Psicoanalisi
(XXVIII, p. 455; App. II, ii, p. 627; III, ii, p. 516; IV, iii, p. 83; V, iv, p. 321)
Nella seconda metà degli anni Ottanta assume particolare rilievo una questione che ha peraltro segnato il movimento psicoanalitico fin dai suoi esordi e che ha spesso dato esito a scissioni, aspre discussioni e irriconciliabili distinzioni teoriche: la questione dell'identità della p., dei suoi confini e delle eventuali deviazioni. La necessità di comprendere cosa differenzi le teorie psicoanalitiche da quelle non psicoanalitiche e, soprattutto, la difficoltà di realizzare un confronto tra teorie psicoanalitiche diverse hanno messo in evidenza due aspetti del dibattito: l'esistenza di molte p. (e, contestualmente, l'impossibilità, da parte delle singole scuole, di stabilire un'egemonia teorica e clinica sulle altre) e la necessità di identificare un terreno comune d'indagine, di metodologia e di riflessione che favorisse il progresso teorico-clinico sulla base di ipotesi fondamentalmente condivise. A quest'ultima questione si è risposto, da un lato, sottolineando il carattere metaforico delle teorie, la loro utilità euristica nello spiegare i dati clinici e l'esistenza di una teoria clinica unitaria empiricamente testabile, basata sui concetti di difesa e angoscia, conflitto e compromesso, transfert e controtransfert, mondo oggettuale interno ed esterno (Wallerstein 1988, 1990); dall'altro lato, è stato attribuito un valore progressivo al conflitto tra diversi sistemi di pensiero e di pratica clinica, poiché questo avrebbe permesso l'evidenziazione di incoerenze e incompletezze presenti all'interno di ogni sistema, e avrebbe facilitato l'esplorazione di nuove frontiere (Schafer 1990).
A queste due posizioni sono riconducibili, anche se soltanto in parte, due delle reazioni all'attuale pluralismo: l'emergere di una posizione ermeneutica e la ricerca di una verifica empirica.
La posizione ermeneutica si colloca su un versante volto a sottolineare la complessità del processo psicoanalitico; essa è oggetto di un interesse rinnovato proprio per l'impossibilità di giungere a una teoria psicoanalitica unitaria: secondo tale posizione, infatti, la p. genera una molteplicità di teorie in quanto i suoi dati sono costituiti dall'universo irriducibile di significati e autointerpretazioni prodotti dal paziente; nella situazione analitica, questi dati vengono ricontestualizzati dall'analista sulla base di un proprio modello di lettura e ricondotti all'interno di uno dei filoni 'narrativi' della psicoanalisi. Non solo differenti analisti costruiranno storie diverse, ma all'interno di una singola analisi sarà possibile costruire storie multiple, narrazioni che mutano col procedere del lavoro (Schafer 1983, 1992). Nata soprattutto in risposta alle critiche di non scientificità rivolte alla p. (tra cui forse la più incisiva è quella di A. Grünbaum, il quale ha sottolineato la necessità di ottenere dati e convalide esterne alla situazione clinica, poiché le convalide interne sarebbero viziate da elementi suggestivi), l'esigenza di verificare empiricamente la p. ha una storia che risale agli anni Trenta, ma è negli anni Ottanta che l'International Psychoanalytical Association (IPA) ha promosso ufficialmente un gruppo di ricerca sulla terapia psicoanalitica. Nonostante sia ancora oggi rintracciabile un interesse per la ricerca empirica sui risultati della terapia (che trova la propria motivazione soprattutto in fattori estrinseci alla comunità psicoanalitica, tra i quali l'esigenza di una valutazione comparata dell'efficacia delle psicoterapie), negli ultimi due decenni si è assistito a un progressivo spostamento dell'oggetto di studio, che tende a riguardare le modalità secondo cui gli eventi del processo terapeutico influenzano la situazione psicoanalitica. A favorire tale mutamento di accento hanno concorso sia il fecondo incontro tra una posizione teorica dotata di una sua specifica tradizione (ci si riferisce all'importanza che ha assunto, nel panorama psicoanalitico attuale, la visione interpersonalista e interattiva, su cui torneremo in seguito) e metodologie di ricerca molto sofisticate, sia l'esiguità dei successi ottenuti con gli storici progetti statunitensi di ricerca longitudinale sui risultati della terapia psicoanalitica (Menninger Foundation Psychotherapy Project, Columbia Records Project e Boston Project). Tali parziali insuccessi sono stati attribuiti alle difficoltà di valutazione dei cambiamenti strutturali del paziente, al sacrificio che essi comportano dell'individualità di ogni caso, alla non predittività dei risultati del trattamento rispetto ai criteri scelti per determinare l'analizzabilità dei pazienti.
