PSICHIATRIA (XXVIII, p. 446; App. II, 11, p. 624; III, 11, p. 514)
La p. in questi ultimi vent'anni ha presentato un notevole sviluppo, legato soprattutto ai progressi della psicofarmacologia, all'acquisizione di nuove forme di psicoterapia e agli apporti di altre discipline, quali la sociologia, l'ecologia, la psicologia, in particolare quella transculturale. Questo progresso si è tradotto in un generale innalzamento del livello terapeutico che ha trovato la sua massima espressione nella scomparsa, o estrema rarefazione, di alcune malattie, quali le psicosi esogene, in una più opportuna impostazione dei problemi terapeutici, nel miglioramento del rapporto medico-malato e società-malato, nel rinnovamento delle istituzioni psichiatriche. Indubbia importanza ha avuto la corrente socio-politica, che, pur con le sue espressioni tendenzialmente rivoluzionarie, ha scosso l'opinione pubblica e gli enti pubblici inclini a gestire la "malattia mentale" in modo escludente e custodialistico.
Terapie psicofarmacologiche ed evoluzione dell'assistenza psichiatrica. - La comunicazione di J. Delay, P. Deniker, J. M. Harl (1952) sulle proprietà terapeutiche della clorpromazina e la descrizione, di poco successiva, delle sue proprietà neurolettiche segnano l'inizio dell'era psicofarmacologica in psichiatria. I citati autori avevano fatto ricorso a questo fenotiazinico, sintetizzato da P. Charpentier (1950) e già impiegato da H. Laborit nell'ibernazione artificiale (v. anestesia, App. III, 1, p. 96), nella ricerca di un metodo di terapia del sonno che non avesse la tossicità del metodo di J. Klaesi (1922) e non presentasse le difficoltà pratiche della versione pavloviana, basata sui riflessi condizionati, con la quale la terapia del sonno era ritornata d'attualità: la clorpromazina, associata nel cosiddetto "coktail litico" a un barbiturico e a un antistaminico dei quali potenziava l'azione, avrebbe permesso, come infatti avvenne, l'induzione del sonno con una dose relativamente bassa di barbiturici. I risultati superarono le previsioni: una loro sagace valutazione, infatti, dimostrò che la clorpromazina, oltre all'azione ganglioplegica e indipendentemente dall'intervento del sonno, aveva un'azione specifica su alcune sindromi psichiatriche. Questa scoperta consentì una condotta terapeutica più agevole e, soprattutto, più efficace: la possibilità di praticare la cura in stato di veglia eliminò quegli angusti limiti di tempo, cui la terapia in stato di sonno era costretta, e rese possibile adattare il dosaggio del farmaco alle necessità cliniche contingenti.
Nel 1954 alla clorpromazina si affiancò la reserpina, un alcaloide della Rauwolfia serpentina, che, preso primitivamente in considerazione come ipotensivo, aveva rivelato un'analoga efficacia su alcuni sintomi delle psicosi, quali i deliri e le allucinazioni. Rapidamente, avendo a guida le proprietà farmacodinamiche di questi composti e con l'intento di poter svolgere un'azione più incisiva sui cosiddetti "sintomi bersaglio" (P. A. Lambert) delle psicosi (ansia, deliri, allucinazioni, catatonia, agitazione) s'individuarono nuovi altri farmaci, alcuni nell'ambito delle fenotiazine (fenotiazine a catena alifatica: promazina; a catena laterale piperazinica: trifluperazina; a catena laterale piperidinica: tioridazina), oppure nel gruppo dei butirrofenoni (derivati da un analgesico: la dextromoramide) i più importanti dei quali sono l'haloperidolo e il triperidolo, e, nel gruppo dei tioxanteni, il clorprotixene, il clorpentixolo e il tiotixene. Questi farmaci agiscono essenzialmente sulla sostanza reticolare mesodiencefalica e talamica, filtro delle afferenze sensitive periferiche, sull'ipotalamo e sui circuiti cerebrali che regolano la vita emotiva; modificano le amine biogene cerebrali, specie la serotonina cerebrale che, pur rappresentando solamente l'i % della serotonina corporea totale, sembra avere una notevole importanza nella nostra vita psichica; svolgono, inoltre, un'azione simpaticolitica e in minore misura parasimpaticolitica; soprattutto agiscono sul sistema nervoso extrapiramidale provocando segni di sofferenza che saranno descritti più avanti a proposito degli effetti collaterali negativi. Per questa "presa" su importanti funzioni neurologiche, che li distingue dai comuni sedativi, da Delay e Deniker sono stati riuniti nel gruppo dei "neurolettici".
Altri farmaci, il cui impiego si è rivelato particolarmente utile in terapia psichiatrica, sono rappresentati dai tranquillanti e dagli anti-depressivi.
I tranquillanti, detti tranquillanti minori in quelle classificazioni che denominano i neurolettici tranquillanti maggiori, sono rappresentati essenzialmente dai derivati del propandiolo e delle benzodiazepine. Al primo gruppo appartiene il meprobramato o 2-metil-2-n-propil-1,3-propandiolo dicarbamato, sintetizzato da B. J. Ludwig ed E. C. Piech nel 1951, sviluppando le ricerche di R. F. Riley e F. M. Berger sui dicarbamati del propandiolo. Il meprobramato svolge un'azione ansiolitica e solo leggermente ipnotica, probabilmente agendo elettivamente sul talamo e sul sistema limbico; negli esperimenti sull'animale ha un'azione miorilassante, che, a seconda dell'entità delle dosi, può comportare la scomparsa dei riflessi e la paralisi flaccida. Al gruppo delle benzodiazepine appartiene il clordiazepossido, o 7-cloro-2-metilamino-5-fenil-3h-1,4-benzodiazepin-4-ossido, la cui sintesi è stata comunicata da L. H. Stembach ed E. Reeder (1961) e il cui studio farmacologico è dovuto a L. Randall e collaboratori. Questo tranquillante è il capostipite di una lunga serie di prodotti (diazepam, oxazepam, nitrazepam, lorazepam, bromazepam, ecc.), che agirebbero sul sistema limbico. All'azione ansiolitica e leggermente ipnotica accoppiano un'azione sul circolo, di cui moderano la tachicardia da ansia; intervengono beneficamente, inoltre, sull'irrequietezza provocata dalle fenotiazine e su alcuni disturbi dell'epilessia psicomotoria.
