psicoanalisi
La psicoanalisi è al tempo stesso una teoria psicologica, un metodo di indagine sul funzionamento della mente normale e patologica e una prassi terapeutica. I tre livelli sono legati da una circolarità intrinseca: ogni concetto astratto nasce dall’esperienza clinica, a partire dalla quale si costruisce la teoria, da cui deriva infine lo specifico metodo di cura. L’intuizione fondamentale della psicoanalisi è l’esistenza dell’inconscio, parte prevalente dello psichismo umano. Nel corso della storia della psicoanalisi si sono registrate significative evoluzioni; tuttavia in questa disciplina i progressi avvengono, più che per contrapposizione o superamento, per apposizione; nella maggior parte dei casi, i nuovi contributi non fanno decadere i paradigmi originari, con i quali coesistono, si articolano e dialogano. Oggi l’indicazione della psicoanalisi o della psicoterapia psicoanalitica si estende dalle nevrosi classiche alle patologie narcisistiche, alle psicosi, alle cosiddette sindromi borderline, talora in associazione con trattamenti psicofarmacologici. [➔ difesa, meccanismi di; epistemologia della psicoanalisi; psicopatologia; psicoterapia; pulsioni; transfert]
Come disciplina la p. è stata fondata alla fine dell’Ottocento da Sigmund Freud, nato il 6 maggio 1856 da una piccola famiglia ebrea nella cittadina di Friburgo in Moravia. Freud studiò medicina e neurologia a Vienna con Theodor H. Meynert e a Parigi con Jean-Martin Charcot. Divenuto medico, neurologo e psichiatra, si dedicò allo studio dell’isteria, dell’origine psichica dei disturbi nevrotici e della dimensione inconscia della mente. Lui stesso coniò la locuzione «nuovo metodo di psicoanalisi ». Freud scrive in stile limpido e avvincente i suoi tanti e corposi saggi – casi clinici, principi di psicopatologia e di metapsicologia, speculazioni sul mito, sulla società, sulla storia, sull’arte e sugli artisti, raccolti nella monumentale Opera omnia in tedesco, tradotta poi in molte altre lingue. L’International psychoanalytical association (IPA) fu fondata da Freud stesso nel 1910 a Norimberga con lo scopo di «coltivare e promuovere la scienza psicoanalitica nel mondo». La Società psicoanalitica italiana fu fondata nel 1932 da Edoardo Weiss – analizzato da Paul Federn, a sua volta discepolo diretto di Freud – e fin dal 1935 entrò a far parte dell’IPA. Oggi convivono in Italia due società: la Società psicoanalitica italiana (SPI) e l’Associazione italiana di psicoanalisi (AIPSI), nata per scissione dalla SPI.
Il modello teorico ideato da Freud è al tempo stesso una teoria psicologica, un metodo di indagine sul funzionamento della mente normale e patologica e, soprattutto, una prassi terapeutica. La particolarità della p. è che questi tre livelli sono legati da una circolarità intrinseca: ogni concetto astratto nasce dall’osservazione di quel che avviene nel corso della terapia, dalla quale si parte per raffinare i modelli speculativi, e da questi infine deriva lo specifico metodo di intervento clinico. L’intuizione fondamentale della p. è l’esistenza dell’inconscio, parte prevalente della mente umana che è composta – secondo la cosiddetta prima topica – da tre livelli: conscio, inconscio e preconscio. La metafora freudiana rappresenta la nostra psiche come un iceberg, nel quale solo la parte che emerge dall’acqua corrisponde alla coscienza, mentre l’inconscio corrisponde all’enorme e inquietante massa sommersa. Alla base dei meccanismi psicologici domina il cosiddetto principio del piacere-dispiacere, che solo tardivamente e faticosamente cederà il controllo del funzionamento mentale al più maturo principio di realtà. L’inconscio può essere conosciuto e analizzato solo attraverso i suoi derivati: innanzi tutto i sogni (che Freud definisce «via regia per la dimensione inconscia»), ma anche i sintomi e i lapsus dei singoli individui, e ancora tramite i miti e le leggende dei popoli. L’assunto basilare è che tutti questi materiali, apparentemente assurdi e sconnessi, hanno invece un senso che può essere decifrato nella normalità e nella patologia. La seconda topica, formulata da Freud successivamente, distingue nel processo di sviluppo l’organizzarsi della struttura psichica, che si differenzia in Io (che non coincide semplicemente con la coscienza), Es (il serbatoio delle pulsioni sessuali e aggressive) e Super-Io, l’istanza normativa, protettiva e punitiva che ciascuno interiorizza a partire dalle relazioni e dalle successive identificazioni con le figure autorevoli dell’infanzia. Nel corso del processo di sviluppo, si organizza – o, a seconda dei casi, si disorganizza – la struttura psichica, secondo meccanismi di regolazione e specifici meccanismi di difesa (➔) che cercano di proteggere l’Io dall’angoscia (rimozione, proiezione, scissione, diniego, isolamento, ecc.).
