Psichiatria
di Giovanni Jervis
La psichiatria ha per oggetto i disturbi psichici, o mentali, e ne studia la natura e i rimedi. Per disturbi psichici si intendono sia quei comportamenti devianti, sia anche quegli stati di sofferenza soggettiva, che sono ragionevolmente attribuibili a disfunzione, cioè a patologia, della normale capacità individuale di elaborare i dati dell'esperienza. Non rientrano dunque nella psichiatria né i comportamenti devianti di interesse strettamente criminologico, dove la capacità di elaborare l'esperienza ordinaria non è di per sé patologicamente alterata, né quelle sofferenze soggettive, come per esempio la depressione del lutto oppure la risposta di ansia o di panico a situazioni rischiose, che possono essere intese come elaborazioni commisurate all'evento.
Mentre i disturbi psichici più gravi (e cioè in pratica le psicosi, di cui è esempio tipico la schizofrenia) producono errori sistematici di giudizio, cioè un'alterazione della valutazione della realtà esterna e delle proprie stesse condizioni fisiche e mentali, i disturbi psichici meno gravi (come la maggioranza dei casi di nevrosi) non alterano invece in modo significativo il giudizio di realtà e si traducono in sofferenze, di cui è esempio tipico l'ansia, che sono oggettivizzate in quanto disturbi dal soggetto stesso e possono incidere solo marginalmente sulla conduzione della sua vita quotidiana. La presenza di disturbi ansiosi in qualche momento della vita nella quasi totalità delle persone è il principale motivo per cui il confine fra la normalità e i meno gravi fra i disturbi psichici può essere considerato convenzionale. Il termine tradizionale di follia, o pazzia, identifica le psicosi, soprattutto nelle loro forme più serie, ed è sinonimo di malattia o anche di alienazione mentale; ha dunque un significato più ristretto di quello di disturbo mentale.
La psichiatria è stata divisa classicamente in psichiatria clinica e psicopatologia. La differenza risiede nei criteri di avvicinamento ai problemi della sofferenza psichica. La psichiatria clinica studia i disturbi psichici sulla falsariga del modello medico di classificazione dei disturbi in sindromi e malattie: e quindi divide il campo psichiatrico in nevrosi, psicosi organiche, psicosi funzionali, disturbi della personalità, tossicofilie, e così via. Viceversa la psicopatologia classifica i tipi di alterazione possibili della vita psichica: e quindi, per esempio, a partire dallo studio della coscienza normale esamina le molteplici forme delle alterazioni dello stato di coscienza; oppure, a partire dallo studio della memoria, i disturbi della memoria.
L'indagine psichiatrica ha sviluppato le sue sistematizzazioni prevalentemente nell'ambito della medicina, presentandosi quindi come il settore degli studi medici che si occupa delle conseguenze di quelle lesioni e disfunzioni del cervello che sono causa di alterazioni del comportamento e dello stato di coscienza; ma per estensione si interessa di tutte le forme di patologia della condotta individuale e della soggettività esperienziale, indipendentemente dalla possibilità di rintracciarne le cause in lesioni o disfunzioni cerebrali.
La psichiatria si differenzia dunque dalla neurologia, la quale è il ramo delle scienze biologiche che studia la struttura, il funzionamento, e le eventuali alterazioni del sistema nervoso indipendentemente dalle loro conseguenze sulla vita psichica: e occorre ricordare a questo proposito che la grande maggioranza dei disturbi neurologici colpisce aree le quali non hanno a che fare con la vita psichica. Essa si differenzia altresì dalla psicologia, che studia, oltre che le leggi del comportamento normale, animale e umano, anche la struttura e i contenuti della coscienza, cioè le forme della soggettività animale e di quella umana, sia infantile che adulta. È forse superfluo aggiungere che la psichiatria non va neppure confusa con le psicoterapie, che sono un'ampia varietà di metodi di trattamento mediante l'interazione e il linguaggio, né tantomeno con la psicanalisi, cioè con la tradizione freudiana, la quale oltre a essere un indirizzo di pensiero, identifica un tipo determinato di associazioni di professionisti e di tecnica psicoterapica. Psicanalisi e psicoterapie vengono usate anche al di fuori di indicazioni psichiatriche, come strumenti per la maturazione della personalità e per il riorientamento delle scelte di vita.
Il legame della psichiatria con la tradizione medica è ribadito dal fatto che, per definizione, uno psichiatra è un medico specializzato in psichiatria. Nel corso dell'ultimo secolo, tuttavia, gli psichiatri hanno man mano perduto l'esclusività dello studio e della cura dei disturbi psichici. Un numero crescente di psicologi - per lo più dunque, come tali, non laureati in medicina - si è andato occupando di alterazioni del comportamento e della soggettività, e precisamente di quelle alterazioni che sono meno verosimilmente legate a cause medico-biologiche. La psicologia clinica (da non confondere con la psichiatria clinica), che si occupa dello studio delle relazioni interpersonali di valutazione e di aiuto, è oggi il ramo della psicologia all'interno del quale si sono sviluppate varie forme di studio della sofferenza psichica, e anche di intervento terapeutico, separate dalla tradizione medica della psichiatria. Tuttavia occorre sottolineare che, così come la psicologia clinica moderna, nel suo settore terapeutico, tiene oggi conto degli sviluppi della psichiatria di tradizione medica, o almeno di parte di essi, allo stesso modo la psichiatria del nostro secolo si è in parte staccata dalla sua radice storica, che era a esclusiva impronta medico-biologica, per utilizzare dati provenienti dal lavoro degli psicologi.
La psichiatria può dunque essere intesa sia in senso ampio (ed è questo l'uso più comune e probabilmente più corretto del termine), cioè come la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici; sia, in senso molto più ristretto, può esser vista come quella parte dello studio dei disturbi psichici che viene svolta da medici e presenta qualche addentellato con lo studio del corpo.
In tutte le culture, anche quelle primitive, alcuni individui vengono identificati, sia pure in modo impreciso e secondo variabili declinazioni razionalizzanti, come malati di mente e trattati di conseguenza, sulla base dell'universale constatazione che traumi cranici e intossicazioni (voluttuarie o meno) possono facilmente determinare disturbi della coscienza e della capacità di giudizio. Tuttavia nelle culture premoderne può accadere che taluni casi classificati in Occidente come disturbi psichici non siano identificati come tali. Alcuni comportamenti sono dunque visti in altre culture come normali, oppure come socialmente devianti ma non patologici, e tollerati informalmente o trattati in sede penale: si ha in questi casi una piena attribuzione di responsabilità al soggetto per le sue azioni. Peraltro avviene anche in altri casi che, al contrario, l'attribuzione delle cause di un dato comportamento deviante sia sancita in senso deresponsabilizzante, ma del tutto al di fuori dell'ambito medico: e allora il disturbo è spiegato secondo moduli magico-religiosi, e dunque in pratica o come conseguenza diretta di meccanismi di influenzamento magico, o come effetto di possessione. Occorre aggiungere che nelle comunità preletterate un singolo caso di disturbo psichico può esser trattato al tempo stesso come malattia corporea e come effetto di influenzamento e/o possessione, senza che vengano percepite contraddizioni fra questi due sistemi di spiegazione.
