Psicologia analitica
di Vincenzo Cappelletti
sommario: 1. Le divergenze fra Jung e Freud. □ 2. I fondamenti della psicologia analitica. □ Bibliografia.
1. Le divergenze fra Jung e Freud
‛Psicologia analitica' è un'espressione che Jung usa la prima volta il 5 agosto 1913, in General aspects of psychoanalysis, conferenza letta alla Società psicomedica di Londra. Il 1913 è un anno cruciale nella storia del movimento psicanalitico. Il 3 gennaio Freud scrive a Jung da Vienna: ‟Le propongo di interrompere ogni nostro rapporto privato", e Jung risponde il 6 da Zurigo: ‟Mi atterrò al Suo desiderio di por termine ai rapporti personali, poiché non impongo mai la mia amicizia. Del resto, quel che un tal momento significhi per Lei, Lei stesso saprà meglio di chiunque altro". Cruda allusione a un'amicizia ch'era stata intensa e ricca di speranze, come poche altre che gli epistolari scientifici abbiano tramandate. ‟Non so se avrà avuto o avrà fortuna o sfortuna - aveva scritto Freud a Jung il 2 settembre 1907, riferendosi a una conferenza sulla psicanalisi che Jung doveva tenere ad Amsterdam -, ma proprio in questo momento vorrei essere con Lei, gioire di non essere più solo, e raccontarLe, se Lei avesse bisogno d'incoraggiamento, dei lunghi anni di dignitosa ma dolorosa solitudine, che per me ebbero inizio appena ebbi gettato il primo sguardo sul nuovo mondo; della mancanza di partecipazione e comprensione degli amici più vicini; degli episodi angosciosi, quando io stesso credevo d'aver sbagliato, e meditavo come poter rendere ancora utile alla famiglia un'esistenza fallita; della convinzione che si consolidò poco a poco, e che poté poi sempre aggrapparsi all'interpretazione dei sogni come a una roccia nei flutti; e della pacata sicurezza che finalmente s'impadronì di me e m'impose di attendere finché una voce dall'ignota moltitudine rispondesse alla mia. Fu la Sua voce [...]". Poi, il consolidarsi di opposte convinzioni sulla natura dell'‛accadere psichico' (quest'espressione pregnante deriva dal titolo d'un noto lavoro di Freud, apparso nel 1911 sullo ‟Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschung": Formulierungen über die zwei Prinzipien des psychischen Geschehens).
Da una parte, l'affermazione del dato pulsionale, visto attraverso l'‛apparato' psichico, cioè attraverso una dialettica di inconscio e coscienza mediata prima dalla censura, poi dal Super-Io (dopo Das Ich und das Es, del 1923). Nel carteggio tra Freud e Jung, fonte di giudizi rivelatori, troviamo un passo illuminante di una lettera di Freud dell'aprile 1908: ‟Sono alquanto seccato con Bleuler, perché vuole accettare la psicologia senza la sessualità, sicché tutto resta campato in aria. Invece i processi sessuali forniscono il fondamento organico che mancava, senza del quale il medico si trova sperduto nella vita psichica". E ancora: ‟Provo una repulsione di principio verso l'ipotesi che le mie idee sarebbero giuste, ma solo per una parte dei casi [...]. Non è possibile. O tutto o nulla". Dall'altra parte, lo stesso realismo, lo stesso bisogno di capire e definire la psiche, espresso con le medesime parole: nell'autobiografia di Jung leggiamo che gli anni di pratica al Burghölzli, la clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo, erano stati ispirati da un ‟bruciante" interrogativo su quel che accade nel malato mentale. Ma accanto, anzi, dietro a ciò l'intuizione di una ‟realtà dell'anima" rispecchiata dalla struttura della psiche, presupposta dal bisogno interpretativo dell'Io verso i contenuti del proprio pensiero, implicita nella dialettica ubiquitaria tra segno e simbolo. Sullo sfondo della ricerca freudiana, cogliamo la possente unificazione fisicistica della natura, ottenuta da H. Helmholtz con la memoria del 1847 sulla conservazione dell'energia, e riproposta da E. W. Brucke, fisiologo dell'Università di Vienna e allievo, come lo Helmholtz, di J. Müller. Attorno a Jung, mediato da riferimenti culturali compositi e dalla personalità di E. Bleuler, il nosografo delle schizofrenie, troviamo un mondo diverso: una psicobiologia di remote ascendenze lamarckiane e le discipline convergenti nella tematica del simbolo.
Al IV congresso dell'Associazione Psicanalitica Internazionale, nel settembre 1913 a Monaco di Baviera, Jung si presenta con un'originalità di vedute irriducibile alle posizioni di Freud: il distacco anche dal consesso associativo è maturo. Nell'aprile 1914 Jung si dimetterà dalla presidenza dell'Associazione, sostituito interinalmente da K. Abraham; a luglio, il gruppo di Zurigo deciderà di abbandonare l'Associazione Psicanalitica. ‟Al congresso di Monaco - riferisce Freud in un noto articolo sulla storia del movimento psicanalitico, pubblicato nel 1914 sullo ‟Jahrbuch" - mi parve necessario chiarire la confusione, e dichiarare a tal fine che non riconoscevo nelle innovazioni degli Svizzeri una legittima continuità e ulteriori sviluppi della psicanalisi, quale aveva tratto origine da me".