Attualmente, i progetti di ricerca più rilevanti condividono alcuni significativi punti di vista; si ricordano quelli di J. Weiss e H. Sampson (sulle credenze patogene inconsce e sul progetto inconscio del paziente di disconfermarle sottoponendo a test il terapeuta), di H. Dahl (sulle sequenze ricorrenti e strutturate di eventi che rappresentano desideri, credenze significative, emozioni e difese, il cosiddetto frame di ascendenza cognitivista), di L. Luborsky (sul tema conflittuale relazionale centrale, il CCRT, Core Conflictual Relationship Theme, basato sulla possibilità di giungere a una misurazione dei fenomeni transferali), di H. Thomä e H. Kächele (sui cambiamenti che intervengono in aspetti del trattamento, come il transfert, gli stili interattivi e cognitivi, le dimensioni emotive, e che sono misurati attraverso l'analisi computerizzata del testo e del contenuto), di W. Bucci (sull'analisi dei processi di rappresentazione delle informazioni emotive a livello verbale, simbolico non-verbale e non-simbolico non-verbale). Da tali progetti emerge una p. concepita in termini sia intrapsichici sia interpersonali e caratterizzata dall'ampliamento dello spettro dell'attività mentale non conscia (non coincidente né con il preconscio, né con quanto viene difensivamente escluso dalla coscienza, ma considerata piuttosto come una varietà di procedure di funzionamento organizzate automaticamente). L'aspirazione implicita di queste ricerche è quella di giungere a formulare affermazioni generali che permettano di comprendere e prevedere le interazioni ripetitive che caratterizzano un'analisi, ma va sottolineato come finora sia mancata tanto una maggiore e più puntuale interrelazione tra i diversi gruppi di ricerca (sia dal punto di vista metodologico sia da quello dell'esportabilità dei risultati), quanto la costruzione di una rete teorica che permetta di stabilire dei significativi punti di contatto tra la concezione che il ricercatore ha del processo analitico e la comprensione del trattamento da parte del clinico. Problemi analoghi, seppure a un livello teorico più avanzato, nascono dalla ricerca di un'interfaccia tra p. e infant research (che studia l'interazione madre-bambino, la regolazione reciproca degli affetti, l'emergere del Sé, e sostiene, nelle sue tendenze attuali, una visione dello sviluppo in cui il neonato è considerato come un organismo attivo e competente, con stati emotivi differenziati e abilità complesse che gli consentono di entrare in relazione con la madre).
Tale interfaccia prende la forma di una revisione del modello psicoanalitico o, in altri casi, di una metafora evolutiva che può informare il processo terapeutico, mentre alcuni autori sostengono l'irrilevanza di tali ricerche per la p. in quanto disciplina precipuamente fondata sull'indagine dei significati personali e delle motivazioni inconsce dell'individuo (Wolff 1996).