Le indagini etnopsichiatriche hanno messo in evidenza il fatto che in tutte le epoche e culture i principali disturbi psichici, come la 'perdita di senno' della schizofrenia (malattia che è caratterizzata da ritiro autistico, deliri ed eventualmente allucinazioni), l'insufficienza mentale nell'infanzia (come deficit organico di strumenti cognitivi), le demenze (perdita progressiva della memoria e dell'intelligenza), la malinconia (ovvero depressione patologica del tono dell'umore), e le varie forme di eccitamento, come la mania (euforia patologica) e gli eccitamenti confusionali (che in genere sono effetto di disturbi tossici), qualora si manifestino nelle forme più nette, gravi e tipiche tendono sempre a esser riconosciuti come forme di soggettività abnorme, anche se non sempre sono ben separati fra loro. Essi sono dunque i punti di riferimento principali di una psichiatria transculturale 'naturale' o 'ingenua', non priva di aspetti universali. Solo raramente taluni sintomi, come le convinzioni personali del tutto 'fuori dalla realtà', cioè le idee deliranti, o la vivida percezione di messaggi o oggetti inesistenti, cioè le allucinazioni, vengono interpretati come privilegio di individui eccezionali.
Bisogna però aggiungere che, a seconda dei vari tipi di disturbi, essi possono variare nella loro frequenza e nelle modalità di estrinsecazione, oltre che ovviamente nella loro gestione sociale. Se per esempio è probabile che la schizofrenia abbia ovunque una incidenza pressoché costante, l'epidemiologia della depressione si presta invece a considerazioni più relativistiche, e l'incidenza delle nevrosi ansiose, per quanto difficilmente valutabile per la mancanza di parametri di sofferenza ben oggettivabili e per la convenzionalità dei confini del disturbo, sembra essere diversa da una cultura all'altra. In generale, le comunità preurbane e preindustriali mostrano una maggiore capacità di tollerare al proprio interno, senza prendere particolari provvedimenti, un certo numero di soggetti deboli di mente, dementi e affetti da psicosi croniche lievi o di media gravità.
Per quanto non vi siano dati attendibili che facciano seriamente pensare a un aumento generale della patologia mentale con lo sviluppo delle civiltà, o in rapporto a variabili generiche come la modernità o l'industrializzazione, né che dimostrino un aumento nel tempo delle nevrosi o dei disturbi psicosomatici in generale all'interno della nostra cultura, tuttavia per quanto concerne alcune singole estrinsecazioni di disturbo è certa una variazione significativa del numero dei casi nello spazio di decenni. Per esempio, fattori culturali e forse iatrogeni possono concorrere a spiegare la frequenza dell'isteria femminile nella borghesia europea dell'Ottocento (questa forma nevrotica è oggi quasi totalmente scomparsa, almeno in ambiente urbano); viceversa, nelle giovani donne appartenenti a questo stesso ceto sociale, a partire dagli anni settanta-ottanta del Novecento è riscontrabile, per motivi tuttora incerti, un aumento di frequenza della patologia psichica di tipo alimentare, cioè dell'anoressia e della bulimia. Inoltre l'emigrazione e l'urbanizzazione di massa frequentemente provocano condizioni psicosociali e familiari di anomia e di spaesamento, che facilitano l'emergere di talune forme di patologia mentale; in più, va segnalato che condizioni di malnutrizione e fattori igienici e infettivi possono rendere particolarmente frequenti, in talune zone del globo, disturbi come l'insufficienza mentale o anche, talora, le psicosi organiche.
Infine, in molte culture premoderne sono oggi più comuni che altrove i disturbi del comportamento di natura suggestiva, o meglio di tipo isterico ovvero (secondo la dizione moderna) dissociativo, caratterizzati da esibizionismo di disturbo e soprattutto da scissioni temporanee della personalità, della capacità di giudizio e/o dello stato di coscienza.
La storia della psichiatria è - fin dalle società primitive e in modo già evidente nella cultura della Grecia antica - storia di un doppio sforzo disciplinare: in primo luogo del tentativo di definire e gestire in modo razionale gli aspetti medici che sono evidenti in una parte dei casi; in secondo luogo del tentativo di separare i criminali dai malati di mente, gestendo in modi appropriati gli aspetti di devianza sociale del comportamento di questi ultimi.In margine a questa doppia tematica, persistono fino nel cuore della società industriale dell'epoca attuale aspetti di razionalizzazione del problema psichiatrico di tipo premoderno, come il tentativo tradizionale di spiegare una parte dei disturbi psichici con meccanismi di influenzamento (malocchio, fattura) e di possessione, oppure come la tendenza a trattare taluni problemi aventi legittima rilevanza psichiatrica, per esempio l'alcolismo e le tossicofilie, o anche i casi di pedofilia, esibizionismo e voyeurismo, in una logica non già terapeutica ma moralistica o anche strettamente penale.
La psichiatria dell'età moderna nasce non tanto come sviluppo di quella razionalità medica che a partire dall'antichità greco-romana percorre tutta la storia della civiltà occidentale, quanto come tentativo di costituire una efficace gestione sociale della follia all'interno della più generale problematica della gestione della devianza, e dunque soprattutto sulla base di quelle esigenze di razionalizzazione sociale che sono al centro della cultura della modernità.Fin dall'inizio dell'età moderna il carattere cronico di gran parte delle psicosi, delle demenze e delle insufficienze mentali aveva favorito, nei centri urbani e in modo più accentuato agli albori della società industriale, il nascere di ospizi atti a ricoverare, e a mettere in condizione di sopravvivere e di non nuocere, gli alienati identificati come più gravi. I primi ospizi psichiatrici, organizzati e definiti come tali, erano peraltro già nati nell'ambito della civiltà araba, dove pare fossero gestiti in modo attento e umano; viceversa, nell'ambito dell'Occidente cristiano, ancora nel Seicento e nel Settecento gli ospizi francesi e inglesi avevano caratteristiche e confini istituzionali non sempre ben definiti in quanto ospitavano, insieme a malati di mente e insufficienti mentali, anche emarginati e malati cronici di altro tipo.
La distinzione di principio, peraltro risalente all'epoca classica, fra la responsabilità etica (e quindi l'imputabilità) del soggetto sano di mente e l'irresponsabilità (e quindi la non punibilità) prodotta dalla follia, ancora nel Settecento non veniva identificata se non in modo parziale sul piano teorico, né sempre mantenuta sul piano del giudizio del singolo caso.Solo a partire dalla cultura dell'illuminismo si fa strada il tentativo di identificare con precisione le forme della follia - una volta scartati come scarsamente rilevanti taluni disturbi psichici 'minori' già identificati, come l'isteria e l'ipocondria -, e quindi di separare in modo più netto i soggetti in cui esista una incapacità grave di gestire in modo adeguato il proprio comportamento quotidiano, e dunque necessitanti di cure, accudimento e sorveglianza, da quei soggetti che al contrario, pur presentando comportamenti devianti, non sono affetti da vera alienazione dell'intendimento, e quindi sono sottoponibili a giudizio ed eventualmente possono esser puniti se colpevoli di reati. Parallelamente, nella gestione della marginalità - in sostanza, degli individui privi di risorse - si cominciava a distinguere fra l'emarginazione per cause sociali e quella derivata da disturbo mentale cronico, avviando quindi forme di istituzionalizzazione differenziate. Alla fine del Settecento il tentativo di Pinel (1755-1826) di liberare i malati di mente dalle catene non fu soltanto un atto umanitario, quanto soprattutto parte integrante di uno sforzo di razionalizzazione che era al tempo stesso scientifico e politico-sociale.