Nello stesso scritto Freud riconosce lealmente che i germi del dissenso con Jung erano remoti, e che Jung forse più di Bleuler aveva contribuito alla teoria dei ‛complessi', formulata nelle Diagnostische Assoziationsstudien sulla base degli esperimenti associativi. Ma aggiunge: ‟io non attribuisco a queste ricerche l'alto valore che è loro attribuito da altri autori, interessati meno da vicino". Jung, il laureando in medicina con una tesi sulla psicologia dei fenomeni occulti, il sagace lettore dei primi lavori di Freud sull'isteria e le neuropsicosi di difesa, aveva trovato nel concetto di ‛complesso' la chiave interpretativa della struttura del campo psichico. Una struttura potenzialmente circolare, caratterizzata da molteplici percorsi associativi verso un centro, dove il nesso tra parola - e rappresentazione - ed esperienza vissuta dal soggetto prevale su ogni altro, estrinseco. Com'è noto, l'esperimento associativo di Jung registrava l'aumento dei tempi di reazione alla parola-stimolo con il diminuire della distanza dal termine legato alla rappresentazione significante. Struttura circolare del campo psichico, abbiamo detto: diversa, dunque, dalla struttura lineare dell'‛apparato', che Freud postulava nel capitolo settimo della Traumdeutung. Una prima causa di remoto dissenso, alla quale se ne sarebbe presto aggiunta un'altra, derivante dall'interpretazione del nesso significativo tra evento e segno, vissuto e rappresentazione. E qui avverrà la rottura del 1913, che sarà significativa per questo e non per i piccoli episodi personali su cui ha avuto il torto d'insistere E. Jones nella sua biografia freudiana: la mancata visita a Jung di Freud recatosi da Binswanger convalescente da una grave operazione, quel che Jung chiama ‟il gesto di Kreuzlingen" nella lettera a Freud dell'11 novembre 1912, e lo svenimento di Freud alla conferenza dei presidenti dell'Associazione, svoltasi nel novembre 1912 a Monaco di Baviera.
Interpretare il messaggio della psiche malata, spiegare il meccanismo della malattia: tale la divergenza originaria, ed essenziale, che lo stesso Freud pone tra sé e la scuola di Zurigo. Nell'articolo citato sulla storia del movimento psicanalitico scrive, riferendosi al lavoro del 1896 sulle neuropsicosi di difesa: ‟Già allora miravo a una teoria libidica delle nevrosi che doveva spiegare tutti i fenomeni nevrotici e psicotici come derivanti da vicende abnormi della libido, cioè come deviazioni dal suo impiego normale. Gli studiosi svizzeri non aderirono a questo mio punto di vista". La ‛libido': termine, più che primitivo, primario nella teoria freudiana. ‟È difficile darne una definizione soddisfacente", notano gli autori del Vocabulaire de la psychanalyse. La libido, in Freud, è appetizione, desiderio - il Wunsch della Traumdeutung - capace di orientarsi verso mete diverse, dall'altro individuo a oggetti ideali e all'Io, ma derivante dalla sessualità, il ‟fondamento organico" di cui Freud parla nella lettera a Jung, citata, dell'aprile 1908. Jung aveva accettato il termine, aveva accettato l'esigenza concreta, si direbbe realistica, d'intenderla come causa di effetti osservabili, e dunque di farne un'energia, ma ‛energia psichica'. Prima di passare nel titolo di una delle maggiori costruzioni teoriche di Jung, Wandlungen und Symbole der Libido, il termine, e la teoria correlativa, erano stati oggetto di analisi rigorosa nelle lezioni tenute da Jung all'Università Fordham di New York, nel settembre 1912, uscite l'anno successivo sullo ‟Jahrbuch", e pubblicate nel volume Versuch einer Darstellung der psychoanalytischen Theone. Vi troviamo un passo d'importanza decisiva: ‟Credo di non errare affermando che l'autentico valore del concetto di libido consiste non nella definizione sessuale, ma nell'accezione energetica, che ci mette a disposizione un principio euristico di estremo valore. [...]. C'inganneremmo, se credessimo di poter fare della libido sexualis il veicolo di una concezione energetica della vita psichica, e se molti scolari di Freud credono di possedere una concezione ben definita e, per così dire, concreta della libido, non s'avvedono che tale concetto è stato adoperato per usi che superano largamente i limiti d'ogni definizione sessuale". Non si esce dall'esigenza realistica: ma per Freud tutto resta ‟campato in aria" se non si muove dalla sessualità, per Jung il fondamento, il punto di partenza del processo psichico, nel 1913, l'anno della rottura, è tutto da scoprire. E la scoperta poteva diventare il fine di una vita. Nell'aprile 1913 Jung si dimette dalla facoltà di medicina dell'Università di Zurigo. ‟Allora - scrive nell'autobiografia - mi dedicai totalmente al servizio dell'anima".
2. I fondamenti della psicologia analitica
Quando Jung comincia a parlare, e a prendere coscienza della radicale diversità tra due orientamenti della psicanalisi, la psicologia analitica si delinea come un vigoroso tentativo d'impostare una psicologia generale simmetrica alla psicopatologia. Quasi mai viene messo nel debito rilievo che la teoria freudiana e la junghiana, all'inizio del secondo decennio del secolo, hanno riferimenti oggettivi diversi: la malattia mentale da una parte, la psiche dall'altra. Freud tende a scoprire cause efficienti, Jung ha bisogno di definire principi formali, una vera e propria natura mentis, si potrebbe dire con parole di Kant, un filosofo che Jung ha letto per capire Schopenhauer. Tende, insomma, a cancellarsi, in Jung, quell'asimmetria fra psicopatologia e psicologia generale, che era e sarebbe stata un dato costante nel secolo. Fuori dello stimolante contatto con la psicopatologia, la psicologia assumerà spesso un aspetto ‛accademico', descrittivo, che sarà efficacemente individuato da Anna Freud, ma si trova in varie annotazioni junghiane, qualificato con lo stesso termine. E viceversa, fuori del contatto con la psicologia, la psicopatologia rischierà di entificare le categorie nosografiche di malattia e guarigione in misure immediate dell'accadere psichico, e di perder di vista il problema della dimensione certamente preterumana, e forse cosmica, della psichicità. Il concetto di simbolo è la prima, duratura conquista della psicologia generale junghiana. La grande opera del 1912 - essa, all'origine, ‟non è che il commento diffuso di un'analisi ‛pratica' degli stadi prodromici di una schizofrenia", un caso descritto nel 1906 da Th. Flournoy sulle ‟Archives de psychologie" - vedrà mutato il titolo nella quarta edizione, del 1952, in Symbole der