PSICOLOGIA EVOLUZIONISTICA.
– Lo sfondo. Animali tra altri animali. Una nuova idea della mente. La psicologia evoluzionistica che verrà. Bibliografia
Asserire che gli umani sono animali culturali significa pronunciarsi esplicitamente in favore della natura ibrida degli individui della nostra specie. Il fatto che gli esseri umani rappresentino il portato congiunto della biologia della specie e delle credenze, dei comportamenti e delle pratiche dei gruppi sociali è un’ovvia verità che non solleva dubbi o perplessità neppure nel senso comune. Cosa ben diversa è spiegare (e, soprattutto, giustificare) cosa significhi asserire che gli umani sono organismi ibridi di tal fatta. Le riflessioni sulla natura umana facenti capo alle scienze cognitive hanno come fine precipuo una prospettiva sintetica del-l’essere umano. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, la p. e. rappresenta il modello teorico più avanzato di una prospettiva del genere. Per comprendere la portata rivoluzionaria di tale modello, il primo passo da fare è fornire lo sfondo concettuale in cui la p. e. ha fatto la sua irruzione nel dibattito teorico.
Lo sfondo. – L’atteggiamento prevalente nel definire gli umani come animali culturali fa perno sull’idea che il tratto caratterizzante della definizione sia a tutto vantaggio della matrice culturale rispetto a quella biologica. In una visione di questo tipo, mentre la biologia rende gli individui della nostra specie animali tra gli altri animali, è la cultura – un tratto non riscontrabile in altri animali – a renderli propriamente umani. Secondo la tradizione dell’antropologia culturale, che ha segnato gran parte del dibattito teorico del 20° sec., i caratteri universali che gli umani condividono per l’appartenenza alla specie non rappresentano il tratto peculiare della loro natura: ciò che li distingue dagli altri animali è l’estrema variabilità che li caratterizza per l’appartenenza a gruppi sociali diversi.
Nella prospettiva culturalista, persino la mente ha un carattere pubblico: interpretata come il prodotto della ‘interiorizzazione’ delle credenze condivise dal gruppo sociale, la mente umana è in larga parte il risultato del vivere comune. Oltre ad avere ricadute sul piano dei contenuti di pensiero, una concezione di questo tipo – una forma di determinismo culturale – ha ricadute anche sul piano dei dispositivi cognitivi (le ‘architetture cognitive’) che elaborano i contenuti di pensiero. Se è la cultura, attraverso un processo di interiorizzazione, a dare forma al pensiero, allora la mente deve essere un sistema estremamente plastico e flessibile – qualcosa di molto simile alla tabula rasa.
A prescindere dalla questione relativa alle architetture cognitive, la considerazione da fare a proposito dei modelli culturalisti è che il primato esclusivo accordato alla cultura è del tutto inefficace a giustificare una visione sintetica degli esseri umani. Seguendo le tesi di Émile Durkheim – definite da John Tooby e Leda Cosmides (1992) Modello standard delle scienze sociali – della totale autonomia dei fatti sociali da quelli biologici e psicologici, i culturalisti mettono capo a una concezione dualistica della natura umana. L’idea che la cultura e i fatti sociali siano analizzabili in totale autonomia dalla biocognizione non è di certo la strada maestra per analizzare la natura ibrida degli esseri umani.
Animali tra altri animali. – Negli anni Settanta del Novecento, l’avvento della sociobiologia ha segnato la risposta al Modello standard delle scienze sociali. A parere dei sociobiologi, ogni comportamento umano (al pari del comportamento di qualsiasi organismo) è espressione diretta del potere imposto dai geni all’agire degli individui. La tesi del ‘gene egoista’ proposta da Richard Dawkins (1976) – l’idea degli organismi come ‘macchine per la sopravvivenza’ costruite per soddisfare le necessità di replicazione dei geni – rappresenta l’immagine simbolo di questo nuovo approccio teorico. Il corollario della tesi che i comportamenti siano determinati dall’egoismo dei geni è l’idea che, per fare ciò che fanno, gli individui non hanno bisogno di una mente in grado di indirizzare le loro scelte. Il rifiuto di annoverare la mente tra le entità in grado di spiegare l’agire umano è chiaro ed esplicito: a parere di Edward O. Wilson (1975), infatti, la cognizione deve essere ridotta alla biologia cerebrale, visto che è solo dopo aver «cannibalizzato la psicologia che la nuova neurobiologia fornirà alla sociobiologia un durevole insieme di principi primi» (trad. it. 1983, p. 582).