Per tutta la durata dell'Ottocento, tuttavia, la distinzione fra responsabilità e irresponsabilità nelle forme della devianza rimase incompleta. Il comportamento del folle era considerato più facilmente l'effetto di una volontà patologicamente distorta, che non di una sofferenza interiore; ed era corrente il presupposto che le forme principali e più tipiche dei disturbi psichici consistessero non tanto in alterazioni dell'affettività o delle facoltà cognitive, quanto in difficoltà nell'accedere al senso di responsabilità, e ancor più specificamente al senso morale. In rapporto a questa tematica, va segnalato che nella medicina e nella psichiatria dell'Ottocento non era stata formulata né una chiara separazione fra la dimensione del corpo biologico e la dimensione della mente nei suoi aspetti funzionali, né una chiara separazione fra la sfera della psicologia e quella dell'etica e persino della religione. Va sottolineato, a questo proposito, il fatto che la psichiatria comincia a potersi basare su di una psicologia sistematica e modernamente intesa solo negli ultimi decenni del XIX secolo, cioè quando prendono forma i primi tentativi di costituire una scienza della mente intesa in senso laico, dunque come "psicologia senza l'anima" (W. James).
La 'teoria degenerativa' dei disturbi psichici indica in modo esemplare la commistione fra una dimensione medica e una dimensione rieducativa e moralistica della psichiatria. Si supponeva infatti nell'Ottocento che abitudini intemperanti, come l'alcolismo, l'ozio, il vagabondaggio e gli eccessi sessuali, potessero indebolire le cellule germinali dando luogo a forme di patologia nelle generazioni successive; così, nella stessa logica, per lungo tempo e fino nel nostro secolo fu convinzione indiscussa che il 'vizio' della masturbazione producesse degenerazioni del sistema nervoso, sintomi di tipo nevrastenico, paralisi e - se portato a eccessi - forme di follia.
Un insieme di fattori aveva già concorso nei primi decenni dell'Ottocento ad attirare l'attenzione del pubblico colto sul tema della follia: in primo luogo l'umanitarismo illuminista, con la sua insistenza sulla dignità della ragione umana e sui valori dell'educazione universale; poi talune istanze religiose, in particolare nell'ambito delle culture protestanti; infine gli spunti propri del romanticismo, con la rivalutazione della istintualità, delle passioni, della dignità della sofferenza. Gli sviluppi del 'trattamento morale', nella prima metà dell'Ottocento (in particolare con S. Tuke, 1784-1857, e J. Conolly, 1794-1866), si caratterizzarono da un lato per il tentativo di sviluppare una lezione pedagogico-rieducativo-umanitaria, dunque facendo appello agli aspetti universali di dignità nascosti nell'animo del folle, e da un altro lato per una mescolanza di interventi medico-fisici a carattere empirico.
Gli aspetti rieducativi e quelli medici non erano ben distinti fra loro: ne risultava un insieme di provvedimenti che andavano dall'isolamento per gli agitati a una politica di 'porte aperte', di 'non restrizione' e di autogestione per i soggetti più ragionevoli, alla lettura di testi edificanti, all'alfabetizzazione per i più incolti, agli spaventi per i fissati, ai digiuni, alle docce gelate, ai bagni prolungati, alla chiusura in gabbie rotanti per scuotere il cervello e la mente, all'impiego delle più varie sostanze chimiche per 'rinforzare' determinate funzioni della mente o sedarne altre. La volontà curativa dello psichiatra, quando pure esisteva a correggere il versante puramente custodialistico dei manicomi, non sempre distingueva i provvedimenti più rispettosi della persona da quelli che, proprio nel momento in cui facevano appello alle sopite capacità di discernimento morale dell'animo del folle, non esitavano a far leva, e beninteso a fin di bene, su biasimi, umiliazioni, e sulle più varie punizioni: e qui si può comprendere come proprio l'attivismo umanitario e la strenua volontà di ricondurre la mente alla retta volontà e alla ragione si prestassero a scatenare, persino nei meglio intenzionati fra i curanti, qualche aspetto di esasperazione, ed eventualmente qualche valenza sadica. Tracce talora cospicue di queste dinamiche persisteranno in tutto l'arco di sviluppo della psichiatria asilare del Novecento.
Per tutto il secolo scorso la psichiatria, soprattutto di lingua tedesca, rimase divisa fra gli autori di tradizione illuminista (detti i Physiker o Somatiker), di cui fu esponente principale W. Griesinger (1817-1869), col passare del tempo più inclini a una visione non tanto pedagogico-rieducativa quanto piuttosto strettamente medica della follia, e altri (i Psychiker) come J.C. Reil (1759-1813), influenzati dalle idee romantiche, e orientati in un senso che oggi diremmo psicologico-psicodinamico. Il prevalere, nel corso degli ultimi decenni del secolo, di una concezione positivista, e dunque biologica della psichiatria, se da un lato eclissò le tematiche riformatrici che avevano reso più umane non poche istituzioni di ricovero fra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, da un altro lato coincise con il successo del tentativo di dare una sistematizzazione descrittivamente più neutrale, e dunque meno moralistica, dei vari tipi di disturbo psichico secondo il modello degli schemi nosografici in uso nella medicina generale.
Il progetto positivista di uno psichiatra italiano destinato a una grande notorietà, Cesare Lombroso (1835-1909), se da un lato può essere considerato, agli occhi del culturalismo anti-biologistico maturato nel secolo successivo, come particolarmente riduzionistico e persino poco umano nella sua rigida tipizzazione stigmatizzante del soggetto antisociale, d'altro lato ebbe a quell'epoca fra i suoi meriti quello di portare una serie di argomenti a favore di una concezione naturalistica dei disturbi psichici (e anche della devianza in genere) contribuendo in modo decisivo a sottrarre la problematica dell'abnorme psichico a quella che era stata fino ad allora una immanente connotazione di biasimo.
Fu soprattutto merito di E. Kraepelin (1856-1926) se i disturbi vennero suddivisi secondo uno schema che, nella sua forma di base, è ancora oggi in uso: a parte dunque le insufficienze mentali e le demenze, e a parte anche il vasto e mal definibile universo delle nevrosi, vennero identificate con chiarezza le psicosi come vere e proprie malattie mentali, distinguendole in psicosi organiche (consecutive a intossicazioni e/o a lesioni cerebrali identificabili) e psicosi funzionali. All'interno delle psicosi funzionali Kraepelin separò la cosiddetta demenza precoce (in seguito denominata da E. Bleuler 'schizofrenia', termine ancor oggi in uso) dalla psicosi maniaco-depressiva.Le prospettive di una medicalizzazione integrale della patologia mentale dettero vita a forti speranze terapeutiche. All'inizio del nuovo secolo, la scoperta della eziologia sifilitica di una psicosi con esito in demenza, la paralisi progressiva, sembrò indicare la strada maestra per l'identificazione di singole cause specifiche per tutti i tipi di disturbi psichici.
In realtà, gli sviluppi ulteriori della psichiatria nel corso del XX secolo sono stati caratterizzati più dalla multidisciplinarità che dal monopolio del biologismo medico, e più da un succedersi di tentativi parziali di spiegazione che dall'affermarsi del modello classico di malattia. Nel corso del Novecento la psichiatria è entrata a far parte, con crescente dignità intellettuale, sia dell'ambito di una serie di discipline biologiche, psicologiche e sociali in piena espansione, sia della stessa cultura medica non specialistica dell'Occidente. Nel corso degli ultimi due decenni dell'Ottocento la nascita della psicologia sperimentale, l'invenzione e poi lo sviluppo dei test mentali, i primi inizi di uno studio sistematico dello sviluppo psichico dei bambini, il diffondersi di un forte interesse per la sessualità normale e patologica (con R. Krafft-Ebing e H. Ellis), lo sviluppo della criminologia, e infine, nel nuovo secolo, la diffusione delle idee di Freud e di Jung, contribuirono a rompere l'isolamento della psichiatria e a definirne le caratteristiche dominanti attuali: cioè i suoi rapporti sempre più stretti con una serie di altre discipline. Dal filone principale della psichiatria clinica si differenziarono, come discipline in crescente espansione e sempre più autonome, sia la psichiatria dell'età evolutiva sia la psichiatria sociale.
