Psichiatria
di Bruno Callieri
Psichiatria
sommario: 1. Natura ed esistenza in psichiatria. 2. Psichiatria clinica. 3. La psichiatria secondo le età della vita: a) psichiatria infantile e dell'adolescenza; b) psichiatria dell'età avanzata. 4. Psichiatria orvganica e biologica: a) psichiatria organica; b) psichiatria biologica. □ 5. Psicofarmacologia. 6. 'Psichiatria animale'. 7. Psichiatria dinamica e psicosomatica: a) psichiatria dinamica; b) psicosomatica. 8. Psicoterapia. 9. Psichiatria fenomenologico-esistenziale. 10. Psichiatria sociale e di comunità: a) psichiatria sociale; b) psichiatria di comunità. 11. Psichiatria culturale ed etnopsichiatria. 12. Antipsichiatria. 13. Psichiatria forense. 14. La svolta dell'assistenza psichiatrica. La riforma legislativa in Italia. 15. La formazione dello psichiatra. 16. Le controversie più attuali. 17. I ‛matrimoni esogamici' della psichiatria. □ Bibliografia.
1. Natura ed esistenza in psichiatria
Quasi un secolo e mezzo fa, sulla scia del tardo illuminismo, il pensiero positivista, in contrapposizione al declinante romanticismo, consentiva la grande fioritura della medicina sperimentale secondo il modello delle scienze naturali, permettendo però anche di andare incontro a suggestioni riduttive, facilmente erigibili a sistema.
Quando la famosa tesi di W. Griesinger ‟le malattie mentali sono malattie del cervello" (1863) guadagnò il favore generale, eclissando sia l'antropologia kantiana sia la psichiatria morale di Billroth, lo psichiatra (o, meglio, il medico alienista) non poteva accorgersi, determinato univocamente nell'ambito naturalistico-medico, che egli finiva per essere obiettivante, cioè per reificare l'Altro, la persona, costringendolo in toto nell'anonimato di categorie oggettuali. Il suo operare restava essenzialmente adialettico, conchiuso nell'identificazione causale psiche-cervello.
Anche se va senz'altro riconosciuto il pieno diritto e il fecondissimo orizzonte del naturalismo psichiatrico (v. cap. 4), oggi non si può non condividere appieno il pensiero di L. Binswanger, il padre dell'approccio fenomenologico-esistenziale in psichiatria, e cioè che ‟l'ottimismo della conoscenza consiste qui nel ritenere che il problema della psichiatria vada risolto solo per la via dell'ipotesi naturalistica. Una tale fede è possibile solo se non si è consapevoli che l'essere umano soltanto unilateralmente è caratterizzato dalla ‛vita' o dal suo ‛essere naturale', mentre invece necessita, per essere pienamente compreso, della caratterizzazione come presenza. [...] La psichiatria è, basicamente, una scienza dell'uomo, dell'esistenza umana" (v. Binswanger, 1955). Il lavoro dello psichiatra deve dunque, anche e soprattutto, esser diretto all'incontro con l'altro, cioè orientato a comprendere l'uomo nella sua globalità (v. von Baeyer, 1955; v. von Baeyer e Griffith, 1966; v. AA. VV., 1957).
Nella tensione bipolare fra ‛natura' ed ‛esistenza', fra ‛spiegazione' e ‛comprensione', fra l'osservazione oggettiva del caso clinico e l'incontro con l'altro, si pone la teoresi causalistica psicanalitica con la sua molteplice feconda prassi umanistica, con una dialettica sempre più consapevole fra naturalità e storicità dell'uomo, ma con una irriducibile ambiguità fra spiegare e comprendere. D'altronde, non si può non riconoscere che, sia pure in un senso ben diverso da quello positivista, ‟la consapevole distanza dell'obiettivazione non è un tradimento esistenziale della persona malata ma è l'indispensabile condizione dell'attività psichiatrica" (v. Straus e altri, 1969) e che il fatto che ‛una' relazione ‛io-lui' non possa esser trasformata ‛nella' relazione ‛io-tu' è una manifestazione primaria, mondana della psicosi: scoprirne la base resta il vero compito dello psichiatra che, a qualunque scuola o indirizzo appartenga, deve mantenersi sempre, come dice H. Tellenbach, ‟camaleonte di metodi".
Nella pratica lo psichiatra non incontra l'altro come un ‛socio' (compagno, fellow-man) che egli poi riduce a caso clinico; no, egli incontra un caso clinico, sia pure di tipo particolare: mentre molto spesso il ‛male' (dis-agio) viene denunciato o temuto dal paziente stesso che, accorgendosi che c'è qualcosa che non va, si rivolge al medico, la persona ‛mentalmente malata' invece (per es. un delirante) vive la propria sofferenza come determinata dalla malizia del mondo e non da un proprio ‛male'; lo psichiatra che in ospedale accetta una tale persona e la ricovera in una corsia sorvegliata e la dichiara ‛incompetente' può trattare il paziente contro la sua volontà, ad esempio potrà fare tutto il possibile per bloccare un'evidente intenzione suicida. Ma in questi casi egli, quali che siano i suoi presupposti e le sue opzioni, assume implicitamente un atteggiamento di fronte ai problemi filosofici dell'autodeterminazione e del comportamento ‛normale' e ‛patologico'. A tali decisioni, nell'uno o nell'altro senso, egli non può sottrarsi: la pratica, anche la più banale e la meno impegnata, lo riporta sempre al dilemma che connota lo specifico della psichiatria attuale: natura e/o esistenza.
Qui, ovviamente, è facile l'assunzione semplicistica di posizioni che spesso finiscono per rinforzarsi vicendevolmente, sboccando nei vicoli ciechi dell'autoritarismo e dell'ideologia.
2. Psichiatria clinica
La persona ‛mentalmente malata' non può in alcun modo essere identificata in toto con il suo substrato anatomofisiologico, sia esso noto o soltanto supposto. Fu il grande merito (e la grande illusione) della psichiatria della seconda metà dell'Ottocento identificare raggruppamenti costanti di sintomi (le sindromi) collegandoli in modo causale con specifici processi eziologici, come accade ad esempio per le varie malattie infettive (tifo, difterite, tetano, ecc.). Un certo numero di fisionomie cliniche permanenti di queste sindromi, più o meno stabili nel loro svolgersi, autorizzava la classificazione, l'ordinamento tassonomico e, quindi, la configurazione di vere e proprie entità di malattia.
Questo metodo ‛clinico-nosografico', operante su basi rigorosamente empiriche, fu importantissimo per il suo potenziale di identificazione e di chiarificazione; esso, dovuto soprattutto all'immenso lavoro di E. Kraepelin (che va a ragione considerato ancora come uno dei più grandi maestri della psichiatria clinica), oggi non può però esser mantenuto, per lo meno nella sua interezza.
Non fu possibile nè a Kraepelin stesso nè ai suoi successori ignorare le ‛forme di transizione' e quelle ‛miste' delle varie psicosi e neurosi, per esempio la neuropsicastenia di Janet (v. Régis, 19236) e i passaggi attraverso alcune di queste sindromi durante il corso di una malattia, i cosiddetti ‛viraggi', per esempio depressivo-paranoidi, o gli importanti quadri atipici (v. Pauleikhoff, 1957). Nè era possibile ignorare il concetto di ‛psicosindrome', già agli inizi del Novecento chiaramente inquadrato da K. Bonhoeffer con il suo ‛tipo esogeno di reazione', concetto indicante un quadro clinico comune a diversi e ben determinati processi: per esempio la psicosindrome amnestica (v. Zeh, 1961; v. Wieck, 1967), determinata da arteriosclerosi, trauma cranico, intossicazione da ossido di carbonio, atrofia cerebrale, o la psicosindrome endocrina (v. Bleuler, 1954 e 1972).
Allo stato attuale della nostra esperienza clinica, è impossibile mantenersi aderenti all'impostazione clinico-nosografica sensu stricto e, tanto meno, ai suoi sviluppi estremi (per esempio le nosografie di Kleist e di Leonhard, 1966). D'altronde ciò appare evidente dallo svolgersi successivo della sistematica, cioè dalla storia e dai diversi sistemi di classificazione (v. de Boor, 1954): la sola costante oggi ancora indenne è un certo ordinamento di caratteristiche (Zuordnungsmodi) che distingue quelle che chiamiamo malattie mentali e costituisce la base della loro realtà.
Però un'eccessiva relativizzazione del criterio cliniconosografico conduce o alla negazione di realtà cliniche differenti tra loro - per esempio la realtà paranoide, quella melancolica, quella maniacale - com'è accaduto in certe posizioni estremistiche (v. cap. 12) e nell'impostazione esclusivamente sociogenetica, o all'assunzione di presupposti teoretici fondati su analogie che solo in parte possono essere sostenute. Aspetti molto simili si ritrovano, ad esempio, nella concezione ‛organodinamica', che ha trovato in H. Ey il suo più geniale e colto araldo clinico. Qui è evidente, e anche suggestiva, l'analogia con la dottrina di J. H. Jackson dei livelli neurologici (scomparsa di funzioni dipendenti da organizzazioni filogeneticamente più recenti, con conseguente liberazione di moduli funzionali più arcaici). Questa teoria della struttura della psiche postula un movimento generante il passaggio evolutivo dall'infrastruttura organica alla sovrastruttura psichica, e sottolinea la prospettiva fondamentale che la psiche ha uno sviluppo (genetico) e che la sua organizzazione è gerarchica (dinamica) ai vari livelli, dell'inconscio, dell'automatismo psicologico, della mente conscia (che regrediscono nella malattia mentale).
Ciò comporta: 1) la tesi psicologica che la malattia mentale è già implicata nell'organizzazione della psiche, con la ovvia, e ben giustificata, valorizzazione degli studi di psicologia genetica sullo sviluppo mentale del bambino (Freud, Wallon, Piaget) e degli studi sulla stratificazione strutturale della psiche; 2) la tesi fenomenologica che la struttura della malattia mentale è essenzialmente negativa o regressiva (la malattia come rottura della comunicazione e delle relazioni necessarie per la comprensione interpersonale, con conseguente destrutturazione della realtà); 3) la tesi clinica che le malattie mentali (psicosi e neurosi) sono forme tipiche di vari livelli di agenesia o di dissoluzione dell'organizzazione psichica (Seglas, Duprè, Delmas); 4) la tesi eziopatogenetica che la malattia mentale dipende da processi organici, con la regressione intesa come causalità ‛organodinamica' e con una forte apertura sulle prospettive neuropsicologiche, per esempio su quel che oggi viene designato come studio dei ‛fattori cognitivi' (importantissimi sono i numerosi recenti studi americani in tal senso sulla schizofrenia; v. Vaughan, 1978).
Il significato, ancora fondamentale, di quella che possiamo chiamare la teorizzazione positivista della psichiatria passa storicamente attraverso la dottrina della ‛degenerazione di B. A. Morel e i due grandi gruppi di V. Magnan, cioè lo ‛squilibrio mentale' (concepito come difetto d'armonia tra le diverse aree cerebrali) e il ‛delirio cronico' sistematizzato, sulla cui evoluzione in demenza si fonderà nell'ultimo quarto del XIX secolo il pessimismo di fondo della psichiatria europea, come emerge dalla lettura dell'ancora affascinante trattato dei due alienisti italiani Tanzi e Lugaro (v., 1914). Il culmine si raggiungerà nell'opera del tedesco Kraepelin, espressione della psichiatria clinica per antonomasia, con il suo concetto di ‛psicosi endogena', cioè di malattia mentale vera e propria, ben distinta dai disturbi nevrotici e caratteropatici, dalle noxae cerebrali acute e croniche, e dovuta a un quid proprio, appunto ‛endogeno', tutto da precisare: lo ‛scandalo' della psichiatria come scienza medica, per dirla con K. Schneider. Kraepelin distinse due grandi gruppi di psicosi endogene: la psicosi maniaco-depressiva, caratterizzata da fasi più o meno prolungate di melancolia e di eccitamento euforico, intervallate da periodi più o meno lunghi di normalità (si parlerà poi di ‛ciclotimia bipolare', con uno sviluppo tassonomico di cui lucido e comprensivo inquadramento sarà quello di D. Cargnello nel 1960 a Rapallo e, per le manie, quello recentissimo di B. Shopsin, 1979), e la demenza precoce, il rebus e il nodo della psichiatria stessa, costituita da un gruppo di decorsi e di sindromi (catatonia, ebefrenia, delirio paranoide), con grave compromissione dell'affettività e con evoluzione, in termini più o meno lunghi, in uno stato demenziale sui generis, irreversibile. La posizione dell'ipocondria e quella della paranoia sono tuttora controverse, fra delirio lucido e sviluppo di personalità (v. Berner, 1965; v. Ladee, 1966; v. Retterstøl, 1966).
La nozione di E. Bleuler (1911) di ‛schizofrenia', ancor oggi in pieno vigore, parte innegabilmente dai concetti kraepeliniani, anche se compie un passo teorico di importanza fondamentale sceverando, fra tutta la congerie e il polimorfismo dei sintomi e la varietà infinita delle esperienze deliranti, il disturbo fondamentale (la Grundstörung), da cui tutto il resto dipende e psicosemiogeneticamente deriva: autismo (disinteresse per il reale e ripiegamento in se stessi, con chiusura al rapporto interpersonale o sua deformazione), dissociazione (fra le idee e l'affettività, fra il proprio mondo interiore e il reale), delirio (come interpretazione erronea o come nuovo significato della realtà vissuta).
La concezione di Bleuler, che ha dominato per lunghi decenni e che tuttora è molto seguita (v. Bellak, 1971), ha avuto il merito di indurre ad analisi psicopatologiche meno legate al rilievo del sintomo e più puntate verso il ‛dietro la facciata', con un enorme arricchimento di comprensione, ma ha veramente ipostatizzato la malattia mentale con la riuscitissima scelta del nome: schizofrenia, rafforzando, anche al di là delle proprie intenzioni, la tendenza al nosografismo naturalistico (v. Pelicier, 1970) e testimoniando della ‟forza trainante anche ideologica che le parole hanno in sé come portatrici di significati e valori altri da quello che è l'orizzonte intenzionale che le ha generate" (v. Borgna, 1979, p. 31).
Inoltre la maggior parte degli studi di alienistica dell'epoca fu condotta sui malati ricoverati nei manicomi, per cui alcuni sintomi ‛cronici' potevano esser più frutto di istituzionalizzazione che dato naturale della patologia mentale. Le esperienze provenienti dalla sempre più diffusa demanicomializzazione ci potranno dire fra alcuni anni qualcosa di più preciso in proposito - fatta la debita tara per gli effetti positivi dovuti ai migliorati mezzi terapeutici impiegati - testimoniando così sulla possibilità patogena o destrutturante di certe situazioni ambientali, di sensory deprivation, di isolamento, di monotonia.
Accanto agli studi sulla schizofrenia, di cui resta modello insuperato il IX volume del grande trattato di O. Bumke, pubblicato fra le due guerre, con i contributi di Mayer-Gross e di Wilmanns, si pongono, ricchi di significato teoretico e clinico, gli studi di patocaratterologia che trovano in E. Kretschmer, attivo a Tübingen, il più noto e autorevole rappresentante: i suoi studi sulla personalità cicloide e su quella schizoide, i suoi contributi di psicologia medica, la sua sensibilità all'intreccio tra costituzione e biografia, tra struttura ed evento, situano il suo pensiero al crocevia, all'articolazione tra struttura e sviluppo, e lo mantengono estremamente attuale.
Sulla linea di Jaspers, ancor oggi insuperato maestro di psicopatologia, si colloca l'opera di K. Schneider e della sua scuola di Heidelberg (v. Huber, 1969), di cui viene oggi ripresa appieno, e codificata anche nel Glossario dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la distinzione (mutuata appunto dall'insegnamento di Jaspers) fra sintomi di primo ordine e sintomi di secondo ordine, questi ultimi derivabili psicologicamente dai primi, ai quali soltanto spetterebbe il valore quasi patognomonico di indicatori di quella condizione che noi chiamiamo schizofrenia. Schneider ha avuto e continuerà ad avere grande significato in psichiatria clinica, perché con assoluto rigore metodologico delimita il campo propriamente psichiatrico, denunciando (sia pure, attualmente, senza successo) la psichiatrizzazione indiscriminata ed eccessiva di molti comportamenti devianti ma non riconducibili a malattia: esempio limpido di ciò è la sua Psicopatologia clinica, nota in tutto il mondo, e la sua trattazione delle personalità psicopatiche, ripresa poi in modo encomiabile da Petrilowitsch.
Questi apporti fondamentali allo studio della psicopatologia delle psicosi maggiori nonché gli approcci clinici e dottrinari alle neurosi (v. Arieti, 1959; v. Nunberg, 19592) ci consentono oggi di considerare come nucleo centrale del grande campo psicotico le schizofrenie genuine (senza sintomi somatici specifici e senza scatenamenti psicogeni circoscritti, con prevalenza di fattori genetici e di sovraccarichi biografici), e di costellare questo nucleo (v. Cabaleiro Goas, 1952 e 1966) con le schizofrenie sintomatiche (nei processi cerebral-organici), con il tipo acuto esogeno di reazione, a sintomatologia schizofreniforme, con le psicosi tossiche schizofrenosimili (alcune psicosi alcoliche, v. Benedetti, 1952, e la psicosi da ammine simpaticomimetiche e da dietilammide dell'acido lisergico e da altri allucinogeni), con le psicosindromi endocrine schizofreniformi, con le cosiddette schizofrenie reattive, con le psicosi atipiche, con le frequenti sindromi schizoaffettive e, soprattutto, con le schizofrenie pseudoneurotiche o borderlines. Quest'ultimo è il gruppo di gran lunga più importante sia in pratica che per le implicazioni teoriche, oggetto di recenti significative indagini cliniche, psicodinamiche, genetiche, specie delle scuole statunitensi (v. Stroemgren, 1962; v. Pauleikhoff, 1957; v. Müller, 1973; v. Leuner, 1962; v. Kernberg, 1975). Valga per tutte l'ottima, completa trattazione di G. Benedetti e altri (v., 1957-1962-1967) e il I volume dello ‟Schizophrenia bulletin", 1979, del National Institute of Mental Health, dedicato al borderline.
La trattazione sistematica dei disturbi mentali ha conosciuto momenti di grande significato: primi fra tutti i volumi della monumentale opera curata da Bumke, a cavallo degli anni trenta, seguiti negli anni sessanta dai cinque volumi (a cura di H. Oruhle e coll.) della Psychiatrie der Gegenwart (di cui è apparsa nel 1979 la seconda edizione); i tre volumi della Psychiatrie nell'Enciclopédie médico-chirurgicale, a cura di Ey; i tre volumi, aggiornatissimi, del Trattato di L. Bini e T. Bazzi; il trattato americano a cura di S. Arieti e quello di A. M. Freedman e H. I. Kaplan; quello inglese di W. Mayer-Gross, E. Slater e M. Roth; quello spagnolo di F. Alonso Fernandez, rappresentano soltanto alcune delle realizzazioni più significative.
La distinzione di fondo fra psicosi, neurosi e personalità psicopatiche si è imposta ovunque (v. Bräutigam, 1968), ma spesso con notevoli differenze, generatrici di equivoci diagnostici, assai evidenti, ad esempio, per la diagnosi della schizofrenia: si pensi a certe ipocondrie (v. Feldmann, 1963) e a certi borderlines (v. Gunderson e Singer, 1975). Nell'ultimo decennio è apparso necessario ovviare a tale grave inconveniente: estremamente importante appare a tal fine, come sintesi di un accurato e prolungato lavoro di coordinazione di dati e di valutazione critica degli stessi, il Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-III), alla sua terza edizione nel 1978 e revisionato ancora nel gennaio 1979, dell'American Psychiatric Association. A questo importantissimo manuale fa riscontro, con qualche piccola modifica e in stesura più succinta, il Glossario pubblicato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. La compilazione del DSM-III ha comportato anni di intenso lavoro di un gruppo di studiosi guidato da R. L. Spitzer. Il manuale, che andrà sicuramente tradotto in tutte le lingue, per uniformare a poco a poco i vari criteri diagnostici nei diversi paesi, determinerà un notevole cambiamento nell'impostazione diagnostico-clinica, specie in Nordamerica, soprattutto per quanto concerne la diagnosi di schizofrenia.
È prevedibile infatti, data l'introduzione di criteri rigorosi e restrittivi, che dalla rubricazione diagnostica schizophrenic disorders verrà eliminato il 50-80% di quei pazienti che vent'anni fa, negli Stati Uniti, sarebbero stati diagnosticati come schizofrenici (v. Gurland e altri, 1970; v. Feighner e altri, 1972; v. WHO, 1973), fornendo facile appiglio al primo e giustificato momento della contestazione. Ad esempio, le forme schizoaffettive, gli episodi schizofrenici acuti, i casi borderlines trovano il loro ordinamento altrove, e non pochi casi si accosteranno alle psicosi distimiche, specie maniacali, o alle sociocaratteropatie, come sta già accadendo sotto l'impatto delle dilaganti tossicomanie (v. Loo, 1970; v. Le Dain, 1972; v. Pelicier e Thuillier, 19783). Il DSM-III permette in modo singolarmente efficace l'espressione delle incertezze diagnostiche specie negli stadi precoci di un processo psicotico (v. Conrad, 19712) e, soprattutto, collega i raggruppamenti diagnostici alle alternative terapeutiche. Ad esempio, la maggiore enfasi posta sui sintomi psicoaffettivi porterà a prender sempre più in considerazione l'uso del litio, invece dell'uso quasi ‛riflesso' dei neurolettici, per ogni psicosi.
Forse il tratto più significativo dell'approccio del DSM-III ai disturbi mentali gravi è la chiara e netta distinzione tra la fase psicotica florida e la fase molto più prolungata in cui predominano i sintomi latenti, cronici, residui. La differenziazione esplicita di questi stadi non floridi aiuterà a focalizzare l'attenzione sul problema, ora molto difficile, della ricerca di un equilibrio (da parte di tutti gli psichiatri clinici e non solo di pochi) tra la necessità di mantenere un trattamento farmacologico e la necessità di un più sostanziale approccio psicosociale, ivi incluse la riabilitazione, la sollecitazione verso esperienze sociali strutturanti, la creazione di un sistema di sostegni familiari e comunitari (v. WHO, 1965 e 1978).
Questi ultimi aspetti del trattamento indicano che, malgrado l'evidente utilità del DSM-III, questo nuovo approccio descrittivo non può essere, e non intende essere, adeguato per tutti gli scopi di ripartizione terapeutica. Si prevede (meeting di Chicago del maggio 1979) un'informazione addizionale nella programmazione dei trattamenti da parte di organizzazioni rappresentanti psicanalisi, psichiatria, terapia della famiglia e della coppia, di gruppo e del comportamento.
