelta, considerata anche all’estero all’avanguardia, contestava la necessità della custodia in manicomio del paziente perché non più visto come pericoloso, ma persona con disturbi da curare in adeguate strutture chiamate, dal 1994, Centri di salute mentale (CSM), che hanno il compito di coordinare interventi di prevenzione, cura, riabilitazione, reinserimento sociale nel territorio del paziente. Per far ciò il CSM è articolato in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, funzionante 24 ore su 24, utile per un breve ricovero in ospedale; nel Day Hospital per le stesse prestazioni, ma limitate all’arco di poche ore; nel Centro diurno, aperto 8 ore al giorno, con ambienti dove sono svolti dall’assistito disparati lavori (pittura, manipolazione della creta, coltivazione della terra, e così via); nelle strutture residenziali, dove si svolgono programmi terapeutici riabilitativi personalizzati, con la permanenza del paziente per un certo periodo.
Schizofrenia. Malattia piuttosto diffusa (ne è affetto circa l’1% della popolazione, in genere giovani) di cui ancora non si conoscono le cause, la schizofrenia si caratterizza per una estrema variabilità dei sintomi, che comprendono disturbi del pensiero, delle emozioni e del comportamento. Il malato può essere trasandato, agitato, oppure presentarsi come persona curata, silenziosa o addirittura immobile e del tutto incapace di interagire con gli altri. Le sue emozioni possono passare dalla insensibilità a eccessi di rabbia, dalla felicità all’ansia. Spesso sono presenti disturbi della percezione, come allucinazioni (vedere, udire, gustare, odorare cose che non esistono) o illusioni (percezioni alterate della realtà). Il contenuto del pensiero può essere alterato, come nei deliri di grandezza (pensare di essere Napoleone, Einstein, Cristo), spesso associati ai deliri di persecuzione (la convinzione che ci sia qualcuno pronto a ucciderci, avvelenarci, imbrogliarci). Il linguaggio può essere confuso e scostante. La cura di prima scelta si basa sugli psicofarmaci. A essa spesso si associa una terapia psicologica, estesa anche alla famiglia, e all’ambiente di scuola o di lavoro del malato per permettergli il più possibile di condurre una vita vicina al normale.
Depressione. Molto diffusa, specialmente tra gli adulti, la depressione fa parte dei cosiddetti disturbi dell’umore e si manifesta con sensazioni di tristezza, impotenza, inadeguatezza e inutilità, oppure con un senso di distacco dalla famiglia, dagli amici e dalle attività che prima interessavano.
Disturbi d’ansia. I disturbi d’ansia comprendono un gran numero di condizioni patologiche molto diverse tra loro, accomunate dal fatto di costituire una risposta inappropriata a un determinato stimolo per intensità o per durata. Si va dalle forme più leggere – che, se controllate, rientrano nella sfera della normalità – a forme più gravi che possono bloccare totalmente l’attività di una persona. Un disturbo di questo tipo è quello ossessivo-compulsivo, caratterizzato dalla presenza – in genere contemporanea – di ossessioni e compulsioni, cioè di pensieri, idee, paure, preoccupazioni sgradevoli e ingiustificate (per esempio, paura di ammalarsi, di fare del male agli altri) e di comportamenti ripetitivi che il malato mette in atto per tentare di eliminare l’ansia e il malessere causato dalle ossessioni (per esempio, lavarsi in continuazione, mettere in ordine, ripetere preghiere e così via). La cura di questi disturbi si basa su un’integrazione degli approcci farmacologico, psicoterapeutico e di sostegno.