Nell'insieme l'ottimismo della psichiatria positivista della fine dell'Ottocento non si rivelò giustificato. Mentre uno degli aspetti più caratteristici del progresso scientifico del nuovo secolo, e fino a oggi, è stato rappresentato dalle conquiste medico-chirurgiche, fino al punto di rivoluzionare, nello spazio di pochi decenni, le prospettive terapeutiche per la maggioranza delle malattie e le stesse aspettative di vita dei singoli, nel campo della psichiatria i progressi sono stati complessivamente molto minori. È emblematico di questa situazione il fatto che la principale, più diffusa e forse più grave malattia psichiatrica, la schizofrenia, oltre a esser dovuta a fattori che ci sono ancora largamente sconosciuti, per quanto sia parzialmente trattabile non è realmente guaribile con i mezzi di cui disponiamo; così, più in generale, oggi, alla fine del Novecento, le terapie dei disturbi psichici nella stragrande maggioranza dei casi non sono affatto risolutive, ma hanno effetti parziali o palliativi.
Da un lato, infatti, l'efficacia della psicanalisi è stata sempre più fondatamente posta in dubbio man mano che trascorrevano i decenni (o comunque è lungi dall'essere dimostrata) mentre, al tempo stesso, nessun altro metodo su base psicologica ha dimostrato, al di là di indubbi, possibili benefici parziali, una propria sicura capacità di guarigione; da un altro lato i metodi fisico-chimici (come gli psicofarmaci) hanno prodotto e producono effetti che sono in genere sintomatici o, tutt'al più, contingenti, cioè efficaci solo nel periodo di somministrazione delle cure; e questo vale anche per quei prodotti chimici, come gli antidepressivi moderni, la cui efficacia è più netta e sicuramente provata.Anche gli sforzi di prevenzione hanno dato risultati complessivamente deludenti, malgrado qualche chiarimento metodologico. Pur essendosi drasticamente ridimensionata con l'andare del tempo l'ipotesi freudiana che singoli traumi psicosessuali siano un fattore patogeno primario, è emersa evidente una correlazione fra le carenze affettive nell'infanzia e lo sviluppo di personalità insicure e nevrotiche: ma l'identificazione di questi e altri fattori patogeni generici non è mai riuscita a tradursi in indicazioni preventive di dimostrata efficacia.
Né, del resto, è stato possibile chiarire la superiorità di un particolare indirizzo terapeutico. Nel nostro secolo la psichiatria risente soprattutto della dialettica, e del contrasto mai risolto, fra l'impostazione medica che tradizionalmente le è propria, e la prospettiva psicologica, e più propriamente psicodinamica. Quest'ultima ha, come è noto, al suo centro la psicanalisi, e quindi le teorie e le proposte terapeutiche di S. Freud, ma riceve apporti cospicui sia da parte della psicologia analitica di C.G. Jung, sia da autori influenzati da Freud ma estranei alla scuola psicanalitica in senso proprio, come A. Adler, H.S. Sullivan, E. Fromm, e molti altri. Qui va certamente imputata alla mancanza di apertura culturale di molti psichiatri la tendenza a rifarsi in modo schematico a un modello medico di malattia, e dunque la resistenza ad aprirsi agli aspetti più validi delle teorie di impronta psicologica: se si escludono le correnti psichiatriche statunitensi limitatamente ai primi decenni del secolo, nell'insieme la psichiatria occidentale ha avuto la tendenza a utilizzare solo in parte gli stimoli delle scuole freudiane, junghiane e post-freudiane.
Peraltro, fin dalla loro fondazione queste scuole psicanalitiche e psicoterapeutiche hanno dimostrato, dal canto loro, una netta tendenza alla chiusura dottrinaria, una scarsa propensione al confronto con la tradizione psichiatrica, e soprattutto, almeno fino agli anni sessanta-settanta, una grande diffidenza verso i tentativi di verifica di qualsiasi tipo circa la loro fondatezza teoretica e la loro efficacia terapeutica.Malgrado questa reciproca distanza, nell'insieme si può supporre che l'influenza delle idee psicodinamiche sulla psichiatria sia stata maggiore di quanto appaia sulla base degli accostamenti formalmente teorizzati. Negli Stati Uniti in primo luogo (in particolare con Adolf Meyer, 1866-1950) e dopo la seconda guerra mondiale in vari paesi europei (la Francia, ma anche la Gran Bretagna) gli orientamenti psicanalitici e psicodinamici hanno introdotto nella tradizione medico-psichiatrica sia una serie di concetti psicologico-clinici di uso quotidiano (come quelli di elaborazione inconscia, di complesso, di rimozione, di razionalizzazione, di meccanismi di difesa, di solidità e coesione dell'Io, ecc.) sia una serie di importanti cautele tecniche nella conduzione del rapporto medico-paziente. Occorre peraltro osservare che la psichiatria si è avvalsa non solo di dati provenienti dalla psicanalisi ma altresì (e forse soprattutto) di dati provenienti dalla psicologia dell'infanzia e dello sviluppo, dalla psicologia sociale, e infine da correnti della psicologia sperimentale come il comportamentismo e, a partire dagli anni settanta, il cognitivismo.
Volendo identificare il principale punto di svolta della psichiatria del XX secolo non si può che essere attratti da un fenomeno che è pratico-terapeutico e sociale più che scientifico o dottrinario, ed è indipendente dal contributo della psicanalisi. Il mutamento principale nel panorama psichiatrico in questo secolo si ha infatti negli anni cinquanta con l'invenzione degli psicofarmaci moderni, e in pratica con l'introduzione dei tranquillanti 'maggiori', o neurolettici. Nello spazio di pochi anni, l'uso di queste nuove categorie di sedativi ha permesso non soltanto di calmare, ma soprattutto di rendere più accessibili al rapporto interpersonale e a iniziative risocializzanti moltissimi pazienti, per lo più schizofrenici cronici, ricoverati nei reparti di lungodegenza degli ospedali psichiatrici e fino ad allora considerati inaccessibili e tendenzialmente violenti.
Quasi contemporaneamente, fra gli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta una serie di denunce e di indagini mise in luce il fatto che una delle cause principali del deteriorarsi fisico e psichico dei ricoverati nei reparti per cronici dei grandi ospedali psichiatrici era data dalla stessa povertà umana di quegli ambienti, e dunque dal carattere arido, impersonale, talora violento dei rapporti del personale medico e paramedico con i pazienti, e persino dalla tendenza a interpretare aspetti difensivi normali del comportamento dei degenti in chiave di patologia.
Sia in primo luogo l'introduzione dei tranquillanti, sia - come fattore quasi altrettanto decisivo - la crescente consapevolezza del carattere disumanizzante dei grandi ospedali per malati mentali, aprirono la strada a una vera rivoluzione nell'organizzazione dell'assistenza psichiatrica, e delle stesse prospettive di cura per i pazienti psicotici più gravi.
Fin dagli anni cinquanta in alcuni paesi la maggior diffusione di ambulatori psichiatrici a disposizione del pubblico iniziò a fare da filtro ai ricoveri; all'interno stesso degli ospedali nacquero, prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti, iniziative di risocializzazione dei ricoverati (in modo tipico, mediante le strutture note come 'comunità terapeutiche') che riprendevano gli aspetti migliori delle forme di 'trattamento morale' in uso nella psichiatria umanitaria all'inizio dell'Ottocento. Il Mental health act del 1959 in Gran Bretagna aprì la strada a una drastica riformulazione della legislazione psichiatrica anche negli altri paesi; nel 1963 John Kennedy firmava una legge federale destinata a sancire il superamento e la scomparsa dei manicomi statali.