La risposta al determinismo culturalista è un’ipotesi altrettanto deterministica. Prova ne sia il fatto che anche la sociobiologia non sfugge al problema del dualismo: per dar conto della cultura, in effetti, Dawkins è costretto a ricorrere a entità concettuali che, per quanto simili nel funzionamento a quella dei geni, sussistono in una realtà parallela (la memetica) del tutto irriducibile al piano della genetica. Al pari del determinismo culturale, dunque, anche il determinismo biologico non può essere considerato una risposta efficace al problema della natura ibrida degli esseri umani.
Una nuova idea della mente. – Le difficoltà che accomunano il determinismo biologico a quello culturale sono riferibili a un medesimo problema: una concezione inadeguata della mente umana. La p. e. rappresenta il tentativo di superare tali difficoltà chiamando in causa il ruolo di stati e processi mentali nella spiegazione dei comportamenti. Contro l’atteggiamento riduzionista dei sociobiologi, gli psicologi evoluzionistici sostengono che gli esseri umani sono mossi in primo luogo dai loro stati mentali (credenze, desideri, speranze ecc.); contro l’idea che gli stati mentali siano il portato esclusivo dell’apprendimento culturale, d’altra parte, i fautori della p. e. sostengono che la mente umana è il prodotto funzionale di sistemi cognitivi cablati nel cervello attraverso la selezione naturale.
Il fondamento teorico della p. e. poggia su due assunti: l’adesione all’idea che la mente sia un sistema di elaborazione di informazioni; l’adesione all’idea che i sistemi di elaborazione utilizzati nei comportamenti siano adattamenti biologici prodotti dalla selezione naturale.
Per quanto riguarda il primo assunto, la p. e. può essere considerata una filiazione diretta della rivoluzione cognitiva caratterizzante la riflessione teorica dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento sino ai nostri giorni. In reazione al comportamentismo (l’ipotesi fondata sullo schema Stimolo-Risposta proposta da John B. Watson all’inizio del Novecento) i fautori della rivoluzione cognitiva sostengono che i comportamenti umani devono essere interpretati come un output esterno di processi interni di elaborazione. Al cuore della scienza cognitiva è la teoria computazionale della mente ispirata alla metafora del calcolatore: la tesi per cui i processi mentali sono operazioni di calcolo finalizzate alla trasformazione di rappresentazioni in altre rappresentazioni. Aderendo al modello computazionale-rappresentazionale della mente, la p. e. eredita appieno i fondamenti della scienza cognitiva ortodossa (metafora del calcolatore inclusa).
Nell’idea che «il cervello sia stato progettato dalla selezione naturale per essere un computer» (Cosmides, Tooby 2013, p. 203) si manifesta il vecchio e il nuovo della psicologia evoluzionistica. Se il riferimento alla metafora del calcolatore traccia una linea di continuità con il passato, l’attenzione posta alla selezione naturale aggiunge un tratto di novità rispetto alla prospettiva classica. Il riferimento alla teoria dell’adattamento caratterizzante la p. e. è fonte di accese controversie: Jerry Fodor (2000) e Noam Chomsky (cfr. Hauser, Yang, Berwick et al. 2014) hanno sferrato un duro attacco al tentativo di reinterpretare la cognizione umana all’interno del paradigma darwiniano. A rendere tale attacco particolarmente importante è il fatto che la reazione dei due autori chiama in causa uno dei concetti cardine del paradigma classico: la teoria modulare della mente.
Secondo Tooby e Cosmides (1992) la mente umana è simile a un «coltellino svizzero»: come ogni lama del coltello ha una specifica funzione, così la mente si serve di dispositivi di calcolo specializzati alla soluzione di specifici compiti cognitivi. Considerare la mente un sistema composto di dispositivi di elaborazione specializzati significa aderire alla teoria modulare della mente (Fodor 1983). Diversamente da quanto sostiene Fodor, tuttavia, gli psicologi evoluzionistici considerano la specializzazione dei moduli il marchio indelebile della selezione naturale. A loro avviso, infatti, poiché non esistono problemi generali da risolvere, non può esistere nessun risolutore generale di problemi – da un punto di vista evoluzionistico una mente governata da una forma generale di intelligenza (un coltello con una sola lama valida per qualsiasi tipo di uso) è un semplice non senso.