Wandlungen, ‛simboli della trasformazione', con l'accento posto sul termine di significato essenziale. Simbolo, chiarisce Jung, non è né allegoria né segno, ma immagine di un contenuto che per la massima parte trascende la coscienza. È un'espressione indeterminata, che indica qualcosa di difficilmente definibile, di non appieno conosciuto. Possiede numerose varianti, analoghe. E ne possiede altre, derivate da comparazione non analogica, ma causativa: in quest'ultima si ritrovano nel simbolo elementi riferibili agli effetti della realtà simbolizzata. ‟Queste comparazioni - non esita ad aggiungere - rappresentano altrettante possibilità simboliche, e per tal motivo tutti i simboli nella loro infinita varietà [...] possono essere ridotti essenzialmente a una radice semplicissima, cioè alla libido e ai suoi attributi". Affermazione che desterebbe sorpresa, o apparirebbe almeno poco chiara, se l'analisi dell'elemento propulsivo della vita psichica, chiamato ancora libido con il termine delle freudiane Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie, non si facesse strada verso significati ben più profondi, radicali: appetizione, interpretazione, intenzionalità. Il presupposto psicobiologico affiora nitidamente, in più punti: e si coglie nel titolo stesso, dove il termine Wandlungen, ‛trasformazioni', denota un processo energetico che va dalla genesi della forma all'emergenza pulsionale e all'attività rappresentativa. Se ne conoscessimo la causa, osserva Jung, sapremmo che cos'è la psiche. Intanto si precisa la posizione junghiana verso il concetto di libido: essa è ‟un valore energetico capace di comunicarsi a qualsiasi tipo di attività", è, come la volontà in Schopenhauer, un'entità noumenica che trascende le sue manifestazioni apparenti. É momento di una ‟forza creatrice che l'uomo conosce solo come esperienza soggettiva". E tuttavia Jung tenterà di comprendere il nucleo oggettivo della trasformazione reale, di far affiorare alla coscienza l'inconscio che la trascende. ‟La mia coscienza - scriverà nell'autobiografia - [...] è la mia sola luce", con parole che, forse per criptomnesia, ricordano quelle di Freud sulla coscienza come ‟unico faro" - Licht in Jung, Leuchte in Freud - nella tenebra della psicologia del profondo. Il simbolo riprodurrà, nella vicenda della ricerca junghiana, l'antica tessera hospitalitatis, la moneta spezzata che gli amici si scambiavano all'atto del congedo, nell'attesa di ricomporla.
Nel panorama delle discipline antropologiche, la psicologia analitica diventa d'ora in poi uno dei più significativi punti d'incontro fra tradizione e sapere positivo, gnoseologia e scienze, ricerca teoretica e ricerche sulla cultura (la burckhardtiana Kulturgeschichte, che ha tanto peso nel costituirsi delle scienze umane, e della quale anche Jung riconoscera l'influenza sul proprio lavoro). L'Einführung in das Wesen der Mythologie - l'opera che uscirà nel 1940, in collaborazione con K. Kerényi, sul mito inteso come avvento o salto originario, Ur-sprung, del reale nella psiche - e implicita, trent'anni prima, nel ciclo simbologico delle Wandlungen. Dall'uno all'altro estremo avverranno periodiche retroazioni dalla periferia al centro della ricerca: le indagini sulle forme rappresentative mostreranno d'implicare un'essenza del processo psichico o, meglio, un'idea di tale essenza. Intanto la vicenda biografica, dopo la rottura con Freud e la rinunzia all'insegnamento universitario, è caratterizzata da perplessità, dal senso di ‟aver ricevuto un messaggio di forza irresistibile", e dall'intuizione, positiva, che ‟scopo dello sviluppo psichico è il Sé", ovvero la costruzione di un vivente nesso tra l'Io e l'universale. Si stabiliscono nuovi rapporti tra psichiatria e scienze umane, storia della cultura, storia della scienza. Jung si avvicina all'alchimia con la lettura di un testo taoista, Il segreto del fiore d'oro, tradotto dal sinologo R. Wilhelm, e ne scrive un ‟commento europeo" per le edizioni tedesca del 1929 e inglese del 1931. Dal 1913, riferisce nella premessa alla seconda edizione tedesca, del 1938, l'inconscio collettivo era al centro dei suoi interessi: e nella ‟perla d'intelligenza intuitiva" rappresentata dal testo sapienziale del Tao egli trova un'insperata ‟possibilità di confronto", un'‟estesa fenomenologia" delle idee sul processo d'individuazione, maturate sul terreno psichiatrico. Il fiore d'oro è un simbolo della luce del Tao, unità di vita e coscienza, che promana da un centro verso una periferia circolare. È un simbolo che promette una mediazione fra la totalità e il soggetto individuale, non nell'Io, che è l'individuo dato, circoscritto dal corpo e dalla serie degli eventi vissuti, ma nel Sé, soggetto ricongiunto con l'universale, che Jung definisce in Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten, del 1928. Esigenza di confronti, di una fenomenologia delle idee: sono accenni che devono essere raccolti, perché mostrano Jung intento all'ardua ricerca d'un campo di riferimenti oggettivi, oltre la nosografia, ma al di qua di una ragione pura, di una metafisica, kantianamente poste in dubbio e non troppo amate. L'uscita dalla psichiatria verso la storia della cultura e l'antropologia culturale nasce dalla raggiunta consapevolezza che l'analisi trascende l'esperienza psicoterapeutica. Quando la cura finisce perché le circostanze contribuiscono a ripristinare un'apparente normalità, il cammino verso l'inconscio continua ‟per alcuni soggetti", e provoca ‟metamorfosi ulteriori": Jung afferma questo fatto, e ne rivendica il significato, nella conferenza Symboles oniriques du processus d'individuation, tenuta nel 1935 ad Ascona, per l'annuale incontro della Fondazione Eranos. Il vissuto analitico ha un semantema, l'immagine, a plasmare la quale provvede non ciò ch'è esterno ma ciò ch'è interno alla soggettività, con forza decrescente dall'archetipo al simbolo, e dal simbolo alla metafora. Una classe d'immagini, i mandata - parola sanscrita che significa ‛circolo', ed è il termine induista per le raffigurazioni circolari dei rituali ascetici - occupano un posto precipuo nell'analisi junghiana dell'inconscio collettivo, anche perché, secondo l'autobiografia, ebbero per Jung una decisiva efficacia autoanalitica. Lo studio dell'‟immaginazione attiva", della facoltà creatrice d'immagini che esprimono i nessi tra l'inconscio e l'Io, crea le premesse ai futuri sviluppi della psicologia archetipica, ed è una delle correnti che affluiscono alla ricerca contemporanea sull'immaginario.