Lo scenario, tuttora valido, della cura psicoanalitica prevede che il paziente sia steso sul lettino e l’analista rimanga seduto alle sue spalle, in silenzioso ascolto, in un atteggiamento di astinenza (non gratificazione di impulsi e desideri) e di neutralità (rinuncia a dare suggerimenti, suggestioni, giudizi), oltre ad alcune regole formali (4 o 5 sedute settimanali di 45 minuti). Tale prassi è nota come setting terapeutico e serve a favorire l’emergere del livello inconscio e della realtà interna dell’analizzato. Per parte sua, l’analizzato gode della licenza di dire tutto ciò che vuole, ma non di agire; ci si aspetta da lui che lasci fluire dalla mente le cosiddette libere associazioni, ossia pensieri spontanei che possano consentire l’accesso alla dimensione inconscia. In tale specialissimo clima emotivo, che comporta una temporanea regressione, si riattivano le primitive dinamiche relazionali: il transfert del paziente sull’analista, che rivive nel qui e ora antichi conflitti e passioni con personaggi basilari del suo passato; al transfert del paziente – come si comprenderà meglio in epoca postfreudiana – si aggiunge la risposta affettiva inconscia del terapeuta, il cosiddetto controtransfert. Lo psicoanalista, nella cornice affettiva e cognitiva della relazione, offre contenimento silente alle angosce e formula specifiche interpretazioni, seppure consapevole che meccanismi difensivi e resistenze inconsce del paziente sempre si oppongono al processo della cura e al cambiamento, per il motivo – non banale – che cambiare è doloroso. Secondo l’esperienza psicoanalitica, per questa via lunga e faticosa è però possibile ottenere modificazioni profonde e stabili della personalità.
Nel corso della storia della p. si sono registrate significative evoluzioni; tuttavia in questa disciplina i progressi avvengono, più che per contrapposizione o superamento, per apposizione. I nuovi contributi, in altre parole, non fanno decadere i paradigmi originari, ma con questi coesistono, si articolano e dialogano. La p. ha scoperto che molte patologie, apparentemente incomprensibili e prive di senso, nascono da vicissitudini relazionali infantili distorte. L’eziopatogenesi psicogena è sempre considerata però, oggi come ieri, nel più ampio quadro della causalità multifattoriale, cioè della concorrenza di tante variabili interne ed esterne, biologiche e psicologiche, culturali e naturali. Il rigido nesso lineare di causa-effetto è considerato un grave errore riduzionista. Oggi si continua a ritenerere che il passato infantile e gli eventuali traumi precoci segnino l’evoluzione della personalità adulta, ma non in un senso banalmente lineare. Viene invece rivalutato il concetto freudiano di Nachträglickeit, malamente traducibile in italiano come «risignificazione retroattiva»: non solo il passato determina il presente, ma a sua volta – sovvertendo l’ordine temporale – il presente modifica a posteriori il significato degli eventi vissuti e conferisce nuovo senso alle vicissitudini e ai traumi del passato. Il dualismo delle pulsioni in perenne conflitto e la contrapposizione e la fusione/defusione di Eros (libido) e Thanatos (aggressività) hanno mantenuto un ruolo basilare rispetto all’impostazione freudiana, ma ci si interroga sulla differenza tra istinto e pulsione, su quale sia lo statuto delle cosiddette pulsioni dell’Io di autoconservazione, se l’aggressività sia una conseguenza della frustrazione o se esista una pulsione innata di morte, su quale sia la differenza tra aggressività e distruttività. Sul terreno clinico, l’analisi delle vicissitudini della sessualità nel corso dello sviluppo mantiene la sua importanza, ma oggi si dà giustamente maggior rilievo all’aggressività. Il processo di sviluppo femminile normale e patologico proposto da Freud – e soprattutto dalle sue prime allieve – è stato radicalmente criticato per la sua visione ‘fallocentrica’. Oggi possiamo invece contare su un ricco patrimonio di idee, che hanno riconsiderato il percorso di costruzione dell’identità di genere e sessuale femminile e che necessariamente hanno scardinato e riedificato, nella dimensione relazionale, anche tutti i classici parametri dell’identità maschile. L’evoluzione più importante e significativa dopo Freud, a partire dagli anni Quaranta del 20° sec., è senza dubbio l’esplorazione dei livelli precoci dello sviluppo psichico, cosiddetti preedipici; di conseguenza si è affinata l’analisi del narcisismo (➔) e delle patologie narcisistiche che derivano da deficit e distorsioni relazionali avvenuti in tali epoche della vita. Sono aree del funzionamento psicologico nelle quali non sono ancora nettamente definiti i confini tra dentro e fuori, tra mentale e corporeo; il limite tra ‘me’ e ‘non me’ è confuso, fluido e continuamente rinegoziato.