Gli antidepressivi (o timoanalettici) sono farmaci che hanno la proprietà di aumentare la concentrazione delle catecolamine a livello delle giunzioni sinaptiche: alcuni svolgono tale azione inibendo le monoaminoossidasi (abbr.: MAO), gli enzimi che le metabolizzano; altri impedendo il parziale recupero delle catecolamine all'interno delle terminazioni sinaptiche e, forse, anche aumentandone la velocità di sintesi. Al gruppo degl'inibitori, che sono detti I-MAO o anti-MAO, appartengono la fenelzina, la nialamide, l'ipocarbossazide, la tranicilpromina, la triptamina; al secondo gruppo, che è detto degli antidepressivi triciclici per la presenza di tre anelli nella loro struttura, appartengono l'imipramina, l'amitriptilina, la clorimipramina, la nortriptilina, ecc. L'efficacia degli antidepressivi permette in molti casi di evitare il ricorso alle terapie elettroconvulsivanti.
Rischi e risultati terapeutici delle terapie psicofarmacologiche. - La possibile induzione di effetti collaterali negativi imprime una particolare delicatezza alle cure psicofarmacologiche. I neurolettici, specie nelle cure protratte e in dosi elevate, tendono a dar luogo a manifestazioni di natura extra-piramidale (ipertonia, acinesia, ipercinesie varie, ecc.) e neurovegetative (alterazione della regolazione termica, della secrezione salivare, della peristalsi intestinale). Inoltre, sia con i neurolettici sia con i timolettici, si possono avere: a carico del sistema circolatorio, alterazioni della regolazione della pressione arteriosa con fenomeni di ortostatismo che possono dar luogo a episodi lipotimici, e anche alterazioni elettrocardiografiche reversibili; a carico della cute, eczemi, acne, eruzioni orticarioidi; a carico del cavo orale, gengiviti ipertrofiche, lingua saburrale o disepitelizzata, per atrofia delle papille o per la proliferazione di particolari miceti. Si tratta, però, d'inconvenienti che possono essere prevenuti, o ridotti al minimo, con un'accorta condotta della cura e che sono controbilanciati dai risultati terapeutici.
Particolarmente significativi sono quelli ottenuti nella psicosi depressiva, sia essa endogena, reattiva o involutiva, e quelli conseguiti nel vasto campo delle psiconevrosi, che, pur restando campo d'elezione delle psicoterapie, spesso possono essere beneficamente influenzate da dosi appropriate di ansiolitici e di antidepressivi. Per quanto concerne la schizofrenia non si può certo dire che il suo problema terapeutico sia stato risolto dagli psicofarmaci: pur tuttavia gli effetti che essi inducono (sedazione, remissione dell'attività allucinatoria e di quella delirante, ristrutturazione, sia pure parziale, della personalità, miglioramento del contatto con la realtà) hanno reso possibile, per moltissimi casi, le cure domiciliari, abbreviato la degenza in ospedale e modificato lo stesso ambiente ospedaliero. Il numero delle dimissioni rapportato ai ricoveri, che in Italia nel 1954, all'inizio dell'era farmacologica, era dell'87%, nel 1965 è arrivato al 94%.
Evoluzione dell'assistenza psichiatrica. - Il riordinamento delle funzioni psichiche, indotto nei pazienti psichiatrici dalle terapie farmacologiche, ha posto i medici e gl'infermieri degli ospedali psichiatrici di fronte al problema di gestire malati che non giacevano più abbandonati nei lettini o nei cortili, ma riproponevano un trattamento diverso, strutture più adeguate e il coinvolgimento dei familiari al loro reinserimento sociale. Indipendentemente da questi progressi della terapia psichiatrica, sotto la spinta ideologica e politica di alcuni psichiatri, si sono sviluppate nuove forme assistenziali. In Inghilterra prima e poi in Italia, è sorta la "comunità terapeutica" col suo specifico significato di smembramento di un sistema ospedaliero assistenziale rigidamente gerarchico e conseguente possibilità per i malati di gestire la propria degenza in un clima sociale dove ogni persona possa esprimersi, gestire la propria malattia e i propri spazi liberi, dove possa sentirsi persona responsabile e non semplicemente un "escluso" senza alcuna possibilità di espressione.
Nel giro di pochi anni diventano anacronistici non solo gli ospedali psichiatrici tradizionali, con le loro brutture carcerarie, ma anche quelle forme improntate a una maggior socialità e strutturate a "villaggio", perché anche in esse, a dispetto delle intenzioni, la reclusione e l'esclusione dei malati sono solo mistificate. In Italia, l'inizio di un nuovo corso nell'assistenza psichiatrica è affatto recente e può essere ravvisato nella l. 13 maggio 1978, n. 180, concernente gli "Accertamenti volontari e obbligatori", che sposta il centro di gravità dell'assistenza psichiatrica sul territorio, abolisce gli ospedali psichiatrici e stabilisce che i trattamenti psichiatrici obbligatori necessitanti il ricovero siano effettuati negli ospedali generali, in appositi "servizi" collegati con le organizzazioni del territorio.