Fra le ricerche di psicopatologia, che tanta parte costituiscono della psichiatria clinica, forse le tematiche più indagate sono state quelle legate ai disturbi del pensiero (per es. deliranti, ossessivi), a quelli dell'affettività (per es. la melancolia, l'ansia, il suicidio, la depressione larvata e mascherata) e al cosiddetto borderline: Jaspers, Kehrer, Wilmanns, Berze, Specht, Bleuler, Wyrsch, K. Schneider, Kretschmer, Mayer-Gross, Bumke, Weitbrecht, Skoog, Slater, Roth, Ey, Lewis, Hill, Ruemke, Langfeldt, Stenstedt, Conrad, Wieck, Lhermitte, Delay, Lopez-Ibor, fra tanti altri, sono stati veri e propri ‛indicatori di via', accanto ai nomi statunitensi più noti, da Sullivan a Freedman, da Kolb a Salzman, da Kaplan ad Arieti.
Recentemente la psicopatologia delle allucinazioni si è imposta all'attenzione degli studiosi da diversi punti di vista, clinico, sperimentale, fenomenologico. L'analisi del fenomeno ha permesso distinzioni importanti (per es. allucinosi e pseudoallucinazioni, visione mentale e immaginazione allucinatoria; v. Callieri, 1980) fino ai famosi esperimenti di W. G. Penfield di stimolazione elettrica della corteccia cerebrale nelle diverse aree; teorie fisiogenetiche si sono alternate a teorie psicogenetiche e, recentemente, a teorie antropologico-culturali. Lo studio della percezione sia dal punto di vista genetico (Jaensch) e fenomenologico (Merleau-Ponty) che da quello sociale (si pensi alla social perception di Bruner e Postman, agli studi di Canestrari) ha consentito integrazioni, prima impensate, con il campo dell'affettività (v. Matussek e altri, 1965), dei bisogni, delle attese, dei pregiudizi, aprendo la via a studi sperimentali oltremodo suggestivi e a collegamenti fra sindromi e costellazioni apparentemente non rapportabili, per esempio schizofreniche e affettive (v. Hippius e Selbach, 1969), tossiche e psicogene, strutturali e dinamiche (v. Janzarik, 1959).
Lo studio degli allucinogeni, dalla mescalina (Beringer) all'LSD, alla psilocibina, alla metedrina, alla recente ‛polvere d'angelo', ha consentito approfondimenti psicopatologici notevoli (per es. sulla depersonalizzazione, sulla cenestesi, sull'esperienza temporospaziale) ma anche sperimentazioni complesse di biochimica (ammine cerebrali, serotonina, acido mandelico e vanillico, ecc.), nonché osservazioni di dinamica di gruppo, studi sulle tensioni emotive di base, sulle attese culturali, approcci psicanalitici e neurofisiologici (ad es. nello studio del sonno, dell'epilessia, dell'alcolismo, delle tossicomanie).
Parimenti, la psicopatologia della memoria ha compiuto grandi progressi, sia per l'approccio biochimico e neurofisiologico, sia per il contributo psicodinamico e della psicologia sperimentale e dell'apprendimento. Gli interventi di chirurgia cerebrale, le correlazioni neuro-radiologico-cliniche, le terapie di shock (v. Catalano Nobili e Cerquetelli, 1972; v. Fink, 1979), di ipnosi (v. Granone, 1972), di decondizionamento (v. Pancheri, 1979) hanno allargato l'orizzonte della comprensione e hanno consentito elaborazioni teoretiche di grande interesse.
La psicopatologia del linguaggio, dalle afasie classiche (v. Goldstein, 1948) ai più svariati disturbi della comunicazione verbale e non verbale (v. Piro, 1958; v. Bobon, 1962; v. Callieri e Frighi, 1963), ha consentito approfondimenti impensabili qualche decennio fa, tramite la psicolinguistica (v. Kainz, 1960; v. Hörmann, 1971), la semiotica, l'‛osservazione partecipante' (Sullivan). Anche qui, come per lo studio della memoria, l'osservazione e la sperimentazione negli animali (con ampi richiami all'etologia; v. Ploog, 1964) ha fornito raccolte documentarie estesissime e dati di notevole rilievo.
Altrettanto si può dire per la psicopatologia delle spinte istintuali, che dal descrittivismo analitico, a volte artificioso, è passata all'esame della situazione globale, avvalendosi di apporti multidisciplinari, non sempre facili da correlare, spesso contraddittori e problematici, ma sempre fecondi di approfondimenti per la comprensione di ampi tratti del comportamento umano.
In altri termini, la psicopatologia non è restata soltanto ancorata allo studio descrittivo e genetico (psicopatogenetico e psicosemiogenetico) dei sintomi, peraltro ancora molto fecondo (si pensi agli orizzonti aperti dallo studio fenomenico delle esperienze di depersonalizzazione, di ‛fine del mondo', di perplessità, della disposizione d'animo al delirio) ma ha allargato il suo campo di ricerca, utilizzando diversi tipi di approccio forniti sia dalle scienze biologiche sia da quelle antropologiche. Ciò ha provocato risonanze profonde nella valutazione del sintomo (clinica e culturale), nell'ordinamento delle sindromi, nella critica alla scarsa flessibilità delle nosologie tradizionali sottoposte a revisioni sovente radicali; e ciò non solo e non tanto per l'impatto suggestivo di teorie più o meno opinabili o di movimenti legati a mode di pensiero, quanto soprattutto per l'accumularsi di dati obiettivi della più diversa provenienza (dalla neurochimica cerebrale alla psicoetnologia, dall'elettrofisiologia all'antrapologia, dalla cibernetica alle scienze religiose e morali). Proprio questa situazione ricca, sfaccettata, dinamica della psicopatologia attuale ci consente di considerarla a pieno titolo ancora l'asse portante di tutte le discipline psichiatriche.
Lo sviluppo delle terapie psichiatriche (v. cap. 5) ha compiuto progressi di grande rilievo non solo sul piano pratico, applicativo, ma anche dal punto di vista teoretico, offrendo spunti importanti per la ricerca neuropsicologica e biosociologica. Dalla malarioterapia, introdotta nel 1917 da J. von Jauregg per la cura dell'allora diffusa paralisi progressiva luetica, attraverso l'insulinoterapia di M. Sakel e lo shock cardiazolico per la cura delle sindromi schizofreniche e paranoidi, si arriva all'elettroshock di U. Cerletti e L. Bini (1938), rivelatosi di inestimabile valore per la terapia delle gravi depressioni e tuttora valido (v. Paterson, 1963; v. Kalinowski e Hippius, 19693; v. Catalano Nobili e Cerquetelli, 1972; v. Royal College of Psychiatrists, 1977; v. Fink, 1979), per approdare, nel 1943, ai ganglioplegici e dopo pochi anni ai neurolettici.
Questa psicofarmacologia, in costante sviluppo, ha soppiantato a poco a poco tutte le altre terapie, provocando in modo quasi specifico la scomparsa dei sintomi più gravi e apportando profondi miglioramenti anche nella cura dei casi cronici. L'introduzione dei sali di litio, ma soprattutto la recentissima applicazione terapeutica delle endorfine nella cura della schizofrenia, consentono anche di intravvedere, nella patogenesi di questa malattia, la possibilità di disturbi del metabolismo dei neuropeptidi (v. Volavka e altri, 1979). Negli ultimi anni si è tuttavia assistito a una generalizzazione eccessiva dell'uso degli psicofarmaci (si è parlato, e a ragione, di contenzione farmacologica, di lobotomia chimica) con somministrazioni inadeguate e indiscriminate (come è accaduto per l'elettroshock), anche al di fuori delle istituzioni; per non parlare della diffusione degli ansiolitici e degli ipnotici, che ha raggiunto livelli inquietanti. Si ha l'impressione che il poter disporre di tali efficaci farmaci abbia determinato non di rado, con la spinta potente al loro uso, un diminuito approfondimento dell'indagine psicopatologica del singolo, non sufficientemente compensata dallo studio biochimico dei processi psicofarmacologici e dei meccanismi d'azione delle varie sostanze psico-e neurotrope.
Ma un'altra terapia, ancor prima di quella chimica, aveva cominciato ad annunziare le sue ricche possibilità psichiatriche: la psicanalisi (v. cap. 8). Prospettatasi dapprima come un metodo interpretativo e terapeutico delle nevrosi, la psicanalisi, specie dopo gli scritti del secondo Freud, ha proposto una concezione generale dello sviluppo dell'uomo, non solo del suo comportamento normale e nevrotico ma anche dei suoi aspetti più alienanti (psicotici), consentendone la comprensione genetica basata sulla regressione a stadi precoci, libidici e oggettuali, che fanno parte dell'evoluzione di ognuno (v. Redlich e Brody, 1952).
Si può dire, anche qui, che le ambizioni sono state (e forse sono ancora) eccessive, specie nel campo delle psicosi; tuttavia si è assistito, soprattutto negli ultimi vent'anni, a un moltiplicarsi di impostazioni teoretiche e di metodiche pratiche di ispirazione fondamentalmente psicanalitica o, più genericamente, psicodinamica (di coppia, di famiglia, di gruppo, di decondizionamento comportamentale). Accanto agli innegabili vantaggi, come è accaduto per la farmacologia, si sono verificate generalizzazioni indebite e pratiche indiscriminate, favorite anche da movimenti culturali e ideologici non sempre metodologicamente corretti, a volte francamente esagerati o, per lo meno dal punto di vista terapeutico, ingiustificati.
È utile ricordare, per esemplificare la situazione, i modi oggi prevalenti di considerare le possibilità terapeutiche nella schizofrenia (v. Davis e Chang, 1978, p. 616): a) posizione totalmente psicologica, con rifiuto sia della psicoterapia medica che dei farmaci; b) posizione totalmente psicologica, che ammette la psicoterapia ma rifiuta i farmaci; c) posizione prevalentemente psicologica, che ammette i farmaci con molte riserve; d) posizione psicologica e biologica, che considera importanti entrambi i trattamenti; e) posizione primariamente biologica, che però dà rilievo anche al trattamento psicologico; f) posizione totalmente biologica, che considera utile soltanto la farmacoterapia, e inutile la psicoterapia. La maggior parte degli autori concorda nell'escludere le posizioni estreme; per le altre, la preferenza è in rapporto alle diverse forme cliniche e al loro decorso: in genere, come risulta dagli importanti studi del Massachusetts Mental Health Center (già Boston Psychopathic Hospital), più esse tendono a cronicizzarsi, meno importante è la farmacoterapia e maggiore è il rilievo che spetta alla psicoterapia e al psychosocial setting (v. Oreenblatt e altri, 1965; v. Benedetti e altri, 1979).
Da quanto sopra si vede come la psichiatria clinica stia avviandosi verso una singolare trasformazione del suo campo, investito dal culturale e dal sociale, con una notevole tendenza all'aspecificità e al paradosso: accanto alla tendenza a minimizzare l'apporto della psicopatologia c'è la tendenza a estendere indebitamente il campo psichiatrico, con il pericolo di smarrire, non senza leggerezza e superficialità, il limite fra psicologia e psicopatologia. Si tende a negare la patologia dello schizofrenico e si psichiatrizza il bimbo che non ha voglia di studiare e la sua famiglia.
3. La psichiatria secondo le età della vita
Ciò che accade nell'ora segreta del mezzogiorno della vita è la nascita della morte, dice Jung in Anima e morte (1934); e il mysterium mortis, con il suo svelarsi, scandisce gli stadi della vita. Il giovane, l'adulto, il vecchio hanno la loro specificità, di vita biologica e spirituale, di fare e pensare, godere e morire. E così pure il fanciullo. Nella psichiatria di questo secolo non poteva non svilupparsi l'indagine su questi stadi, che ha consentito di individuare settori di ricerca e di applicazione quanto mai ricchi di problemi, fecondi di risultati e promettenti di sviluppi.
a) Psichiatria infantile e dell'adolescenza
È una delle sezioni più importanti della psichiatria moderna, ricca di implicazioni pratiche specie per quanto concerne l'azione preventiva, anche e soprattutto dal punto di vista dell'impegno sociale. Essa inizia a configurarsi quando si comincia a comprendere che il disturbo emotivo infantile è molto differente da quello dell'adulto, anche qualitativamente (v. Aichhorn, 1925).
I disturbi psichici presentati dal bambino, cioè da una natura che si fa storia, interessano tutte le sue relazioni interpersonali di base, specie quelle parentali, ed è così che ‛gli altri' divengono parte essenziale del suo problema (v. Bowlby, 1951 e 1969-1973).
La psichiatria infantile, liberatasi dalla pesante e riduttiva ipoteca naturalistica che la faceva coincidere con le cerebropatie e le oligofrenie, realizza il suo primo essere, diagnostico e terapeutico, quando comprende che il disturbo mentale infantile è, per lo più, un fatto di relazioni, e il campo dell'organicità, genetica, cerebrale, endocrina, è solo un settore - anche se vasto - del suo ambito (v. De Negri, 1971; v. Ajuriaguerra, 19772).
I numerosi contributi specifici sull'argomento (v. Kanner, 1935) sottolineano che il processo di accrescimento è sempre profondamente legato alla dialettica biologico-sociale: le forze sociali (della cultura) e le forze biologiche (dell'individuo) operano nella vita a volte in armonia, spesso in conflitto.
Il sintomo psicopatologico deve essere reinserito nel suo processo evolutivo e l'organizzazione affettiva può essere compresa solo in rapporto all'organizzazione affettiva del gruppo familiare (v. WHO, 1965; v. Mazet e Houzel, 19792).
Il lavoro dei pedopsichiatri è stato profondamente influenzato dalla psicanalisi, ma oggi comincia a delinearsi una posizione più critica forse sotto la spinta di una riaffermata psicologia dell'Io, tipo Federn e, soprattutto, tipo Hartmann.
Il maggior contributo va qui individuato nel lavoro di Anna Freud, di Melanie Klein e della Mahler; la Hampstead Child Clinic (Freud) e la Tavistock Clinic (Klein) divennero trent'anni or sono per tutto il mondo i centri fondamentali della ricerca psicanalitica sui bambini e gli adolescenti (la prima anche con un richiamo più sentito per il contesto sociale): gli studi più importanti nascono dopo il 1950, sui bambini normali, nevrotici e handicappati: il nato cieco, il nato sordo, gli studi sui gemelli, ecc.
Il nucleo centrale delle teorizzazioni che nascono da queste ricerche è forse così sintetizzabile: la malattia psichica del bambino non dev'essere valutata sulla base della presenza o assenza di certi sintomi o certe inibizioni, quanto piuttosto in base a un giudizio di armonia o disarmonia lungo le varie linee dello sviluppo (intelligenza, percezione, linguaggio, apprendimento, comunicazione sociale) in relazione alle forze dell'Io e alle richieste istintuali. Ciò ha imposto di uscire dai rigidi criteri fenomenici seguiti dalla psichiatria puramente clinico-nosografica.
La controversia Klein-A. Freud è troppo nota per esser qui riferita; si può discutere ancor oggi sulla nevrosi di transfert nel bambino, sull'analisi dei meccanismi di difesa o dei fantasmi inconsci, sulle origini dell'Io, sulle risposte emotive dell'analista e dei genitori (Klein); il fatto è che l'analisi (più in genere, la terapia) infantile non può non esser considerata in modo diverso da quella degli adulti, implicando anche la rieducazione delle persone attorno al piccolo paziente; si pensi al fondamentale lavoro di A. Freud, The psychoanalytic treatment of children (1946), e alla successiva analisi dei processi familiari (v. Winnicott, 1965; v. Ackermann, 1970).
La radicalità dello scontro teorico è diminuita nei decenni successivi per far posto a un dibattito dapprima cauto, poi sempre più aperto e creativo (v. Lewis e Winnicott, 1963).
I concetti di ospitalismo, depressione analitica (Spitz), madre schizofrenogena (Bettelheim), autismo infantile (Kanner), schizofrenia infantile (v. Vrono, 1971) sono stati fondamentali punti di partenza per importanti capitoli della psicopatologia infantile, anche se le teorie del condizionamento e dell'apprendimento hanno inoltre consentito di identificare alcuni tipi di disturbi provenienti dai conflitti che travagliano questo periodo formativo.
Ad esempio i disturbi psichici consecutivi all'aggressività, o malcontrollata o esplosiva, specie in carenza di maternage o in un'atmosfera familiare carica di tensioni emotive (v. Winnicott, 1957), realizzano quadri multiformi di disadattamento, esistenziale, familiare, micro e macrosociale, di tossicomanie giovanili (v. De Maio e altri, 1976) oppure di profondi sbilanciamenti interiori (di tipo psicotico o delinquenziale, al limite), ove la spinta aggressiva viene contenuta, incapsulata, repressa (v. Feinstein e altri, 1971). Il ritiro in se stessi (withdrawal) consente una ben scarsa comunicazione affettiva con gli altri (il che invece è essenziale per ogni sana strutturazione della personalità; v. Howells, 1971). Ne derivano condotte di isolamento, sintomatologie neurotiche e persino psicotiche, depressive e autistiche (v. Osieriezkii, 1938; v. Mitscherlich, 1966; v. O'Gorman, 1967; v. Eck, 1973; v. Zazzo, 1976). Qui spesso si osservano, come equivalenti depressivi, forme fobicoossessive, neuroastenico-cenestopatiche e, soprattutto, comportamenti pseudocaratteropatici.
Un altro tipo di disturbo, oggetto attualmente di attente indagini anche psicosociologiche, è quello legato all'eccessivo conformismo ai modelli sociali. Si può avere una grave perdita di spontaneità, vista quasi sempre come rischio, un permanere del senso di dipendenza, una profonda insicurezza, una scarsa motivazione alla differenziazione individuale. L'eccessiva protettività dei genitori (v. Levy, 1943), spesso legata alle loro stesse ansie, può favorire disturbi di tal genere nel processo di sviluppo. Eccessiva timidezza, ansietà, disturbi psicosomatici di ogni tipo (per es. enuresi notturna, disturbi del linguaggio, anoressia; v. Meyer, 1965), con ulteriori sviluppi neurotici anche molto gravi, si collocano in questo ambito, soprattutto se potenziati o facilitati da un equipaggiamento biologico deficitario, tanto più funzionalmente deficitario quanto più pressanti e perentorie sono le esigenze del mondo moderno (v. Howells, 1971).
Qui si situano anche i problemi dell'insufficiente mentale vero e proprio, oggetto di estesi e importanti studi neuropsicologici e psicosociali (v. Boutonnier, 1948; v. Bollea, 1980; v. Baumeister, 1967), ispirati anche a impostazioni dottrinali ampiamente diverse ma convergenti in una sollecitudine attenta e premurosa per questa particolare infanzia, per la quale solo negli ultimi decenni vanno profilandosi orizzonti di riscatto dall'emarginazione educativa e sociale, non raramente con prospettive concrete di un soddisfacente adattamento alla vita. La scuola ha recepito, sia pure fra numerose difficoltà pratiche e ideologiche, questo messaggio psicopedagogico che trova in Piaget il suo maestro e che torna a onore dei pedopsichiatri, tra cui numerosi e validi gli italiani.
Questo particolare campo ha conosciuto il suo massimo sviluppo negli Stati Uniti; qui il lavoro compiuto nelle child guidance clinics ha apportato un enorme contributo alla comprensione e al trattamento dei disturbi infantili attraverso l'utilizzazione integrata di varie professionalità (psichiatra, psicologo, operatore sociale) in un servizio capillarmente diffuso.
Attualmente tre direttive, l'una teoretica, le altre due clinico-pratiche, dominano la scena: 1) moltissime convincenti prove suggeriscono che i bimbi psichicamente disturbati in modo persistente (i cronici) non sono stati in qualche modo irreversibilmente danneggiati da esperienze emotive nella loro prima età, ma sono stati esposti durante la loro infanzia a fattori ambientali avversi, per lo più nell'ambito delle loro famiglie (v. Rutter, 1971 e 1972; v. Rutter e Schopler, 1978); 2) si tende a valutare la situazione psicoclinica del bambino meno dal punto di vista nosografico e più dal punto di vista prognostico secondo il concetto di ‛rischio psichiatrico' più o meno elevato, anche a seconda della qualità delle cure di gruppo ricevute (v. Boszormeny-Nagy e Framo, 1965; v. Mâle, 1964); 3) si cerca di organizzare e condurre in modo molto più sistematico gli studi catamnestici ed epidemiologici, soprattutto in rapporto al tipo di intervento effettuato (v. Robins, 1966) e ai provvedimenti adottati (per es. di adozione).
A tutto ciò fa da cornice, sostegno e stimolo essenziale l'integrazione dei servizi in chiave sociosanitaria e pedagogica, nel quadro di un'assistenza medico-sociale sia terapeutica che preventiva.
b) Psichiatria dell'età avanzata
Una popolazione in espansione numerica, ma con una percentuale sempre maggiore di anziani, crea domande crescenti nei servizi sanitari, psichiatrici compresi, in molti paesi, specie occidentali. Dal 20 al 30% degli ultrasessantacinquenni presentano (v. Stenstedt, 1958) problemi psichiatrici. Oggi non vi è dubbio sul carattere eterogeneo e multifattoriale delle psicosi negli anziani. Fattori esogeni ed endogeni, processi organici e psicodinamici entrano in modo assai vario nei singoli casi. Più importanti della base genetica sono le alterazioni somatiche e i meccanismi psicoreattivi, nonché l'accentuazione di tratti premorbosi della personalità. Anche le condizioni psicosociali, proprie della situazione dell'anziano nei nostri paesi, hanno un profondo significato nella patoplastia delle psicosi senili. Queste situazioni emarginanti sono oggetto di particolare attenzione nell'attuale politica sanitaria, in un'ottica non solo curativa ma anche e soprattutto preventiva. Gli studi epidemiologici in questo ambito sono però piuttosto limitati.
I programmi dell'organizzazione di una psicogeriatria non possono non coinvolgere gli organismi statali e regionali, nella lotta contro la deplorabile tendenza a trasformare il ricovero dell'anziano in un ‛deposito' in attesa della soluzione finale.
Gli aspetti antropologici e culturali (v. Howells, 1975) sono dovunque oggetto di vaste indagini, motivate dal fatto che le psicodinamiche dell'invecchiamento dipendono dagli atteggiamenti culturali delle diverse società verso gli anziani (dalla naturale accettazione e valorizzazione alla penalizzazione più marcata): gli studi transculturali sulla depressione mascherata sono ricchi di implicazioni pratiche (v. Opler, 1972).
Particolare attenzione è stata dedicata negli ultimi decenni alla patologia delle demenze (Bini ha lasciato in questo campo indimenticabili contributi): gli approcci multidisciplinari alle funzioni neuronali e gliali, inclusi gli studi virali, immunologici e ultrastrutturali, hanno aperto la strada alla comprensione delle alterazioni morfologiche a base delle condizioni demenziali e hanno reso meno improbabile la possibilità futura di una terapia. D'altro canto, la frequente associazione della malattia fisica col disturbo mentale (che a volte ne è un epifenomeno) ha stimolato lo sviluppo di servizi psicogeriatrici, in cui il rapporto geriatra-psichiatra dev'esser sempre più sviluppato, con l'organizzazione di servizi a lungo termine, che forniscano effettivamente cure ed evitino l'emarginazione sociale.