Utilizzando principi e criteri di riferimento interni alla situazione analitica, la comunità psicoanalitica si è interrogata sugli standard da seguire nelle osservazioni cliniche, sull'inderogabile necessità di distinguere tra osservazioni, ipotesi e concettualizzazioni, nonché sul confronto e la discussione delle rispettive posizioni: in che modo si possa parlare di 'fatto clinico', e quanto l'individuabilità di quest'ultimo sia influenzata dalla cornice teorica di riferimento; quale sia la reciproca interrelazione tra osservazione e modello; secondo quali modalità si esprima l'interpretazione da parte dell'analista; quali, infine, siano i criteri da prendere in considerazione per valutare, confermare o confutare le ipotesi esplicative. Da queste riflessioni è emersa la centralità del transfert, sia come entità clinica che come costrutto teorico, in quanto esso attiva e rileva il fatto clinico, rendendo possibile il dispiegarsi di una realtà psichica che non ha una distinta e immediata configurazione.
Il fatto clinico evolve allora da una condizione di indefinitezza e di intuibilità a una di osservabilità, e ciò avviene parallelamente alla trasformazione di un'ipotesi implicita dell'analista in un'ipotesi passibile di valutazione sulla base dell'esperienza. All'interno del processo di indagine utilizzato in seduta, l'interpretazione dell'analista viene guidata dall'emergere nella sua mente del "fatto scelto" (Bion), che integra il materiale del paziente in una nuova configurazione, conferendo un ordine e un collegamento costante alle multiformi impressioni suscitate dalle libere associazioni; per contro, quando l'analista teme di perdere la propria identità in una situazione di incertezza, si produce una 'idea sopravvalutata' che piega l'interpretazione a strumento per ottenere sicurezza piuttosto che per approfondire l'indagine, e che orienta e costringe gli altri fenomeni dell'analisi in una cristallizzazione, fonte di certezza illusoria (Britton, Steiner 1994). Un momento imprescindibile di questo processo di indagine vede l'analista impegnato a esaminare e vagliare le proprie interpretazioni attraverso la risposta del paziente, aspetto la cui rilevanza fu peraltro intuita già da S. Freud e sul quale sembra esserci attualmente una piena uniformità di vedute. In tal senso andrà allora indagato, anche all'interno di estese sequenze temporali, l'emergere, nelle associazioni del paziente, di nuove informazioni, o di un mutamento nella sua risposta affettiva, o di una comprensione più profonda delle sue relazioni oggettuali dominanti, o di un cambiamento, o, infine, di un arricchimento nella comunicazione dell'esperienza soggettiva.
Sempre all'interno del tentativo di individuare e costituire un terreno comune di indagine, è stato anche sostenuto come, nell'ambito della tecnica, sia possibile rintracciare significative convergenze tra diversi orientamenti psicoanalitici: è ormai acquisita la centralità delle interpretazioni di transfert e l'analisi sistematica dei significati inconsci delle modificazioni transferali; viene valorizzato il significato inconscio del 'qui e ora' (coniugato, comunque, con un'attenzione nei confronti delle determinanti infantili); si tende a esprimere le configurazioni impulso-difesa in termini di identificazioni inconsce con rappresentazioni del Sé e dell'oggetto; è diminuita l'importanza dei modelli lineari tradizionali di sviluppo, e ciò comporta l'analisi di paradigmi transferali in cui sia attiva un'oscillazione tra strutture sincroniche di significati altamente condensati, che incorporano molteplici aspetti del passato, e linee diacroniche che emergano incidentalmente all'interno delle medesime strutture. Accanto a questi temi, contraddistinti da una diffusa convergenza, ci si continua a interrogare se il transfert sia esclusiva creazione del paziente; se esista o meno una relazione reale indipendentemente dal transfert e se la cosiddetta alleanza terapeutica rifletta la relazione di lavoro tra analista e paziente; infine, se l'efficacia terapeutica derivi esclusivamente dall'interpretazione, o sia anche il risultato di una nuova esperienza resa possibile dalla situazione psicoanalitica, che permetterà la compensazione di deficit e arresti evolutivi.