Igiene mentale. - Per igiene mentale s'intende la disciplina che mira a prevenire o ad attenuare gli effetti di quei fattori che, agendo nella famiglia, nella scuola, nell'ambiente sociale e di lavoro, possono danneggiare la sanità mentale degl'individui. Oltre a quelli della famiglia, della scuola e del lavoro, temi di particolare interesse per questa disciplina sono i problemi dell'adolescenza, della vecchiaia, quelli dell'alcolismo, della droga e del suicidio, in quanto piaghe sociali, gli eventuali rapporti tra stratificazione sociale e malattie mentali e, per le ovvie connessioni, l'epidemiologia e l'ecologia psichiatriche e la p. transculturale.
Sul tema della famiglia, gli studi imperniati sui suoi aspetti etnici e sociali, sull'interferenza esercitata da fattori disturbanti, rappresentati dalla presenza di malattie o di condotte tossicomaniche (droga e alcolismo) oppure dalla mancanza, fisica o morale, di una o di entrambe le figure genitoriali hanno portato a interessanti osservazioni concernenti le frustrazioni precoci, la delinquenza minorile e le sociopatie in genere. In data recente, accanto e in contrapposizione a questo indirizzo tradizionale, si è sviluppata una corrente di studi del tutto nuova, ad opera di studiosi di varia formazione (G. Bateson, P. Watzlawick, J. Haley), che hanno introdotto nelle ricerche sulla famiglia strumenti culturali sino ad ora estranei al pensiero psichiatrico e tratti dalla teoria dell'informazione, dalla cibernetica, dalla teoria logico-matematica dei gruppi e dalla teoria generale dei sistemi. I contributi di questi autori, che dal nome della località californiana in cui operano sono cumulativamente indicati come "Gruppo di Palo Alto", concernono un'originale interpretazione della schizofrenia e la patogenesi dì particolari condizioni psichiatriche, quali l'angoscia, l'ossessività, il suicidio adolescenziale, l'anoressia psichica.
Pur non escludendo una possibile predisposizione genetica (G. Bateson, 1968), l'insorgenza della schizofrenia da questi autori è attribuita a un errore della "comunicazione umana" nell'ambito delle dinamiche familiari: nella famiglia, in cui un membro è diagnosticato come schizofrenico, questi sarebbe vittima di un certo tipo di comunicazioni, definito da Bateson "doppio legame", per cui si verrebbe a trovare sul piano verbale, sul piano mimico, di fronte a due asserzioni contraddittorie (per es. "ti ordino di disubbidirmi". L'individuo malato, "paziente designato", si comporta come se avesse perso la capacità di distinguere il vero significato sia dei segnali propri che dei segnali altrui e nell'ambito dell'intera famiglia i vari membri "tenterebbero" di evitare di definire il rapporto che li lega gli uni agli altri; con il negare o con il privare di significato tutti o parte degli elementi dei loro messaggi.
A queste concezioni si rifà R. D. Laing (n. 1927), un esponente dell'antipsichiatria inglese, che nel comportamento della famiglia e della società ravvisa un processo di "mistificazione", inteso a salvaguardare l'omeostasi familiare e l'integrità dei valori sociali. Questa dinamica mistificatoria concorrerebbe nell'induzione della posizione di "doppio legame" o, per usare la suggestiva espressione di Laing, a bloccare il paziente in una posizione di "scacco matto": ne aggraverebbe l'angoscia, gl'impedirebbe di riconoscere la propria identità e finirebbe col costringerlo a evadere nel mondo del delirio e dell'incoordinazione.
Lo studio delle alterazioni psichiche cui il bambino e l'adolescente possono andare soggetti nella scuola o che vi possono avere un particolare rilievo ha portato al superamento di concezioni proprie dell'insegnamento tradizionale: le ricerche sul ritardo del bambino hanno preso in considerazione non solo gli aspetti intellettivi e il singolo soggetto, ma anche il rapporto insegnante-scolaro e scolaro-scolaro; queste osservazioni hanno portato a evitare l'esclusione del bambino in classi differenziali e a preferire il suo inserimento in classi comuni, dandogli occasione di responsabilizzarsi nelle scelte secondo le proprie attitudini e nella discussione dei vari argomenti con gl'insegnanti. Ampio spazio hanno pure trovato lo studio e il trattamento di quelle forme (fobie, accentuata emotività, aggressività) dell'età scolare, che, se non seguite tempestivamente, potrebbero portare a più gravi danni nell'età adulta.
Per quanto concerne l'igiene mentale dell'attività lavorativa, dati statistici molto recenti hanno messo in evidenza come alcuni lavori favoriscano l'insorgenza di vere e proprie nevrosi d'ansia e di disturbi psicosomatici, quali ulcere duodenali, ipertensione arteriosa, cefalee: in particolare, le ulcere gastriche e duodenali, che sono frequenti negli agglomerati industriali, sono rarissime al di fuori della cosiddetta "civiltà industriale", come suggeriscono la scarsa incidenza di queste malattie fra i Bantù (0,4% su 1144 autopsie) e il loro ancor più scarso reperto su 1800 autopsie praticate nella città di Nairobi (G. C. Reda, 1971). Oggetto di studio sono state non solo le condizioni ambientali generali, ma soprattutto i rapporti del lavoratore coi datori di lavoro, i problemi della sua famiglia, il grado di consapevolezza e di partecipazione che esprime nel lavoro, la prevenzione di opprimenti sentimenti di oggettivazione, la tutela della personalità e anche i rapporti interpersonali nel tempo libero, che potrebbero esser causa di sentimenti di frustrazione.