Ai nostri giorni, l’essere umano a cui guardiamo, nella norma e nella patologia, è complesso ma non è compatto: in esso dobbiamo riconoscere la coesistenza di livelli evolutivi e di funzionamento diversi. Nella teoria e nella clinica la dimensione intrapsichica (di rapporti tra parti di sé, frutto di identificazioni e introiezioni) e quella interpsichica (di rapporti con gli altri) sono sempre necessariamente e naturalmente intrecciate. L’intrapsichico è costituito dalle relazioni già vissute e l’interpsichico è condizionato e influenzato dalle forme che nel mondo interno assumono tali relazioni. È precipuamente nel transfert che si evidenzia come l’interpsichico si coniuga con l’intrapsichico. Le interpretazioni di transfert, del rapporto tra terapeuta e paziente, si completano, in una complessa circolarità, con le interpretazioni riguardanti i cosiddetti oggetti interni del paziente, ossia le immagini mentali dell’altro derivanti – a loro volta – dalle antiche relazioni. L’approccio a patologie gravi permette allo psicoanalista di confrontarsi con organizzazioni psichiche instabili, stati non ancora integrati oppure scissi tra i vari aspetti mentali della personalità. Lo strumento precipuo per entrare in contatto con tali livelli del paziente – più nel regime delle sensazioni e degli affetti che delle parole e dei pensieri – diviene il controtransfert dell’analista, il quale è oggi più consapevole di tali implicazioni e più attrezzato all’ascolto, anche se non per questo incontra minori difficoltà. L’attenzione agli stadi precoci dello sviluppo ha assegnato un ruolo fondamentale al registro preverbale degli affetti quali il tessuto connettivo della mente, cerniera tra psiche e soma. Anche il peso attribuito ai vari meccanismi di difesa (➔) è cambiato: se all’epoca di Freud era in primo piano la rimozione, oggi si parla più spesso di scissione. Resta da stabilire quanto ciò corrisponda a un effettivo mutamento della patologia, oppure derivi da un diverso approccio teorico attuale. Comunque, trovare l’equilibrio tra le due funzioni basilari del terapeuta (analisi sia dei livelli precoci sia di quelli più evoluti, contenimento emotivo, ascolto silenzioso e interpretazione) rimane un punto delicato. L’obiettivo è infatti sempre l’integrazione tra parti e livelli della persona.
Storicamente, i primi pazienti di Freud erano affetti da nevrosi ossessiva, da isteria, ecc., ma è ormai un dato consolidato dall’esperienza che non solo le nevrosi, ma anche le più gravi patologie narcisistiche, le psicosi e le cosiddette sindromi borderline possono trarre giovamento dalla psicoanalisi. Il problema delle indicazioni al trattamento psicoanalitico si intreccia con quello del cambiamento della qualità e della frequenza delle patologie che si registra ormai da alcuni decenni nelle nostre società occidentali. Il trattamento psicoanalitico classico, con il paziente sdraiato sul lettino, trova la sua indicazione solo in una percentuale limitata di casi, seppure più per motivi contingenti pratici che per ragioni cliniche. L’esigenza attuale è quella di codificare, accanto alla p., altre modalità di intervento senza svilire o degradare lo strumento terapeutico. Spesso, per es., si praticano psicoterapie di indirizzo psicoanalitico, condotte a ritmo e durata ridotti, in cui si cerca di affrontare in modo circoscritto un singolo problema. Talvolta, anche solo una breve serie di due o tre colloqui può aiutare il paziente a focalizzare una difficoltà in un momento di crisi e a superarla poi con le sue forze. Inoltre, molti si impegnano parallelamente, in ambito sia pubblico sia privato, in altre aree: interventi di psicoterapia combinati con ricovero in comunità, con trattamenti psicofarmacologici; consultazioni individuali; consulenze in scuole e ospedali; formazione di personale specializzato; attività di insegnamento nel contesto più vasto della cultura. È chiaro che se cambiano il tipo di intervento, il destinatario, il contesto, deve necessariamente cambiare anche il relativo setting. L’intervento più utile, quello preventivo – per es., nei reparti di ostetricia o di pediatria ospedalieri –, è invece purtroppo ancora il meno praticato. Fanno parte delle attività cliniche anche le varie psicoterapie derivate dalla matrice psicoanalitica: psicoterapia della coppia, della famiglia, dell’infanzia, dell’adolescenza. Un grande sviluppo hanno avuto le diverse forme di terapia di gruppo, che fanno prevalentemente riferimento al pensiero dello psicoanalista inglese Wilfred R. Bion.