Nel corso degli anni sessanta, nei paesi più civili dell'Occidente le grandi istituzioni manicomiali rapidamente si svuotano e vengono riconvertite ad altri usi, mentre sorge una varietà di strutture alternative decentrate e distribuite sul territorio: nascono cioè reparti psichiatrici negli ospedali civili, comunità terapeutiche, ambulatori e centri di pronto soccorso psichiatrici aperti nelle 24 ore, ospedali diurni, ostelli notturni, case-famiglia, centri per alcolisti e in seguito per tossicomani, strutture di riabilitazione per soggetti psico-geriatrici, piccole unità di ricovero per i pazienti cronici più gravi, e così via.Almeno in parte, questa 'rivoluzione psichiatrica' fu anche conseguenza del lievitare dei costi di degenza, e del tentativo di articolare in modo più duttile il rapporto fra l'assistenza psichiatrica pubblica, l'assistenza su base assicurativa e le terapie private.
Nel corso degli anni sessanta, peraltro, e poi ancor più accentuatamente negli anni settanta, una serie di fattori economici e sociali, che comportarono fra l'altro il mancato decollo, o in alcuni Stati il regresso, dei programmi di Welfare State, fece sì che si creasse quasi ovunque uno squilibrio fra il proseguimento dei programmi di dimissione dei degenti dai grandi ospedali psichiatrici, e - dall'altro lato - un insufficiente ritmo di organizzazione di strutture alternative distribuite sul territorio. A questo si aggiunse il fatto che una serie di fattori complessi, indipendenti dalla tematica psichiatrica, determinarono negli stessi anni il crescere di fenomeni di marginalità urbana. Alla formazione di nuove schiere di emarginati dettero il loro contributo percentuali variabili ma talora cospicue di pazienti psichiatrici, soprattutto cronici, espulsi dai luoghi di ricovero ma senza casa e insufficientemente assistiti.In Italia, le inefficienze delle amministrazioni pubbliche e le condizioni di arretratezza di gran parte degli ospedali psichiatrici provinciali fecero sì che il problema del superamento del sistema asilare tradizionale si ponesse con un certo ritardo rispetto ad altri paesi (tanto che il varo di una nuova legge dovette attendere molto a lungo, in pratica fino alla fine degli anni settanta), e con particolare forza polemica.
Fra le esperienze-pilota della seconda metà degli anni sessanta va ricordata quella dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, trasformato per merito del suo direttore, Franco Basaglia, in una comunità terapeutica di tipo aperto, sul modello delle comunità britanniche sperimentate da Maxwell Jones. Altre importanti esperienze di rinnovamento dell'assistenza vi furono a Perugia, Arezzo, Reggio Emilia, Trieste.
A partire dal 1967-1968, in tutto il mondo ma con particolare forza in Italia, il tema generale dei manicomi si legò alle tematiche antiautoritarie tipiche della sinistra giovanile e venne condizionato dal diffondersi delle teorie antipsichiatriche, su cui è il caso di soffermarsi.Occorre sottolineare a questo proposito l'importanza dei temi della psichiatria sociale nei primi anni sessanta. Nell'insieme, la crisi dell'assistenza psichiatrica tradizionale, centrata sulla reclusione manicomiale, aveva reso evidente sia il grado più generale di impotenza della psichiatria come scienza terapeutica, sia gli stretti rapporti che intercorrevano fra la condizione socioeconomica del singolo paziente e la sua probabilità di essere curato e assistito in modo adeguato. Non soltanto gli ospedali psichiatrici si rivelavano pieni di soggetti la cui emarginazione e il cui deterioramento erano la conseguenza congiunta della presenza di un disturbo psichico e di una condizione di partenza di svantaggio sociale, ma più in generale fu evidente che le forme, anche le meno gravi, di devianza comportamentale di competenza psichiatrica venivano tollerate assai meno, e assai più facilmente stigmatizzate e avviate a una carriera di emarginazione, quanto più si aveva a che fare con soggetti di classe sociale sottoprivilegiata, soprattutto se di ambiente urbano.
Queste tematiche critiche si legarono in modo omogeneo alle tesi dei sociologi critici della devianza, come H.S. Becker e in parte E. Goffman. Secondo questi orientamenti i comportamenti devianti e marginali in genere non sono necessariamente la causa dell'etichettamento di devianza che ricevono, ma ne possono essere la conseguenza: in quest'ottica, la devianza psichiatrica - soprattutto quando stabilizzata e cronicizzata - può essere conseguenza della sua stessa gestione sociale e medico-sociale. La teoria critica della devianza contribuì fra l'altro a 'depsichiatrizzare', cioè a derubricare dall'ambito psichiatrico, una serie di problematiche la cui tradizionale connotazione secondo le etichette dell'abnorme psichico non era, in realtà, che la razionalizzazione di inveterati pregiudizi moralistici: in primo luogo e tipicamente, l'omosessualità.
Questo tipo di revisione, nel legarsi a taluni spunti di critica agli aspetti convenzionali della moralità borghese e alla riproposizione di temi neoromantici già vivi nelle avanguardie dell'Ottocento (soprattutto relativi alla rivalutazione della sofferenza come ricerca di autenticità e alla ricerca di forme di coscienza 'alternative' mediante l'uso di droghe), si trovò a essere sospinta su posizioni polemicamente estremistiche per effetto della controcultura giovanile. Ne nacquero alcune correnti di opinione vivacemente critiche sul tema dei disturbi mentali e della loro cura, e globalmente note col nome di antipsichiatria. Il principale fra gli esponenti di queste tendenze fu il britannico R.D. Laing, sostenitore di una opposizione serrata ai valori dominanti di normalità all'interno della famiglia e difensore della possibilità - peraltro già adombrata da C.G. Jung - che l'esperienza della psicosi schizofrenica si configuri come un viaggio interiore di ricerca della propria autenticità.
Un altro antipsichiatra molto noto fu lo statunitense T.S. Szasz, risolutamente contrario a ogni forma di assistenza pubblica e l'unico a sostenere apertamente l'ipotesi che il concetto stesso di malattia mentale sia, in sostanza, un malinteso. In Italia le teorie di F. Basaglia, che godettero di grande popolarità fra il pubblico più sensibile ai temi sociali, furono anch'esse di tipo antipsichiatrico: egli infatti sostenne, in particolare dopo il 1969, l'opportunità che venisse 'messo fra parentesi', e in sostanza accantonato, il problema stesso della natura del disturbo mentale e della sua cura, al fine di dedicare un'esclusiva attenzione ai temi sociali dell'esclusione istituzionale; in questa logica, a suo parere non era importante impegnarsi ad apprestare nuove strutture curativo-assistenziali alternative ai vecchi ospedali, né aggiornare medici o altri operatori sugli orientamenti terapeutici moderni, essendo l'unico vero problema la dissoluzione degli ospedali psichiatrici quale luogo di creazione e perpetuazione della sofferenza.
Come si è visto, la psichiatria studia, oltre che una gamma di disturbi di accertata origine neurologica (o meglio, per lo più, neurobiochimica), anche tutti gli stati di sofferenza soggettiva e di alterazione del comportamento che sono attribuibili, con maggiore o minore certezza, non già a cause organiche, ovvero di competenza medico-biologica, ma a cause funzionali, e cioè strettamente psicologiche. In questi ultimi casi il disturbo psichico consiste in quelle sofferenze e insufficienze e in quegli errori sistematici nella elaborazione dei dati dell'esperienza, e quindi in quelle inadeguatezze nella condotta, che sono dovuti non già a lesioni o disfunzioni cerebrali ma, in pratica, a esperienze pregresse.