Epidemiologia ed ecologia. - L'epidemiologia psichiatrica studia l'incidenza dei disturbi psichici o di specifiche malattie mentali in determinate zone o regioni, al fine di stabilire se fattori ambientali, ecologici, urbani e altri favoriscano o meno l'addensarsi di malattie mentali. Sono indagini che risentono della carenza di modelli univoci di riferimento sia per quanto attiene all'apprezzamento delle diverse condizioni morbose da parte dei ricercatori, sia per quanto concerne la loro denuncia da parte delle popolazioni, di modo che, anche quando sono condotte da gruppi ben preparati, provvisti di mezzi adeguati e scevri da prevenzioni ideologiche, spesso approdano a risultati approssimativi, non generalizzabili o addirittura contrastanti. In questo senso, tipico è il caso offerto dalle indagini di R. E. L. Faris (1934), di E. Faris (1937) e di B. J. F. Laubscher (1937) sull'incidenza della schizofrenia nella popolazione Bantù, conclusesi quelle dei primi due autori per l'assenza di questa malattia e quelle di Laubscher per la presenza di numerosi casi. Anche nelle indagini sull'incidenza delle malattie mentali in una determinata città è difficile trovare un parametro valido: non si può fare riferimento al numero dei ricoverati in ospedale psichiatrico per l'ovvio motivo che dal computo verrebbero esclusi i malati dimessi o quelli che hanno potuto evitare il ricovero; parimenti non può essere utile il raffronto fra la percentuale di malati presenti nella popolazione di città con quella delle campagne, per la maggior accettazione che gli ambienti rurali hanno per questi malati. Per tali motivi ha destato particolare interesse il metodo seguito da R. E. L. Faris e H. W. Dunham, consistente nel controllare le modalità della distribuzione delle differenti malattie in zone concentriche di una stessa città: pur tuttavia anche i risultati di queste ricerche non sono stati confortanti, perché mentre a Chicago, e così a Seattle e a Colombus, si è notata una maggior incidenza di schizofrenia e di psicosi di origine organica nelle zone centrali e una distribuzione "a caso" nelle varie zone della psicosi maniaco depressiva, a Milwakee è stato verificato il contrario: la psicosi maniaco depressiva addensata nelle zone centrali e la schizofrenia distribuita a caso.
Quello che a tutt'oggi si può dire è che la schizofrenia è presente, più o meno con la medesima incidenza, sia nei popoli industrializzati, sia in quelli a vita nomade, sia in quelli a struttura tribale; per la psicosi depressiva si sono trovate differenze nell'espressione della sintomatologia, ma non differenze statistiche geografiche.
L'Organizzazione mondiale della sanità ha una funzione di guida in quest'ordine di ricerche e assieme ad altri centri di studio indipendenti ha dato impulso a ricerche legate più strettamente all'ambiente, per cui si può parlare di una moderna ecologia psichiatrica. L'ecologia umana è una dilatazione assai recente di una scienza che riguarda l'uomo solo indirettamente e secondariamente e che dev'essere centrata sull'ambiente che circonda l'uomo inteso come singolo e soprattutto come gruppo (G. C. Reda). È chiaro che deve basarsi su un carrefour di discipline diverse in cui necessariamente devono confluire l'etnologia, l'etologia, la sociologia, la psicologia e la p., oltre a quelle più strettamente geografiche e climatiche.
L'influenza che hanno per i disturbi psichici i rumori, lo smog, la mancanza di zone verdi, l'igiene delle abitazioni, la struttura delle città sono state oggetto di pubblicazioni di architettura psichiatrica. Tra queste sono da ricordare lo studio di D. M. Wilner e collaboratori (1962) sugli effetti della diversa qualità degli alloggi sulla salute mentale e fisica, quelli di Y. Pelissier e di J. Sutter sull'importanza psicologica delle condizioni spaziali e i lavori di P. H. Chombart de Lauwe che ha stabilito per i bambini un limite pericoloso di sovraffollamento compreso fra 2 e 2,5 abitanti per vano.
Nell'ambito dell'ecologia psichiatrica ha particolare importanza lo studio di certe situazioni ecologiche più strettamente umane, come le immigrazioni e le classi sociali. Gl'immigrati, rispetto all'ambiente in cui s'inseriscono, costituiscono una situazione ecologica affatto particolare, un isolato ecologico. Ovviamente, la valutazione deve tener conto di molti fattori: l'ambiente geografico, economico e socioculturale di provenienza, l'indice di morbilità psichica nella popolazione di origine, la distinzione dei disturbi psichici provocati dall'immigrazione da quelli che, già latenti, ne sono stati solamente attivati, l'età dei singoli soggetti, la costituzione delle loro famiglie, l'ambiente fisico delle loro dimore (baracche, camere sovraffollate), le strutture organizzative e le capacità recettive della città che li accoglie. Pelissier (1964) ritiene che il trapianto nel nuovo ambiente possa dare origine a due varietà di reazioni: una, che è immediata e simile alla reazione catastrofica descritta dagli autori anglosassoni, si manifesta con ansia, depressione, stupore, comportamenti paradossali e può durare da qualche giorno a qualche settimana; la seconda varietà di reazione è tardiva, legata alle difficoltà d'inserimento più che alla personalità e comprende due tipi opposti di manifestazioni: una "sindrome negativa", imperniata essenzialmente sulla nostalgia, sull'assenza degli amici e delle cose familiari; una "sindrome positiva", che conduce alla costituzione di comunità riproducenti gli stereotipi culturali (tradizioni, folclore) di quelle d'origine; con relativa frequenza si osservano depressione e alcolismo. Fra gli emigrati dall'Italia meridionale sono state notate reazioni schizofreniche (tipo crisi deliranti) con sviluppo di tematiche di fattura e di malocchio, come risposta a conflitti insorti nel corso di relazioni affettive con persone del luogo. L. Srole e collaboratori hanno eseguito un'indagine negl'immigrati negli Stati Uniti e hanno trovato negl'immigrati recenti una percentuale di disturbi gravi nettamente superiore a quella riscontrata nei loro figli, nati nel nuovo ambiente ecologico. La "classe sociale", come parametro ecologico, è stata studiata da A. de Belmont Hollingshead e F. C. Redlich (1958) nella popolazione dell'area metropolitana della città di New Haven (236.940 ab.): vi hanno considerato cinque classi sociali, con riferimento all'area di residenza, alla scolarità e all'occupazione; il loro studio ha messo in evidenza una diversa distribuzione delle differenti manifestazioni morbose (neurosi caratteriali, reazioni immature antisociali, neurosi fobico-ansiose e psicosi) nelle differenti classi sociali, ma gli stessi autori non hanno ritenuto di poter concludere per un intervento del fattore classe sociale nella psicogenesi delle anzidette sindromi.