La psicologia dell'invecchiamento è forse uno dei campi più studiati negli ultimi decenni, sia come indagine psicofisiologica e sperimentale, sia come ricerca psicoterapeutica; la crescente interazione tra l'individuo e il suo ambiente è stata esaminata largamente anche dal punto di vista comportamentale. La bibliografia è sterminata. Valga ricordare, per tutti, The psychology of adult development and aging, importante opera di C. Eisdorfer e M. P. Lawton, pubblicata nel 1972 dall'American Psychological Association, e i tre volumi di M. Riley e altri, Aging and society (della Russell Sage Foundation di New York, 1968), che offrono un'idea sufficiente della mole di ricerca e dei problemi svolti e da svolgere in questo campo della psichiatria, clinico, assistenziale e sociale, destinato a divenire sempre più esteso e impegnativo e a offrire alla psichiatria l'occasione principe per il suo rinnovato impegno sociale.
Lo studio propriamente nosologico delle malattie mentali negli anziani, specie dal punto di vista storico, rispecchia l'evoluzione della psichiatria stessa (v. Ogrizek, 1965). Se all'inizio del Novecento l'attenzione viene rivolta prevalentemente alle psicosindromi organiche (neurosifilitiche, arteriosclerotiche, degenerative), le correlazioni anatomo-cliniche stabilite vengono sottoposte a una progressiva revisione critica, tanto da consentire a Rothschild nel 1956 (nell'ancora importante opera a cura di O.I. Kaplan, Mental disorders in later life) di sostenere con ricca documentazione che la gravità delle alterazioni neuropatologiche è in rapporto piuttosto labile con la gravità delle alterazioni mentali (è possibile invece, specie sulla base di studi molto recenti, prospettare rapporti tra grado di deterioramento mentale e concentrazioni di noradrenalina e di altri neurotrasmettitori in determinate zone cerebrali, per es. ipotalamo e girus cinguli). Gli studi sovietici in questo campo (Davidowsky, Nadzharow, Sternberg, Averbuch) sono di grande rilievo (v. Rachalskii, 1970).
L'attuale classificazione delle malattie psicogeriatriche, proposta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (1972, n. 507) e universalmente accettata, anche dal DSM-III, mantiene la distinzione fra le psicosindromi organiche, atrofiche, presenili e senili, arteriosclerotiche, cerebrovascolari (v. Haase, 1959), gli stati confusionali acuti, le psicosi affettive tardive, le schizofrenie e parafrenie tardive, le alterazioni della personalità e le neurosi (forme reattive o sviluppi). Si tende però a sottolineare vigorosamente la preminenza del rapporto col singolo sulla formulazione nosologica e a richiamare l'attenzione degli operatori psichiatrici sulla necessità di non trascurare i comunissimi aspetti nevrotici e caratteropatici dell'anziano e i suoi fondamentali cardini esistenziali: creatività, ricordi, morte (v. Pitt, 1974; v. Berezin e Cath, 1965).
L'interazione dei fattori biologici, psicologici e sociali, fondamento delle malattie psicosomatiche anche nell'anziano, gli aspetti psicosociali della malattia fisica, il rischio suicidario (oggi elevato nell'anziano) e la sua prevenzione, i problemi posti dal comportamento sessuale, con i relativi tabù imposti al vecchio, costituiscono i punti attualmente più aperti allo studio in psicogeriatria.
La terapia, biologica e psicologica, in ospedale e nella comunità, con un modificato atteggiamento nei confronti di un'ospedalizzazione eccessiva, con la creazione di centri diurni psicogeriatrici e con la creazione di appositi servizi sociali e di comunità terapeutiche, mostra l'attuale tendenza a integrare i servizi psichiatrici in quelli socio-sanitari sensu lato, mantenendo però l'esigenza della ricognizione delle esigenze e dei bisogni individuali. E ciò, sia nelle numerose iniziative private, sia - e soprattutto - in quelle pubbliche.
4. Psichiatria organica e biologica
a) Psichiatria organica
È un ambito di fondamentale importanza teorica e pratica, collegato direttamente a quel vasto settore della clinica psichiatrica che studia e cura tutte quelle numerose e frequenti sindromi psicopatologiche dipendenti da alterazioni anatomiche o funzionali del sistema nervoso centrale.
Questa branca della psichiatria, di stampo prettamente medico, trae i suoi argomenti dall'anatomia e istologia patologiche (di cui è ben noto il contributo sostanziale allo studio degli stati demenziali, dei disturbi psichici consecutivi ai traumi cranici, alle intossicazioni, alle malattie infiammatorie e degenerative, ai tumori, all'epilessia), dagli effetti delle chemioterapie, dai risultati della neurochirurgia, da diversi dati della genetica (che oggi attraversa un periodo di intensa e feconda ricerca, specie negli Stati Uniti e in Scandinavia) e dai modelli generali forniti dalla neurofisiologia e dalla neurochimica, specie dei neurotrasmettitori e dei neuroormoni.
Oggi nell'assunzione di rapporti causali si è assai più cauti e critici di quanto non lo siano stati, ad esempio, Wernicke prima e Kleist poi, secondo cui ogni sintomo psichico poteva corrispondere a una lesione corticale ben circoscritta e ogni sindrome a una lesione funzionale delle rispettive aree corticali, in un'esasperata corrispondenza anatomo-clinica; nè ci si attarda troppo sulla concezione di De Clérambault, riscontrabile pure in una parte notevole della psichiatria sovietica anche recente (v. Wortis, 1953), secondo la quale i fenomeni elementari del piccolo automatismo mentale sarebbero da addebitarsi a sequele di malattie infettive passate inosservate o al diencefalo e all'ipotalamo (v. Guiraud, 1950), fino a certi estremi di lombrosiana memoria, per esempio la diencefalosi criminogena di N. Pende.
Oggi, sotto il titolo di psichiatria organica (v. Bini e Bazzi, 19742; v. Lishman, 1978) possiamo comprendere - e ci limiteremo a una scarna enumerazione, senza ulteriori approfondimenti patogenetici e chimici, per ovvie ragioni di spazio - i disturbi psichici causati da arteriosclerosi, traumi cranici, tumori cerebrali, infezioni intracraniche (encefaliti, meningiti, ascessi), epilessie, disturbi cerebrovascolari, demenza senile e presenile, corea cronica, endocrinopatie, disturbi metabolici (epatici, elettrolitici, anossici, diabetici, ipoglicemici), disvitaminosi, intossicazioni (allucinogeni, bromuri, barbiturici, oppiacei), fattori tossi-infettivi (puerperio, malattie batteriche e virali acute e croniche), malattie virali neurotrope, sclerosi a placche, malattie eredodegenerative, malattia di Parkinson e altri disturbi extrapiramidali, idrocefalo normoteso, sindromi paraneoplastiche, ecc.
In questo vasto ambito medico domina, ancor oggi pienamente valido, il fondamentale concetto del tipo esogeno di reazione o ‛psicosindrome organica' di K. Bonhoeffer, cioè di un codificato complesso unitario di alterazioni delle funzioni psichiche elementari: attenzione, memoria, orientamento e, soprattutto, stato di coscienza; si tratta di patologia della coscienza (in contrapposizione alla patologia della personalità; v. Ey, 19682).
È, questo della psichiatria organica, un capitolo destinato a un'ulteriore, rapida, feconda espansione in rapporto all'estendersi delle conoscenze mediche biologiche (v. Hollister, 1968) e all'approfondirsi delle indagini sui legami tra eventi mentali ed eventi fisici nel sistema nervoso centrale, legami che (malgrado gli enormi progressi compiuti negli ultimi decenni) siamo ancora lungi dall'aver compreso (v. Eccles, 1978).
Anche in questo vasto capitolo della psichiatria, pur fondamentalmente ancorato all'ambito dell'homo-natura, si rivela però non solo utile ma necessario lo studio dell'ambiente ecologico, psicosociale e culturale in cui la persona si forma e lavora (v. Banschikov, 1970). Ad esempio, è recente e pieno di promesse lo studio dell'influenza di noxae genetiche e cognitive sullo sviluppo dell'apprendimento e sulla maturazione della persona, e sul rischio, più o meno elevato e prevedibile, di malattia mentale.
Comunque, se non si tenessero presenti o non si ammettessero la dimensione teoretica e l'estensione pratico-clinica di questo settore, verrebbe a mancare il motivo essenziale per il training medico dello psichiatra, che deve acquisire conoscenze su tutti i fattori che determinano i disturbi del comportamento, e non solo su una parte di essi. Come si è detto, la natura e l'esistenza, in psichiatria, non solo non si escludono a vicenda ma sono entrambe dimensioni costitutive. La capacità dello psichiatra di sapere, dopo la prima intervista, verso quale area dirigere principalmente la propria attenzione, dipende dalla sua esperienza clinica, dall'accuratezza del suo esame ma, soprattutto, dalla sua particolareggiata conoscenza dei fenomeni psicopatologici e del loro significato. La delega al neurologo, poi, è sempre possibile, anzi per molti casi è doverosa, ma comunque bisogna sapere ‛chi' e ‛che cosa' delegare. Questa preparazione accurata è oggi tanto più necessaria in quanto lo psichiatra è sempre più presente nell'ospedale generale.
b) Psichiatria biologica
Mentre da noi note ragioni storiche hanno provocato un ventennale ritardo in campo psicanalitico e il persistere del vecchio organicismo di stampo positivista, per cui impostazioni psicodinamiche già ampiamente maturate altrove sono qui ancora nella loro fase di sviluppo, in altri paesi, di più antica tradizione psicanalitica, la dimensione neurobiologica sta conoscendo il suo momento più florido.
Come mostrano Tissot (v., 1979) e Meyersburg e Post (v., 1979), le tendenze attuali più qualificate sono quelle di una concezione olistica dello sviluppo dei processi neurali e psicologici, cioè di un'integrazione globale neurobiologico-psicanalitica. È, in fondo, la concezione, riveduta e corretta, dell'organodinamismo di Ey, basata sul concetto di H. Jackson (1889) dei livelli di evoluzione delle funzioni nervose e sulla visione di Ch. Sherrington (1906) della funzione integrativa del sistema nervoso. Il ricchissimo e geniale approccio di Pavlov si inserisce potentemente in questa direzione (v. Astrup, 1965). Recentemente A. Luna e G. Benedetti hanno dato un prezioso contributo a questo approccio monistico neuropsicologico. Si indagano i correlati neurobiologici dei processi psicodinamici ed evolutivi, nei campi dello sviluppo cognitivo e della psicodinamica, cercando di tradurre fondamentali concetti psicanalitici (per es. fissazione, regressione, processi mentali inconsci) in concetti neurofisiologici e neuroanatomici verificabili sperimentalmente. Freud stesso, checché ne dica Fromm (v., 1979), aveva preconizzato tale impostazione di indagine: ‟dobbiamo pensare che tutte queste idee provvisorie in psicologia un giorno troveranno presumibilmente il loro fondamento nella substruttura organica. Ciò rende probabile il fatto che specifiche sostanze e processi chimici controllino le operazioni delle specifiche forze psichiche".
Lo studio neuroanatomico dei modelli di mielinizzazione nel cervello, la neurochimica delle aree cerebrali nei diversi stadi di sviluppo, lo studio sperimentale delle modificazioni dei processi di sviluppo (privazione o arricchimento degli stimoli ambientali), gli studi neuroendocrinologici (v. Rotrosen e altri, 1979) e, soprattutto, quelli genetici ed etologici stanno apportando risultati assai significativi, con mutue e feconde correzioni di prospettive e con la possibilità di giungere a nuove importanti teorizzazioni (v. Frazer e Winokur, 1977).
Si sono accumulate prove precise e convincenti circa le modificazioni e le predisposizioni biologiche nel campo delle psicosi maggiori (maniacodepressive e schizofreniche), cercandone la correlazione con le determinanti psicodinamiche e sociali, predisponenti e scatenanti, con la disturbata vita familiare, con la privazione di esperienze essenziali per le fasi critiche di maturazione (v. Perris, 1966; v. Rosenthal e Kety, 1969).
Oltre agli studi sul rapporto tra catecolammine e stati depressivi, si aprono orizzonti molto promettenti con lo studio degli oppioidi e delle endorfine (v. Snyder, 1976), con vaste implicazioni per la psichiatria. Oggi è largamente accettata la teoria che le alterazioni della trasmissione sinaptica dopamminergica possono avere un ruolo nella patogenesi della schizofrenia, e larghi consensi riscuote parimenti la teoria che aggancia il sistema delle endorfine all'eziologia della schizofrenia. È ampiamente possibile che le due teorie possano essere combinate in un modello unico (v. Volavka e altri, 1979). Invero sembra dimostrato che le endorfine modulano la trasmissione sinaptica dopamminergica (v. Davis e altri, 1979); l'iperattività dopamminergica, correntemente ritenuta in rapporto con la schizofrenia, può essere causata da un'alterazione primaria nel sistema endorfinico; la natura di tale alterazione è ancora molto ipotetica ed è quindi prematuro ritenere dimostrato che la β-endorfina sia un antipsicotico.
L'apporto delle indagini psicologiche e psichiatriche sugli animali (v. Brion ed Ey, 1964; v. Ploog, 1964) non può essere minimizzato, anzi si è rivelato molto fecondo (sia pure col pericolo sempre incombente della generalizzazione analogica); in tal senso si può parlare di una fiorente psichiatria sperimentale.
L'analisi dei substrati biochimici in rapporto alle risposte differenziate allo stress e dei substrati biofisiologici per i processi di fissazione e di regressione e per i processi mnemonici e di apprendimento, gli studi sui ritmi (v. Heimann e Pflug, 1978), le recenti prospettive aperte dalle indagini di studiosi giapponesi (Imura) sui rapporti tra esperienza di deprivazione sensoriale e diminuzione del fattore dell'accrescimento nervoso (R. Levi-Montalcini) consentono di intravvedere prima, e precisare poi, correlazioni neuropsicologiche di estremo interesse, documentabili fin dai primissimi mesi di vita extrauterina.
La correlazione tra concetti psicanalitici e acquisizioni neurobiologiche tende a rafforzarsi anche alla luce di altre discipline. Nascono nuovi modelli esplicativi, ipotesi specificamente sperimentabili e approcci interdisciplinari, destinati a chiarire sempre meglio i complessi problemi inerenti al comportamento umano in tutte le sue varianti e alla previsione (e quindi prevenzione) del rischio di malattia.
In tal senso non vi è dubbio che lo studio delle correlazioni mente-cervello e mente-persona costituirà la base scientifica della futura psichiatria, il fondamento, sempre in evoluzione, della sua prassi, anche di quella più ancorata alla realtà sociale e storica dell'uomo (v. mente).
5. Psicofarmacologia
Il modo d'azione dei medicamenti sullo psichismo è stato molto studiato negli ultimi decenni e attualmente non poche sono le nozioni definitivamente acquisite. È dimostrata un'anomalia nei neuromediatori, una loro disfunzione: ad esempio, negli eccitamenti maniacali il tasso delle catecolammine cerebrali è elevato; il tasso di noradrenalina e di serotonina nelle sinapsi del cervello modula le reazioni dell'umore (v. Paykel e Coppen, 1979); gli antidepressivi inibitori delle monoamminossidasi (anti-MAO) impediscono la distruzione delle monoammine, rinforzando il tasso delle catecolammine intracerebrali. Nei deliri e nelle schizofrenie l'anomalia metabolica sembra essere a carico della dopammina (v. Garver e Davis, 1979): i neurolettici attivi in queste psicosi sono capaci di provocare disturbi extrapiramidali, i cui legami con l'attività dopamminergica sono ben noti. Altre ipotesi più recenti chiamano in causa le endorfine o encefaline, peptidi naturali, prossimi agli oppiacei, dotati di recettori nervosi specifici. Questi ‛ormoni del dolore' (v. Trigg, 1970; v. Sternbach, 1978) sarebbero impegnati nel controllo degli stati affettivi. Quel che è certo è che il medicamento non agisce direttamente sul sintomo, ma sullo stato neurofisiologico che gli permette di manifestarsi. È qui forse che va anche situato l'effetto placebo, così frequente nella pratica terapeutica.
L'azione drammatica dell'elettroshock, realizzato nel 1938 da Cerletti e Bini, pare sia da rapportarsi alla liberazione da parte dell'ipotalamo di un releasing-ormone sulla tiroide. L'elettroshock non merita né eccessivi entusiasmi nè critiche radicali; in mani esperte e per indicazioni precise è un trattamento efficace e inoffensivo. L'indicazione maggiore è l'accesso melancolico con idee di suicidio. Esso comunque, come l'insulinoterapia di Sakel, è oggi sempre meno usato, soppiantato dalla chemioterapia; si può veramente dire che questa ha aperto agli inizi degli anni cinquanta, per merito dei francesi, un nuovo e fecondissimo orizzonte curativo con l'introduzione della clorpromazina.
La classificazione più comoda degli psicofarmaci (v. Balestrieri, 1961; v. Deniker, 1966; v. Sutter, 1971; v. Marino, 1974) distingue gli psicolettici (tra cui gli ipnotici), gli psicoanalettici (eccitanti e antidepressivi), i normotimici (il litio), i tranquillanti (antiansia, ipnoinduttori), i neurolettici (antipsicotici) e gli psicodislettici (droghe allucinogene: v. Hoffer e Osmond, 1966; v. Kalant, 1966). In particolare, i neurolettici creano uno stato di indifferenza psicomotoria, attenuano l'eccitazione, l'agitazione, l'impulsività e l'aggressività; sono allucinolitici e antideliranti; la loro azione sembra essere essenzialmente sottocorticale (diencefalo, sostanza reticolata) e dà luogo a una sindrome extrapiramidale reversibile. Molto importanti attualmente sono i neurolettici ad azione ritardata (long-acting), ove l'effetto di una singola somministrazione è di lunga durata, permettendo quindi un efficace trattamento controllato, a lungo termine. Tra i neurolettici più importanti vanno annoverati quelli del gruppo delle fenotiazine e i butirrofenoni.
È indubbio che, con la loro azione sedativa, antidelirante e antibloccante, i neurolettici, prescritti a dosi adeguate e per lungo tempo, consentono un migliore contatto psicologico e facilitano la comunicazione, anche quella psicoterapeutica. I fenomeni tossici diretti sono molto rari (a meno di posologie eccessive); la prudenza è necessaria nei soggetti anziani, negli epato e nefropazienti e, soprattutto, negli alcolisti. Abbastanza facile - ma non sempre soddisfacente - è la correzione dei fenomeni vegetativi e parkinsoniani; più difficile è invece il controllo delle discinesie tardive, attualmente oggetto di attenti studi.
Gli antidepressivi costituiscono certamente uno dei capitoli più fecondi e importanti della terapia farmacologica; la loro efficacia, anche come terapia di mantenimento, è fuori discussione e ha consentito una sostanziale riduzione dell'ES-terapia. C'è tutto un fiorire di studi, di grande significato teoretico e dalle molteplici implicazioni cliniche, arricchitesi singolarmente con la recente introduzione in terapia dei sali di litio. Ciò comporta ovviamente nuovi compiti per lo psichiatra, che non può sottrarsi all'esigenza di un continuo aggiornamento, di una critica costante, e di acquisire nuovi modelli di comprensione, anche psicopatologica, per vasti settori della patologia mentale che finora si situavano marginalmente ai disturbi dell'affettività: si pensi, ad esempio, all'efficacia di tale terapia nelle frequenti sindromi schizoaffettive (v. Honigfeld e Howard, 19782).
Per i tranquillanti, sempre più largamente consumati su scala mondiale, il pericolo dell'abuso è reale e non vi si insisterà mai abbastanza. Certamente le benzodiazepine riescono a ridurre notevolmente l'intensità del sintomo ansioso, facilitando in tal modo il rapporto psicoterapeutico; si possono però favorire farmacodipendenze, che coprono altre esigenze di cura, psicologica e ambientale, mantenendo pericolosi equivoci di base.
Recenti e di notevole importanza pratica sono le indagini che vertono sulle sostanze psicotrope e sull'‛induzione enzimatica'. Si è cioè riconosciuta l'esistenza di fattori metabolici che modificano l'azione del medicamento. Ad esempio, l'induzione enzimatica epatica favorisce la distruzione dei barbiturici e ne riduce l'attività farmacologica, con effetti a volte imprevedibili.
Si è anche studiata l'‛induzione crociata', che concerne altri prodotti naturali o artificiali. La polifarmacia comporta quindi un rischio che solo da poco tempo si comincia a conoscere, cioè la riduzione dell'effetto di farmaci somministrati contemporaneamente. Gli steroidi ormonali sono induttori (come l'epatoterapia), il che potrebbe spiegare l'instabilità di certi effetti farmacologici in funzione del cido nella donna.
È ben possibile che, malgrado il suo considerevole sviluppo, la psicofarmacologia vada incontro, in un futuro anche prossimo, a una trasformazione completa. L'approfondimento delle nostre conoscenze sui meccanismi biochimici del funzionamento cerebrale renderà possibile l'utilizzazione di sostanze psicotrope naturali (mediatori sinaptici). Il che renderà la psicofarmacologia molto più ‛fisiologica' di quanto non sia finora (v. psicomacologia).
6. ‛Psichiatria animale'
Lo psichismo animale è correlativo dell'organizzazione della vita di relazione, organizzazione che ‛integra' l'istinto e l'esperienza. Tuttavia il titolo di questo capitolo farebbe orrore all'etologia, che si propone di scacciare ogni antropomorfismo dalla descrizione dei comportamenti degli animali. In realtà nessuna zoopsicologia e nessun etogramma sono possibili se non si prende atto del ‛senso' di quel comportamento, sul che Buytendijk (1920) e Weizsäcker (1940) hanno magistralmente insistito:lo psichismo degli animali non si costituisce che nella misura in cui l'animale non è nè esclusivamente istinto nè esclusivamente apprendimento.
I problemi dell'istinto e dell'intelligenza si pongono qui in tutta la loro complessità. Se è possibile parlare di psicologia animale, è anche possibile parlare di psichiatria, ove si colga l'anomalia non nel quadro delle variazioni permesse dalla specie ma propriamente come deroga alla norma. Il senso preciso del concetto di ‛patologico' è proprio questo: esso deve applicarsi al ‛controsenso' di un adattamento, sia preformato che acquisito (v. Keehn, 1979).
Resta comunque la difficoltà di base inerente a ogni indagine zoopsichiatrica; essa può istituirsi solo su una conoscenza sufficiente dei comportamenti normali di una data specie, delle variazioni legate all'istinto specifico in ognuno, e delle capacità individuali di adattamento, cioè solo sulla conoscenza della struttura dello ‛psicoide' proprio di quella specie (v. Dembowski, 1955).