In termini molto generali, si ritiene che determinate esperienze di vita, soprattutto infantili, possano venir considerate sfavorevoli alla salute mentale quando siano svantaggiose ai fini dell'apprendimento di tecniche efficaci di sopravvivenza e riproduzione. In altre parole, una constatata insoddisfacente elaborazione attuale dei dati dell'esperienza, da cui risultino significative difficoltà soggettive e inadeguatezze del comportamento, può esser dovuta alla mancata elaborazione di schemi cognitivo-comportamentali ottimali, cioè utili alle necessità della vita quotidiana nel corso del ciclo di vita. Le inadeguatezze delle capacità di elaborazione e risposta sono spesso latenti, e possono rendersi palesi solo quando il soggetto debba affrontare emergenze esistenziali, cioè per esempio in momenti di crisi per particolari circostanze esterne, oppure quando egli debba rispondere a necessità particolari del ciclo di vita come quelle attinenti, nel superamento del periodo giovanile, alla autonomizzazione dalla famiglia di origine, alla sessualità e alla riproduzione.
Lo svantaggio iniziale può avere cause varie ed è per lo più multifattoriale: a seconda dei casi si possono riscontrare gravi carenze affettive nella prima infanzia, ripetuti maltrattamenti e traumatici abbandoni, risposte inadeguate o patologiche da parte di educatori, oppure anche, più sottilmente, progressive difficoltà e insuccessi nello stabilire nuovi validi legami socio-affettivi, secondo una catena di fallimenti ingravescenti e mal compensati che, una volta iniziatisi nell'infanzia, sono tali da rendere il soggetto man mano meno idoneo ad affrontare quelle esperienze più impegnative che, come si è accennato, sono relative ai rapporti tipici dell'adolescenza e poi della vita adulta. In tutti questi casi, almeno, il disturbo psichico è dunque in ultima analisi dovuto a fattori interpersonali e sociali.
Occorre però sottolineare a questo punto che, coerentemente con un indirizzo più generale delle scienze umane e delle stesse scienze mediche, è ormai tramontata l'ipotesi, un tempo data per scontata, per la quale si presumeva che ogni specifico disturbo fosse dovuto a una specifica causa identificabile. Per quanto concerne la grande maggioranza dei disturbi psichici, infatti, è molto probabile che l'insorgere di un disturbo identificabile come tale consista in uno scompenso, o crisi, o breakdown di equilibri già latentemente precari, dovuto al concorrere, o meglio al convergere casuale, di concause diverse, e quindi sia di concause remote sia di fattori attuali: ed è importante osservare che molto spesso è lecito presumere la compresenza di concause (remote o recenti) sia di natura biologico-organica sia di natura psico-ambientale. A questo proposito è bene però anche precisare che per quanto concerne le concause biologiche, ovvero organiche, dei disturbi psichici, verosimilmente le principali e più comuni non riguardano infezioni, traumi o intossicazioni casuali, ma le varianti individuali del patrimonio genetico, dove peraltro i fattori che entrano in gioco non sono omogenei fra loro e non sono tutti necessariamente a carattere patologico.
Malgrado la dispersione inerente a questa multifattorialità, è talora possibile identificare - presuntivamente oppure con maggiore certezza a seconda dei casi - una o poche cause che sono prevalenti nella maggior parte dei casi in cui compaia un dato disturbo. La dispersione delle cause è peraltro molto variabile a seconda del tipo di disturbo: e qui sono opportuni alcuni esempi.Per prendere in primo luogo un campo relativamente semplice, cioè il campo delle demenze, la malattia di Huntington è strettamente biologica essendo dovuta a un gene ereditario che determina il disturbo indipendentemente da fattori ambientali; viceversa le cause della comune demenza senile e presenile, o malattia di Alzheimer, per quanto ancora imperfettamente note, potrebbero dipendere anche da fattori ambientali e abitudini di vita, pur essendo legate prevalentemente a fattori ereditari. O ancora, sappiamo che la demenza vascolare, o 'arteriosclerotica', è legata in larga misura a quei fattori psicologici e psicosociali che determinano, fra l'altro, il tipo di dieta ed eventuali intossicazioni voluttuarie: come tale essa dipende dunque solo in parte da predisposizioni innate, predisposizioni che pure esistono e in taluni soggetti possono assumere notevole importanza. Così, ma in un campo già più controverso, è probabile che le comuni nevrosi, caratterizzate dal sintomo dell'ansia (o dell'angoscia, o del panico, ecc.), siano legate prevalentemente a una costellazione di fattori educativo-affettivi e psicoambientali risalenti - quasi sempre - all'infanzia, pur apparendo esse anche dipendenti da aspetti di personalità legati almeno in parte a tratti ereditari.
Viceversa la schizofrenia, per quanto sia una psicosi la cui origine è in larga misura ancora oscura, sembra insorgere più facilmente quando esista una predisposizione genetica, peraltro non di per sé determinante né forse specifica; invece, il ruolo di questo tipo generale di predisposizione sembra essere dominante nella malinconia patologica o malattia depressiva (che spesso è parte della psicosi 'ciclica', maniaco-depressiva) la quale si presenta, nella maggioranza dei casi, come un disturbo la cui insorgenza e decorso sono largamente indipendenti da esperienze e circostanze di vita. La psichiatria di oggi, per quanto sempre più acutamente consapevole della dimensione umana ed esperienziale della sofferenza psichica, e per quanto più sensibile all'importanza e alla gravità dei problemi sociali inerenti a questa problematica, nel corso degli ultimi tre decenni del Novecento ha nuovamente visto accentuarsi i propri legami con la tradizione medica. Questa evoluzione è dovuta in larga misura alla scoperta dell'importanza dei fattori biochimici e genetici nella patogenesi di molti disturbi psichici.
In misura minore, essa è però anche legata a una valutazione più realistica dei limiti dei trattamenti psicologici, come le psicoterapie e in particolare la psicanalisi, e a qualche significativo successo dei trattamenti psicofarmacologici, soprattutto per quanto riguarda la malattia depressiva e, in modo meno netto, la schizofrenia.Persistono comunque divergenze ideologiche e di scuola fra i fautori di una psichiatria più orientata al biologico, per lo più medici, e i fautori di una psichiatria orientata verso temi psicologici, per lo più psicologi. Queste divergenze sono però soprattutto accentuate fra quei cultori dell'argomento che hanno una formazione professionale meno approfondita. Il pubblico è quindi spesso esposto, dai numerosissimi volenterosi divulgatori, a versioni semplificate di ciò che è la psichiatria, e indotto a parteggiare di volta in volta in modo unilaterale o per indirizzi biologistici (forse rassicuranti nel loro determinismo, ma poco inclini a soffermarsi sugli aspetti umani della tematica psichiatrica), o al contrario per orientamenti psicoterapici, spesso suggestivi ma facilmente inquinati da semplificazioni e incompetenze.
In realtà questi due aspetti non si escludono: e anzi appare oggi evidente il fatto che la comprensione non solo degli aspetti psicologici, ma anche degli aspetti bio-medici presenti nella tematica psichiatrica, incoraggia un'attenzione alla dimensione umana di sofferenza della patologia mentale, e invita a una più acuta sensibilità verso gli aspetti sociali che tipicamente vi si legano.In ogni caso le indagini sui disturbi psichici non possono che tener conto della complessità di ogni percorso esistenziale. In quest'ottica è quasi sempre necessario che lo psichiatra esamini con cura i fattori familiari, educativi, ambientali, e le forme delle difese e degli adattamenti nel corso dell'età evolutiva e durante l'intero ciclo di vita, per giungere a identificare quali siano stati i motivi prevalenti che a un dato soggetto hanno reso man mano più difficile, e poi impossibile, il riuscire a far fronte in modo adeguato agli impegni della realtà.