Il problema che Jung deve affrontare, per giungere alla piena originalità di se stesso, è sostanzialmente uno: la struttura dell'inconscio. E la conferenza che, su questo tema, egli tiene alla Scuola di psicologia analitica di Zurigo nel 1916, e nel 1928 rielabora nelle citate Beziehungen, resterà forse a rappresentare il breviario di un'opera che nella sua interezza appare ricca di ripetizioni, di ridondanze, e talvolta estenuata dalla ricchezza del simbolismo. Jung nega l'identità di inconscio e rimosso, e distingue l'inconscio in personale e collettivo. Se il meccanismo generatore dell'inconscio fosse la rimozione, i contenuti avrebbero sempre un carattere personale. Ma i contenuti dell'inconscio sono analoghi tra individui, nonché tra culture ed età diverse, e costituiscono il profondo strato comune alla psiche umana, costellato di ‟immagini dinamiche", gli archetipi, e di virtualità simbologiche. ‟Da questo punto di vista la personalità conscia ci appare come un segmento più o meno arbitrario della psiche collettiva; Essa deve la propria esistenza al fatto d'essere, fin dall'inizio, inconsapevole di queste caratteristiche fondamentali e universali dell'umanità": così scrive nel lavoro del 1916, introducendo il concetto dell'individuo come ‛persona', nel senso originario di maschera, sovrapposta a un volto autentico e sconosciuto. Ma la malattia mentale, e l'incontro psicoterapeutico, si lasciano alle spalle l'insufficienza dello sbocco ‛personale' del processo d'individuazione. Dove tendere? Per capire Jung, bisogna passare attraverso questo quesito, psichiatrico e teoretico. ‟La mia vita è stata permeata e sostenuta da un'unica idea e da un fine unico: penetrare nel segreto della personalità. Tutto può essere spiegato da questo punto centrale, e tutte le mie opere hanno quest'unico tema", scriverà nell'autobiografia. Nel testo del 1916-1928 raffigura tre strade: la regressiva, dall'apertura del soggetto sul problema dell'individuazione al ripristino della persona come maschera dell'autentico e ‟segmento della psiche collettiva"; l'identificazione di individuo e psiche collettiva, con la rischiosa conseguenza dell'atteggiarsi del singolo a voce dell'umanità; infine, l'individuazione. ‟Individuarsi - chiarisce nelle Beziehungen - significa diventare un essere singolo e, poiché intendiamo per individualità la nostra più intima, ultima, incomparabile e singola peculiarità, diventare noi stessi, attuare il proprio Sé". I fattori universali della personalità, aggiunge poco dopo, sono presenti in forma individuale, e il tenerne conto produce anche ‟un effetto individuale". Il Sé, si dovrebbe concludere, trasforma il collettivo in universalità espressa, sviluppata, vissuta dall'individuo. Ma questa trasformazione, che è un'interpretazione, non ha più carattere analitico. La ‟funzione trascendente" - così Jung chiama il lavoro psichico che cerca di integrare l'inconscio collettivo nella coscienza - segue un metodo sintetico o costruttivo, volto sostanzialmente al recupero di significati attraverso l'‟amplificazione" e l'‟interpretazione al livello soggettivo". Di questi concetti, che conferiscono alla sua psicoterapia un'impronta attiva, ermeneutica, Jung parla in Über die Psychologie des Unbewussten, uscito nel 1917 e ripubblicato nel 1942. L'amplificazione consiste nell'arricchimento dei contenuti psichici inconsci attraverso associazioni e analogie; invece l'interpretazione soggettiva libera i complessi mnestici dalle circostanze esterne, facendone i segni e i simboli della personalità che si realizza. Il sogno non ha intensità tale da ‟sbalzare di sella la coscienza": deve intervenire il terapeuta, amplificando e interpretando soggettivamente.
Questo saldo ancoraggio alla psichiatria d'una psicologia analitica che diventa sintetica è provvido, tra l'una e l'altra uscita nel mare aperto della gnosi, dell'alchimia, dell'Oriente con la sua ridondante simbologia, delle culture primitive, del mito. Confronti e fenomenologia delle idee sono, senza dubbio, una via necessaria per chi voglia rimanere sul terreno positivo e tuttavia aprirsi a ogni remota suggestione: ma i concetti rischiano di perdere la loro connotazione rigorosa, e di simulare un'inesistente continuità dello spazio logico, reso invece discreto, tra punto e punto, dalla differentia specifica della definizione. Altra via è quella di K. Jaspers nell'Allgemeine Psychopathologie (1913): la ricostruzione del vissuto psichico da premesse teoretiche. Ma Jung preferisce l'atteggiamento fenomenologico perché dubita delle ‛visioni del mondo', o almeno della possibilità che in esse l'elemento soggettivo del vedere si risolva in quello oggettivo di una mondanità reale. Ai rapporti fra visioni del mondo e psicologia analitica egli dedica uno dei testi più vivaci e chiari, la conferenza tenuta a Karlsruhe nel 1927 su Analytische Psychologie und Weltanschauung. ‟L'errore fondamentale di ogni visione del mondo è la sua singolare tendenza a essere considerata essa stessa come la verità delle cose, mentre in realtà non è che il nome che noi diamo alle cose". Nei contemporanei costruttori di ideologie torna l'illusione dei primitivi sui nomi che conterrebbero il segreto degli oggetti: la pronunzia del termine equivarrebbe al possesso della verità. Invece la verità dev'essere attinta, con la scienza, dall'esperienza diretta del reale. L'inconscio è un grande serbatoio di possibili rivelazioni: nelle ‟profondità dell'Io" possiamo ascoltare ‟l'Essere e il Divenire creatori", ma senza decifrarli. La psicologia analitica ha il merito di aver rivendicato l'influsso dell'inconscio sulla coscienza che voglia comprendere. Ma per formulare una visione del mondo occorre una ‟decisione creatrice, per affidare la nostra vita a questa o a quella ipotesi". Senza etica, come per Kant, non c'è metafisica. Jung dubita, in sostanza, della possibilità di confrontare l'esperienza positiva dell'inconscio con la determinazione razionale dell'intellegibile, cioè con la filosofia e la sua storia. Per i propri confronti, la psicologia analitica usa più volentieri un sapere che si sia