Numerosi sono i dati che consentono di ‟individuare l'oggetto di una zoopsichiatria nella possibilità stessa per un animale di non più conformarsi al genio e alla legge della propria specie per un'alterazione del suo psichismo, cioè sotto l'effetto di un'organizzazione individuale della sua vita di relazione" (v. Brion ed Ey, 1964): ne è un esempio il ragno lisergizzato che tesse una tela ‛impazzita'. Ciò evidentemente può circoscrivere la patologia ‛mentale' dell'animale alla sua patologia neurologica (enorme campo di studio costituito dalla sperimentazione sul sistema nervoso centrale e dalle cosiddette neurosi sperimentali; v. Masserman, 1943; v. Cosnier, 1966) o coscienziale (l'epilessia, la sham rage, la catalessia; v. Frauchiger, 1953); malgrado numerosi tentativi di estrapolazione, oggi si è concordi nel ritenere che tutto quel che nella psicopatologia umana implica la persona non appare presso gli animali. Anche qui tuttavia non mancano esempi di comportamenti individuali e di gruppo che fanno restare per lo meno perplessi (v. Griffin, 1979).
Contrariamente a quanto verificatosi in certe scuole psichiatriche dell'Ottocento e in certe misure di ‛cattività' prese contro i malati mentali, la cui prospettiva equivaleva a ridurre la psichiatria umana a una specie di zoopsichiatria, oggi si tende - fondando la psichiatria animale sulla struttura psicoide - ad avvicinare gli animali all'uomo.
H. Milne-Edwards, G. Romanes ed E. Perrier sono stati sul finire dell'Ottocento i tre più autorevoli studiosi dell'intelligenza degli animali. Al loro lavoro ha fatto seguito (1920) la famosa Psychologie der Tieren di Buytendijk. I lavori degli etologi, per es. Armstrong, Lorenz e la sua scuola, Tinbergen, Mainardi, quelli di Piéron, la concezione di Zuckermann sulla vita sociale e sessuale delle scimmie, gli studi di Yerkes, di Dembowski, di Jouvet, di Thorpe (v., 1957) illuminano i problemi collegati alle attività di sostituzione, al sonno e ai sogni, al dressaggio dell'animale, all'eredità del comportamento.
La concezione pavloviana delle neurosi sperimentali (v. Astrup, 1965) si pone come base per una psicopatologia degli animali e permette di spiegare certe anomalie del comportamento (Kourtsine e Fedorov). Riprese da Liddell (1923), le esperienze pavloviane conobbero presto negli Stati Uniti una fioritura incredibile con Miller, Masserman, Tolman e, soprattutto, con l'apporto importante e geniale di Mowrer (v., 1960).
L'aggressività, i disturbi delle relazioni genitori-figli, la cattività e la domesticazione, l'infanticidio e il ‛cannibalismo puerperale', le anomalie del comportamento sessuale, i movimenti stereotipati, i tic, le automutilazioni e il suicidio, l'ipnosi animale e, soprattutto, lo studio delle anomalie consecutive a lesioni cerebrali, in particolare lo studio delle convulsioni, hanno consentito negli ultimi tre decenni l'acquisizione di importanti risultati.
Certamente non è possibile, almeno per ora, concepire una psichiatria animale come branca della patologia comparata e della patocaratterologia. È possibile però, con Lanteri-Laura (v., 1964), parlare di osservazione psichiatrica dell'animale, con l'aiuto della medicina veterinaria e della zoologia. Invero, se la psichiatria si interessa a disturbi che, in parte, non sono esclusivi della specie umana, la psichiatria animale può farci intendere meglio l'aspetto specifico umano di alterazioni psichiche di cui si può reperire nell'animale già qualche traccia suggestiva, pur se comprensibile solo a titolo di dialettica tra l'organismo vivente e il suo ambiente.
7. Psichiatria dinamica e psicosomatica
a) Psichiatria dinamica
Il concetto di ‛modello psicobiologico di reazione', con tanta fortuna introdotto da A. Meyer, ha stimolato, specie nella psichiatria nordamericana, l'integrazione delle direttive di ricerca biologiche, psicologiche e sociali, aprendo il campo dapprima all'introduzione su larga scala della psicanalisi in psichiatria e poi, negli ultimi anni, a un discorso neopositivista molto fecondo: basti pensare alle correlazioni genetico-psicodinamiche sui soggetti a rischio elevato, per esempio i figli dei maniaci-depressivi (v. Perris, 1966) o degli schizofrenici (v. Rosenthal e Kety, 1969).
Gli studi di Freud sui processi mentali inconsci tramite l'ipnosi, le libere associazioni e l'analisi dei sogni (v. Cappelletti, 1973) sono troppo noti per essere qui riferiti in extenso. L'isteria, i sintomi neurotici derivati dall'ansia, il transfert (cioè la tendenza del paziente a ripetere verso il medico atteggiamenti emotivi previamente assunti verso i genitori o altri da cui è stato dipendente emotivamente), con i meccanismi di repressione, spostamento, identificazione, proiezione, conversione, razionalizzazione, sono concetti fondamentali per la comprensione psicodinamica della natura umana: costruito sul e dal conflitto tra forze profonde opposte, tra l'Es e il Super-Io, l'Io scarsamente integrato nelle sue autodifese (v. Federn, 19603; v. Hartmann, 1964) può produrre sintomi nevrotici, psicotici o caratteropatici (v. Schneider e altri, 1965). Tra le idee base della concezione freudiana ricche di implicazioni psichiatriche sono ancora ampiamente accettate la teoria della libido e il postulato del determinismo psichico; entrambe indicano il naturalismo della psicanalisi e hanno non di rado indotto a un atteggiamento assiomatico e assolutista, in parte molto contrastante con l'ateoreticità dell'atteggiamento sperimentale. Vero è che i successivi studi clinici condussero Freud stesso a modificare in parte la sua concezione originaria del ruolo dell'istinto sessuale negli stati d'ansia, con il riconoscimento dell'importanza delle pulsioni aggressive.
A prescindere dalla controversa questione degli istinti (v. istinto) e dalla loro diversa accezione nella biologia generale (compresa la psicologia) e nella psicanalisi, è stato ampiamente possibile, anzi ha assunto un significato clinico fondamentale, l'inquadramento psichiatrico generale dei principi psicodinamici come è accaduto, ad esempio, nella sistematica psicobiologica di Meyer, così diffusa negli Stati Uniti. Se la condizione psicopatologica primaria è l'ansia (con tutti i suoi correlati psicologici e somatici, per es. angoscia precordiale, tensione muscolare, tremore, disturbi neurovegetativi), è pur vero che essa può essere considerata, in una certa misura, un'utile funzione biologica. Si ammette oggi, in larga misura, che nei casi più semplici una psicoterapia di chiarificazione e appoggio sia sufficiente; ma spesso uno sviluppo immaturo o tratti sfavorevoli di personalità rendono più difficile, se non impossibile, la risoluzione terapeutica, come accade per esempio per le neurosi ossessive, per certe conversioni isteriche (oggi si ripropone - DMS-III - il termine ‛sindrome di Briquet', per evitare tutti gli equivoci insiti nel termine ‛isteria'), per le personalità sensitive, passivo-aggressive o paranoidi, per certe perversioni sessuali (v. Chazaud, 1973). In questo vastissimo campo della terapeutica psichiatrica l'impostazione psicodinamica, vincendo resistenze notevoli, ha conquistato un sempre più esteso significato formativo e applicativo (v. Wolberg, 19773), tanto che oggi anche colui che non fa professione aperta di psicanalisi poggia in gran parte, più o meno consapevolmente, su un background culturale psicodinamico (v. Stern, 1958). La storia della psicanalisi dopo Freud lo dimostra con chiarezza e consente di comprendere meglio lo sviluppo degli studi psichiatrici dagli anni trenta in poi.
L'elemento che è venuto ad assorbire la parte preponderante dell'attenzione psichiatrica, sia teoretica che terapeutica, è quello interpersonale (v. Kimura, 1975). Qui si è assistito a un confluire di campi (antropologico, esistenziale, fenomenologico, sociologico) che ha condotto a una rifondazione della psichiatria, essenzialmente psicodinamica e interpersonale. Si pensi a Sullivan e a tutta la psichiatria antropofenomenologica: oggi, ad esempio, per personalità si intende, con ampia concordanza da posizioni diverse, il sistema organizzato delle attitudini interpersonali di un individuo, con una convergenza tendenziale fra natura e storia (sommandosi le varianti innate individuali con le esperienze interpersonali acquisite nel corso del proprio sviluppo e modellate dalla propria cultura, in un dato ambiente; v. Callieri, 1963).
Vi è stato tutto uno sforzo fecondo, innegabilmente anche su substrato dinamico, per una sistemazione descrittiva della personalità. Vanno ricordate, per la loro importanza teoretica e clinica, la classificazione di E. Kahn, quella di E. Kretschmer (v., 196725), che ha condotto a correlazioni tra struttura del corpo e carattere e tra carattere e malattia psichica, quella di Sheldon, più duttile, quella di K. Schneider, che si è imposta in tutto il mondo per la sua mirabile capacità descrittiva e ordinativa della tipologia in rapporto alle personalità psicopatiche; infine quella psicanautica, notevolmente penetrante nella psicopatogenesi dei tratti (per es. orali, anali, fallici, uretrali, genitali). É per questo motivo, profondamente psicodinamico, che gli anni formativi della vita hanno assunto tanta importanza e richiamato tanta attenzione nel pensiero psichiatrico attuale, sì da dar luogo al sorgere e al prosperare della pedopsichiatria e da far prestare un'attenzione tutta particolare ai problemi educativi del gioco e del lavoro, all'ambiente sociale, alle sue esigenze di adattamento e alle complesse interreazioni da ciò derivanti. La variabilità è estrema, anche in seno a una stessa cultura, a uno stesso ambiente sociale, a una stessa famiglia, e altrettanto variabili sono le disposizioni innate del singolo; per cui non solo non sorprende, in tal senso, la devianza, ai diversi livelli sopraccennati (soggetti antisociali, ossessivi, ipocondriaci, isterici), ma si tende anche, per lo meno nella sua evoluzione dinamica, a depatologizzarla (v. Robins, 1966) sia pure entro certi limiti.
Lo studio psichiatrico si è sempre più rivolto all'indagine individualizzata del singolo caso, con una sempre maggiore sensibilizzazione per una dimensione di studio essenzialmente biotipologica (i recenti studi sulla biodinamica dei ‛soggetti di rischio', soprattutto in età evolutiva, sembrano confermare la piena validità pratica di questa impostazione metodologica).
Va infine ricordato che l'esplorazione in patologia mentale (test di intelligenza, test di personalità) si basa essenzialmente su un'impostazione psicodinamica: il test di Rorschach, proposto nel 1921, è attualmente uno dei migliori per l'esplorazione della personalità (v. Pichot, 1949); ha spesso grande valore diagnostico, pur non dispensando dall'esame clinico, perché fornisce un'immagine dinamica della personalità e indica come l'individuo fa le sue esperienze.
b) Psicosomatica
Questa disciplina medica - che studia le alterazioni organiche indotte, direttamente o indirettamente, dalle emozioni e dalle tensioni psichiche e ambientali - ha avuto negli ultimi decenni enormi sviluppi (v. anche psicosomatica).
Il concetto di stress (di H. Selye) trova qui la sua più pertinente formulazione. La partecipazione costante del corpo agli sforzi dell'organismo per adattarsi all'ambiente e la possibilità di repressione di specifiche emozioni sono tuttora al centro dell'analisi psicosomatica (v. Dunbar, 1947; v. Dongier, 1966; v. Cobb, 1950; v. Delius e Fahrenberg, 1966; v. Grings e Dawson, 1978).
A parte lo studio psicofisiologico delle componenti vegetative dell'emozione (v. Arnold, 1960; v. Ursin e altri, 1978), dal tremore alla tachicardia, dal sudore alla nausea, dalla poliuria alla diarrea, dalla bocca secca alla tensione muscolare, la dottrina della somatizzazione dell'ansia (v. Alexander, 1950) ha influenzato notevolmente lo sviluppo della moderna medicina (v. Lain Entralgo, 1950); essa ha fornito un nuovo mezzo d'indagine per concepire l'organismo nel suo insieme, come un tutto integrato, in cui i meccanismi psicologici agiscono sui processi fisiologici in un complesso di circuiti riverberanti (v. Birbaumer, 19772). Il loro studio attento e minuzioso, iniziatosi negli anni trenta nell'Istituto di psicanalisi di Chicago, ha consentito un nuovo tipo di approccio nello studio dei disturbi coronarici, dell'ipertensione, della cefalea, del diabete, delle malattie della pelle, delle endocrinopatie, dell'asma, dell'ulcera gastrica, della colite, dell'anoressia nervosa, delle malattie reumatiche. Avvalendosi di concetti mutuati dalla psicanalisi (specie quelli di regressione, fissazione, identificazione, tendenze orali-incorporative e oro-aggressive, desiderio di dipendenza) la medicina psicosomatica ha centrato il problema della specificità dei fattori emotivi nei disturbi somatici e quello dei rapporti tra tipo di personalità e malattie.
In Italia lo studio psicosomatico ha richiamato l'attenzione di molti medici, che attualmente cercano (per es. nella ‟Rivista di medicina psicosomatica" diretta da F. Antonelli) soprattutto di coordinare in modo efficace le misure curative somatiche e quelle psichiche, sensibilizzando la classe medica a questi problemi.
È forse, questo della psicosomatica, il campo medico in cui si è realizzato per la prima volta l'incontro tra fisiologia e psicologia (dopo la lunga separazione che ebbe luogo nella medicina positiva del secondo Ottocento e del primo Novecento).
Non mancano tuttavia critiche, anche aspre, rivolte alla sua indiscriminata e superficiale generalizzazione (soprattutto) della relazione simbolica fra il sintomo e il conflitto; Koupernik (v., 1974) parla, per esempio, di ‟quel pallone gonfiato che è la psicosomatica". Prevale comunque, nettamente, la valorizzazione di questo tipo di approccio, confermata dallo sviluppo delle recenti tecniche psicofisiologiche dell'autocontrollo o biofeedback (v. Beatty e Legewie, 1977; v. Pancheri, 1979); oggetto attuale di studi fecondi è la relazione fra la natura dello stress, il profilo psicologico dell'individuo e la malattia in cui egli si esprime (v. Uexküll, 1967).
8. Psicoterapia
I concetti psicodinamici sopra accennati, l'adattamento anzitutto (intrapsichico, interpersonale, ambientale), la repressione, la fissazione, la regressione, hanno rivoluzionato le prospettive terapeutiche in psichiatria e hanno sensibilizzato gli studiosi verso lo ‛sviluppo', inteso come attivazione e soppressione delle potenzialità fisiologiche ed ereditarie tramite le influenze ambientali, specialmente quelle esercitate nell'infanzia e nella fanciullezza.
I conflitti che ne derivano, a tutti i livelli (per es. tra i desideri degli adulti e i bisogni dei bambini), e che spesso vengono a dissolversi spontaneamente contribuendo così a formare la personalità integrata e matura, non di rado permangono irrisolti e divengono fattori patogenetici di situazioni nevrotiche, o meglio nuclei dell'ubiquitaria componente nevrotica dell'uomo.
A prescindere dalla psicoterapia intesa come semplice aiuto di buonsenso e di disponibilità, che è antica come la cultura umana, con tutte le sue qualità e i suoi errori, si può dire che la grande scoperta del Novecento sia la dimensione psicoterapeutica (scientifica) in psichiatria, dimensione resa possibile dall'individuazione della vita psichica inconscia.
Il comportamento nevrotico è determinato dalla preponderanza di motivazioni inconsce ed è quindi rigido, inflessibile, scarsamente adattato alla realtà esterna e ripetitivo (si pensi ai rituali di lavaggio, alle varie fobie e ossessioni); esso non riesce a liberare dall'ansia, anzi ne crea di nuova, in una circolarità senza fine. La psicoterapia fin dall'inizio ha inteso liberare il nevrotico non solo dai sintomi ma soprattutto dalle loro sorgenti inconsce; per far ciò è necessario che il paziente riviva le sue esperienze ‛patogenetiche' passate. La tecnica psicanalitica (che presto rimpiazzò la suggestione e l'ipnosi) si servi anzitutto delle libere associazioni, dell'analisi delle forze emotive coinvolte nel transfert, delle fantasie, dei sogni; e ciò, quali che siano la tecnica e il presupposto teoretico, è restato pressochè invariato nei decenni successivi (v. psicanalisi).
La graduale sostituzione delle rigide immagini parentali con altre più mature, tolleranti e permissive, il ruolo delle interpretazioni critiche dell'analista (tanto più valide quanto più buono è il rapporto creatosi), il fine fondamentale dell'acquisizione dell'insight sono gli elementi essenziali di ogni psicoterapia scientifica (v. Delpierre, 1968).
Accanto all'analisi freudiana, che occupa ancora le posizioni chiave di tutto il vasto agire psicoterapeutico, non si può tacere la crescente influenza, specie in Europa, del pensiero di Jung, ricchissimo di implicazioni culturali e spesso antitetico a quello freudiano. Entrambi, comunque, sottolineano l'importanza della storia del singolo, che facilita la presa di coscienza dell'Ombra (in senso junghiano), cioè dell'oscuro aspetto inferiore della nostra personalità.
Spesso si dice, forse riduttivamente, che il procedimento psicanalitico altro non è che la terapia del transfert, cioè di quella dipendenza (infantile) che si crea nei confronti del medico. Questo transfert si basa su fantasie inconsce che, diversamente da quanto è stato rimosso, non sono mai state consce. Per render consci tali contenuti sia Freud che Jung si servirono del metodo dell'interpretazione dei sogni; Freud, più riduttivamente, riconduceva in senso causale i contenuti onirici a impressioni e impulsi della prima infanzia.
Rinviando per Freud e per lo sviluppo del suo pensiero all'articolo psicanalisi, è opportuno ricordare che l'ortodossia della sua scuola non è semplice ripetizione della psicanalisi di base. Così K. Abraham dà meno importanza di Freud agli avvenimenti traumatici e insiste sul regno della causalità nel campo psichico; E. Jones sostiene più la natura protettrice dell'angoscia che non l'effetto della rimozione di libido e, attento alle ricerche di M. Klein, dà prova di notevole originalità nelle ricerche sulla sessualità femminile. Mentre Adler e Jung contestano il freudismo nel cuore stesso della nozione di inconscio, la dissidenza di W. Stekel e quella di O. Rank muovono dalla ‛fretta' terapeutica, in opposizione alla lentezza dell'analisi freudiana, vicenda senza fine: la terapia basata sul trauma della nascita potrebbe tagliare violentemente il nodo gordiano della rimozione invece di snodarlo penosamente. F. Alexander, con la sua scuola di Chicago (1931), crea la ‛psicoterapia breve': lo seguono E. Weigert, F. Fromm-Reichmann, French, Benedek, Haman, Balint, tutti ricercatori e terapeuti ingegnosi e inventivi, che attribuiscono notevole importanza all'adattamento sociale, il che fa pure la scuola di New York con R. Spitz (le cui opere, sempre prefate da A. Freud, sono fondamentali per i problemi della prima infanzia e per le loro implicazioni pedagogiche), e con E. Erikson (il problema dell'identità nell'adolescenza). Entrambi tengono conto dell'apporto degli antropologi (R. Benedict, M. Mead, O. Bateson), dell'Ego psychalogy (H. Hartmann, R. Loewenstein), dei culturalisti (Kardiner, Horney), e non esitano a proporre elementi di sociologia psicanalitica.
Le tendenze culturalistiche della psicanalisi americana si dialettizzano fra integrazione e critica sociale (v. Nacht, 1965), praticamente fra H. S. Sullivan (v., 1962) ed E. Fromm (v., 1979), e troveranno compiuta espressione nella vasta sintesi analitico-culturale di K. Horney e nell'assunzione fondamentale per cui l'ansia di base assume più importanza della sessualità (v. Harper, 1959).
Il movimento psicanalitico che tanta importanza ha nella psichiatria americana ha proseguito qui, ad esempio come analisi transazionale, sotto il segno sullivaniano ‛i un'opposizione costante tra il biopsichico e il culturale. I rappresentanti delle diverse correnti culturalistiche hanno avuto e hanno per denominatore comune il rifiuto del biologismo di Freud. Forse ci voleva un etnologo, G. Roheim, teorico della cultura, per far ritorno, attraverso S. Ferenczi, proprio al naturalismo di Freud.
Nel contesto rivoluzione culturale critica sociale si situa l'apporto di W. Reich (v., 1949), che qui ricordiamo non tanto per la sua analisi del carattere quanto soprattutto per l'influsso esercitato dalla sua psicanalisi sociale sulla generazione più giovane degli psichiatri e degli psicologi, che vivono in un clima confuso in cui si opera nello stesso tempo una contestazione (per lo più su base sociopolitica) della psicanalisi freudiana e una vasta diffusione dei suoi apporti, al servizio delle forze del cambiamento sia dell'individuo che della società.
Ovviamente non è qui possibile esporre lo sviluppo della psicanalisi nei singoli paesi; tuttavia, non possiamo non ricordare Schultz-Henke, Musatti, Hesnard, Màle, Lebovici, Lagache, Loch: in genere si oscilla tra la linea di stretta osservanza freudiana e quella kleiniana, tendendo, per esempio con Bouvet e Diatkine e soprattutto con S. Arieti (v., 1974), a un'interpretazione contemporaneamente genetica (nella misura in cui fa assegnamento sui gradi di maturazione) e dinamica (nella misura in cui osserva le relazioni oggettuali, in termini di flusso di energia istintuale): le neurosi del carattere hanno qui ricevuto particolare illuminazione (v. Marmor, 1979).
J. Lacan (v., 1975) e l'École freudienne hanno assunto nell'ultimo decennio un particolare significato. La loro dialettizzazione della psicanalisi si articola sui nodi essenziali dell'intersoggettività e dell'integrazione simbolica della propria storia da parte del soggetto. L'attenta lettura lacaniana dell'opera di Freud comporta una posizione critica verso l'analisi delle difese dell'Io di A. Freud e verso la twobodies' psychology di M. Balint.
Con Lacan non possiamo non porci, e radicalmente, la questione della funzione dell'Io. Si profila così una disgiunzione netta tra la funzione dell'immaginario (dove l'Io struttura una serie di relazioni oggettuali sottomesse al quadro narcisistico) e la funzione simbolica (dove si pone integralmente la dialettica dell'intersoggettività).
Con il piano simbolico si spezza la chiusura duale io-oggetto, e si spezza per merito del linguaggio. È proprio in quanto parla che il soggetto non si può confondere con l'io. Qui appare particolarmente suggestivo il rapporto con le ricerche di Forrest (v., 1976) sul senso del linguaggio schizofrenico.
Il legame simbolico fra gli uomini, socialmente definito - il problema dell'i ntersoggettività - situa questo soggetto (che non è l'io) nella struttura complessa della sua singolarità, lo situa nel cuore di un discorso che gli viene dagli altri: ‟l'inconscio è il discorso dell'altro". Non è chi non veda l'importanza attuale del discorso lacaniano, che è però ancora troppo ermetico.