La psichiatria sociale si occupa di studiare sia l'influenza dei fattori sociali sulla genesi e sul decorso spontaneo dei disturbi psichici (comprendendo quindi in questo tipo di indagine l'epidemiologia psichiatrica) sia il rapporto fra i fattori socioculturali e il trattamento dei disturbi psichici stessi, comprendendo quindi, in quest'ultimo caso, la psichiatria transculturale (per lo più non tenuta separata dall'etnopsichiatria) e lo studio delle variabili socioeconomiche nel trattamento dei disturbi psichici all'interno delle società occidentali. A proposito di psichiatria sociale occorre però considerare che il concetto stesso di psichiatria è legato all'individuo, in quanto il disturbo psichico è eminentemente individuale. I tentativi di identificare disturbi psichici, magari lievi, a carattere collettivo e di massa non hanno prodotto risultati di rilievo: così, per esempio, l'idea di una 'nevrosi della civiltà' o di una 'nevrastenia del progresso' ricorrente negli autori della seconda metà del XIX secolo e presente nello stesso Freud, si è rivelata di prevalente interesse filosofico-culturale, o tutt'al più, forse, psicologico-sociale, ma non è entrata in rapporto organico con i temi propri della psichiatria, che restano ancorati all'idea di una disfunzione mentale inerente alla singola persona.
Ciò non toglie che vadano menzionate alcune eccezioni: in taluni casi infatti, peraltro non frequenti, si può parlare di folie à deux o à trois quando due o tre persone strettamente legate fra loro condividano temi deliranti; in altri casi sono stati segnalati 'contagi' di disturbi dissociativi, cioè di tipo isterico; e persino si parla talora di induzioni psicopatologiche di gruppo quando si abbia a che fare con casi di sette religiose chiuse e fanatizzate, in particolare quando ne nascano elaborazioni ideologiche tendenti al suicidio collettivo. Ma si tratta di evenienze non frequenti né tipiche.
I temi generali della psichiatria sociale mettono in evidenza le difficoltà più generali della psichiatria in rapporto al problema della gestione sociale della devianza. È in questo senso che due problemi fondativi della psichiatria, connessi fra loro, ne fanno una disciplina particolare.Il primo problema consiste nella difficoltà di definire il concetto di abnorme psichico.In parte tale problema deriva da una difficoltà ancora maggiore, che gli è speculare: definire la normalità psichica. A questo proposito occorre osservare che l'evolvere stesso dello studio della psicologia umana, e soprattutto della tradizione psicodinamica e della teoria e della pratica psicanalitico-psicoterapica, ha visto dissolversi, a partire dagli anni sessanta, l'illusione di poter definire un modello generale di normalità psichica adulta, sulla base di categorie quali per esempio 'maturità' (concetto rivelatosi tautologico), oppure 'accesso alla genitalità psicoaffettiva', o altri ancora come 'la capacità di amare e lavorare'. Al contrario, è emerso in modo più chiaro che la naturale tendenza individuale alla realizzazione di sé, e così anche gli sforzi di un qualsiasi soggetto per liberarsi di eventuali disturbi psichici, implicano la ricerca di equilibri che possono rivelarsi estremamente diversi da persona a persona.
Questi equilibri non escludono che un dato soggetto possa realizzare la propria normalità secondo uno stile di vita che fa perno su aspetti della personalità minoritari nella popolazione in generale, quali per esempio il bisogno di una vita molto solitaria, oppure, in altri, il forte bisogno di appartenenza fino alla rinuncia della propria autonomia sociale (per esempio all'interno di gruppi e religioni settarie), o un disinteresse puro e semplice per un progetto di procreazione e fondazione di nuovi nuclei familiari, o l'omosessualità maschile e femminile, o anche, in rari casi, la ricerca di una nuova identità nel cambiamento di sesso. Nell'insieme, mentre è possibile riscontrare una buona concordanza di giudizi per quanto concerne l'identificazione dei disturbi psichici in quanto tali (almeno nelle loro forme tipiche) al contrario è difficile raggiungere un consenso sull'ipotesi, forse già in sé discutibile, che possa esistere un modello generale e transculturale, quindi universale, di salute mentale 'in positivo', cioè capace di andare decisamente al di là di un'idea della salute come assenza di disturbi.
D'altro lato il disturbo psichico, proprio in quanto è consensualmente identificabile come tale ed è ipoteticamente - ma, è lecito aggiungere, ragionevolmente - percepito come disfunzione di facoltà mentali, non è una realtà oggettivabile. Una parte cospicua della difficoltà di stabilire un confine fra normalità e patologia è legata alla carenza di criteri obiettivi di patologia mentale: in pratica, cioè, nella quasi totalità dei casi, la diagnosi di disturbo psichico è più un giudizio condiviso che una constatazione documentabile. La diagnosi viene dunque fatta - esclusivamente o quasi - in base alla valutazione del comportamento del soggetto (nonché alla valutazione di ciò che egli stesso riferisce circa la sua soggettività) e sulla base della raccolta di dati anamnestici circa i suoi disturbi pregressi: in genere, in psichiatria sono assenti o poco rilevanti quei dati obiettivi e quei riscontri biologici che oggi invece sono a fondamento di qualsiasi diagnosi di interesse strettamente medico o chirurgico.
Il terreno pratico su cui questo tema appare più spinoso non riguarda però l'incerto confine, cui si è già accennato, fra normalità e patologia nell'ambito dei disturbi psichici lievi di tipo nevrotico, ma piuttosto talune circostanze cliniche meno frequenti eppure significative sul piano teoretico oltre che sociale. Esistono infatti soggetti non affetti da disturbi psichici palesi e ben identificabili, e che non denunziano chiare sofferenze, ma che pure provocano problemi di convivenza a causa di uno stile comportamentale che non rientra nell'ambito della norma. In parte si tratta di persone che riescono a mantenere un discreto ma non soddisfacente equilibrio dopo esser state affette da disturbi psichici più gravi, come la schizofrenia, da cui sono solo parzialmente guarite; ma non si tratta dei casi più tipici. Per lo più si ha invece a che fare con individui che fin dall'infanzia hanno sviluppato stili cognitivo-comportamentali abnormi: e si parla qui infatti di personalità abnormi, o - in taluni casi - di personalità psicopatiche e sociopatiche, mentre in altri casi la terminologia clinica utilizza tuttora i concetti più tradizionali di caratteropatia e di perversione.
A volte si tratta semplicemente delle varianti statistiche, tanto più rare quanto più estreme, della normale curva gaussiana di distribuzione di caratteristiche universali di personalità come l'estroversione-introversione, la stabilità-instabilità emotiva, la tendenza generale all'euforia o alla depressione, e così via; ma in altri casi si ha invece a che fare, verosimilmente, con la presenza di identificabili nuclei patologici stabili dell'ideazione e del comportamento. Taluni soggetti, per esempio, fin dall'infanzia sembrano caratterizzati da aspetti di autismo (quindi da indifferenza, freddezza, mancanza di sintonia interpersonale); altri sono caratterizzati da una tendenza all'impulsività, all'imprudenza e all'aggressività; altri ancora mostrano aspetti della personalità che sembrano legarsi a carenze più sottili del senso morale; in altri casi ancora una tendenza aggressiva si lega alla sessualità, per esempio quando tendenze sadiche ed eventualmente omicide si associno alla pedofilia.