Oltre alla critica all’intelligenza generale, l’idea che il sistema cognitivo sia governato dalla selezione naturale comporta un secondo aspetto importante da sottolineare. Poiché le spinte selettive alla base dell’evoluzione della cognizione umana riguardano il Paleolitico – il cosiddetto EEA (Environment of Evolutionary Adaptedness) – l’idea prevalente è che gli esseri umani percorrano le strade moderne con «in testa cervelli dell’età della pietra» (Buss 1999). Un’ipotesi di questo tipo apre due possibili scenari interpretativi: il primo, quello preminente nella p. e., è che i sapiens vivano oggi in un ambiente molto simile a quello nel quale si sono evoluti; il secondo è che per quanto i sistemi cognitivi dei sapiens siano adattamenti agli ambienti ancestrali, i contesti in cui essi vivono oggi siano molti diversi dall’EEA. Per quanto possa apparire un problema di poco conto, la questione di stabilire quanto siano cambiati gli ambienti in cui gli umani sono immersi e quanto i sistemi cognitivi siano adattati agli ambienti in cui essi vivono si rivela essere un punto cruciale per una prospettiva sulla mente di stampo evoluzionistico.
La psicologia evoluzionistica che verrà. – La questione della relazione individuo-ambiente rappresenta un utile banco di prova per valutare la portata esplicativa della psicologia evoluzionistica. A costituire un problema a tale riguardo è l’adesione della p. e. ai modelli computazionali classici: il riferimento all’idea che i processi di pensiero siano calcoli su rappresentazioni ha come conseguenza l’adesione all’idea che lo studio della mente debba riguardare soltanto ciò che avviene all’interno della scatola cranica degli individui. Facendo perno su una concezione ‘internista’ dello studio della mente, la p. e. viene in questo modo a contrastare con uno degli aspetti chiave della prospettiva evoluzionistica: la relazione (adattativa) tra organismo e ambiente esterno. Come far fronte a questo problema? Due le risposte possibili: una meno forte (una forma di compatibilismo), l’altra più radicale.
I fautori del compatibilismo sostengono che i modelli computazionali classici non sono in contrasto con la teoria dell’evoluzione. È la strada che alcuni studiosi hanno percorso a proposito del linguaggio: criticando Chomsky, Steven Pinker (1994), per es., sostiene che le capacità verbali umane devono essere interpretate come adattamenti biologici dovuti alla selezione naturale. Per quanto degna di nota sul piano epistemologico, una mossa del genere non tocca il problema delle relazioni con il mondo esterno che rappresenta la spina nel fianco di tutte le prospettive interniste del mentale.
Considerazioni di questo tipo hanno portato a un modo più radicale di criticare il fondamento rappresentazionale computazionale della psicologia evoluzionistica. Il modello di riferimento di queste ricerche è rappresentato dalla embodied cognition. Alla base di questo modello è l’idea che la mente sia incarnata nel corpo e che il corpo sia situato nell’ambiente in cui gli individui si muovono e agiscono. Nella sua versione estrema, la cosiddetta radical embodied cognitive science (Chemero 2009), gli argomenti in favore della prospettiva incarnata e situata della mente vengono utilizzati per una critica radicale al concetto di rappresentazione mentale.
Due cose da rilevare a questo proposito. La prima è che l’idea che gli individui siano entità corporee che si muovono e agiscono nell’ambiente rappresenta un punto di non ritorno nella riflessione sulla mente di matrice evoluzionistica. Se, in passato, una concezione del genere era ostacolata dall’idea che i processi alti di pensiero fossero irriducibili a funzioni di base come percezione e azione, oggi la situazione appare del tutto diversa. La proposta di Michael Arbib (2012) sul funzionamento e l’origine del linguaggio fondata sulle attività di base del sistema motorio rappresenta, solo per citare un esempio, un caso di grande interesse – con ricadute metodologiche per gli sviluppi futuri della p. e. – per capire come affrontare i processi alti di pensiero in una prospettiva bottom-up.