Psichiatria transculturale. - È una disciplina strettamente connessa con l'epidemiologia psichiatrica, per l'importanza che ha l'ambiente - nei suoi aspetti naturali, sociali, economici e politici - nel determinare i modelli specifici con cui gl'individui percepiscono ed elaborano la realtà che li circonda e per l'influsso che, di conseguenza, esso esercita sui loro comportamenti. L'ambiente culturale fornisce all'individuo gli elementi d'orientamento per lo sviluppo dei programmi comportamentali conformi ai valori trasmessi dalla cultura stessa e quindi accettabile dai suoi membri. Per questo motivo è giustificato il riferimento alla teoria della dissonanza cognitiva di L. Festinger per cui un individuo è portato a indirizzare i suoi programmi comportamentali verso decisioni che siano il meno possibile in dissonanza con le mete a cui la sua cultura, almeno sul piano cognitivo, l'orienta. Quando questo non avviene è la cultura stessa a definire deviante o malato l'individuo che entra in "dissonanza cognitiva" a causa di un comportamento diretto in un modo troppo diverso dalle variabili comportamentali che l'ambiente in cui vive gli propone.
Temi attuali della p. transculturale sono: 1) descrivere ed esaminare la patologia psichiatrica come viene definita in culture che per situazioni ambientali sociali e storiche siano notevolmente lontane dalla cultura occidentale; 2) considerare come le diverse culture si pongono di fronte a individui che manifestano un medesimo disturbo psichico; 3) cercare le analogie e le differenze (sia da un punto di vista statistico di frequenza percentuale, sia da un punto di vista sintomatologico) che esistono nelle varie sindromi psichiatriche.
Tra le sindromi che assumono caratteristiche del tutto peculiari e che possono essere considerate come esclusive di determinate civiltà e culture, si possono ricordare: l'Amok, la psicosi Windigo e la cosiddetta morte voodoo. L'Amok, che è una sindrome osservata soprattutto in Malesi, presenta una prima fase di tipo nevrasteniforme, una seconda fase con ansia, aggressività, idee persecutorie e fenomeni di depersonalizzazione, una terza fase, la più drammatica, in cui il malato improvvisamente esplode in un urlo terrificante, balza in piedi, afferra armi e si scaglia sul primo essere che incontra, uomo o animale che sia. Nel vero Amok il malato non sfugge alla morte, perché egli continua nella sua furiosa aggressività fino a che non viene a sua volta ucciso.
La psicosi Windigo è essenzialmente una forma depressiva, che inizia con un sogno in cui compare uno stregone che trasforma l'individuo in un "windigo", che, nella credenza popolare degl'Indiani di alcune tribù dell'America nord-orientale, è un essere enorme con cuore di ghiaccio, che divora esseri umani. Al risveglio l'individuo è convinto dell'avvenuta trasformazione, accusa nausea, vomito, cade in uno stato meditabondo e s'isola in una profonda malinconia, con anoressia e insonnia. Anche l'epilogo di questa forma può raggiungere un livello di estrema drammaticità: il malato può pervenire a uccidere alcuni componenti della sua famiglia e a divorarli. Interessante sul piano transculturale il fatto che presso quelle tribù il cannibalismo è ammesso nei periodi di grave carestia come unica possibilità di sopravvivenza: il cannibalismo del Windigo esprimerebbe un estremo bisogno di riempire una profonda carenza affettiva.
La morte voodoo si osserva tra i contadini haitiani e consiste in una psicosi confusionale acuta che può evolvere in schizofrenia. I sacerdoti locali interpretano queste forme come possessioni demoniache e secondo il modello culturale la caduta in trance con allucinazioni e deliri esprimerebbe l'aspirazione di molti contadini a divenire sacerdoti: solo la capacità di cadere in trance volutamente e di volutamente ricomporsi, distingue il sacerdote iniziato dal malato.
Altre forme da ricordare sono il Miryachit che si riscontra in Siberia, l'Imu tra gli Ainu del nord del Giappone e il Latah soprattutto in Malesia, i quali rappresentano sindromi di "imitazione" che ricordano la sintomatologia isterica della nostra cultura.