espresso in forma indiretta. E Jung avvicina metafora a metafora, per integrare intuizione con intuizione. Il simbolo resta per lui quel ch'era divenuto nelle Wandlungen: semantema essenziale, espressione vivente della penetrazione soggettiva nel significato. Tra le definizioni contenute nell'undicesimo capitolo dell'ampia opera sui tipi psicologici - Psychologische Typen, del 1921 - la più ampia e ricca di contenuti è proprio quella di simbolo. Vi troviamo, anzitutto, conferma di una radice culturale, quasi mai citata, della riflessione simbologica junghiana: l'opera di G. Ferrero su I simboli in rapporto alla storia e filosofia del diritto, del 1893. Che cosa sia, per Jung, il simbolismo, lo cogliamo nel passo dove distingue la concezione semiotica del simbolo da quella propriamente simbologica. Per l'una il simbolo è un'analogia, per l'altra è ‟la migliore formulazione possibile d'una cosa relativamente ‛sconosciuta', la quale proprio per questo non può essere rappresentata in modo più chiaro o caratteristico". C'è il simbolo vivo perché pregno di significato, e il simbolo morto perché decaduto a valore storico. Freud ha parlato, a proposito delle psiconevrosi, di atti sintomatici e non simbolici, perché ne presumeva noti il fondamento, la causa. L'opposto del simbolo si configura, dunque, non come segno, che l'espressione simbolica usa e trasvaluta, ma come sintomo, quel compromesso tra pulsione e coscienza che Freud aveva genialmente individuato nella manifestazione delle nevrosi non attuali. Il simbolo è ciò che non è mero sintomo, alla luce della definizione di Psychologische Typen, e la psicologia analitica si presenta come l'ermeneutica dell'inconscio capace di proseguire il compito della psicanalisi, di penetrare la dinamica del soggetto, prima della malattia e dopo il ripristino d'una normalità apparente.
Il simbolismo di Jung, dalle Wandlungen del 1912 all'Einführung del 1940 attraverso l'opera sui tipi psicologici, ravviva nelle scienze umane una dialettica sopita, ma fondamentale: quella tra i concetti di primitivo e originario. Primitive culture di E. Burnett Tylor, iniziatore della nuova antropologia, era uscito nel 1871: ma è del 1911 The mind of primitive man di Fr. Boas, lo studioso delle culture indiane nel Nordamerica, e del 1922 La mentalité primitive di L. Lévy-Bruhl, fondatore dell'Institut d'Éthnologie. Citazioni quasi fortuite, ma sufficienti a mostrare la centralità del problema della protostoria nell'antropologia culturale e sociale. S'indaga la primitività alla luce di un duplice presupposto, metodologico e teoretico. In termini di metodo, la nuova antropologia vuol essere verifica e più precisa determinazione dell'idea a confronto del fatto, di nozioni filosofiche della soggettività - pensiero, ragione, coscienza - a confronto della ‛cultura' intesa come l'insieme delle manifestazioni umane osservabili. Ma la cultura primitiva - o, più recentemente, il ‛pensiero selvaggio' di Cl. Lévi-Strauss - non è soltanto osservabile, è opposta rispetto all'osservatore: corrisponde all'inizio di quel processo, evolutivo o metamorfico, di cui l'osservatore presume d'essere la forma compiuta. Primitività e civiltà: tra esse l'antropologia culturale inserisce l'altro suo presupposto conoscitivo, la storia. Ma è un presupposto ambiguo, che chiede d'essere a sua volta definito. Per lo più, la storia è intesa come progresso, sulla via, dice Boas, di ‟un'applicazione della teoria dell'evoluzione biologica ai fenomeni intellettuali", sebbene qualcuno partecipi intensamente al mondo perduto che rievoca: così J. Frazer, quando nel classico The golden bough raffigura costumi e riti che si svolgevano attorno al tempio di Diana ad Ariccia; o, in anni successivi, M. Griaule, quando cercherà di decifrare il sistema cosmico della parola formulato dalle popolazioni Dogon della Guinea. Ma con l'interpretazione evoluzionistica del passaggio dalla primitività alla civiltà contrasta la ricerca mitografica e mitologica. L'una scopre uniformità, ricorrenze che mal si conciliano con un'impostazione spaziotemporale della mitogenesi, o con quella che sarà l'ipotesi levistraussiana di un ‛bricolage intellettuale'; più radicalmente, l'altra recupera la trascendenza del simbolo sull'allegoria, di una forma e una situazione conoscitiva sulle formule retoriche. È del 1925, dunque degli anni della maturità junghiana, il secondo volume, Das mytische Denken, della Philosophie der symbolischen Formen di E. Cassirer: una pagina, riferirà Fr. Saxl in The philosophy of Ernst Cassirer, del capitolo della cultura europea che ruota attorno all'Istituto e alla Biblioteca Warburg di Amburgo. Cassirer è saldamente legato alla Philosophie der Mythologie dell'ultimo Schelling e alla convinzione schellinghiana che nella mitopoiesi ‟l'uomo è mosso da potenze che sorgono all'interno della coscienza", e che sono lo stesso processo conoscitivo nel suo tendere verso la vera e piena assolutezza. Mito e simbolo, affermano concordemente Jung e Cassirer, con una reciproca mancanza di nessi che non può non sorprendere, appartengono a una struttura e non a una successione, a un'ontogenesi del conoscere, si potrebbe dire, non a una filogenesi. Il problema delle origini umane è duplice: è problema delle origini dell'umanità, e problema della genesi della coscienza. Chiuso nella smagliante armatura delle Geisteswissenschaften che racchiudono la sua costruzione concettuale; consapevole, con Scheler, della drammatica insicurezza dell'uomo contemporaneo sulla propria origine e il proprio destino, Cassirer sembra diffidare della psicologia a eccezione della Gestaltpsychologie - e non accorgersi appieno delle indagini in corso su una primitività creatrice di miti e di metafisiche, fervida testimone dell'originario. Accanto a lui, negli stessi anni e con interessi sostanzialmente affini, Jung annota invece stretti legami fra psicopatologia, mitografia e antropologia culturale: e il suo orientamento è tanto più realistico, quanto più l'esperienza psicopatologica diviene la variabile indipendente della ricerca, la guida a una sintesi concettuale.