Possiamo segnalare alcuni autori e linee di ricerca a partire dalle tre principali scuole che, dagli anni Quaranta, hanno egemonizzato (con rare eccezioni: si pensi a J. Lacan) l'universo psicoanalitico, e cioè la psicologia dell'Io, il gruppo indipendente britannico e la scuola kleiniana. Particolarmente sensibile alle tematiche della ricerca infantile è, all'interno della psicologia dell'Io britannica, P. Fonagy (1991), che tenta un'integrazione teorica e clinica della p. con il paradigma della teoria dell'attaccamento e con l'approccio evolutivo-cognitivista alla teoria della mente; egli ha significativamente correlato la patologia borderline all'assenza della capacità di immaginare e comprendere il funzionamento mentale, i desideri, le intenzioni, le emozioni proprie e altrui. Lo sviluppo di tale teoria della mente nel bambino (o, nei termini di questo autore, di tale specifica funzione riflessiva del Sé), che permetterebbe una buona regolazione affettiva e il passaggio a meccanismi di difesa meno primitivi, è reso possibile da un certo grado di coerenza e sicurezza nelle relazioni oggettuali precoci. Ch. Bollas (1989, 1995), anch'egli interessato allo studio del Sé ma a partire dal pensiero di D.W. Winnicott, tende a evidenziare, tramite il concetto di idioma, l'importanza del progetto individuale e della realizzazione del proprio destino, che consiste nel radicare lo sviluppo all'espressione spontanea delle potenzialità del vero Sé; gli effetti di tale concezione sulla tecnica si estrinsecherebbero nella celebrazione dell'autenticità del paziente e del suo vero Sé, evitando però che questo si trasformi in una gratificazione del falso Sé. Grande evidenza viene attribuita da Bollas alla comunicazione fra inconsci: il paziente informa inconsciamente la sensibilità inconscia dell'analista e la coppia analitica crea in questo modo infiniti spazi potenziali, all'interno dei quali il paziente può esprimere il suo idioma. Tra gli altri autori che hanno proficuamente utilizzato il pensiero di Winnicott, A.H. Modell ha esplorato il carattere privato e paradossale dell'esperienza del Sé e ha elaborato una teoria del trattamento psicoanalitico fondata sul concetto di livelli di realtà, sul ruolo dell'illusione nel setting e sul carattere transizionale dell'interpretazione. Recentemente, nell'ambito del modello kleiniano, è stata dedicata particolare attenzione al ruolo della 'organizzazione patologica' nella personalità (Steiner 1993), al rapporto tra posizione depressiva e complesso edipico (Britton 1998), all'idea che le posizioni schizoparanoide e depressiva fossero modelli o stati mentali (svincolandole, così, da una datazione precisa nello sviluppo). Ma il contributo principale proviene da H. Rosenfeld (1987), il quale, da anni dedito allo studio delle forme più gravi e impegnative della psicopatologia, ha in parte modificato le sue concezioni sottolineando il valore comunicativo dell'identificazione proiettiva, riconoscendo il ruolo dei traumi psichici precoci nella genesi della patologia narcisistica e, infine, sottolineando l'importanza di non interpretare ogni reazione terapeutica negativa in termini di invidia ma di riflettere, invece, sul contributo dell'analista alle situazioni di stallo. Inoltre, egli ha sottolineato la necessità, nell'interpretazione dell'aggressività, di una valutazione attenta della vulnerabilità e delle difese del paziente, nonché del suo bisogno di idealizzazione come reazione al timore di subire un rifiuto.