Il grado e le modalità di accettazione per un determinato disturbo psichico possono presentare interessanti variazioni nelle singole culture. Nei paesi a cultura tradizionale i disturbi di tipo isterico sono oggetto di accettazione pietosa e di maggior comprensione che in quelli a cultura occidentale e, probabilmente per un difetto di emancipazione, sono anche più frequenti. Per quanto riguarda la depressione in alcuni paesi poveri e con vita estremamente difficile, essa viene considerata come logica reazione affettiva. In paesi con educazione giudaico-cristiana è più frequente la depressione morale con senso di colpa e idee di suicidio, mentre in paesi a civiltà tribale la depressione raramente esprime sensi di colpa e di autosvalutazione perché il senso di responsabilità è minore ed è riversato nel gruppo e nella comunità. Anche il suicidio in queste culture è dieci volte inferiore, nei depressi, a quelli degli Stati Uniti, venticinque volte inferiore a quelli della Danimarca. Secondo H. Lenz la differenza dei quadri depressivi tra i popoli a cultura tribale e quelli industrializzati è dovuta al fatto che il primitivo non sente la "voce della coscienza", e il rapporto con la divinità è per lui quello che è il rapporto dell'occidentale con la propria coscienza.
Per quanto concerne infine il rapporto fra cultura e quadro psicopatologico si può dire che la cultura vi esercita un'azione patoplastica, nel senso che il malato immette nel contenuto dei propri disturbi esperienze, credenze, elementi educativi e modalità di rapporto col gruppo. Secondo gli studi di Amara, in Africa le forme schizofreniche più frequenti sono la catatonica e quella con eccitamento acuto: frequenti le allucinazioni uditive attribuite alla voce di Dio o del diavolo, allucinazioni tattili attribuite a streghe che rosicchiano la pelle e le ossa del paziente o a veleni gettati loro addosso.
Psicoterapie. - I molteplici aspetti dell'igiene e profilassi mentale, i principi spesso ideologici più che scientifici della sociopsichiatria e, strettamente connesso con essi, un nuovo modo di rapportarsi al malato mentale e ai suoi problemi, il coinvolgimento dell'ambiente, specie familiare, la diffusione della coscienza psichiatrica e quindi la richiesta sempre maggiore e in strati sociali diversi d'intervento psicologico hanno modificato e rese più "attuali" e pratiche le psicoterapie. Essenzialmente si può dire che si è passati da una psicoterapia "non mirata" a psicoterapie "mirate". Mentre cioè la psicoanalisi freudiana e junghiana, uniche vere psicoterapie fino a venti anni fa, non miravano a eliminare il sintomo presentato dal paziente (fobia, angoscia, isterismo, ecc.) ma a modificare la struttura di fondo, risalendo all'infanzia ed elaborando, attraverso la penetrazione dell'inconscio, le "fasi" di evoluzione della personalità, oggi le psicoterapie mirano a eliminare il sintomo, il disturbo di personalità, elaborandolo e "spiegandolo" con principi e metodi diversi. Inoltre, mentre la psicoanalisi "classica" era senza termine o limiti di tempo, le nuove psicoterapie sono limitate e programmate, non solo individuali ma dilatate nel gruppo, nella famiglia, nella coppia, non basate sulla ricerca longitudinale e internistica dell'individuo ma sullo studio del suo comportamento turbato dal sintomo psichiatrico.
Si sviluppano così e si diffondono rapidamente: la psicoterapia analitica breve, la psicoterapia di gruppo, la psicoterapia familiare, la psicoterapia behavioristica.
La psicoterapia analitica breve (PAB) nasce dalla necessità pratica ed economica di abbreviare i tempi del trattamento classico che non solo non poteva essere previsto ma diventava progressivamente sempre più lungo (per es. 10 anni!). Essa trova le prime formulazioni in S. Ferenczi e O. Rank, ma una prima teorizzazione intorno al 1940 con i lavori di F. Alexander e Th. French. I fattori distintivi fondamentali rispetto alla psicoanalisi sono: il tempo prefissato e comunicato al paziente fin dalla prima seduta, la posizione faccia a faccia, la focalizzazione di un determinato settore conflittuale del paziente e gl'intervalli più lunghi tra una seduta e l'altra (in genere 40-50 sedute complessive con frequenza settimanale). Queste variazioni rispetto alla tecnica analitica classica comportano una minore regressione del paziente, una frustrazione dei bisogni di dipendenza e di passività, la polarizzazione su tematiche particolari (focus) e soprattutto l'elaborazione, fin dalle prime sedute, della separazione.
Rimangono immutati invece sia il sistema di riferimento analitico, sia l'interpretazione come strumento terapeutico fondamentale e l'insight come scopo principale della terapia. Mentre su questi punti tutti gli autori sono d'accordo, minore accordo regna circa le indicazioni. Comunque in questi ultimi tempi sembra prevalere l'ipotesi che la PAB trovi la sua indicazione principale nelle crisi emozionali oppure in pazienti psiconevrotici che presentano però una buona motivazione al cambiamento e una sufficiente forza dell'Io. Diffusa ormai in tutto il mondo, nonostante le resistenze degli psicoanalisti classici, ha trovato anche in Italia cultori preparati che ne stanno dimostrando l'efficacia e la praticità.
La psicoterapia di gruppo, che comunque si serve di concetti e principi psicoanalitici, è sorta negli anni della seconda guerra mondiale per curare contemporaneamente più persone colpite dai disturbi psichici, che tanto frequentemente comparivano in soldati alleati impegnati al fronte. Un folto gruppo di psichiatri tra cui emersero e risultano come iniziatori S. H. Foulkes, W. R. Bion, J. Richmann, T. Main, iniziò attorno agli anni 1947 e 1948 la pratica di queste riunioni terapeutiche in gruppo, basandosi sul principio che un gruppo è un caso particolare di rapporto interpersonale tra alcuni individui che interagiscono direttamente fra loro e sono uniti da una motivazione comune o struttura (P. Pancheri): nel gruppo (famiglia, scuola, lavoro) è essenziale la rete d'interazioni frutto del reciproco influenzamento del comportamento comunicativo dei suoi componenti.