Scrive in Die Entschleierung der Seele, del 1931, pubblicato due anni dopo in inglese con il titolo The basic postulates of analytical psychology: ‟Come i primitivi, noi siamo affatto inconsapevoli, all'inizio, delle nostre azioni, e scopriamo solo molto dopo perché ci siamo comportati in una certa maniera. Frattanto, ci accontentiamo d'ogni sorta di razionalizzazioni del nostro comportamento, tutte parimenti inadeguate". Abbiamo scoperto la psiche, ma crediamo di doverne fare un effetto di un'entità indefinita, la materia. O, viceversa, creiamo psicologie senza psiche, ‟con pretese meramente accademiche, [...] spiegazioni che non hanno peso nella vita". La psicoterapia lotta per rendere le persone idonee alla vita, e non può indulgere a teorie che non abbiano alcun rapporto con la vicenda della malattia mentale. Un fatto: il suicidio di pazienti ai quali lo psicoterapeuta cerca d'imporre una spiegazione ‛spirituale' della loro sofferenza. Ma allora la psicologia che tenda a impostare il paradosso della vita psichica, il conflitto tra natura e spirito, diventa conoscenza o almeno intuizione essenziale della realtà. E tuttavia il confine della psiche, dello psichico, è insuperabile: ‟Tutto ciò di cui ho esperienza è psichico". Se è contraddittoria la realtà sulla quale la psiche si affaccia, può non esserlo la psiche in se stessa? Non può: la psiche è la totalità dell'esperienza possibile, e la contraddizione insita nella realtà è la sua contraddizione, l'impossibilità di riconoscersi come natura o come spirito, come materia o come mente, e finanche come unità rappresentativa di entrambi. La psiche ‟è in ultima analisi ‛alcunché' incomprensibile". Se l'energia è Dio, o Dio è l'energia, Jung non sa dirlo. Un'affermazione che si riflette sulla vecchia polemica con Freud, se la libido fosse energia pulsionale o semplicemente psichica, mostrando che i termini del problema sono cambiati. Cambiati nella torre di Bollingen - ‟vecchia terra consacrata, appartenuta al monastero di San Gallo", nello ‟scenario incantevole della parte superiore del lago di Zurigo": il ritiro spirituale che Jung comincia a costruirsi nel 1922 -; cambiati alla Berggasse di Vienna, dove, dinnanzi allo sguardo classicamente lucido e freddo di Freud, sorgono forme e nomi nuovi a ravvivare lo scenario ermeneutico della psicologia del profondo: pulsione di morte, potenze del destino, e l'Io, un Io che non recita più la parte ‟dello stupido clown Angus nel circo", come aveva scritto a Jung l'1 marzo 1911, con una sferzante allusione alla dissidenza di Adler. E un mattino del settembre 1927, a Binswanger andato a restituirgli la visita di alcuni anni prima, Freud dichiara: ‟Sì. lo spirito è tutto. L'umanità ha sempre saputo di possedere lo spirito: io dovevo mostrarle che esistono anche gli istinti". Forse negli anni trenta il dissidio s'era ricomposto, sebbene i protagonisti non volessero confessarlo; forse li aveva riuniti un Wunsch nach Realität, un desiderio di realtà - l'espressione è in una lettera di Jung a Freud del 13 maggio 1907 - che entrambi dubitavano di poter soddisfare.
Perché legato all'operare psicoterapeutico, l'orientamento di Jung resta realistico nelle opere della tarda maturità, malgrado l'ampliarsi della prospettiva con le avventurose sortite nell'alchimia, nella gnosi, nelle religioni orientali. In Grundfragen der Psychoterapie, del 1951 - l'ultimo suo lavoro su questa materia - ripeterà l'immanenza della teoria psicologica e psicopatologica all'esperienza concreta della cura della malattia mentale, ma anche la necessità della teoria per cogliere la ricchezza e impostare in maniera ‛individuale' il rapporto terapeutico. L'individuazione: fino a questo punto, non oltre, si riesce a leggere la realtà dell'anima. Per andar oltre, Jung avrebbe dovuto precisare i termini della ricerca, e affinarne il metodo. E avrebbe dovuto scegliere tra il riferirsi a una filosofia che aveva dato tanta parte alla temporalità nella costruzione del vissuto razionale, la critica di Kant, e il richiamarsi al disvelamento schopenhaueriano del noumeno: Kant e Schopenhauer sono i filosofi che Jung più spesso cita. Nella cultura a lui contemporanea, Jung è privo di rapporti, non solo con Cassirer, ma con Husserl. Se con Cassirer perde la possibilità d'una scelta più larga e oculata di autori e testi, con i quali procedere all'amplificazione del dato simbolico raccolto nella psicoterapia, con Husserl si preclude quell'esperienza costitutiva e intuitiva, soltanto razionale, rispetto all'osservazione e alla sperimentazione, che è propria al momento fenomenologico del Vordenken. La Phänomenologische Psychologie, con le lezioni tenute da Husserl a Friburgo nel semestre estivo del 1925, uscirà postuma, nel 1962, a cura di W. Biemel, apportando alla psicologia e alla psichiatria il rigore e la ricchezza d'un pensiero che si richiama al Dilthey delle Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, per aggiungere il momento, positivo, della definizione rigorosa a quello, negativo, della critica al naturalismo. È soprattutto Aion: Untersuchungen zur Symbolgeschichte, del 1951, con il suo intreccio di ricerche sull'orizzonte della vicenda psichica - documento di una psicologia, afferma Jung, che ha per oggetto ‟la fenomenologia della psiche" - e sugli archetipi, a richiamare il tentativo husserliano di costituire un mondo dall'Io, ad amplificarne la drammatica oscillazione tra assolutezza antropologica e possibile assolutezza oggettiva, ad avvalorarne l'esigenza di rigore di fronte alla pura e semplice descrizione di frammentarie esperienze. La