Attualmente, per accelerare il processo psicoterapeutico, considerato troppo lungo, sono stati fatti tentativi diversi (non sempre metodologicamente corretti): l'uso sistematico di rêveries ipnagogiche, l'esplorazione sotto ipnosi (v. Mayer, 1979), sotto farmaci, con regressioni indotte. In particolare molto seguiti sono stati, specie nel periodo postbellico, la narcoanalisi, la narcosuggestione, l'ipnosi, l'induzione chimica di stati crepuscolari nonché l'uso, in funzione terapeutica, dei test proiettivi, specie il Rorschach e il thematic apperception test, che consentono l'espressione, anche trasferenziale, di tutta una topografia affettiva del soggetto, che rimanda alle sue tendenze e ai suoi desideri profondi. Oggi il pronto intervento psicoterapeutico, breve, sulla crisi, si sta diffondendo con successo (v. Schiappoli e Vetrone, 1978; v. Ewing, 1978; v. Pinkus, 1979), come pure ampia diffusione trova la psicoterapia della famiglia (v. Stierlin, 1975).
Il dato attuale, lo si voglia o no, è che la psicanalisi ha assunto una tale dimensione teorica e pratica che ogni metodo di psicoterapia non solo ne deve tener conto ma va classificato in rapporto a essa. Ad esempio, dal tessuto analitico dipende profondamente anche lo sviluppo della psicoterapia infantile (v. Biermann, 1971), molto sensibile all'introduzione del gioco come terapia (ludoterapia), dimensione di grande importanza educativa, non solo per l'infanzia: si pensi all'homo ludens di Huizinga.
Comunque, sempre maggior interesse ha assunto recentemente, anche attraverso questo filone, l'indagine sui problemi metodologici della ricerca psicoterapeutica, come vera e propria esperienza ermeneutica. La problematica scientifica che ha investito la psicanalisi e che oggi ha determinato, specie negli Stati Uniti, incipienti segni di crisi e di arroccamento difensivo, tende a porla sempre più come analisi del comportamento sociofamiliare e quindi come dottrina ‛sociologica' del comportamento (le ricerche del gruppo di P. Matussek nella Max Planck Gesellschaft sono eloquenti in proposito).
Da più parti si auspica che la psicoterapia analitica riconosca nel metodo fenomenologico una possibilità seria per chiarire il proprio statuto epistemologico e per eliminare quella contraddizione che non consente alla sua prassi di riconoscersi nell'impianto teorico causalistico ereditato dalle scienze naturali. Certo l'adozione del metodo fenomenologico non consentirà più alla psicanalisi di spiegare naturalisticamente la totalità dell'umano, ma semplicemente di comprendere qualcosa a livello umano.
Una delle critiche più aspre alla psicanalisi è stata mossa da H. J. Eysenck (v., 1961), il quale ha sottolineato più volte la mancanza di prove per l'efficacia della psicoterapia. L'attenzione per Eysenck, specie in Gran Bretagna, si è combinata con il rinnovato interesse per la terapia del comportamento (v. Wolpe, 1973; v. Davidson, 1979; v. Liotti e Guidano, 1979), prospettando un'alternativa abbastanza valida per molti tipi di disturbo psichico e psicosomatico (v. Yates, 1975; v. Chesser, 1976), per le terapie di concentrazione e di meditazione trascendentale, derivate dalle dottrine sufi, yoga e zen, per il training autogeno di Schultz (1932; v. Luthe, 1969; v. Bazzi e Giorda, 1979) e soprattutto per le tecniche del biofeedback, sorte in Nordamerica poco più di dieci anni fa, nell'ambito della ricerca comportamentistica (v. Basmajian, 1979; v. Gatchel e Price, 1979), che facilitano il condizionamento diretto o, meglio, l'apprendimento strumentale dell'autocontrollo delle proprie risposte fisiologiche: ottimo il recente volume a cura di P. Pancheri (v., 1979) della Clinica psichiatrica di Roma (G. Reda), dove il metodo viene oggi particolarmente coltivato.
Indubbiamente le psicoterapie ‛di gruppo' e ‛nel gruppo' (v. Pohlen, 1972) hanno fornito nuovi ambiti teoretici assunti dal modello della famiglia, ampiamente verificabili con i procedimenti di obiettivazione, per esempio il questionario di Cattell e quello, oggi molto usato, di Beckmann (1969) della scuola di Giessen. Estendendo la psicanalisi ai processi sociopsicologici, le psicoterapie di gruppo e soprattutto quelle della famiglia (v. Ackermann, 1970; v. Stierlin, 1975) conducono alla riformulazione del modello conflittuale intrapsichico bipersonale. Questa trasposizione dei meccanismi psicodinamici all'analisi del processo di interazione è la condizione per una definizione operativa della teoria psicanalitica e per quella pratica psicoterapeutica nota come terapia transazionale. In tal modo le indagini strutturali dei processi di gruppo possono veramente divenire oggetto di ricerca empirica (si pensi all'opera di K. Lewin, 1935, e a quella di T. Lidz, 1958) e di applicazione terapeutica (si pensi alla psicoterapia della Gestalt, così diffusa oggi negli Stati Uniti). Di non minore importanza è la possibilità di concepire il gruppo come immagine dell'organizzazione della famiglia (P. F. Galli, M. Palazzoli Selvini). L'unità funzionale-dinamica del gruppo ne risulta sufficientemente chiarita e appare assai valida per uno schema integrato di trattamento, sia di neurotici che di psicotici, attualmente anche con richiami notevoli all'approccio esistenziale, ad esempio nelle anoressie mentali (v. Brusset, 1977). La nuova struttura organizzativa del lavoro clinico è allora quella di un sistema terapeutico bifocale, che trova la sua organizzazione centrale nei gruppi di Balint (v., 19642) e nella ‛stazione intensiva' della psicoterapia di gruppo, la quale risulta, in tal modo, la vera espressione della psichiatria di comunità.
Lo sviluppo delle psicoterapie a dimensione sociale (v. Banton, 1968) ha assunto proporzioni sempre più vaste, sempre con ampio riferimento alla psicanalisi: basti pensare al campo applicativo nella delinquenza giovanile, nei gruppi devianti, nella terapia non diretta di C. Rogers, nello psicodramma di J. L. Moreno, nelle psicoterapie di gruppo (v. Yalom, 1975) e in certe terapie di comunità a ispirazione antipsichiatrica (v. Maré, 1972).
Qui va ricordata anche la psicoterapia istituzionale, oggetto di accanite discussioni (J. Oury), con prospettive di successo certamente esagerate e a volte mistificanti (ergoterapia, ludoterapia, socioterapia), e con imprecisi confini verso una terapia di comunità, più o meno autogestita, nella stessa istituzione, suscettibile di ingenuità ed eccessi.
La psicoterapia istituzionale ha aperto un nuovo importantissimo campo di attività, quello del terapista infermiere, o meglio del ruolo terapeutico dell'infermiere. ‟Gran parte del trattamento psichiatrico odierno vede il paziente come partecipante attivo, non come oggetto passivo per l'esercizio del modello medico; ciò significa che l'infermiere diviene una figura chiave terapeutica" (v. DHSS, 1968); la questione è tutta in fieri, piena di problemi (per es. concernenti la responsabilità) ma certamente ricca di potenzialità (v. Royal College of Nursing, 1976; v. Bird e altri 1979; v. Pancheri, 1975).
Il problema essenziale che si pone al movimento psicanalitico (e con esso a tutta la psichiatria) è quello dei suoi rapporti con un clima culturale determinato. Non c'è scienza all'interno di una torre d'avorio (il dibattuto e attuale problema della neutralità della scienza: cfr. ‟Civiltà delle macchine", 1976, XXIV, fasc. 1-2); l'ibridazione di nozioni marxiane e di nozioni analitiche (si pensi a Reich, a Fromm e a Marcuse) è un fatto che non si può lasciare soltanto alla sociologia psicanalitica per le influenze obiettive che provengono alla teoria e alla pratica psichiatrica dal suo contesto socioculturale, anche se i tratti essenziali della psicanalisi vengono così a conoscere un'alterazione e un assottigliamento considerevoli (basterebbe pensare alla confusione tra salute mentale e integrazione sociale): come ha felicemente detto Anzieu, ‟la psicanalisi è malata del proprio successo".
Ma qualunque sia la teoresi che sottende le prassi psicoterapeutiche, negli ultimi decenni si è sempre più delineata la necessità della dimensione di igiene mentale (v. Frighi, 1972; v. Enâchescu, 1979) e di quella educativa. È qui che il punto di vista di A. Adler (v., 1930) ha acquisito maggior valore, confermando in singolar modo la concezione psicosociale della nevrosi nei nostri tempi. L'immagine di un mondo soltanto esterno fornita dalle scienze naturali o da certe speculazioni intellettuali non offre che apparenti surrogati. Questi problemi si acuiscono di anno in anno mentre specialmente la giovane generazione si discosta sempre più dalla pseudonormalità del nostro superficiale razionalismo conformista. Molti si volgono alle dottrine orientali: si pensi al diffondersi, specie negli Stati Uniti, di pratiche paramistiche, zen, yoga; altri tentano di ripiegare sulla natura, altri ancora di trovare un'illuminazione attraverso riti di gruppo (macumba, candomblé, umbanda dei brasiliani neri) o attraverso la droga. Così la scissione nevrotica della nostra epoca spinge verso sempre nuove crisi e sempre più ci allontana da quel che chiamiamo ‛integrazione', cioè l'associazione conscia e moralmente responsabile dei complessi inconsci nella personalità totale. Accade, invero, che non si sappia più se il ‛più normale' non sia proprio colui che non vuole adattarsi a un'epoca scardinata, anche se di questo argomento si servono molti individui per mascherare la loro reale inferiorità sociale e il loro ‛vissuto nevrotico' (v. Longhi, 1977).
Anche in questo ambito, fra i tanti altri fondamentali, l'insegnamento di Jung ha apportato contributi importanti, anche se ancora poco noti fra il grande pubblico. Basti qui ricordare solo il concetto di introversione-estroversione (i tipi psicologici), quello di simbolo e individuazione e quello di anima e animus (come figurazioni inconscie del sesso opposto), che illumina con singolare efficacia le difficoltà dei rapporti fra donna e uomo; inoltre il concetto del Sè (Selbst), l'essere superiore, eterno in noi, l'aspetto che produce ordine e significato, la totalità interiore, e il concetto di persona, cioè l'illusione di fare tutt'uno col proprio ruolo sociale.
Nella concezione junghiana la possibilità di estendere la psicoterapia al significato di una psicagogia è reale e costituisce uno degli aspetti più controversi della psicologia del profondo, in particolare di quella di E. Neumann, J. Henderson, G. Adler, M. Fordham, E. Bernhard, M. Trevi, Klopfer, Bennet. Jung getta nell'acqua dell'inconscio il sapere del nostro tempo e di molte culture, assumendo il ruolo dello ‛psicopompo', specie tramite l'insegnamento dell'immaginazione attiva (lasciarsi invadere da immagini oniriche, in stato di veglia, e confrontarsi con esse come con una presenza oggettiva; cfr. La funzione trascendente, 1957-1958, pp. 92 ss.), gettando un ponte fra psicoterapia e meditazione orientale, gnostica e della mistica cristiana.
È essenzialmente sua la dimostrazione empirica di un inconscio collettivo e la distinzione dall'inconscio personale, ed è parimenti sua la distinzione tra i freudiani ‛resti arcaici' e gli ‛archetipi', intesi come disposizioni ereditarie irrappresentabili o tendenze strutturali dell'inconscio.
A parte la diffusione, i riconoscimenti, le opposizioni e le false interpretazioni delle grandi intuizioni junghiane, va ricordato l'interesse antropologico da lui suscitato nei riguardi delle tematiche mitologiche, che rappresentano adeguatamente la potenza spirituale delle immagini archetipiche (v. anche Durand, 1960) e che vanno interpretate psicologicamente. È possibile ritenere che il significato della psicologia dei complessi di Jung risieda nel fatto di non essere più esclusivamente ‛psicologia' nel senso scientifico freudiano ma di poter già pretendere il titolo di dottrina spirituale (v. Gebser, 1970), suscettibile di interpretazioni e realizzazioni molto diverse.
Con la consapevolezza che nessuna scienza sostituirà mai il mito, rivelazione della parte più viva dell'uomo (v. Moreno, 1978), Jung si è fatto campione ‛tollerante' di un'ultima libertà dell'uomo nei confronti delle costrizioni esterne e interne, destinata a incidere profondamente sugli sviluppi della psichiatria di domani, immune da violenza e intrigo e pronta ad accettare e indagare anche fenomeni oggi studiati solo marginalmente (si pensi, ad es., alla sincronicità).
A distanza di quarant'anni dalla morte di Freud, dopo un lungo periodo di ricerche empiriche, di teorizzazione rigorosa, di pratica clinica che verifica e corregge, con un movimento pendolare continuo fra biologismo e culturalismo, con una continua moltiplicazione delle tecniche di psicoterapia (se ne potrebbero elencare almeno una quarantina), la psicanalisi permea tutta la terapia psichiatrica, in crisi quanto si voglia ma comunque non certo morta (v. Fromm, 1979), anche se, come sottolinea Wolberg (v., 19773), ‟non si sono ancora precisati criteri validi che possano servire come base per pronosticare i risultati in psicoterapia", e anche se oggi si tende a essere piuttosto esigenti nell'indicare i criteri che consentono un eventuale successo (v. Bloch, 1979).
La psicoterapia come servizio di liberazione è sempre un rischio ma, smascherando le inautenticità, può scuotere i credo e i conformismi più vacillanti e distorti, rendendo possibile una crescita autentica. La sua presenza, arricchita e sostenuta dal rigoroso filone fenomenologico, costituisce la temperie culturale di questi ultimi cinquant'anni di psichiatria.
9. Psichiatria fenomenologico-esistenziale
L'apporto della fenomenologia all'indagine psicopatologica, in atto ormai da oltre cinquant'anni, e quello successivo delle filosofie esistenziali, attraverso numerosi importanti contributi specifici, specie di lingua tedesca, hanno lentamente condotto a una riformulazione globale delle tematiche di fondo della psichiatria e a un modo radicalmente diverso di essere psichiatri, sia di fronte al sintomo, sia di fronte alla persona che lo esprime.
Attraverso Dilthey e, soprattutto, tramite il fondamentale messaggio della Psicopatologia generale (1913) e della Psicologia delle visioni del mondo (1919) di Jaspers, gli svolgimenti dell'antropofenomenologia (v. Cargnello, 1966; v. Tatossian, 1979), partiti essenzialmente dal pensiero di Husserl e da quello di Heidegger (cui si rinvia), hanno consentito allo psichiatra di cogliere l'individuo nella sua irriducibile singolarità, nella sua insopprimibile ulteriorità, come presenza al mondo, come persona, come spazio-tempo vissuto; ciò ha significato anzitutto un salto di qualità, vale a dire il superamento delle categorie riduttive biologistiche e psicologiche, l'accesso al mondo dell'altro-da-sé (v. Callieri e altri, 1972), alla sua Lebenswelt, all'universo dei rapporti interpersonali come co-essenziali alla realtà del singolo (M. Buber, G. Marcel) prescindendo da giudizi clinici, da funzionalità operative, da finalità pratiche.
Ciò è ante-predicativo e non intende invalidare né le categorie diagnostiche né l'atto clinico, purché con essi non si pretenda di cogliere l'altro nella sua realtà esistentiva. La psichiatria dell'esistenza si considera ‟l'ancella della psichiatria clinica" e intende a buon diritto rappresentare un ‟sostegno reale della scienza medica psichiatrica" (v. Binswanger, 1961), senza voler con ciò costituire la base gnoseologica totale del conoscere psichiatrico; oltre all'organicità, si pensi alla portata conoscitiva dell'inconscio e del culturale (v. Borgna, 1979).
Qui il rilievo formale del fenomeno diviene veridica espressione del modo di essere di quella realtà e del suo farsi mondano (la Verweltlichung des Daseins), cioè come essa ‛è al mondo' (In-der-Welt-sein) e come ‛ha' il suo mondo.
Il fenomenologo, anche in psichiatria, si sforza di mettere fra parentesi la preoccupazione eziopatogenetica e il bisogno dell'ordinamento nosologico, per poter entrare liberamente e senza impedimenta in un immediato rapporto cognitivo-patico con le ‛cose'. La ricchezza qualitativa dell'atto fenomenologico, indipendente dalla conoscenza induttiva e causale, è indubbia. E si comprende come gli aspetti più originali della contestazione psichiatrica abbiano preso le loro mosse proprio da qui.
Nei tre volumi delle Ideen Husserl ha stabilito una scienza descrittiva ed essenziale della conoscenza pura e le sue formulazioni possono esser validamente applicate a situazioni di fatto, anche se alcuni, per esempio M. Farber, ne dubitano; la Phänomenologische Psychologie ha comunque richiamato, anche per merito di Merleau-Ponty e di Gurwitsch, la più viva attenzione degli psichiatri.
Una caratteristica dell'approccio fenomenologico, sviluppata specialmente dal tardo Husserl col termine ‛fenomenologia genetica', è lo studio della costituzione dei fenomeni nella nostra coscienza, cioè il processo con cui i fenomeni ‛prendono figura' (v. Spiegelberg, 1965) in essa, e si procede quindi dalle prime impressioni a un quadro completo della loro struttura. In questo senso la fenomenologia costitutiva esplora l'aspetto dinamico della nostra esperienza (v. Tellenbach, 1961).
Come accennato, Jaspers, oggi a torto messo in discussione in certi ambienti contestatori, fu - specie nella Psicologia delle visioni del mondo - uno dei grandi precursori di questa psichiatria e la sua Psicopatologia generale - pietra d'angolo della moderna psico(pato)logia - ha educato almeno tre generazioni di psichiatri, contribuendo a preparare il terreno alla numerosa schiera di psicopatologi destinati a recepire e maturare l'enorme influenza di Husserl e di Heidegger (v. van der Berg, 1955). Come magistralmente ha mostrato Binswanger (v., 1963), il metodo fenomenologico favorisce in modo davvero singolare la ricostruzione e la comprensione del ‛mondo di significato' del paziente.
L'antropologia analitica, come è stata concepita e configurata da Binswanger nei suoi famosi casi, Ellen West, Jurg Zund, Ilse, Suzanne Urban, ecc. (v. Binswanger, 1973), e proseguita da molti psichiatri e psicoterapeuti, europei e non - ad es. Kuhn, Cargnello, Condrau, Sonnemann (v., 1954), R. May (1958), Blankenburg (v., 1971), Häfner, (1961), ecc. -, illumina il singolo caso come ‛storia vissuta' (esserci nell'amore, nell'amicizia, nell'aggressività), distinguendo fra accadimento (Geschehnis) e avvenimento (Erlebnis); essa consente il recupero del dispiegarsi intenzionale della vicenda del singolo e una continuità di senso delle sue vicissitudini, cioè un ordinamento strutturale significativo anche là dove lo psichiatra vecchio stampo vedrebbe solo frammenti di senso o addirittura il caos del senso. ‟Cosa mi potrà impedire, se sono medico - dice G. Marcel in Existence humaine et transcendance - di trattare Nietzsche come un caso clinico? Ma [...] si è sempre liberi di non comprendere nulla di nessuno".
La messa in parentesi (non la negazione) del naturalismo psichiatrico comporta anzitutto un ‛voto di povertà' in materia di classificazioni e di giudizi diagnostici, proprio sulla base della dipendenza del giudizio da criteri esistentivi e culturali. In altri termini, si deve evitare di cadere in schemi precostituiti, diagnostico-naturalistici, non idonei a cogliere a fondo il fenomeno; prima di interpretare è necessario saper vedere; prima di ridurre un segno a sintomo è necessario saperlo cogliere nella sua essenza modale, rivelatrice del modo di essere di un'umana presenza. Il caso Ilse, pubblicato da Binswanger nel 1945, ha costituito il modello fondamentale di questa profonda rivoluzione dell'approccio alla ‛follia'. La Daseinsanalyse ha impostato in maniera radicalmente nuova il problema della fondazione epistemologica della ‛norma' e della ‛normalità' in psichiatria, collocandosi fuori da ogni ipoteca ideologica. Le grandi indagini binswangeriane riescono a lacerare il non senso delle esperienze psicotiche, chiarendone la donazione di senso.
È forse proprio qui, con il Binswanger dei ‛casi', che si verifica il decisivo giro di boa della psichiatria di questo secolo. Non sarà più possibile prescindere dalla sua teoria, rinnovatrice e rigorosa, anche se non sempre i suoi successivi sviluppi riusciranno a evitare esasperazioni e deformazioni. In Italia la lezione binswangeriana, tramite D. Cargnello, è stata profondamente recepita da molti studiosi, tra cui Bovi, Borgna, Castellani, Calvi.
Anche in psichiatria fenomenologica è difficile tener fede all'assunto della neutralità (ammesso che questa possa esser ottenuta, oltre il mito baconiano). Ma a questo deve mirare l'esercizio della fenomenologia come propedeutica necessaria per ogni scienza umana, costantemente volta a demistificare facili illazioni, a svelare comodi riduzionismi, sovente ideologicamente condizionati dalla ‛falsa coscienza' (Gabel).
La diffusione della psichiatria antropofenomenologica, della cosiddetta ‛analisi esistenziale', ha assunto vaste proporzioni, sia in superficie che in profondità (v. Ellenberger, 1957), ha consentito l'accesso illuminante a tematiche abitualmente lasciate ai margini dell'indagine psichiatrica (per es. il coraggio, la solitudine, la morte, la speranza) e ha approfondito tematiche (quali la colpa, il corpo, il tempo e lo spazio vissuti, la donazione di senso, la perplessità) che finora erano state colte in senso prevalentemente oggettivante (v. Callieri e altri, 1972; v. Callieri, 1978). Gli psichiatri olandesi (ad es. van den Berg, van den Horst, van Hugenholtz) sono stati particolarmente aperti a questi studi antropofenomenologici (v. AA. VV., 1957).
Ma è soprattutto a E. Minkowski, E. Straus, V. E. von Gebsattel, J. Zutt, F. J. Buytendijk e, recentemente, D. Wyss (v., 1973) che si deve l'apertura della psichiatria anglosassone, specie nordamericana, alla psichiatria fenomenologico-esistenziale, anche sotto l'impatto diretto delle concezioni di Heidegger, Scheler, Buber, Marcel, Sartre, Tillich, Ricoeur. Sono sorti centri di psicoterapia esistenziale (a Chicago, per es., con il ‟Journal of existential psychiatry", nato nel 1960 e diretto da J. M. Scher, sotto l'influsso di M. Boss) e centri di fenomenologia psicologica (ad es. quello, estremamente qualificato, di Belmont, di A. T. Tymieniecka), che hanno raccolto negli Analecta Husserliana materiale critico e speculativo di autori vari (H. van Breda, E. Fink, L. Landgrebe, P. Ricoeur, S. Strasser, K. Wojtyla, R. Zaner, ecc.), di grande interesse per gli psicopatologi.
Il padre, solitario, di questa impostazione di pensiero resta Kierkegaard, il cui Diario costituisce per noi psichiatri dell'esistenza il punto di riferimento insuperato, l'incarnazione di quell'antropofenomenologia che, qualunque possa esserne la considerazione da parte dei filosofi, è riuscita a ‛scuotere dalle fondamenta' la psichiatria dei nostri tempi.