Alcuni di questi temi, seppure all'interno di un sistema teorico radicalmente diverso, potrebbero far riecheggiare affermazioni proprie della psicologia del Sé che, grazie al lavoro degli allievi di H. Kohut, sta conoscendo ampia diffusione negli USA. All'interno di questa corrente di pensiero, J. Lichtenberg (1989, 1996) ha individuato nell'attaccamento un principio motivazionale che è fonte del mantenimento della coesione del Sé; inoltre, egli ha riformulato il concetto di motivazione tentando una sintesi tra psicologia del Sé e infant research, e distinguendo cinque sistemi motivazionali: di regolazione psichica delle esigenze fisiologiche; di attaccamento-affiliazione; esplorativo-assertivo; avversivo; sensuale-sessuale. La modalità empatico-introspettiva del rapporto terapeutico e la sottolineatura dell'esperienza del Sé unificano il lavoro di questi autori. In particolare, però, muta il modo in cui viene concettualizzato il Sé: da alcuni viene visto come un sistema funzionale che integra informazioni cognitive e affettive (Basch 1988), o come centro dell'esperienza, ancorché correlato a un'organizzazione gerarchica di motivazioni e valori (Gedo 1988); altri si collegano a concetti propri della teoria delle relazioni oggettuali, estendendo l'indagine anche all'oggetto (Bacal, Newman 1990); da altri, infine, che evidenziano la natura intersoggettiva dell'interazione tra paziente e analista, viene visto come organizzatore dell'esperienza (Stolorow, Atwood 1992). Esiste, peraltro, un ampio spettro di posizioni sull'intersoggettività ed è, al contempo, assente una definizione soddisfacentemente precisa di tale concetto (nonché di quello di soggetto): c'è chi ritiene che la teoria intersoggettiva cerchi di comprendere i fenomeni psicologici non in termini di meccanismi intrapsichici isolati, ma in quanto prodotti di soggettività che interagiscono reciprocamente; c'è chi accentua, anziché la reciproca regolazione, il reciproco riconoscimento, in quanto aspetto intrinseco dello sviluppo del Sé; chi ne sottolinea la natura dialettica, nella quale le soggettività individuali interagiscono con le realtà intersoggettive che insieme hanno creato.
Il punto di vista intersoggettivo, quello interattivo, il costruttivismo sociale o dialettico (che sottolinea la partecipazione dell'analista alla costruzione del significato e la natura dialettica dell'esperienza) e la prospettiva relazionale - va ricordato in proposito il lavoro di S. Mitchell (1988), che utilizza il modello interpersonalista di H.S. Sullivan e l'approccio relazionale quali principi organizzatori (oggetto dell'analisi diventano, in questa prospettiva, la matrice relazionale in cui l'individuo nasce e si sviluppa, il conflitto tra diverse configurazioni relazionali e la mente concepita come diadica e interattiva) - convergono e danno forma alla più ampia corrente della psicologia bipersonale. Tale corrente ritiene di aver spostato il focus teorico-clinico dalla mente del paziente alla relazione tra analista e paziente, e di essersi differenziata dall'approccio unipersonale essenzialmente in tre ambiti: evolutivo (si sottolinea l'importanza delle fonti relazionali nella spiegazione della natura delle rappresentazioni del Sé e dell'oggetto, e della dinamica degli affetti rispetto alle fonti endogene); ontologico (rispetto alla concezione tradizionale della coscienza come epifenomeno dell'attività mentale inconscia si privilegia una concezione della coscienza come proprietà condivisa di due o più menti, finalizzata a comunicare e a costruire nuovi significati e affetti all'interno di una relazione); epistemologico (il dialogo analitico è la vera fonte di conoscenza e di insight in analisi).
Questo variegato movimento della p. statunitense ha subito molteplici influssi: tra gli influssi 'esterni' al pensiero psicoanalitico vanno ricordate la critica postmoderna alla contrapposizione positivistica tra oggetto e soggetto, il pensiero femminista, la tradizione sullivaniana e, come si diceva, l'infant research; mentre, tra le influenze 'interne', va in primo luogo annoverata la progressiva e radicale reazione di rifiuto nei confronti della psicologia dell'Io hartmanniana (rigetto che sembra estendersi tout-court all'opera di Freud, con il rischio di appiattirne strumentalmente sfumature, articolazioni e complessità); la diffusione del pensiero kleiniano e winnicottiano (filtrato, però, dall'utilizzazione di lenti interpersonaliste); e, da ultimo, ma con un impatto rilevantissimo, l'influenza, attraverso M. Balint e soprattutto C. Thomson, di S. Ferenczi e dei suoi esperimenti sull'analisi 'reciproca'.