considerazione della psicologia come campo prioritario della ricerca fenomenologica non è, d'altra parte, propria soltanto all'opera postuma su citata: si ritrova, ad esempio, nell'articolo di Husserl del 1929 sull'Encyclopaedia Britannica. L'Io husserliano comprende l'Io e il Sé, definiti da Jung, in Aion, l'uno come centro del campo di coscienza, l'altro come centro d'una totalità da costruire e momento che reinserisce l'inconscio accanto al conscio, quel che il soggetto eredita accanto a ciò ch'egli esperisce. Ma se il Sé junghiano non è tanto diverso dall'Io husserliano che costituisce, attorno alla propria innegabile datità, il mondo, esso può, poteva, da Jung, esser messo a confronto con i presupposti di quell'universo reale della natura e della storia, che è rispettivamente postulato dalla scienza e fatto essere dalla prassi creativa. Perché non cercare nella ragione, e nella vita, l'‛amplificazione' ermeneutica dell'inconscio da incorporare nella coscienza? Il Sé non è l'opposto dell'Io, ma il suo spazio; e l'Io è il fine del Sé, l'entelechia di Faust. Simbolo e idea, ignoto e noto sono intrinseci l'uno all'altro: amplificare il simbolo significa arricchire le certezze della ragione. Anche la scienza è simbolica, afferma Jung in Psychologische Typen. Si può concepire ‟anche l'espressione matematica come un simbolo che sta per un dato di fatto psichico sconosciuto, tenuto celato nell'intenzione che lo ha generato, purché sia dimostrabile che questo dato di fatto non è noto a colui che ha creato l'espressione semeiotica, e che perciò non poteva essere oggetto di un'utilizzazione cosciente", leggiamo alla definizione di ‛simbolo' nell'opera citata. La simbolicità della scienza è intesa diversamente da Jung rispetto, ad esempio, a Hertz dei Prinzipien der Mechanik, dove il simbolo è solo il modello concettuale dell'ente fisico. Lungo questa strada, del confronto con la scienza e la storia, l'ermeneutica junghiana dell'inconscio non avrebbe, forse, mostrato l'estenuante ridondanza che le deriva invece dalla scelta del filone gnostico-alchemico. ‟La mia vita - scriverà nell'autobiografia - è la storia di un inconscio che ha potuto realizzarsi". Nella prospettiva della psicologia analitica, inconscio e realtà potevano, dunque, e possono vicendevolmente chiarirsi.
Nell'autobiografia, che esce nell'anno della morte, il 1961 - ma ch'egli comincia a dettare ad Aniela Jaffé quattro anni prima - troviamo un passo che illumina tutto lo sfondo della ricerca junghiana e il suo epilogo: ‟Nella struttura psichica vivente nulla ha luogo in modo meccanico, ma secondo l'economia dell'intero, e si adatta a esso; vale a dire che tutto ha un fine e un significato, significato che la coscienza, non avendo una visione dell'insieme, spesso non riesce a comprendere. Perciò dobbiamo per prima cosa contentarci di constatare il fatto, e poi sperare che il futuro e ulteriori indagini trovino la risposta, e ci dicano che cosa significhi questo scontro con l'ombra del Sé". ‛Struttura', Aufbau, della psiche è fin dalla Traumdeutung un concetto primitivo di Freud, che rimprovera agli psichiatri di averla troppe volte dimenticata. Totalità, dunque, e totalità: dov'è la differenza? In uno scritto del 1945, Medizin und Psychotherapie, Jung riafferma la diversità delle concezioni dell'inconscio nella psicanalisi e nella psicologia analitica. Nell'una l'inconscio è spiegato con la rimozione, nell'altra come ‟la psiche reale e autentica, mentre la coscienza dell'Io può essere considerata solo un temporaneo epifenomeno". Quando la psiche era ancora possesso della filosofia, dice Jung, l'inconscio fu rivendicato da C. G. Carus, seguace del panteismo di Schelling e precursore di Goethe nell'indagine delle forme originarie della natura. L'inconscio è illimitato, e può essere chiamato un microcosmo se si può dimostrare che in esso esistono parti del mondo trascendenti l'esperienza individuale, costanti nella forma di presenze a priori. L'inconscio è unitario, perciò è unitaria la psiche: e in uno scritto del 1948, Tiefenpsychologie, volgendosi ai suoi primi rapporti con Freud, pone negli esperimenti associativi della scuola di Bleuler, e nella nozione di ‛complesso', un fondato motivo di originalità, sua e della scuola svizzera. La rievocazione si fa più sottile quando Jung accenna alla divergenza tra la teoria freudiana dell'appagamento del desiderio inconscio nel sogno e le sue vedute sulla compensazione della coscienza ad opera dell'inconscio. Appagamento, compensazione: è un bivio d'importanza essenziale. Inconscio e coscienza nella prima topica di Freud, Es e Io nella seconda, sono momenti antagonistici della psiche, nuclei d'una rivalità originaria tra natura e cultura, oggettività e soggettività: si direbbe tra l'universo e l'uomo che ne è casualmente derivato. Anche quando la coscienza è conoscenza - quell'‟unico faro" che rivela all'Io l'esistenza del mondo - essa è ‟la più completa rinuncia al principio di piacere", rappresentato dall'inconscio, come Freud afferma nel primo dei Beiträge zur Psychologie des Liebeslebens, del 1910. Invece la funzione compensatoria dell'inconscio secondo Jung deriva da una teleologia inerente alla psiche, al suo sviluppo come alla sua cura. Nello scritto, citato, del 1948, la compensazione è invocata come fattore dinamico della tipologia psicopatologica. Il tipo introverso manifesta un'impostazione oggettiva dell'inconscio; il tipo estroverso, un'impostazione soggettiva. E analogamente si compensano le funzioni orientatrici della coscienza: pensiero, sentimento, sensazione, intuizione.