Uno degli ambiti più fecondi dell'indirizzo fenomenologico in psichiatria è quello costituito dall'indagine dei diversi mondi di vita (Lebenswelt), che tanto impegnò l'ultimo Husserl e, subito dopo, A. Schutz per il problema della social reality. L'analisi fenomenologica dei mondi vissuti (v. Callieri e Castellani, 1971) rivela stili diversi di esistenza e illumina di luce nuova modalità di esperire (anche tradizionalmente psicopatologiche, per es. fobiche, maniacali, schizofreniche) quanto mai autentiche e ricche di rimandi al quotidiano piano coesistentivo (v. Frankl, 1956 e 1972, e la sua logoterapia).
Preme anche sottolineare la matrice fenomenologico-esistenziale della costituzione dell'intersoggettività secondo M. Scheler, della social reality (Schutz), dell'entre-deux (v. Benda, 1961; v. Tellenbach, 1977), della psichiatria sociale (dice Schutz in ‟Philosophy and phenomenological research", 1942, Il, p. 323 che ‟secondo Scheler, la relazionabilità intenzionale dell'uomo agli altri è più fondamentale della conoscenza della propria individualità"; v. anche Luijpen, 1960 e Owens, 1970) e, a ben vedere, anche della parte più valida e motivata della prima fase (più critica e meno provocatoria) dell'antipsichiatria.
La fenomenologia, specie con il fondamentale apporto di Scheler, ha fornito alla psichiatria degli ultimi decenni una sollecitazione considerevole all'ulteriore elaborazione teorica e all'applicazione pratica dei concetti di partecipazione e di comunità, nell'integrazione tra azione ed emozione, tra discorso sul corpo e discorso sulla comunità, tra l'io e l'altro, tra sociologia della conoscenza e personalismo etico (v. Ranly, 1966; v. Wojtila, 1979).
L'acutezza di certe analisi scheleriane, derivate anche dai modelli troppo spesso dimenticati di A. Pfänder (ad es. sul pudore, l'umiltà, la simpatia, l'ostilità, l'amore), e la sua teoria sui valori hanno fornito a Kurt Schneider, il grande caposcuola di Heidelberg, il filo conduttore per quello studio della psicopatologia dei sentimenti, della patocaratterologia, delle tipologie di personalità, della depressione, che lo ha reso maestro di tutto il mondo psichiatrico europeo negli anni cinquanta, con ampie e imprevedibili risonanze in vasti settori della attuale psichiatria anglosassone (v. Fish, 1962; v. Hamilton, 19762).
Per il modo di proporre la dimensione dell'intersoggettività, per la chiarificata esigenza del ritorno dai simboli alle cose, dall'ordinamento concettuale all'intuitivamente esperito, Scheler occupa, accanto a Husserl e a Heidegger, un posto preminente fra quanti hanno indicato alla recente psicopatologia vie e prospettive di una fecondità prima impensabile.
Costretta fra il riduttivismo biologico e il sociologismo globalizzante, la psicopatologia ha trovato negli indirizzi antropofenomenologici una delle strade (forse quella maestra) da percorrere per mantenere la sua posizione di autonomia conoscitiva, la sua identità di ruolo.
Invero la fenomenologia è sì un metodo per cambiare il nostro rapporto col mondo, ma è anche un atteggiamento di fronte al nostro rapporto col mondo. Unisce la rottura più radicale con l'atteggiamento più immediato e naturale. È più un avvenimento coscienziale che una Weltanschauung. Il suo estremo oggettivismo (ritomare ‛alle cose stesse') tende a cogliere il reale più originario in tutto il suo significato, spingendosi con un solo movimento (ecco perchè è esatto dire antropofenomenologia) verso il fondamento del mondo oggettivo e verso le radici della soggettività.
Per questo essa è indispensabile prolegomeno per ogni psichiatra che, nella sua attività, intenda occuparsi dell'uomo-nel-suo-mondo e, soprattutto, come ben mostra nel suo esauriente e rigoroso contributo Tatossian (v., 1979), dell'uomo psicotico nel suo mondo.
10. Psichiatria sociale e di comunità
a) Psichiatria sociale
Da alcuni decenni ha assunto dimensioni sempre maggiori l'indirizzo sociopsichiatrico, oggetto del cui studio è il singolo nel suo rapporto interattivo con gli altri soggetti (micr0 e macrogruppale). E possibile ritrovare due filoni di base, quello sociologico di E. Durckheim e quello intersoggettivo di O. Tarde (v. Callieri e Frighi, 1963), nel vasto sviluppo che trova nell'antropologia culturale le sue più dirette implicazioni e sollecitazioni psicologiche, ove per cultura si intende l'insieme dialettico dei patrimoni psichici esperienziali individuali costituitisi nel quadro di una società storicamente determinata (conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, schemi di attività, scale di valori).
Il determinismo ambientale (Kroeber), il funzionalismo, il relativismo culturale (Herskowits) hanno profondamente modellato l'atteggiamento di rispetto per le differenze culturali, proprio perché l'individuo realizza la propria personalità attraverso la propria cultura e perché i costumi e i valori sono sempre modellati sulla cultura di appartenenza (v. Tiryakian e altri, 1963). L'antropologia sociale strutturalista (Radcliffe Brown, Evans Pritchard, Nadel), che parte dallo studio della personalità sociale, si differenzia anche nelle conseguenze sociopsichiatriche dal neostrutturalismo di Cl. Lévi-Strauss (la struttura non appartiene all'ordine del fatto ma è una costruzione informatrice dell'oggetto), che apre la via a inattese possibilità di analisi del rapporto natura-cultura oltremodo stimolanti per gli psicologi e gli psichiatri, per esempio nel campo del linguaggio.
I concetti di status, di ruolo, di acculturazione, di socializzazione sono stati profondamente (ma non univocamente) recepiti dagli psichiatri. Si è mostrato che la sociologia è in grado di fornire alla psichiatria un valido aiuto per la comprensione e la classificazione degli stati psichici e dei comportamenti (anche abnormi o devianti) per la reciprocità delle prospettive d'indagine: il collettivo, l'interpersonale e l'individuale, a tutti i livelli degli atteggiamenti e delle realtà sociali, tendono a integrarsi. In questo senso la recente sociopsichiatria, superando il pur fecondo discorso della psicologia sociale nordamericana, tende a considerare falso l'assioma individuo contro società' (v. Bendix e Lipset, 19662), proponendo la coscienza collettiva come immanente alla coscienza individuale.
Altro punto importante è il costante richiamo alla dimensione del culturale, per timore di indebite generalizzazioni naturalistiche (la mente come comune denominatore, generale e astratto, di tutte le forme del sociale). Le condotte psichiatriche - è questo il grosso asserto della sociopsichiatria - sono condotte in cui il corpo, la psiche individuale e la società sono inestricabilmente mescolati, agendo e reagendo gli uni sugli altri (v. Barahona Fernandes, 1972). Anche qui il marceliano ‟esse est coesse" risuona in tutta la sua efficacia esistenziale.
Il dialogo costruttivo fra psicologi, psichiatri e sociologi è appena iniziato. Per meglio intendere il fenomeno magico ci si è riferiti alla già esistente psicologia dell'angoscia. È invece ancora da formulare la risposta che si chiedeva a una psicologia dell'attesa: l'attesa come atteggiamento basale del singolo e del gruppo, che sono essi stessi ulteriorità e oltrepassamento (‟dies septimus nos ipsi erimus", Agostino), l'attesa la cui perdita scorgiamo e a volte cogliamo nel melancolico, nello schizofrenico, nel demente, nelle disperazioni o ammutolimenti di masse, ma le cui configurazioni positive intravvediamo appena. L'attesa, appunto, come si configura nell'ontologia blochiana del noch-nichtsein, l'ontologia u-topica dell'uomo che è qualcosa che deve esser trovato. Sarà questo, forse, uno dei compiti della psichiatria degli anni a venire.
Nell'attuale sociopsichiatria il lavoro d'équipe, con i suoi rapporti di complementarità e con la reciprocità delle prospettive, tende ad affermarsi, ma non ancora abbastanza o soddisfacentemente perché, e non solo da noi, vi sono ancora troppi psichiatri che fanno della cattiva sociologia e troppi sociologi che fanno della cattiva psichiatria. In genere è nei fenomeni di acculturazione che lo psichico è più facilmente accessibile del sociale, per la degradazione dei sistemi sociali in un caos di atteggiamenti individuali, mentre nelle strutture rigide, poco bisognose di agenzie di sicurezza, è il sociale a esser più facilmente accessibile dello psichico (v. Strotzka, 1965).
L'attuale psichiatria sociale sembra aver superato l'errore sociologistico di voler assorbire tutto il mentale negli altri piani della realtà sociale (v. Krill, 1978), dimenticando l'autonoma corrente dello psichismo individuale (v. Waxler, 1977) e cadendo così nell'errore della sociogenesi esclusiva della malattia mentale: l'ideologia dell'empirismo sociologico (Adorno). Non va infine dimenticato il grande merito di aver valorizzato lo studio epidemiologico (v. Hollingshead e Redlich, 1958; v. Hare e Wing, 1970) e soprattutto lo studio della comunicazione e metacomunicazione fra singoli e fra gruppi, verbale e non verbale (v. Callieri e Frighi, 1959), tanto importante per le ricerche sulla psicogenesi intrafamiliare dei disturbi psichici (si pensi al ‛doppio legame', situazione paradossale ben descritta e indagata dalla scuola californiana di Palo Alto); è fuor di dubbio che la sociopsichiatria ha fornito allo psichiatra clinico e allo psicoterapeuta modelli sperimentali di ricerca e suggerimenti teoretici che hanno consentito impensati allargamenti di orizzonte applicativo e interpretativo nonché importanti sollecitazioni nell'ambito psicopedagogico.
b) Psichiatria di comunità
Il significato di questo particolare settore della sociopsichiatria è soprattutto preventivo ma ha anche indubbi connotati terapeutici. Ci si occupa qui della formulazione e applicazione di un definito programma di salute mentale a una data popolazione specificata funzionalmente o geograficamente (v. Sabshin, 1966). Va detto che sono stati il Community Mental Health Centers Program e il coraggioso ‛nuovo approccio' formulato nel messaggio di J. F. Kennedy al Congresso nel 1963 a far nascere e realizzare tutta una serie di nuovi modelli di servizio mentale. Pur basandosi sul modello medico (anche se in alcuni momenti e paesi con prevalenti connotazioni critiche e sociopolitiche), la psichiatria di comunità utilizza volentieri criteri di salute pubblica per valutare i bisogni psichiatrici di una data popolazione, per identificare i vari fattori ambientali che contribuiscono alla formazione di disturbi psicosociali e per valutarne gli effetti sul singolo e sul suo gruppo. Questo modo di vedere determina una concezione molto diversa della malattia e del ruolo della psichiatria, il cui intervento non è più centrato tanto sulla salute del singolo (primariamente assunta) quanto sull'equilibrio del gruppo (v. Clark, 1977): l'apporto britannico è stato qui determinante. Si può parlare di una vera e propria psichiatria preventiva (Kaplan), oggi molto ricca e fiorente nei suoi assunti teorici di base e nelle sue applicazioni pratiche, per es. la prevenzione del suicidio e degli sviluppi neurotici a condizionamento ambientale (v. Farmer e Hirsch, 1979); è da ritenere che negli anni a venire il suo ruolo assumerà un peso sempre maggiore (v. Bennett, 1978) anche da noi.
È però difficile prevedere quale sarà lo statuto di questa ancor giovane community psychiatry (v. Jones, 1976; v. Mandelbrote, 1979): si inscriverà nell'evoluzione generale del ruolo del medico, anch'esso seriamente messo in questione dall'attuale evoluzione sociale (A. M. Freedman parla di reincarnazione del moral treatment), oppure si limiterà all'erogazione di migliori servizi clinici, spostandoli dai luoghi istituzionali a quelli comunitari ? Occuperà l'area (mal definita) della psichiatria preventiva o darà vita a un programma totale, più o meno ampiamente innovativo, ma che comunque oltrepassi il compito di provvedere soltanto servizi clinici? Ciò dipenderà in larga parte dai livelli di analisi e dalle attese: l'esperienza del Sozialistisches Patienten-Kollektiv di Heidelberg, compiutasi nel segno di un'autogestione radicale della salute psichica e somatica e nel rifiuto di ogni articolazione terapeutica, è emblematica della spirale ideologica in cui si può finire.
Le tecniche della psichiatria di comunità non sono specifiche né originali. Non è ignorata l'importanza dei fattori intrapsichici, tuttavia l'accento è posto sulle dinamiche di gruppo e sui fattori interpersonali, culturali e ambientali, perfino etnici, che generano, intensificano e prolungano i vari quadri di disadattamento comportamentale (v. Hinshelwood e Manning, 1979).
In senso più specificamente curativo, come alternativa ai vecchi modelli assistenziali e custodialistici, è andata proponendosi la ‛comunità terapeutica' (il termine fu impiegato per la prima volta da Main nel 1946), gruppo di pazienti, medici, infermieri e assistenti sociali che - in genere nell'ambito di un'istituzione, ospedaliera e non - vivono e lavorano insieme con lo scopo di rendere possibile il reinserimento o un migliore inserimento nella comunità sociale. L'estensione del gruppo dev'essere tale che tutti i membri possano conoscersi fra loro (30-100 persone); vengono applicate esperienze e tecniche sociopsicologiche: riunioni quotidiane, analisi delle dinamiche di gruppo e dei processi di comunicazione, ricerca dei ruoli. Caratteristico della comunità terapeutica è l'abbandono da parte del malato del suo ruolo passivo di paziente, per assumere nel processo terapeutico un ruolo attivo di partner.
In Francia dal 1960 si è sviluppata, come analogo, la psichiatria di settore (Daumezon): istituzioni poliarticolate e polivalenti di prevenzione e di trattamento, per unità geotopografiche di circa 60.000 abitanti: esempio e modello, il XIII Arrondissement di Parigi. Lo sviluppo nel paese è stato molto disomogeneo ma, in genere, ha dimostrato notevoli potenzialità, specie nei grossi agglomerati urbani (v. Paumelle, 1970; v. Bonnafé e altri, 1978). Dopo qualche esitazione tale indirizzo, implicante un notevole sforzo e coordinamento organizzativo (Balduzzi) nonché la valorizzazione della psicanalisi nell'intervento in settori pubblici, non è stato seguito nel nostro paese; è prevalso l'indirizzo (più lungimirante ma anche più ricco di ostacoli) dell'aggancio del servizio psichiatrico a quello della medicina generale, nel quadro di una riforma sociosanitaria che però stenta a decollare.
11. Psichiatria culturale ed etnopsichiatria
Negli ultimi decenni si è pervenuti a un'integrazione dei vari tipi di indagine della sociologia e dell'antropologia culturale che si realizza in modo abbastanza autonomo in quello che possiamo chiamare ‛approccio psicoculturale', inteso come studio della personalità nel suo ambiente culturale; si possono così meglio comprendere lo sviluppo della personalità e la struttura del carattere e si possono cogliere anche più compiutamente gli aspetti, a volte polimorfi, dell'ordinamento sociale. È evidente, data la multiformità delle situazioni culturali, l'importanza attribuibile al relativismo culturale nel modellare le diversità dei tipi di comportamento e nello sviluppare quella che da Linton e da Kardiner vien detta struttura basale della personalità (v. Dufrenne, 1953), cioè il fondo, comune al gruppo, dei modelli di pensare, sentire, agire, di porsi e risolvere problemi personali e sociali.
È ovvia l'importanza dell'approccio psicoculturale per lo studio della funzione della famiglia, dello sviluppo psicologico del bambino, delle sue reazioni affettive alle diverse esigenze dei genitori e dell'ambiente, per lo studio, cioè, dell'influenza dominante del suo tipo di socializzazione, della trasmissione del comportamento nevrotico. Non solo, ma si possono in tal modo meglio comprendere certi tipi di reazione (per es. di gelosia e di aggressività) culturalmente determinati e accettati molto diversamente nei diversi settings culturali di vita (si pensi, per es., all'importanza dell'indagine psicoculturale per le emergenze psichiatriche negli emigranti), che pongono problemi di intolleranza e di acculturazione molto complessi (D. Riesman; v. Parsons, 1964; v. Cox, 1977).
A parte l'ovvia importanza per la valutazione di comportamenti devianti (al limite criminali), la psichiatria culturale consente di ridurre l'ideologica dicotomia società-individuo (Sapir, Roheim, R. Linton, Opler). C'è la tendenza, attualmente, a ridurre il peso e il significato dei meccanismi psichici e, più in generale, dei processi intrapersonali e ad avvicinarsi al concetto di un organismo che apprende a vivere in un ambiente culturalmente modellato, in piena integrazione.
È però possibile che, muovendosi univocamente e acriticamente in tal senso, si possa incorrere in generalizzazioni erronee in cui la singolarità irrepetibile della persona venga a perdere il suo significato primigenio, fondante il rapporto io-mondo, come è pure possibile che si tenda a interpretare troppo in chiave di psichiatria culturale fatti psicopatologici che invece vanno situati in un contesto ermeneutico diverso.
Tale discorso è ancor più valido per quel settore della psichiatria, oggi molto florido, che studia in particolare gli apporti dell'etnologia. Mentre l'orientamento psicanalitico di un Roheim trova ancor oggi vigorosi discendenti, il filone descrittivo continua a essere ricchissimo di apporti sostanziosi di osservazioni e di dati; esso si svolge, dall'ultimo Kraepelin, attraverso la precisazione di sindromi peculiari, come l'imu presso gli Ainu giapponesi, l'amok presso i Malesi, l'isteria artica negli Eschimesi, il latah in Indonesia e molte altre forme (v. Opler, 1967), fino ai recenti apporti, vasti e validi, di Burton-Bradley in Papua-Nuova Guinea, e a quelli, numerosi e importanti, per lo studio etnopsichiatrico e transculturale della psicopatologia africana (v. Lambo, 1961; v. Collomb, 1968). La rivista ‟Psychopathologie africaine" fornisce un validissimo contributo all'etnopsichiatria e alla psichiatria culturale. Anche i contributi sociopolitici possono qui avere molto valore.
Lo sviluppo di questo vasto campo è attestato da una bibliografia vastissima. Non possiamo esimerci dal ricordare R. Benedict, M. Mead e, in particolare, G. Roheim, un antropologo che ha innestato nelle sue ricerche la psicanalisi freudiana, e A. Kardiner, con il suo concetto di personalità di base. Importante, per gli ulteriori sviluppi, la proposta di B. Malinowski di distinguere nell'istinto il livello dei bisogni biologici da quello degli impulsi, caratterizzati più specificamente dalle culture. La Mead tiene particolare conto degli apporti specifici della psicanalisi e riconosce alla società un ruolo decisivo nella formazione delle nevrosi (v. Bastide, 1950).
L'antropologia culturale ha trovato in Italia numerosi e importanti cultori, per lo più di matrice marxista; ricordiamo A. Di Nola, C. Gallini, V. Lanternari, C. Tullio Altan, T. Tentori e, soprattutto, E. De Martino, il cui pensiero è stato determinante per tutta una serie di indagini e ha consentito all'antropologia culturale di trovare la sua precisa caratterizzazione e di assumere funzioni e tecniche propriamente scientifiche.
Recentemente anche l'etnopsichiatria si è trovata in parte coinvolta nell'assalto antipsicanalitico F. Laplantine (v., 1975), pur proponendo la fecondità dell'incontro multidisciplinare, denuncia l'inflazione ideologica degli ‛psi'; G. Devereux, pur dichiarando, sulla scia di Roheim, che il suo universo fenomenologico è lo stesso di Freud (Saggi di etnopsichiatria), apre una breccia consistente con la sua teoria sociologica della schizofrenia per cui la società moderna, contrariamente a quelle primitive, sarebbe di per sé schizogena; assunto suggestivo, certamente, ma che sembra pressoché ignorare la feconda messe di studi sulle componenti prelogiche e arcaico-primitive del pensiero schizofrenico (v. Arieti, 19743; v. Storch, 1965).
A parte ciò, le indagini transculturali sono suscettibili, attualmente, di illuminare gli studi psicopatologici sulle nevrosi e sulle psicosi in modo molto chiarificante. Non per nulla già Kraepelin aveva indicato ai suoi allievi tale via di ricerca.
12. Antipsichiatria
Si è detto che essa è la cattiva coscienza della psichiatria, necessaria perché la conoscenza non divenga cattiva. In realtà le vicende dell'antipsichiatria sono per usare un'espressione di Hegel - assai più note che conosciute.
L'inizio londinese negli anni sessanta, che si delinea con la psicosociogenesi della follia, aprendo il discorso della psichiatria ‛radicale', esprime in realtà una crisi e compiutamente la rappresenta quando da un lato si pone contro la violenza della psichiatria intesa come strumento di repressione sociale, e dall'altro crede profondamente nella forza del determinismo costrittivo dell'organizzazione sociale. Le sue radici sono ritrovabili in una cultura politica storicamente determinata (v. Foucault, 1961; v. Dörner, 1975), nell'analisi esistenziale sensu lato (v. Laing, 1959), meno nella psicanalisi, il cui discorso di recupero terapeutico dei soggetti per la società appare quanto mai sospetto. La critica al discorso della psichiatria classica è tutt'altro che eccentrica o meramente ideologizzante (v. Giacanelli, 1975; v. Brutti e Scotti, 1976): ché denuncia chiaramente i termini delle sue contraddizioni, richiamando la potenziale conflittualità del rapporto società-individuo (v. Cooper, 1967).
Il comune denominatore delle diverse contestazioni, di queste ‟scelte di difendere il folle contro la società" (v. Mannoni, 1970), di questa ricerca di uno spazio nuovo per la follia, è, a mio avviso, profondamente clinico, nel senso proprio del termine è più facile parlare di psicosi quando non si lascia parlare la psicosi. Ma a forza di lasciar parlare soltanto la psicosi, accade (ed è accaduto) che il valido criterio jaspersiano della comprensibilità -. si pensi al ruolo svolto dalla Verstehende Psychologie (v. Kehrer, 1951; v. Gruhle, 19562) sotto la spinta del pensiero di W. Dilthey - venga spinto ben oltre i limiti posti dalla sua Psicopatologia generale (v. Jaspers, 1963 e 19658) e si assiste, forse compiaciuti, al suo ripiegamento e alla sua scomparsa, nella più completa scissione fra avventura interiore e valore generale, anche di logica formale, in una resa all'esistente, in una visione del presente che ricorda l'emersoniano ‟eterno ora".
Quest'invito a cambiare radicalmente modello, facilitato e sollecitato dalla scissione fra natura ed esistenza, in atto da molto tempo in psichiatria, viene formulato da Laing, Cooper ed Esterson (v., 1964), con la fondazione della famosa Kingsley Hall e di altri centri (households) chiamati ‛comuni', dove manca ogni benché minimo tratto istituzionale, ruolo, terapia, regola di vita, onde il singolo possa vivere appieno la sua metanoia (Laing), la sua crisi di trasformazione.