Anche l'ambito delle riflessioni sulle dimensioni dell'interazione è caratterizzato da un ampio spettro di posizioni: vi si riflette relativamente all'esperienza intrapsichica che il paziente ha della situazione analitica; la si esamina in quanto strumento di indagine sul ruolo dell'analista nell'azione terapeutica; infine, la si assume come elemento necessario e pervasivo dell'esperienza analitica. Nella sua formulazione più articolata e chiara, la situazione terapeutica viene considerata un'interazione tra paziente e analista nella quale ciascuno agisce sull'altro ed è a sua volta influenzato dalle azioni dell'altro in una costruzione reciproca della relazione (Gill 1994). All'interno di questo punto di vista si sostiene una visione dell'analista come osservatore-partecipante che non è più l'interprete privilegiato della realtà, ma interagisce con il complesso della propria personalità e acquista progressivamente consapevolezza delle proprie reazioni emotive attraverso l'autosservazione delle proprie reazioni controtransferali sia intrapsichiche che comportamentali; è una visione che assegna in definitiva una grande importanza sia alla soggettività dell'analista sia alla necessità che egli esprima con l'azione le proprie motivazioni inconsce. Coerentemente con questa prospettiva, il controtransfert è stato considerato, alla luce del concetto di enactment (che indica una sorta di influenzamento reciproco tra paziente e analista che avrebbe luogo nel corso delle interazioni regressive della coppia analitica e si manifesta attraverso un comportamento inteso a forzare l'altro a un'azione), in termini di una creazione congiunta di paziente e analista.
Su un versante affatto diverso si pone la riflessione di A. Green (1993, 1995) che, nelle sue più recenti ricerche, ha esplorato il terreno del narcisismo (introducendovi i concetti di madre morta, di angoscia bianca e di allucinazione negativa), oltre a quello della follia originaria, della triangolazione primitiva, dei casi-limite (evidenziando qui in particolare il conflitto tra angoscia di separazione e angoscia di intrusione), della funzione disoggettualizzante, del lavoro del negativo. Green paventa il rischio che i punti di vista intersoggettivo e interattivo possano eclissare il ruolo fondante del transfert - inteso come dimensione diacronica che porta sullo scenario analitico l'intera gamma di affetti scaturiti nell'infanzia verso i genitori -, oltre a introdurre una simmetria e una trasparenza tra analista e paziente, il cui effetto finisce per essere quello di semplificare indebitamente l'oscurità dei fenomeni e dei processi inconsci. È ormai un dato acquisito che non si possa considerare il controtransfert come un fenomeno che interessi il solo analista, e che esso vada sempre letto nel suo intreccio col transfert e costituisca un frutto del lavoro dell'analisi: accanto all'originaria concezione freudiana, secondo cui il controtransfert si manifesta in accoppiamento al transfert e provoca una paralisi del pensiero, Green (1997) individua un'accezione più ampia del termine che include l'attività psichica dell'analista, la sua concezione dell'analisi e del setting, e, infine, quello che Green definisce "controtransfert all'opera", che prende corpo nel rapporto con lo specifico transfert del paziente e preserva la differenza di potenziale esistente nella coppia analitica, la centralità del transfert in quanto motore della cura e la necessità di procedere a un continuo lavoro di interpretazione del controtransfert medesimo. Con la sua critica al concetto di interazione analitica e alle seduzioni dell'osservazione sperimentale, Green ribadisce che la situazione analitica è la combinazione di ciò che è intrapsichico e ciò che è intersoggettivo, ma sostiene anche che essa va pensata in termini di un modello di relazioni tra oggetti esterni e oggetti interni, nonché tra superficie e profondità. Rileva, infine, che la scomparsa di parametri classici dell'analisi (pulsioni, fantasmi inconsci, angosce) e lo squilibrio nell'importanza attribuita all'azione a scapito del livello rappresentativo, cuore dell'esperienza psicoanalitica, sono aspetti che limiterebbero lo sguardo dell'analista ai fenomeni psichici più superficiali.