In alcuni casi questa interazione si manifesta in modo patologico, quando cioè l'individuo esprime attraverso comportamenti sbagliati (sintomi) la sua incapacità di comunicare in modo corretto con gli altri.
Riunendo questi individui si crea una situazione di gruppo controllata o terapeutica in cui i comportamenti e le comunicazioni sbagliate e i sentimenti abnormi possono venire osservati, analizzati e criticati dagli altri pazienti e dal paziente stesso con l'aiuto di un terapeuta che, a seconda degl'indirizzi, interviene in modo più o meno direttivo. Sul piano terapeutico si può affermare che questo tipo di terapia evita la tendenza all'isolamento, favorisce la comunicazione e la verbalizzazione, cioè l'esplicitazione non equivoca di comportamenti abnormi (per es.: sintomi di comportamento isterico), diminuisce le ansie derivanti dal rapporto con altri, alimenta la comprensione tra gli elementi del gruppo. Infine, e con meccanismi più complessi, psicoanalitici, fornisce i processi di proiezione e d'identificazione e la possibilità di analizzarli. Un individuo del gruppo, cioè, può proiettare su un altro i propri sentimenti di odio e sentirsi odiato, o può identificarsi, cioè considerare come proprie, alcune caratteristiche di un altro. Tutto ciò, sotto la guida e la direzione del terapeuta, può portare gli elementi del gruppo a una progressiva consapevolezza del proprio comportamento patologico, al superamento di esso con complessi meccanismi di transfert e controtransfert.
La terapia della famiglia. - Il termine terapia familiare sta a indicare, prima ancora che una delle tante forme di psicoterapia, "un nuovo modo di concettualizzare i problemi dell'uomo", come dice P. Watzlawick, una prospettiva diversa da tutte quelle che si propongono di partire dalla monade individuale nello studio dei problemi umani. In base a questa prospettiva l'unità di osservazione diventa il rapporto interattivo tra due o più persone e non più la sofferenza del singolo o la sintomatologia del cosiddetto paziente designato; l'attenzione viene rivolta quindi soprattutto agli aspetti formali della comunicazione, direttamente osservabili, e non più alle dinamiche intrapsichiche, per lo più desunte mediante inferenze. Ne deriva che chi cerca di stabilire correlati puramente comportamentali tenterà di cogliere gli aspetti esteriori, più facilmente identificabili e accessibili, e quindi per es. non si chiederà il perché degli eventi, ma eventualmente il "come" ad essi si sia pervenuti, in questo seguendo il principio cosiddetto della "scatola nera". Si tratta di un principio seguito durante il periodo bellico nei confronti di apparecchiature che venivano reperite e il cui contenuto veniva studiato all'esterno per il timore che contenessero cariche distruttive. Era quindi sufficiente applicare ad esse una carica d'ingresso (input) per valutare l'effetto che si otteneva all'uscita (output). Questo procedimento, trasferito alla psicologia e alla p., presenta evidentemente l'indubbio vantaggio di permettere allo studioso di fare a meno di qualsivoglia teoria intrapsichica (che sarebbe comunque inverificabile) e di basarsi esclusivamente sui dati direttamente accessibili del comportamento. Il passaggio graduale dall'ottica individuale a quella relazionale ha spinto sempre più gli autori a occuparsi di sistemi interattivi stabili e quindi della famiglia in quanto "gruppo naturale", un gruppo cioè "soggetto agl'influssi esterni, con storia e futuro comune, con stadi di sviluppo e modalità transazionali proprie" (J. Haley). Probabilmente la terapia della famiglia affonda le sue radici nella teoria freudiana, e Freud stesso, trattando (nel caso del piccolo Hans) il paziente designato attraverso i genitori, è stato inconsapevolmente il primo terapeuta della famiglia. Ma perché possa formarsi un vero e proprio movimento di pensiero bisognerà attendere gl'inizi degli anni Cinquanta.
Kisker divide l'evoluzione della terapia familiare in tre periodi: 1) Periodo descrittivo. Risente ancora della tradizionale concezione individuale in quanto gli autori (ricorderemo tra tutti Y. O. Alanen e T. Lidz), pur spostando decisamente l'accento dal paziente designato al suo ambiente circostante, si limitano a descrivere dettagliatamente alcuni tratti caratteriali dei singoli componenti della famiglia. 2) Periodo interattivo. L'oggetto di studio diviene il rapporto tra due o più individui che interagiscono fra loro. Questo periodo deve molto all'opera di H. S. Sullivan, di K. Horney e di C. Thomson, e in esso si trovano la concezione di madre iperprotettiva (D. Levy) e madre schizofrenogena (F. Fromm-Reichmann) e l'idea del padre periferico (J. Haley), che costituiscono i punti cardine della teoria familiare della schizofrenia. Sempre in questo periodo il gruppo di Palo Alto elabora, come si è detto (1956), la teoria del "doppio legame", e ancora in questo periodo R. D. Laing, uno dei pionieri dell'antipsichiatria inglese e dell'induzione familiare del disturbo psichiatrico, propone per le famiglie con un membro schizofrenico il termine di "mistificazione". 3) Periodo sistemico. Si considera come unità di osservazione non più il rapporto a due, ma l'intero sistema familiare. Gli studiosi di questo periodo si ricollegano soprattutto alla "teoria generale dei sistemi" di L. von Bertalauffy e trovano l'interpretazione più fedele di questa teoria nella concezione terapeutica di S. Minuchin. Non si può comunque parlare nel periodo sistemico di superamento degli altri due ma d'integrazione con i periodi precedenti.