In Italia F. Basaglia (v., 1968), partendo nel 1965 dal piccolo manicomio di Gorizia ma, ancor prima, dalla fenomenologia esistenziale, riesce a coagulare attorno al suo progetto anti-istituzionale energie riformatrici e rivoluzionarie invero notevoli, costituendo con numerosi psichiatri e con il movimento di Psichiatria democratica la premessa che in pochi anni condurrà alla riforma della legislazione psichiatrica (1978); fra entusiasmi accesi e critiche aspre, fra perplessità e ostilità, adesioni critiche o incondizionate, riuscirà a imprimere - piaccia o meno - uno scossone salutare alla sonnecchiante e torpida psichiatria italiana, sul cui necessario rinnovamento, che da tempo si andava profilando (v. Callieri, 1963), non vi erano dubbi.
R. D. Laing (v., 1959) parte dalla fenomenologia esistenziale e, attraverso l'intersoggettività, assume un ruolo determinante nell'elaborazione dei presupposti teorici del movimento (per es. smentita dell'incomprensibilità dello schizofrenico prima, modello psichedelico positivo poi, e infine negazione dello stesso esser schizofrenico; v. Peters, 1977).
Il polimorfo movimento psichiatrico francese, con Duchêne, Bonnafé, Tosquelles, Sivadon (v., 1973), Paumelle (v., 1970), Racamier (v., 1970), già da molti anni aveva preceduto il discorso anglosassone, forse anche superandolo e integrandolo fino al punto in cui le esigenze della pratica (non della prassi) stabiliscono un limite. Ma, a parer mio, è l'opera di A. Esterson, soprattutto La dialettica della follia, che assume, fra tutte le recenti, grande importanza per le sue dimensioni autenticamente fenomenologiche e sociopsichiatriche.
Qui, invero, l'atto radicale che spezza il continuum storico del dominio e che proviene dall'esserci dell'uomo nel suo mondo si sprigiona sempre da una situazione socioculturale determinata, irriducibile a una universale e destorificata condizione umana. Ecco allora l'insistere di H. Marcuse sul ‛diritto naturale alla rivolta', il nonsenso del parlare di reificazione e alienazione fuori del punto di vista della soggettività, ossia della coscienza della propria situazione esistenziale ed ecco, infine, la domanda di fondo, anch'essa marcusiana, che permea di sé tutti i molteplici movimenti antipsichiatrici e li lega a una contraddizione forse irresolubile: è possibile, e come, tenere insieme i due poli della tensione, liberazione e progetto, liberazione dal mito della malattia mentale (v. Szasz, 1961) e progetto terapeutico?
Va dunque (paradossalmente?) ricercato proprio nell'antropofenomenologia, teoreticamente ateorica, nella fenomenologia di derivazione husserliana e nell'analisi esistenziale heideggeriana di Binswanger il nucleo basico dell'attuale psichiatria radicale, polo estremo di quella tensione oppositiva natura-esistenza di cui la psichiatria attuale ha preso piena coscienza, assumendone anche tutto il (freudiano) ‛disagio'
Tuttavia la dimensione terapeutica non rientra propriamente nelle intenzioni dell'antipsichiatria; Laing, che ha percorso il suo cammino fino alle posizioni provocatorie e paradossali della mistica della follia, lo dice chiaramente. E il suo discepolo Berke si scaglia contro una società che rende folli i suoi membri, contro gli ospedali psichiatrici ‟dove gli individui sono resi folli". Tutto ciò solleverà, come controcultura, notevoli resistenze e, specie fra gli psicanalisti, pochi faranno professione di antipsichiatria (v. Koupernik, 1974).
L'obbligatorietà della cura durante la crisi acuta conduce il soggetto alla cronicità; qui l'antipsichiatria si fa anche progetto politico che denuncia il ruolo repressivo delegato dalla società e dalla famiglia allo psichiatra, ruolo fondato ideologicamente sul sapere medico. L'oggettivazione del malato (parlare di psicosi) conduce a trascurare il suo discorso (non lasciar parlare la psicosi), che non è solo sprofondamento (breakdown), ma anche penetrazione (breakthrough).
Gli antipsichiatri, specie britannici, girano attorno a una concezione dell'immaginario (v. Szilasi, 1969) che si avvicina a quella di Lacan (l'inconscio è ciò che non comunichiamo, né a noi stessi, né ad altri) e passano dai fantasmi individuali a quelli sociali, proponendo e sostenendo ideologie a tal punto iscritte in una società da passare per realtà.
Negli Stati Uniti, a parte l'ingenuità e la paradossalità di certe posizioni della radical psychiatry, va riconosciuta un'indubbia utilità alla sua contestazione, in quanto è riuscita a provocare un esame più approfondito delle posizioni dell'establishment psichiatrico e a correggerne molti sbagli (v. Talbott, 1974 e 1978).
Il modello medico di formazione viene messo sotto accusa perché produce diplomati ‟politicamente impreparati, personalmente inflazionati, orientati verso il profitto economico"; per gli operatori psichiatrici il training medico sarebbe inutile, soprattutto perché ‟la psicoterapia non è un atto medico, ma appartiene a un'area puramente umanistica". La visione sociogenetica del disagio psichico è spinta (Kunnes) a opporsi alle forme tradizionali di cura, perché sostegno dello status quo sociale (soluzione autoplastica), e a proporre una soluzione alloplastica; cambiare la qualità di vita dell'ambiente, trasformare la società alla radice. Il motto della terapia radicale è ‟therapy is change, not adjustment". Ecco allora la proposta terapeutica, non medica, centrata sulla comunità, mirante a demistificare, deprofessionalizzare, curare collettivamente, con un training della durata massima di un anno (Henley e Brown).
La denuncia radicale del potere psichiatrico si estende anche ai servizi comunitari di salute mentale, che distoglierebbero la gente dai propri reali problemi sociali agendo come ‟politica morbida di integrazione" (Steiner), e non invece ai servizi ‟continuativi, decentralizzati, non istituzionali, popolari".
La denuncia dell'uso delle diagnosi psichiatriche per etichettare come devianti le persone il cui comportamento è differente dalle norme societarie, l'esaltazione lainghiana della schizofrenia come metanoia, la denuncia ancora dell'elitismo e del maschilismo degli psichiatri, del lavaggio del cervello rappresentato da alcuni concetti psicanalitici (ad es. l'invidia del pene), l'assoluta libertà sessuale, i programmi di liberazione della donna e degli omosessuali costituiscono i capisaldi della posizione radicale (posizione di minoranza, ma molto combattiva nella psichiatria statunitense dei primi anni settanta) e hanno condotto a liste di diritti dei pazienti (Insane Liberation Front) che non sono restate senza risonanza pratica (v. Talbott, 1974). D'altro canto la corrente radicale è estremamente composita, estendendosi da posizioni quasi riformiste a posizioni nichilistiche, neodadaiste, per cui le è mancata la capacità di organizzare nuove strutture alternative valide, specie per quanto concerne il coinvolgimento della comunità nel controllo delle istituzioni di salute mentale. Il timore è che, della corrente radicale, restino gli anatemi, le discordie, le rotture, ma nella generazione successiva ‟gli allievi dei nemici diventeranno complici".
Attualmente, invero, l'antipsichiatria appare per molti ‟votata all'insuccesso o meglio, a meno di un'incoscienza totale, essa sboccherà in una nuova forma di psichiatria" (v. Koupernik, 1974). Il considerare lo psichiatra, suapte natura, un aiuto-poliziotto, un sadico, un ciarlatano, non giova nè al suo difficile e spesso frustrante lavoro nè al paziente: e chiunque di noi potrebbe divenirlo.
Nel suo vero paese d'origine, in Gran Bretagna, l'antipsichiatria è stata un'esperienza limitata, di scarsa influenza sulle istituzioni, forse anche perché per la mentalità inglese non è facile cadere nell'errore idealistico (qual è appunto quello della negazione della malattia mentale); invece in altri paesi, fra cui il nostro, essa costituisce ancora un momento aggregante, facilitando il coinvolgimento di un sempre maggior numero di cittadini che hanno diritto all'informazione (ma non a senso unico), alla partecipazione attiva alla politica sanitaria, al dibattito aperto, non sempre però sfuggendo alla cattivante ideologia della sociogenesi totale.
13. Psichiatria forense
La psichiatria, là dove si occupa dei disturbi del comportamento e dei rapporti interpersonali (che è poi il suo specifico), è senza dubbio la disciplina, fra le tante mediche e psicosociali, che ha più punti di contatto con l'universo giuridico.
Lo stato mentale di chi ha stipulato un contratto, redatto un testamento, celebrato un matrimonio, commesso un crimine, subito un trauma cranico o violenze, implica inevitabilmente il parere del consulente tecnico, cioè dello psichiatra, alla cui formulazione egli (se richiesto) è tenuto per legge. Negli ultimi anni gli ambiti dell'attività psichiatrico-forense sono andati sempre più espandendosi, anche per la tendenza giuridica attuale ad avvalersi più spesso e per molteplici ragioni della consulenza tecnica (per es. nelle questioni relative ai minori e al diritto di famiglia).
L'incapacità di agire, l'incapacità legale, quella naturale, quella giudiziale, l'interdizione, l'inabilitazione, l'infermità o la malattia, l'incapacità di intendere o di volere, la pericolosità sociale, l'affidamento, hanno sempre costituito e costituiscono tuttora altrettanti capitoli di grande importanza applicativa. Ma i profondi mutamenti sociali intervenuti negli ultimi trent'anni hanno reso inadeguati taluni disposti che, con le loro conseguenze pratiche, possono provocare sindromi di disadattamento o disturbare il riadattamento sociale di disadattati, specie se minori (v. Ferrio, 1959; v. Göppinger e Witter, 1972; v. De Vincentiis e altri, 1973; v. Stone, 1976).
Le competenze psichiatrico-forensi relative alla validità o meno del vincolo matrimoniale, così importante nel diritto canonico, sono andate incontro, specie negli ultimi vent'anni, a una serie di modificazioni dell'atteggiamento valutativo, giustificate sia dalle ricche aperture personologiche espresse nel Concilio Vaticano Il, sia dall'introduzione di parametri psicologici e antropologici che in passato erano trascurati o addirittura ignorati. Si tende, anche qui, a colmare il distacco tra la realtà antropologica e le esigenze del diritto, forse rivolte, queste, a sanzionare prevalentemente principi etico-sociali un tempo egemonici nel contesto comunitario.
Una delle più importanti questioni di principio, che coinvolge sul terreno legale, profondamente e dovunque, la psichiatria, costringendola ad assumere inevitabilmente un connotato giuridico sovente oltremodo impegnativo, è quella relativa ai trattamenti obbligatori. Questa prassi non può non coinvolgere appieno il rapporto fra operatore psichiatrico e operatore del diritto, con numerosi riflessi pratici, di rado chiaramente ordinati, spesso quasi anomici.
Lo psichiatra forense è stato ed è ancora chiamato pienamente e inequivocabilmente in causa per tutti quei soggetti che sono stati condannati per crimini ma, su suo parere, sono stati riconosciuti o considerati ‛malati' (v. Gunn, 1977). Qui l'istituzione carceraria lombrosianamente trapassava, e trapassa tuttora, in quella del manicomio criminale, secondo un'inesorabile logica di esclusione spesso tanto inumana quanto assurda, logica che non è stata toccata dalla riforma del maggio 1978 (v. Benassi e Turrini, 1979). L'ospedale psichiatrico giudiziario resta, anzi resta peggiorato perché la riforma ha ridotto la possibilità di revoca anticipata delle misure di sicurezza ai cosiddetti ‛prosciolti folli' mediante la dichiarata cessazione della pericolosità sociale e il contemporaneo invio del soggetto (se realmente ammalato) in ospedale psichiatrico.
D'altro canto il notevole ridimensionamento degli obblighi di custodia psichiatrica e il prevalere della breve degenza nei servizi specifici degli ospedali generali rendono ancor più improbabile il progetto di abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari (con l'assimilazione del prosciolto folle agli altri pazienti psichiatrici), poiché almeno finora le norme del Codice penale in materia di infermità mentale e di pericolosità sociale (con conseguente obbligo di custodia) sono rimaste inalterate. Il che è profondamente incompatibile con lo spirito di umanizzazione proprio della riforma psichiatrica in atto nel nostro paese.
Negli ultimi decenni è notevolmente aumentato il coinvolgimento della psichiatria forense nei complessi problemi valutativi e decisionali sorti nell'ambito delle insufficienze mentali (v. Benedetti, 1968). Invero i diversi gradi di difetto dello sviluppo psichico e le loro differenti determinazioni causali (per es. genetiche, cerebropatiche, ambientali) condizionano tutta una serie di disturbi del comportamento (spesso con carenza di autocontrollo e di reazioni più o meno adeguate della famiglia e degli educatori) che hanno sovente rilevanza giuridica, per cui lo psichiatra forense viene sempre più spesso chiamato in causa, ferma restando la sua insostituibile, tradizionale opera relativa ai problemi di quegli oligofrenici che popolano il sottobosco del crimine, anche per ragioni socioambientali (oggi ben denunciate dalla letteratura sociopsichiatrica), e che confluiscono nella pratica configurazione anglosassone del defective delinquent (v. McCord e McCord, 1964; v. Moser, 1970).
La complessa problematica psicopatologica e sociale relativa ai numerosi comportamenti sessuali abnormi (dallo psicopatico sessuale e dal sexual offender ai delitti contro il pudore) e alla loro diversa rilevanza a seconda dei contesti socioculturali, come pure quella relativa all'alcolismo e alla droga (con le nozioni di abitualità e di dipendenza; v. droga), costituiscono un esteso capitolo di estrema attualità. Qui i provvedimenti e le misure legali coinvolgono inevitabilmente il tecnico, anche se si tratta di campi in cui l'esclusività della consulenza psichiatrica e psichiatrico-forense è sempre più messa in discussione per il pericolo di riduttivismi, non potendosi prescindere dalle discipline sociopsicologiche e da parametri culturali, economici e politici.
Ma il campo principale, il più caratterizzante, dell'attività psichiatrico-forense quale si è venuta evolvendo da molti decenni è quello della perizia, cioè della formulazione di un giudizio tecnico in risposta ai quesiti posti dal magistrato. Qui l'esigenza della più rigorosa neutralità, magistralmente formulata da Schneider, non è facilmente osservabile. Nei paesi anglosassoni, dove vige la diretta partecipazione del consulente psichiatra al processo, si è divenuti sempre più consapevoli del pericolo che il consulente tecnico non sappia restare rigorosamente nei limiti della sua competenza specifica, ma possa essere facilmente indotto, in perfetta buona fede, alla formulazione di giudizi che travalicano il suo compito e che falsano i risultati della sua indagine tecnica. La psichiatrizzazione di problemi morali, sociali e di altre dimensioni situazionali, accanto al coinvolgimento personale di risonanza positiva o negativa di fronte a fatti o atteggiamenti difformi dalla propria Weltanschauung, costituisce il pericolo attualmente più rilevante: la denuncia, anche provocatoria, mossa dalla contestazione psichiatrica è stata qui salutare. Se l'input psichiatrico deve essere utile al giudice, il perito dev'esser capace di dirgli chiaramente non solo quello che sa ma anche, anzi soprattutto, quello che non sa o di cui non può avere certezza. Come lo psichiatra fenomenologo, anche quello forense è oggi sollecitato a fare voto di povertà in materia di certezze.
Comunque l'attività tecnica peritale, che può avvalersi di indagini cliniche e psicologiche secondo precisi parametri di rispetto e di integrità psicofisica della persona, è stata fatta oggetto di pesanti critiche, che investono il concetto stesso di perizia, quindi anche della più qualificata e ineccepibile. Essa infatti presenterebbe il limite insuperabile derivato dalla distorsione ‛non terapeutica' del rapporto medico-periziando (il che finisce col mettere inevitabilmente fuori gioco l'aspetto più significativo dell'indagine psichiatrica), e inoltre sarebbe inficiata da una ineliminabile parzialità, certo non intenzionale, dovuta alla difficoltà di dissociare la propria opinione tecnica dai propri pregiudizi (v. Diamond, 1959). Per cui la perizia psichiatrica è considerata con circospezione sempre crescente, anche se è definitivamente tramontata quasi dovunque l'epoca dei vari tipi di lavaggio del cervello (narcosuggestione, narcoanalisi, ipnosi) che per diversi anni, specie nell'immediato dopoguerra, riuscirono ad ammantarsi di una pseudovalidità scientifica ma da parecchio tempo sono restati solo appannaggio vergognoso di disumani metodi polizieschi.
14. La svolta dell'assistenza psichiatrica. La riforma legislativa in Italia
Le leggi relative alla detenzione coatta nei manicomi, anche dopo i grandi innovamenti assistenziali di Connolly e di Pinel, hanno coinvolto per centocinquant'anni gli psichiatri, in un feed-back destinato a rinforzi reciproci (v. Szasz, 1965).
Le modalità per l'ammissione, miranti a evitare abusi (anche attraverso un vero e proprio procedimento giudiziario), hanno però finito col consentire il ricovero facile. Vero è che ispezioni, commissioni, supervisioni sono state previste (fin dall'ottima legge francese del giugno 1838) per proteggere i diritti del paziente e per assicurare un trattamento umano e le opportune cure nell'istituzione; tuttavia la strada per l'inferno è sempre lastricata di buone intenzioni, per cui il manicomio, cioè l'ospedale psichiatrico, è andato incontro a una sclerotizzazione e a un degrado che ne hanno ben presto fatto il reclusorio per eccellenza, il deposito degli indesiderabili, il luogo di una radicale emarginazione (v. Belknap, 1956; v. Goffman, 1961).
Non vi è dubbio che vi sono state vere e proprie detenzioni manicomiali, che si è abusato della psichiatria come metodo di discriminazione civile e umana, meccanismo di terrore psicologico, di pressione coercitiva (v. Canosa, 1979). Numerosi convegni, specie negli ultimi anni, si sono occupati della correttezza dei metodi terapeutici, nel quadro delle psicofarmacoterapie e delle psicoterapie, cioè dei due cardini dell'attività di cura psichiatrica, ma si è anche discusso e si discute sui limiti specifici della scienza psichiatrica, sulla psichiatrizzazione abusiva di problemi e conflitti sociali.
L'inizio di un reale rinnovamento della psichiatria, col superamento dell'istituzione e l'intervento sul territorio, pur sacrosanto e necessario, è però subordinato allo sviluppo di un processo di maturazione culturale della società tale da consentirle di prendere parte attiva alla conoscenza dei temi della salute mentale e dei modi della sua preservazione e cura (v. Greenblatt e altri, 1971).
La prospettiva antistituzionale, per riuscire a concretizzarsi davvero, deve passare attraverso la seria impostazione dei problemi della psichiatria preventiva, nei suoi vari momenti, in particolare in quello della ‛prevenzione primaria'; l'accettazione politico-sociale che esso trova ora in Italia pone agli operatori compiti oltremodo difficili, esigendo una qualificazione di gran lunga superiore a quella meramente custodialistico-assistenziale.
Dopo anni di vivaci discussioni la Società Italiana di Psichiatria elaborava nel giugno 1972 le Linee programmatiche per l'assistenza psichiatrica, in cui prevedeva il superamento dell'istituzione psichiatrica e l'inserimento delle attività di cura dei malati di mente negli ospedali generali. Si erano già sviluppate esperienze di tal genere a Gorizia, Trieste, Perugia, Arezzo; altre, più decisamente territoriali, avevano preso avvio a Firenze, Padova, Varese, alla ricerca di servizi in grado di risolvere la grande maggioranza dei casi psichiatrici senza ospedalizzazioni di tipo tradizionale.
Com'è noto, in Italia nel maggio 1978 la legge 180 (poi la legge 833, 1979, di riforma sanitaria), in sostituzione di quella del 1904 parzialmente modificata nel 1968, ha decretato la fine degli ospedali psichiatrici, inquadrando l'assistenza al disturbo psichico nell'ambito della sanità generale, ridimensionando nettamente l'obbligo custodialistico del malato di mente, abolendo il criterio del pubblico scandalo (sancendo una pratica già da tempo in atto) e quello della pericolosità (molto più sulla carta che in pratica). Viene rimossa l'ambivalenza di fondo insita nella legge del 1904: cura e/o custodia (v. Callieri, 1973), propendendo per una connotazione chiaramente terapeutica.
È quello che il legislatore, recependo le istanze dei movimenti di rinnovamento psichiatrico, ha voluto come concezione fondamentale e qualificante della riforma. Ma i ritardi sono ancora assai gravi, tanto che si parla della legge 180 come di un ‛monumento senza piedistallo'. È vero che si limitano notevolmente le ammissioni coatte (i trattamenti obbligatori) consentendole, in via generale, solo negli ospedali civili. Ma le polemiche sono tuttora in atto, in parte determinate dalla logica della conservazione e degli interessi costituitisi attorno all'istituzione manicomiale, in parte favorite da una diffusa carenza di strutture e di articolazioni assistenziali extraospedaliere, sul territorio; si è parlato di ‛rifiuto di delega', di ‛deospedalizzazione selvaggia'. La riforma, inoltre, non ha abolito l'art. 59 (abbandono di persone minori o incapaci), nè l'art. 593 (omissione di soccorso) del Codice penale. Per questo gli obblighi di cura e di assistenza disposti dalla legge restano integri e, come notano Benassi e Turrini (v., 1979), suscettibili di provocare reazioni regressive ove divenissero frequenti i procedimenti giudiziari a carico di psichiatri in rapporto ai suddetti articoli.
Lo sviluppo postbellico dei servizi psichiatrici mostra dal 1955 in poi (specie per i paesi anglosassoni) una riduzione del numero dei letti, un marcato aumento dell'avvicendamento dei ricoveri (degenze brevi) e soprattutto dei servizi extraospedalieri; il piano del Ministero della Sanità in Gran Bretagna (1962) prevedeva 1,8 letti psichiatrici per mille abitanti, con un grande potenziamento dei servizi per i pazienti esterni e delle cure diurne. Nelle zone più progredite (v. Howat, 1979) si è riusciti a ridurre la percentuale a 1,6. Tuttavia, come è accaduto in California negli anni sessanta, una dimissione più massiccia dei lungodegenti non è stata coronata da successo (v. Lamb e Goertzel, 1972), con aumento delle situazioni d'abbandono, specie se non si affrontano le opportune coordinazioni e integrazioni dei servizi sociosanitari.
È inoltre necessario (v. who, 1978) che la legislazione in materia di assistenza psichiatrica e igiene mentale non soltanto tenga conto della politica sanitaria generale del paese in cui opera, ma sia anche compatibile con la legislazione negli altri settori della vita sociale, così che la sua applicazione non si realizzi in vuoti strutturali che finirebbero per danneggiare il paziente e ritardare l'evoluzione voluta dalla lettera della legge promulgata.