Una teoria dell'accadere psichico, che mostra tanto spesso l'impronta avventurosa della conoscenza totalizzante, negli ultimi volumi degli opera omnia junghiani della Bollingen series accenna a voler darsi l'ordine interno e l'univocità verificabile di un'assiomatica. I due articoli citati del 1945 e del 1948 sono rispettivamente nel volume sedicesimo e nel diciottesimo dei Collected works della serie anzidetta. Ma il volume sedicesimo contiene The practical use of dream-analysis, testo inglese di una conferenza del 1931, Die praktische Verwendbarkeit der Traumanalyse, con il concetto di ‟assimilazione dei contenuti inconsci". Jung parla del sogno, la freudiana ‟via regia all'inconscio", ch'egli si sforza di serbare tal quale forse perché ha già deciso di costruire intorno a ricorrenze oniriche la trama d'una futura, rivelatrice autobiografia, o perché persisteva, allora come poi, nell'amplificare simboli con immagini anziché con idee. E precisa che assimilare l'inconscio implica una compenetrazione reciproca di inconscio e coscienza. È un nuovo bivio: tra la coscienza che ‛percepisce' - Freud la definisce ‟organo di senso per la percezione di qualità psichiche" nel capitolo quarto della Traumdeutung - e la coscienza che si arricchisce dell'universale, umano e forse cosmico. Il testo più bello di Jung sul divenire della coscienza resta, però, Die Stimme des Innern, del 1932, incluso con il titolo inglese di The development of personality, nel volume diciassettesimo dei Collected works. Un vibrante richiamo alle lettere di Schiller sull'educazione estetica dell'umanità conferma l'ascendenza romantica e germanica della psicologia junghiana. Ma è la sostanza che conta, ossia la vigorosa affermazione che l'ideale educativo ha nell'uomo adulto, non nell'adolescente, il soggetto che lo deve appieno realizzare. Lo specialista, il professionista seguono l'ideale della competenza. L'educatore è mosso invece dall'archetipo dell'eterno fanciullo: ‟quella parte della personalità umana che vuole svilupparsi e diventare intera", il semantema mitico che Kerényi e Jung analizzeranno pochi anni dopo nell'Einführung in das Wesen der Mythologie, è intanto, nello scritto citato del 1932, visto come il seme della personalità. La personalità è il modo supremo di realizzarsi d'un essere vivente, ma non esiste se il soggetto non è definito, intero, maturo. E nessuno ‟che non l'abbia in se stesso" può educarla, esercitarla.
La psicologia, leggiamo in una pagina dell'Einführung di Jung, traduce il linguaggio arcaico del mito in un mitologema non riconosciuto tale, che contribuisce a formare il mito della scienza. È un mito vivo e vissuto, un'attività disperata, che può soddisfare persone staccate dalle proprie premesse psichiche. Jung è pienamente consapevole della psicologia analitica come programma di ricerca derivato da un'intuizione che lo trascende, e che consiste nella ricongiunzione di individuo e universo: la coniunctio alchemica degli opposti, di cui egli segue le ridondanti e talora incongruenti allegorie in Psychologie und Alchemie, del 1944, e in Mysterium coniunctionis: Untersuchungen über die Trennung und Zusammensetzung der seelischen Gegensdize in der Alchemie, del 1955-1956. Qui, dove il mito scientifico e le sue premesse si toccano, dove l'attività fabulatrice sente l'imperio dell'intuizione, i fatti psicologici segnano ‟la frontiera del conoscibile". Ma proprio qui la ragione scientifica, costretta a riproporre i propri asserti nella dialettica delle idee, intersoggettiva e storica, apprezza lo sforzo della chiarezza e, in Jung, l'abbozzo assiomatico, che compensa e amplifica, e nascostamente orienta, l'irrompere della fantasia. L'ultimo elemento che vorremmo fissare, dopo la compensazione della coscienza ad opera dell'inconscio e l'assimilazione reciproca dei due momenti dell'accadere psichico, è l'individuazione; ma non tanto il processo che porta al formarsi d'una personalità integrale e integrata, il Sé, quanto il suo riflesso nella cura della malattia mentale. Grundsätzliches zur praktischen Psychotherapie, del 1935 - compreso, per il sagace criterio ordinatore dei Collected works, nel sedicesimo volume, corrispondente al primo dei Gesammelte Werke, con il titolo Principles of practical psychotherapy - afferma la conclusione dialettica del rapporto terapeutico, deducendola dal concetto dell'individualità psichica. Le regole aiutano finché il malato non è soggetto peculiare, ma collettivo, non è un uomo, ma umanità.
E lo stesso vale per il medico analista. Da Liébeault e Bernheim, gli ipnotisti di Nancy, allo Schultz del training autogeno, attraverso Babiński e Dubois, Freud e Adler, l'analisi, secondo Jung, avrebbe cercato di sviluppare e applicare coerentemente definizioni diverse dell'accadere psichico. Ma di fronte al dato dell'individualità ‟assolutamente unica, imprevedibile, ininterpretabile", non resta che mettere da parte preconcetti e tecniche, e vivere insieme, analista e analizzato, un processo di sviluppo creativo. Il procedimento dialettico deve scegliere, ogni volta, tra l'interpretazione analitico-riduttiva e quella sintetico-ermeneutica del materiale simbolico. Jung consegna, in tal modo, un alto messaggio di consapevolezza alle scienze umane. Esse sperimentano e chiariscono i profondi legami tra significato e fatto, ragione e natura. Vedono l'individuo che cerca di costituirsi e muoversi nella trama del mondo. Dopo le scienze umane, e la parte che vi ha avuta e ha la psicologia analitica, un mondo fenomenologicamente pre-pensato, per corrispondere a quello esperito da noi, deve contenere la possibilità della dimensione simbolica.
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