All’interno della p. si possono distinguere diversi orientamenti e modelli teorici. In modo necessariamente schematico, possiamo individuare una p. classica che fa esplicito riferimento a Freud e soprattutto ai suoi primi scritti. Il funzionamento psichico individuale è concepito essenzialmente nell’ottica del complesso di Edipo (➔), in termini di pulsioni e loro vicissitudini, di lotta per appagare bisogni, di rimozione, di fantasie inconsce che producono conflitti, colpa e angoscia. La cosiddetta p. delle relazioni oggettuali fa capo agli studi di Melanie Klein, la personalità più significativa dopo Freud. È Klein a dare vita alla p. infantile e alla terapia del gioco. Deriva invece da Anna Freud, figlia di Sigmund, la cosiddetta p. dell’Io (ego psicology) sviluppatasi principalmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Secondo tale corrente, lo sviluppo psicofisico viene inteso in modo abbastanza lineare e cioè come capacità di progressivo adattamento tra mondo interno e mondo esterno, in una dialettica tra esame di realtà e difese, secondo la quale i fallimenti evolutivi si traducono in difetti dell’Io. Svariati modelli si riuniscono sotto il nome di p. del Sé (seguaci di Donald W. Winnicott, di Heinz Kohut, in Italia di Eugenio Gaddini), che esplorano gli stati soggettivi emergenti, la progressiva delimitazione tra Sé e non Sé, i diversi gradi di differenziazione tra Sé e l’altro, che avviano la costruzione di confini psicofisici e di nuclei dell’identità personale. Il termine Sé (self) è stato adottato per prendere le distanze dal classico Io protagonista della struttura mentale di cui parlava Freud. Altri gruppi di ricerca teorica e clinica si possono individuare in varie aree geografiche, più o meno esplicitamente connotati dal nome del pensatore principale al quale fanno riferimento: Jacques Lacan, Wilfred Bion, Sándor Ferenczi, José Bleger e altri. Sono nuclei uniti (e divisi) da modelli teorici talora conciliabili, talora davvero divergenti, ma più spesso da simpatie, antipatie, questioni di leadership e di politica istituzionale. Annosa e ricorrente è la questione della scientificità della p., del suo statuto epistemologico (➔ epistemologia della psicoanalisi), della possibilità o meno di individuare criteri di validazione delle ipotesi metapsicologiche fondanti e ancor più dell’operare clinico.
Un interessante terreno di incontro è quello tra p. e neuroscienze. L’architettura concettuale della p. si è rivelata in larga misura compatibile con le più recenti e accreditate acquisizioni delle neuroscienze, particolarmente della neurobiologia e della neurofisiologia. Un segno tangibile di tale nuova era è l’enorme mole di lavori che nell’ultimo decennio è stata pubblicata nella zona di interfaccia tra p. e neuroscienze (Antonio R. Damasio, Eric Kandel, Mark Solms, Regina Pally, Joseph LeDoux e altri ancora). I vantaggi di un dialogo non riduzionista con le altre branche del sapere che oggi si rivolgono alla psiche umana e di una reciproca, aperta conoscenza sono evidenti in entrambe le direzioni: i neuroscienziati possono offrire rassicuranti conferme ma, soprattutto, possono limitare taluni perniciosi arbitrii ‘speculativi’, aiutando gli psicoanalisti a non produrre teorie in contrasto con le cognizioni biologiche attuali. Per contro, questi ultimi possono confutare e contraddire le semplificazioni e i riduzionismi che caratterizzano troppo spesso sia le metodologie sia le deduzioni finali degli scienziati puri, senza perdere di vista la multifattorialità e il multideterminismo che regolano ogni vicenda umana.