15. La formazione dello psichiatra
In quasi tutti i paesi l'insegnamento della psichiatria fa parte dei corsi di medicina, o in unione con la neurologia o, ora più spesso, separato da essa: oggi infatti una parte considerevole della formazione dello psichiatra è costituita da discipline non strettamente mediche (per es. sociologiche, fisiologiche, antropologiche, psicologiche) e, nelle concezioni più progressiste, si tende a minimizzare l'aggancio alle scienze biologiche, con una propensione più netta per le scienze umane, proponendo modelli alternativi a quelli medici, derivandoli (ad es. nella behavior therapy) dalle teorie dell'apprendimento.
Già nel 1950 Kubie aveva sollevato provocatorie obiezioni al training medico per gli psichiatri. Egli proponeva (v. Kubie, 1950) il dottorato in psicologia medica, con l'insegnamento di alcune discipline mediche fondamentali e con maggiore insistenza sulle materie psicologiche, sociologiche e antropologiche; un po' come, mutatis mutandis, si propone oggi per l'odontoiatria. Il problema quindi non è nuovo, anche per quanto riguarda il training di psicoterapisti non medici, pur se attualmente è molto più avvertito; però in molti paesi mancano ancora precise disposizioni legali in proposito, ad esempio per gli psicologi, specie in rapporto alla responsabilità professionale.
Analoghe perplessità e proposizioni alternative si hanno per la preparazione del personale paramedico, preparazione che in non poche regioni italiane è molto carente, forse proprio per un ancora persistente ruolo di subalternità e per la povertà di prospettive terapeutiche di gruppo e di comunità nel vecchio clima custodialistico dell'istituzione (v. Jervis, 19776).
A parte le inevitabili diversificazioni da paese a paese, i programmi di insegnamento della psichiatria (come stabilito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità) debbono comprendere, oltre, ovviamente, alla clinica e alla terapia delle malattie mentali, conoscenze non superficiali di anatomia, fisiologia e biochimica del cervello nonché informazioni ampie di psicologia, di sociologia e di antropologia culturale. Si insiste molto sulla formazione, cioè sull'acquisizione di quelle capacità che debbono rendere il futuro psichiatra atto a un incontro utile con il malato (v. Jones, 1978; v. Hill, 1978).
Di qui la necessità dell'internato (gli anglosassoni parlano di residency) per un periodo di due-quattro anni (a seconda dei diversi paesi), con l'esercizio costante della pratica sotto il controllo dei responsabili del servizio. In Italia (contrariamente alla Germania, alla Svizzera, agli Stati Uniti, ecc.) la pratica dell'internato prolungato è stata discutibilmente soppiantata dai corsi universitari di specializzazione, con insegnamenti ed esami anche ben articolati, ma col rischio grave di fornire più informazioni astratte che formazione concreta. Sarebbe auspicabile, secondo chi scrive, l'introduzione di periodiche tecniche di controllo con un supervisore, come accade ad esempio nella pratica formativa psicanalitica.
Molto aperta è ancora la discussione circa la formazione del pedopsichiatra, se cioè debba attuarsi previa una necessaria preparazione autonoma oppure debba muoversi prevalentemente nell'ottica della pediatria.
Negli ultimi trent'anni vi è stato ovunque un notevole aumento del numero degli psichiatri, sia per lo sviluppo della psicoterapia, sia per il miglioramento delle tecniche di cura; esso tuttavia, specie nelle società in via di sviluppo, è ancora scarso, come pure la loro formazione.
Oggi anche in Italia, come già da tempo negli altri paesi occidentali, lo psichiatra pratico tende per lo più a una formazione psicanalitica, contrariamente a quanto accade nei paesi dell'area socialista. Tende invece a perdere di valore, anzi di ruolo, seguendo l'evoluzione dell'ospedale psichiatrico, la figura dello psichiatra istituzionale. La rivoluzione psichiatrica degli ultimi dieci anni ha però comportato, accanto a coraggiose demistificazioni e a un'aumentata coscienza critica del proprio ruolo, anche atteggiamenti estremistici ideologicamente condizionati e una notevole confusione di ruolo, con un generico appiattimento verso il basso della preparazione tecnico-professionale (a volte vista addirittura con sospetto) e con una tendenza paradossale a psichiatrizzare, superficialmente e, a volte, indebitamente, settori di altra pertinenza.
16. Le controversie più attuali
Di pacifico in psichiatria vi è stato sempre ben poco, anche quando il suo orizzonte conoscitivo e pratico si poneva in termini esclusivamente o prevalentemente naturalistici; ma oggi non vi è campo d'azione o di riflessione che non sia soggetto a visioni profondamente discordi, a volte polarmente contrapposte. Il che per lo più si è rivelato fecondo di nuove prospettive, ma anche talvolta sterile, trattandosi di vecchi problemi meramente riproposti in vesti nuove. Anzitutto il futuro della psichiatria come specialità medica non appare del tutto sicuro. Non sono pochi gli operatori che la ritengono obsoleta, come un oggetto da museo cui si può guardare con nostalgia ma che non si può più utilizzare. Si dice no ai pazienti psichiatrici: una parte di essi si fa rientrare nella neurologia e nella medicina generale, un'altra (più numerosa) nei problemi del vivere, della società, dell'educazione.
Altri operatori, più numerosi, ritengono invece assai vivace il futuro della psichiatria e prevedono anzi una progressiva psichiatrizzazione di molti campi dell'agire umano (forse la temibile ‛tirannia psichiatrica' contro cui si è dispiegata la bandiera del NAPA, cioè Network Against Psychiatric Assault).
Altri ancora ritengono che lo sviluppo di una vera e propria scienza unificata del comportamento, avvalendosi di modelli matematici, statistici, di computerizzazione, di informatica, consentirà un sempre più esteso monitoraggio biochimico, psicofisiologico e sociale; la psicofarmacologia e le investigazioni psicobiologiche e genetiche potranno condurre a progressi notevoli; la figura dello psichiatra del prossimo futuro sarà essenzialmente biosociale. La psichiatria preventiva sarà soprattutto psicopedagogia e ingegneria di salute mentale, mentre allo psichiatra tradizionale si richiederà un'opera più specificamente medica, neurobiologica, comportamentista.
Certo è possibile che ciò si verifichi, e questo nuovo tipo di specialista (comunque venga denominato) sarà tanto lontano dallo psichiatra di oggi, quanto questi lo è dall'alienista di ieri (e forse ancor più).
Un altro dibattito attualmente molto vivace è quello che oppone alla preparazione prevalentemente medica un modello alternativo, legato alla modificazione del ruolo dello psichiatra (psichiatria sociale-salute mentale della comunità): al concetto di malattia mentale va sostituito quello di ‛individui disturbati, con problemi di vita'. Per altri, invece, ogni alternativa al modello medico (pur ampiamente aperto) è destinata a fare dello psichiatra un ibrido inutile, a sottrargli un orientamento stabile di valori professionali, da lungo tempo acquisiti e verificati. Altri ancora sono favorevoli al modello alternativo, ma soltanto a titolo di esperimento.
Si può dire con sicurezza che oggi nessun'altra professionalità medica si trova a confrontarsi con una tale crisi di identità come la psichiatria, cui si contesta persino l'ambivalente e scomoda funzione di ponte sospeso fra le disagevoli e frastagliate sponde delle scienze biologiche e di quelle sociali (v. cap. 12).
Noi riteniamo che la professione, nel multiforme articolarsi delle sue attività terapeutiche, preventive, educative, debba soprattutto trovare il modo (non demagogico) di ascoltare la gente, di sentire quel che veramente dice e di rispondere alle sue richieste sì da fornire, con l'aiuto sensibilizzato e accorto delle amministrazioni, efficienti servizi di salute mentale, terapeutici e preventivi (v. Miller e Krell, 1977).
La spinosa questione se il paziente psichiatrico debba essere ospedalizzato involontariamente (trattato obbligatoriamente) è un altro dei grandi nodi di contraddizione dell'attuale psichiatria su cui si confrontano due posizioni diametralmente opposte, l'una favorevole a un'ospedalizzazione prudente, l'altra assolutamente contraria. Nel primo caso si ritiene che, in speciali circostanze e per brevi periodi, la responsabilità sociale debba venir prima della libertà individuale (con la premessa fondamentale che esiste qualcosa propriamente denominabile malattia mentale). L'abuso del ricovero involontario, sempre incombente, non esime dall'ammetterlo, con delimitazioni e garanzie rigorose, come il minor male.
La legge italiana attuale (n. 180, 1978) sembra aver fatto proprio il Position statement dell'American Psychiatric Association (v., 1973), che stabilisce: a) l'ammissione per malattie mentali deve avvenire allo stesso modo che per le altre malattie; b) per alcune persone l'ospedalizzazione, in genere per un breve periodo, è il trattamento indicato; c) una piccola percentuale di persone che necessitano dell'ospedalizzazione sono incapaci, per malattie mentali, di decidere liberamente di ricoverarsi; d) è obbligatorio il coinvolgimento della pubblica responsabilità nel controllo del paziente così ricoverato.
Anche se molti psichiatri sono inclini a sopravvalutare la previsione della pericolosità, in alcuni casi questa è innegabile e sarebbe antiumano ignorarla (v. Halleck, 1974).
Si precisa inoltre che le psicosi (schizofreniche, paranoidi, maniaco-depressive), per le quali vale il discorso, non sono simili all'isteria; se si può concordare con T. S. Szasz (v., 1961) che l'isteria è un linguaggio, non si può accettare la sua tesi che l'isteria sia il paradigma per la malattia mentale. ‟Se la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva sono analoghe all'isteria, allora la malattia mentale è un mito" (v. Hollender, 1978).
Nell'alternativa che nega assolutamente il trattamento obbligatorio, difesa da Szasz (v., 1965), si sottolinea l'aspetto poliziesco della psichiatria, la sua natura coercitiva, nata da esigenze omologabili a quelle che giustificarono la schiavitù. La malattia mentale è una metafora; ognuno, come dice Stuart Mill, è il guardiano della propria salute, fisica, psichica e spirituale, i procedimenti coattivi sono analoghi alla schiavitù, sono spregevoli abusi della relazione medico-paziente, sono un tipo di imprigionamento senza processo, la cui legittimità morale è del tutto da escludere (v. Szasz, 1965; v. Basaglia, 1967; v. Jervis, 19776).
Questa alternativa di negazione assoluta, che ha trovato in Italia vigorosi sostenitori, ai più sembra irrealistica; tuttavia è da ritenere che i problemi autentici inerenti al conflitto tra la libertà individuale, da un lato, e la protezione della società e dell'individuo malato, dall'altro, non troveranno, almeno nel prossimo futuro, una risposta completamente soddisfacente: di volta in volta tale risposta dipenderà dai bisogni più attuali, dai pericoli più percepiti e dai valori più apprezzati da una data società, in un dato momento della sua storia (v. Clare, 1979).
Altro punto critico è quello relativo al ruolo dello psichiatra nel sistema giudiziario criminale. Il significato della criminal insanity è stato sottoposto ad accurate indagini (v. Fingarette, 1972; v. Stone, 1976; v. Schafer, 1969), da cui emergono sia la sua fragilità che il suo condizionamento ideologico, ma anche la sua realtà clinica (v. Gunn, 1977). L'analisi critica della posizione del perito psichiatra, dei suoi limiti, della sua incombente non neutralità giustifica la sua ricusazione da più parti (v. Diamond, 1 959; v. Szasz, 1965) e l'accusa di abuso del ricorso alla perizia psichiatrica nei processi penali. È accaduto inoltre, dovunque, che nel loro lavoro con i criminali gli psichiatri abbiano investito la maggior parte delle loro energie nelle funzioni di consulenza tecnica (dispositional functions) anziché in quelle educative e terapeutiche. Negli ultimi anni, tuttavia, ciò sta in parte cambiando, per un maggior interesse per l'educazione psicodinamica da parte del personale sociale che deve lavorare con il criminale nel sistema penale e per una maggiore sollecitazione alla terapia in appositi centri sociali (come condizione per evitare la reclusione) nonché alla terapia dei soggetti sottoposti a probation o a parole.
Ci si è domandati se il trattamento in queste condizioni obbligate sia una vera terapia (v. Rappeport, 1978) ma, in Italia perlomeno, la domanda appare pressoché oziosa, non essendo quasi possibile parlare di trattamento in genere. Il manicomio criminale (il forensic hospital) non solo non ha mai sviluppato un adeguato programma terapeutico per il criminally insane offender, ma è fornito di un'assistenza povera di numero, inadeguata di mezzi, scarsa di capacità, condannata a muoversi fra persone non motivate alla collaborazione terapeutica per la prospettiva delle lunghe scadenze detentive. Si è veramente nella fossa dei serpenti e tutto fa pensare che vi si rimarrà ancora a lungo: i fermi propositi circa l'abolizione di questa istituzione sono così ben motivati che rendono inutile, anzi per alcuni addirittura riprovevole, ogni tentativo di miglioramento. Il dramma umano coinvolto in questa controversia psichiatrica è tutto qui e, per quanto se ne possa oggi sapere, non è privilegio soltanto del nostro paese.
Altri punti di accese controversie (v. Brady e Brodie, 1978), cui non si può non accennare, sia pure a mo' di elenco, per la portata teorica e pratica del contendere, sono: 1) l'etica e l'efficacia della psicochirurgia, i cui passati innegabili eccessi (in verità molto modesti in Italia) sono ora molto ridimensionati; rigoroso è il controllo, nel Nordamerica, da parte della National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research (v., 1977) e così pure in Europa (v. Clare, 1979); 2) l'indicazione e l'utilità dell'elettroshock, che appare fuori discussione nelle psicosi maniaco-depressive acute e in alcune forme schizofreniche; tuttavia malgrado le equilibrate recenti puntualizzazioni (v. Royal College of Psychiatrists, 1977; v. Catalano Nobili e Cerquetelli, 1972; v. Fink, 1979; v. Clare, 1979) la polemica è ancora molto accesa, soprattutto da parte delle ideologie del dissenso e oltranziste; 3) la collocazione della terapia del comportamento come fonte importante di nuovi principi di apprendimento e di impostazione di vecchi problemi (ad es. il trattamento delle fobie) oppure come semplice rinforzo dei centri empirici di psichiatrizzazione (v. Meyer e Chesser, 1970; v. Yates, 1975); 4) la psichiatria della comunità e la comunità terapeutica intese come nuovo orizzonte ricco di implicazioni teoretiche e pratiche per il futuro della psichiatria o, al contrario, come illusione già in declino, fatta di slogan e di superficiale ottimismo (v. Jones, 1976; v. Paumelle, 1970; v. Clark, 1977; v. Bennett, 1978; v. Jones, 1978; v. Hill, 1978).
17. I ‛matrimoni esogarnici' della psichiatria
Da quanto finora è stato detto appare evidente la molteplicità dei rapporti fra la dimensione psichiatrica e i vari ambiti del pensiero e dell'attività umana, con uno scambio di modelli di riferimento utili e produttivi, anche se a volte metodologicamente ingiustificati. Su alcuni piani - la filosofia, l'arte, la letteratura, la politica, la religione - l'interrelazione è tale da investire e coinvolgere lo stesso significato basico dell'atto psichiatrico. Allargando il proprio ambito conoscitivo e di prassi oltre il campo strettamente clinico, la psichiatria ha ampiamente fornito e mutuato suggerimenti. La semplice e pur incompleta enumerazione può essere indicativa della consistenza di una tale ‛rete mirabile'.
Alla fenomenologia di derivazione husserliana e al pensiero esistenzialista e antropologico si è già accennato come ai filoni più ricchi (v. Barrett, 1958; v. Prini, 1971). Ma lo strutturalismo, il fisicalismo, il materialismo dialettico, il neopositivismo logico, lo spiritualismo, l'ontologia della persona, la dottrina generale dei valori, la linguistica, la teoria delle comunicazioni, la cibernetica, la semiotica, la matematica hanno fornito al pensiero psichiatrico importanti suggestioni teoretiche e hanno saputo cogliere le sollecitazioni provenienti dalla condicio psychiatrica dell'uomo. A volte le analogie e le trasposizioni sono ingenue o indebite, ma per lo più ‛tengono': Bateson, Ceccato, Hörmaun, Kainz, Matte Bianco, Morris, Piro possono indicare alcuni degli indirizzi d'indagine più fecondi.
Il discorso psichiatria-arte, che si è sempre imposto alle scienze umane, ha trovato nel Novecento la sua espressione più ricca. Impossibile far nomi, qui; ma non vi è dubbio che l'espressione plastica sia, fra le altre, la via regia delle manifestazioni della realtà psicologica della persona, anche nelle sue declinazioni più abnormi, dalla melancolia all'angoscia, dal dereismo all'allucinazione, dall'ossessione al delirio. Non si può non rinviare alle indicazioni provenienti da Calvesi, Gombrich, Hoenigswald, Malraux, Read, Sebeok, da un lato, e a quelle di Bobon, Barison, Jakab, Macagnani, Volmat, dall'altro, che si situano proprio al centro di questa ricca osmosi. Invero, è questo l'ambito in cui più fitta è la possibilità di crescita dialogica e di disvelamenti vicendevoli di suggestione e di via, ora sentiero interrotto ora cardo maximus.
I rapporti fra cinema e psichiatria sono molteplici, specie nella prospettiva psicanalitica. Non solo è possibile utilizzare il linguaggio psicologico per cogliere in un'opera cinematografica significati altrimenti incomprensibili, ma è anche molto suggestivo lo studio delle analogie tra il linguaggio onirico, polisemantico, e il linguaggio cinematografico; questo in alcuni registi (per es. Fellini) è tale da permettere allo spettatore di incontrare forme e contenuti di significato universale, che resterebbero altrimenti inaccessibili.
La letteratura, in ogni sua forma, non ha perduto il passo - oggi - nei confronti dell'Ottocento. Il suo messaggio antropologico, sia clinico che patosociale, si snoda sempre più ricco nei decenni a noi prossimi e, attraverso innumerevoli apporti (ad es. Sartre, Joyce, Svevo, Musil, Hess, Kafka, Camus, Bernanos, Kerouac, Roth, Pavese, Berto, Pasolini), offre allo psichiatra lezioni uniche di esistenza incarnata, di comprensione e illuminazione dello psicopatologico, di modulazioni dell'abnorme, ma anche si sostanzia di psicopatologia del quotidiano, di totem e tabù, di simboli di trasformazione, di semantica enigmatica, di perversione e di nevrosi, di alcolismo e di paradisi artificiali (v. Michaux, 1956). C'è una lunga storia di tentativi di tradurre in linguaggio psicanalitico l'opera d'arte; la complessità del polisenso dell'inconscio viene sovente riconosciuta come crisi della ragione; il recupero del linguaggio nell'arte, come conflitto e compromesso di tendenze, è spia, indizio (v. Shapiro, 1973), per cui mai come in questi anni - analogamente a quanto accadde nell'epoca di Weimar - è possibile conoscere l'inconscio dai suoi effetti, dai suoi esiti linguistici.
Se, da Munch a Henry Moore, da Kandinskij a Paul Klee, da Rouault a Carrà, alla sintassi musicale di Pierre Boulez e all'etnomusicologia di Kurt Sachs, inesauste sollecitazioni dialogiche si offrono alla psichiatria, la ‟reciprocità delle coscienze" (Nédoncelle) rischia però di farsi unidirezionalità di suggestione nell'impatto col sociopolitico. A parte l'inevitabilità di certe incidenze e problematiche, più acute dopo il 1968 ma già presenti negli anni venti (si pensi al ‛pensiero autistico-indisciplinato' di Bleuler), ‟il personale è politico" esercita oggi un'azione che tende a debordare il suo pur ragionevole e motivato porsi, ipnotizzando con la fascinosa tentazione di arrestare il movimento dialettico della psichiatria al solo momento dell'antitesi. È innegabile che attualmente nelle scienze sociopolitiche imperversi la babele delle lingue e ci sia carenza di consapevolezza metodologica, con un prevalere di filosofismo e di ideologismo. ‟Tutti sanno la città ideale che vorrebbero ma pochi sanno cosa fare e, ancor meno, ‛come' fare" (G. Sartori). Ciò è profondamente vero per la dimensione politica della psichiatria, che quindi rischia, pena il dissenso, di farsi ideologia: appar chiaro che il singolo, nella sua irriducibile singolarità, dovrebbe restare il prolegomeno di ogni discorso psicopolitico, se non si vuol correre il pericolo di entrare nel 1984 di Orwell.
Questa singolarità irripetibile della persona, che è il suo mysterium e il suo rischio continuo, in quanto ago della bussola dell'agire psichiatrico, apre inevitabilmente al religioso, cioè alla trascendenza, all'ulteriorità, all'anticipazione, all'homo viator. Qui è innegabile il salto di qualità della psichiatria degli ultimi decenni rispetto a quella ottocentesca (v. Schneider, 1928; v. Heimann, 1956; v. Roth, 1962). E se allora l'incredibile messaggio di Kierkegaard (collegato per oscure vie metacronologiche a Pascal, a Bonaventura e Agostino, a Maimonide, ai sufi e a Plotino) cadde nel vuoto di una radicale sclerosi e marginalizzazione dell'esperienza religiosa, oggi qualcosa è mutato, e di sostanziale. Marcel e Mounier, Buber e Tillich, Barth e Bonhoeffer non sono passati invano: hanno scosso dalle fondamenta il discorso dell'altro, hanno sollecitato il passo du refus à l'invocation. Il rinnovato interesse per questa dimensione supera i sia pur validissimi approcci di R. Otto, di Odier, di Kristensen, di Leeuw, di M. Eliade, di De Martino, e consente un dialogo fecondo con la decodificazione più corretta di Freud e di Jung (v. Torello, 1961; v. Zilboorg, 1962; v. Mansell Pattison, 1969; v. Ulanov, 1975), con i richiami illuminanti dei grandi maestri di spiritualità, con l'esigenza di una vigile e critica psichiatria pastorale, tesa al recupero e alla lettura dell'ontologico nell'ontico, sensibile all'ancoraggio biosociale, a volte pesantissimo, sempre modulata su tematiche antropologiche anche là dove gli schemi scolastici appaiono di maggiore spessore e sordità o dove il richiamo psicopatologico si fa più teso e inquietante (v. Hofman, 1960; v. Spoerri, 1968).
Lo scandalo di questi ‛matrimoni esogamici' della psichiatria (ne abbiamo indicati solo alcuni) è destinato a risuonare sgradevolmente alle orecchie dei puri, degli ortodossi, dei farisei di heiniana memoria, dei professionalisti a oltranza, dei timorosi di illegali e scorrette commistioni di ordinamenti, ex una parte et altera. Ma quanto più controverso, infido, ambiguo è il tema del dialogo, quanto più lo si sollecita con timore o furore, anche solo per deprecarne le pretese, tanto più la psichiatria si allontana dalla prospettiva di una sua condanna all'azoospermia.
Se, come diceva W. Hazlitt nel 1830, ‟quando una cosa cessa di essere oggetto di controversia cessa anche di essere soggetto di interesse", allora possiamo affermare che nell'attuale cultura, medica e non, la provocazione psichiatrica è al centro di un profondo e autentico interesse umano.
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