È stato inoltre notato come il concetto di interazione - che si è potuto giovare della cornice teorico-sperimentale dell'infant research, fondata su una visione interattivo-cognitivista dello sviluppo infantile - renda espliciti alcuni aspetti teorici della relazione transferale-controtransferale ed evidenzi in modo puntuale lo scarto tra le potenzialità del pensiero cosciente e le dimensioni inconsce; ed è stato notato, soprattutto, come tale concetto di interazione sia stato prefigurato all'interno di una tradizione psicoanalitica profondamente diversa, quella britannica, che con i concetti di fantasia inconscia (nei suoi effetti modificatori del comportamento umano) e di identificazione proiettiva (nell'accezione comunicativa e realistica proposta da Bion) aveva già trasformato l'oggetto di indagine psicoanalitico, privilegiando non tanto la dinamica azione-reazione quanto il ruolo dei fantasmi individuali nell'influenzare e modificare il mondo esterno e il comportamento dell'altro (Goretti Regazzoni 1997). La rilevanza problematica della posizione interattiva non sembra quindi consistere tanto nella specificità della proposta, quanto negli effetti teorici e tecnici che implicitamente comporta e che rinviano a dimensioni fondanti che attraversano l'intera storia della p.: la relazione tra realtà esterna e realtà interna, quella tra dominio intrapsichico e dominio interpersonale, il concetto di transfert come distorsione o come esperienza del paziente nel presente; e poi, ancora, le questioni della neutralità e dell'astinenza, la validità di una valutazione oggettiva o soggettiva dell'esperienza del paziente, l'accesso di quest'ultimo a elementi inconsci dell'analista.
Peraltro, una delle ricadute implicite di tale posizione potrebbe comportare la modificazione del concetto di inconscio poiché, se il lavoro analitico consiste più nel costruire nuovi significati che nello scoprirne di vecchi, l'inconscio diventa piuttosto un qualcosa che un osservatore potrebbe aspettarsi di veder emergere nella consapevolezza conscia di una persona anche se ancora non è presente: si rischia cioè che la trasparenza soggettiva sostituisca ingiustificatamente l'individuazione delle determinanti inconsce. Di fronte a una tale possibilità, che minerebbe alla base l'intera struttura psicoanalitica, è stato proposto di individuare l'identità paradigmatica della p. (in opposizione alla prospettiva ermeneutica e a quella interpersonalista) nell'articolazione dello statuto dell'oggetto e del metodo analitici: l'oggetto analitico è costituito dalla realtà psichica inconscia, delimitato dal versante somato-psichico e dalla teoria che ne rende possibile l'indagine; il metodo è un'attività decostruttiva che utilizza regole di ascolto e di ricomposizione del senso analoghe a quelle del lavoro onirico, ed è volto alla trasformazione del soggetto, attraverso un'esperienza di verità (Riolo 1999). Rinnovare l'inscindibilità dell'intreccio freudiano tra teoria, metodo e cura costituirebbe quindi, secondo questa prospettiva, la strada da percorrere per rendere euristica una definizione della specificità psicoanalitica. La vitalità della ricerca teorica e di quella clinica, e la diffusa consapevolezza della complessità ormai raggiunta dalla p. di fine 20° secolo ci richiamano alla mente il desiderio (originariamente riferito agli anni Novanta, ma senz'altro estensibile al primo decennio del 21° secolo) di poter realizzare una p. autenticamente pluralistica e relativistica, il cui oggetto sia la cognizione degli affetti e del dolore umano (Corrao 1989).
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