Per quanto riguarda le cause di queste anomalie della personalità, si può osservare che particolari comportamenti recidivanti di tipo antisociale sono spesso conseguenza di eventi e ambienti di vita estremamente sfavorevoli, come ripetute esperienze di violenze e maltrattamenti nell'infanzia; ma in molti altri casi mancano precedenti di rilievo e si ritiene oggi più che probabile che entrino in gioco fattori genetici e costituzionali. Le prospettive di trattamento e di guarigione sono quasi sempre assai problematiche. Il secondo problema, più concreto e legato al primo, riguarda in generale la psichiatria come repressione. Esso nasce dal fatto che molti casi di gravi disturbi psichici (tipicamente, le demenze e le psicosi) comportano un'alterazione sistematica dell'esame della realtà, che può portare con sé sia, da un lato, comportamenti che mettono a rischio la vita del soggetto stesso, sia, d'altro lato, condotte aggressive e più generalmente antisociali, che il soggetto non è in grado di valutare criticamente.
Questa tematica fonda una separazione pratica fra due psichiatrie: la psichiatria come istanza 'privata' di cura personale, gestita dal soggetto per propria scelta e interesse, e dove il paziente è mandante singolo di un intervento medico e/o psicologico mirato, secondo modalità contrattualmente stabilite, al fine specifico di risolvere i propri problemi e disturbi (come ansie, depressioni, ossessioni, tendenza al bere, e così via); e la psichiatria, invece, 'pubblica', la quale oltre ad avere come scopo l'offerta a tutti di un'assistenza psichiatrica di buon livello ma a basso costo, si incarica di un'istanza normativa generale di salvaguardia dell'interesse dei cittadini e quindi, fra l'altro, di un compito di repressione della devianza psichiatrica. Va notato che, per quanto riguarda la psichiatria 'a mandato pubblico', se il caso più tipico di intervento 'd'autorità' è quello che intende impedire a un soggetto malato di mente di commettere azioni antisociali, dunque contro terzi, il caso più frequente è peraltro quello in cui l'intervento si rende necessario per difendere il soggetto contro se stesso.
Questa evenienza concerne sia, nei casi più tipici e netti, il rischio di suicidio, in particolare quando sia indotto da un episodio di grave depressione patologica ricorrente, sia, in casi meno netti e spesso controversi, quando in seguito a insufficienza mentale, demenza, psicosi schizofrenica cronica, alcolismo o altre tossicomanie, l'individuo, abbandonato a se stesso, si trovi in una condizione mentale tale da vedere compromessa la sua speranza di sopravvivenza fisica a medio termine. Un caso analogo e peraltro particolare è quello degli episodi maniacali, che sono caratterizzati da un illusorio 'vissuto' soggettivo di piena salute ed estremo ottimismo, e dalla tendenza a comportamenti grandiosi, imprudenti, spesso aggressivi, talora seriamente rischiosi non solo sul piano sociale, ma anche sul terreno più elementare della tutela della propria salute.In tutti questi casi si pone il problema di quando, con che limiti, e da parte di chi, sia necessario espropriare il soggetto della capacità di disporre di sé.
Il problema si può porre come esigenza continuativa, per esempio quando risultino misure ragionevoli i procedimenti di restrizioni di movimento e di autonomia, come accade nelle demenze senili, oppure in modo contingente, quando è presente un disturbo psicotico in una fase di esacerbazione decisamente grave ma presumibilmente transitoria. In Italia come in altri paesi, il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), deciso dallo psichiatra, si traduce nel ricovero immediato in un centro ospedaliero attrezzato per le emergenze psichiatriche.Nei casi più marcati di alienazione dalla realtà (per esempio negli stati di agitazione dovuti a psicosi acute febbrili confusionali) non vi sono dubbi sulla opportunità di limitare l'autonomia fisica di un soggetto palesemente non compos sui, nel nome del suo interesse più immediato. Ma nella pratica sono numerosi i casi in cui l'interessato non è affatto classificabile come 'incapace di intendere e di volere' e appare sia lucido e calmo, sia capace di una efficace dialettica verbale, pur presentando, a seconda dei casi, o un disturbo psicotico non immediatamente evidente che in qualche caso può indurlo a comportamenti abnormi (per esempio a un tipo di delirio sistematico), oppure anche un disturbo della personalità (v. più sopra) suscettibile di esporlo, o esporre altri in futuro, a qualche rischio significativo.
D'altro lato esiste il pericolo, molto sentito da alcuni decenni, di ledere, nel nome della psichiatria, la libertà personale e più in generale l'autonoma dignità e i diritti di persone che sono in grado di valutare in modo sufficientemente realistico le conseguenze delle proprie azioni. Il problema nasce dunque quando queste stesse persone sono, malgrado ciò, portatrici di problematiche psichiatriche di qualche rilievo. L'esistenza stessa di questi casi, non rari, imporrebbe - almeno in teoria - l'elaborazione di una normativa capace da un lato di prevenire comportamenti antisociali dovuti a patologia mentale, dall'altro di impedire che nel nome della psichiatria vengano commessi abusi e violenze (come ricoveri forzati non necessari e trattamenti sedativi ingiustificati) o vengano proposte restrizioni diffuse nei principî fondamentali di autodeterminazione nella vita quotidiana dei cittadini. Non si può dire però che finora siano state elaborate formule o soluzioni pratiche tali da porre in soddisfacente equilibrio queste due esigenze contrastanti: da un lato infatti i comportamenti antisociali dovuti a patologia mentale non sono sempre prevedibili né tanto meno trattabili preventivamente; dall'altro lato l'esperienza ha dimostrato che gli eccessi restrittivi verso persone sofferenti di disturbi psichici sono particolarmente facili a verificarsi, probabilmente anche in rapporto al fatto che la devianza attribuita a patologia mentale suscita molto facilmente, nelle persone sane, reazioni psicologiche punitivo-aggressive.
Si può osservare che il dilemma è formalmente identico a quello che si pone in altri campi, per esempio per quanto concerne i rischi sociopolitici inerenti al possibile diffondersi di provvedimenti di censura e proibizione nei confronti di spettacoli televisivi o di messaggi elettronici 'in rete' giudicati pericolosi in quanto favoriscono la violenza fisica o la promiscuità sessuale fra i minori.Nei casi quindi in cui il disturbo non è immediatamente allarmante ed evidente, e in cui risulta particolarmente difficile decidere se restringere la libertà di un individuo che non intende curarsi oppure se appellarsi agli aspetti più sani della sua mente lasciandolo libero di disporre di sé e della sua autonoma capacità di giudizio, vi è oggi la tendenza a non intervenire con tentativi di terapie, colloqui o forme di assistenza che non siano accettati dall'interessato, né tanto meno con provvedimenti limitativi o coercitivi non sicuramente necessari.
In pratica, a parte le evenienze che giustifichino classici provvedimenti giuridici, come quello dell'interdizione (per esempio di anziani dementi), la tendenza attuale è di intervenire d'autorità restringendo la libertà di movimenti del soggetto (tipicamente, col ricovero) soltanto quando, a seconda dei casi: a) non vi sia alcuna autosufficienza né una minimale assistenza familiare nelle attività basilari della vita quotidiana (coprirsi, cibarsi, ecc.); oppure, b) il rischio di non-sopravvivenza (per esempio per suicidio) sia serio a breve o medio termine; o ancora, c) si presenti altrettanto incombente il rischio di gravi comportamenti violenti.
(V. anche Etnopsichiatria; Personalità: disturbi della personalità; Sanità: medicina e società).
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