Modalità tecniche. - In base alle interazioni di diverso tipo che si stabiliscono tra terapeuta e famiglia sono state distinte due categorie di terapeuti della famiglia; si tratta dei conductors e dei reactors. Mentre i primi mantengono apertamente il controllo della relazione terapeutica, i secondi si limitano per lo più a rispondere a quello che la famiglia presenta loro nel corso della seduta. Tra i conductors vengono solitamente classificati N. Ackermann, V. Satir, W. S. Bowen, S. Minuchin, N. Paul e J. E. Bell. Tra i reactors L. C. Wynnie, C. A. Whittaker, I. Bosgormenyi-Nagy e J. L. Framo. In generale i conductors tendono a mantenere costantemente la posizione one up, ad assumere cioè la leadership del gruppo, creando una ben definita barriera generazionale tra sé stessi e i componenti della famiglia. I reactors invece lasciano ai componenti della famiglia l'iniziativa di quanto avviene durante la seduta e intervengono solo di rimando; non creano confini netti con la famiglia e non lasciano trasparire, se non di rado, i loro obiettivi terapeutici. Probabilmente però si tratta solo di un diverso modo di stabilire comunque un energico controllo della relazione terapeutica: nel primo caso questo controllo è esplicito, nel secondo invece è meno evidente e intrusivo, ma non per questo meno efficace e quindi, come sostiene Ackerman, "il problema non va posto semplicemente per un sì o un no a un atteggiamento passivo o attivo nei confronti della famiglia, ma si deve invece prendere in esame quale tipo d'intervento attivo è preferibile a seconda del particolare tipo di famiglia che si ha in terapia". Questo metodo, diffusissimo in America e da qualche anno in Italia, è stato fertile soprattutto per la conoscenza dei problemi che in ogni famiglia si pongono e delle interazioni tra i membri della famiglia stessa per risolvere, assai frequentemente con la guarigione del paziente, le dinamiche che la presenza del paziente avevano provocato e che provocavano disturbi in un'inestricabile reciproca alimentazione.
Psicoterapia del comportamento (o Behaviour psychotherapie). - Si basa sul principio del behaviorismo (v. Psicologia, App. II, 11, p. 628), sviluppatosi con J. B. Watson (1920), negli SUA, dall'incontro tra una concezione filosofica-psicologica pragmatica e la dottrina dei riflessi condizionati; si prefigge propositi terapeutici nel 1958 (Lazarus e J. Wolpe) e nel 1959 (H. J. Heisenck) col principio del condizionamento operante, acquista lineamenti tecnici precisi dopo il 1960 grazie ai progressi nella conoscenza dei processi di apprendimento e ai contributi della psicofisiologia e della psicologia cognitiva.
Presupposto della psicoterapia behavioristica è che molti disturbi psichici, soprattutto l'ansia con le sue espressioni psichiche (ossessioni e fobie, ipocondria) e con quelle somatiche (tachicardia, sudorazioni, nevrosi gastriche, coliti spastiche, ecc.) sono l'espressione di condizionamenti successivi sbagliati a stimoli, situazioni e stati emotivi subiti nel corso della vita. Nel corso delle sedute psicoterapeutiche si procede alla ricostruzione dell'anamnesi e, col contributo conscio e critico del paziente, sono ricercati e individuati gli stimoli condizionanti e il sintomo che ne è derivato e che sarà scondizionato con uno dei seguenti metodi: a) ripetuta evocazione ad opera del paziente della situazione ansiogena, immediatamente seguita dall'autoinduzione di una condizione di rilasciamento, della quale il paziente ha in precedenza appreso la tecnica (metodo della desensibilizzazione); b) associazione di uno stimolo punitivo (piccolo shock elettrico) allo stimolo ansiogeno (terapia avversiva); c) inserimento di un premio, di una gratificazione a ogni successo ottenuto nel corso del sopraesposto procedimento di desensibilizzazione (metodo del condizionamento operante); d) ripetizione metodica, sotto il controllo del terapeuta, del sintomo cui è correlata l'ansia, in tutta la sua completezza, con un programma prestabilito d'intervalli o di continuità, fino alla sua estinzione critica.
La psicoterapia behavioristica ha avuto un notevole sviluppo in America, in Inghilterra e in Italia, per la semplicità dei suoi presupposti teorici, per le basi neuropsicofisiologiche (riflessi condizionati, risposte neuroendocrine e somatizzazioni dell'ansia) e per il suo vasto campo di applicazione: fobie, ossessioni, nevrosi d'ansia, alcolismo, condotte suicidarie.
Biofeedback. - Costituisce uno dei più recenti metodi di psicoterapia. Essenzialmente si tratta di una tecnica di desensibilizzazione che differisce da quella precedentemente esposta perché le variazioni dell'ansia e delle sue componenti somatiche (temperatura corporea, ritmo cardiaco, tensione muscolare, sudorazione), dovute all'evocazione della situazione ansiogena e alla successiva autoinduzione del rilasciamento, sono "udite" dal paziente, perché trasformate in segnali acustici da un dispositivo, analogo a quello impiegato per il riflesso psico-galvanico, che è applicato sulla cute del paziente, e che è in grado di registrare i valori della temperatura, del polso, della sudorazione, della tensione muscolare. Si è rivelato utile nel campo delle fobie, e sono in corso di studio le sue applicazioni in alcune affezioni psicosomatiche (cefalee, colite, ipertensione arteriosa), nelle tossicomanie, compreso l'alcoolismo.