Detto questo, l’idea che la p. e. possa fare a meno di dispositivi di elaborazione modulari e del concetto di rappresentazione resta al momento una questione aperta. L’analisi del linguaggio si presta a esemplificare il punto. Oggi disponiamo di modelli dell’analisi linguistica che, pur fornendo spiegazioni alternative al calcolo della struttura in costituenti della frase tipico della proposta chomskiana, rientrano a pieno titolo nei sistemi di elaborazione fondati sul concetto di rappresentazione. L’idea che la comprensione-produzione del linguaggio passi per l’analisi delle intenzioni del parlante (Sperber, Wilson 1986), per es., porta a pensare che per spiegare l’elaborazione delle espressioni linguistiche sia necessario fare appello al concetto di meta-rappresentazione, oltre che a quello di rappresentazione.
Il caso del linguaggio, inoltre, si presta a esemplificare la questione della prospettiva sintetica della natura umana. Le nostre capacità verbali, in effetti, incarnano alla perfezione il carattere ibrido (biologico e culturale) degli individui della nostra specie. Alla base di una prospettiva sintetica della natura umana è l’idea che la cultura, oltre a essere il prodotto dei sistemi cognitivi e delle pratiche relazionali di gruppo, sia anche un ambiente, una nicchia ecologica, in cui gli individui sono immersi e a cui devono continuamente adattarsi. Adattarsi alle nicchie culturali non è cosa semplice. Non lo è soprattutto nel caso in cui gli individui devono far fronte alle nuove difficoltà equipaggiati con cervelli arcaici. È in casi di questo tipo che lo scarto tra i cervelli dell’età della pietra e l’ambiente in cui il sapiens vive si rivela un elemento utile per dar conto della natura ibrida degli umani facendo appello al concetto di coevoluzione. Forti dell’idea che l’ambiente attuale sia molto diverso dall’EEA, Kevin N. Laland e Gillian R. Brown (2006) sostengono che le nicchie ecologiche culturali (per es., la realtà simbolica in cui sono immersi) sottopongano i sapiens a una pressione selettiva il cui risultato è una forma di adattamento biologico, oltre che culturale: se è vero che la cultura è il prodotto dei cervelli degli individui, è anche vero che i cervelli degli individui devono continuamente adattarsi alla nicchia ecologica in cui vivono.
Il riferimento al concetto di nicchia ecologica, ai nuovi modelli della rappresentazione mentale, alla prospettiva incarnata e situata della mente, insieme alle altre molteplici sfide concettuali con cui la p. e. sarà chiamata a confrontarsi negli anni a venire rappresentano un tentativo promettente di arginare le difficoltà che, tuttora persistenti nella versione legata all’ortodossia cognitivista, fanno da ostacolo a una piena comprensione della definizione degli umani come animali culturali.
Bibliografia: E.O. Wilson, Sociobiology. The new synthesis, Cambridge (Mass.)-London 1975 (trad. it. Bologna 1983); R. Dawkins, The selfish gene, Oxford-New York 1976 (trad. it. Il gene egoista, Bologna 1979); J.A. Fodor, The modularity of the mind, Cambridge (Mass.)-London 1983 (trad. it. La mente modulare, Bologna 1988); D. Sperber, D. Wilson, Relevance: communication and cognition, Cambridge (Mass.) 1986; J. Tooby, L. Cosmides, The psychological foundations of culture, in The adapted mind, ed. J.H. Barkow, L. Cosmides, J. Tooby, Oxford-NewYork 1992, pp. 19-136; S. Pinker, The language instinct, New York 1994; D.M. Buss, Evolutionary psychology. The new science of the mind, Boston-New York 1999 (trad. it. Milano 2012); J.A.Fodor, The mind doesn’t work that way, Cambridge 2000 (trad.it. La mente non funziona così, Roma-Bari 2001); K.N. Laland, G.R. Brown, Niche construction, human behaviour, and the adaptive-lag hypothesis, «Evolutionary anthropology», 2006, 15, pp. 95104; A. Chemero, Radical embodied cognitive science, Cambridge-London 2009; M. Arbib, How the brain got language, Oxford-New York 2012; L. Cosmides, J. Tooby, Evolutionary psychology: new perspectives on cognition and motivation, «Annual review of psychology», 2013, 64, pp. 201-29; M.D. Hauser, C. Yang, R.C. Berwick et al., The mystery of language evolution, «Frontiers in psychology», 2014, 5, articolo 401, http://journal. frontiersin.org/article/10.3389/fpsyg.2014.00401/abstract (23 ag. 2015).