Psicologia genetica
di Jean Piaget
Psicologia genetica
sommario: 1. Introduzione. 2. Gli stadi dello sviluppo. 3. Il ruolo dell'azione nella formazione del pensiero. a) Classificazione proposta e formulazione dei problemi. b) Percezioni, nozioni e operazioni. c) Le relazioni tra immagini mentali e operazioni. d) L'azione e le operazioni mentali. Il soggetto e l'oggetto. e) La formazione delle operazioni. f) L'esperienza fisica e l'esperienza logico-matematica. 4. Lo sviluppo della causalità. a) Le teorie della causalità. b) La causalità sensomotoria. c) La causalità operatoria. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'espressione ‛psicologia genetica' è stata adoperata dagli psicologi americani O. Stanley Hall e J. M. Baldwin sin dal secolo scorso, prima che il termine ‛genetico' assumesse in biologia il significato specifico di ‛relativo alla teoria dell'eredità'. Per Stanley Hall la psicologia genetica era in generale la psicologia dello sviluppo, dall'infanzia all'età adulta; ma egli riteneva, concordando in ciò con E. H. Haeckel, che l'ontogenesi, ossia lo sviluppo dell'individuo, costituisse una ricapitolazione della filogenesi, o evoluzione della razza. J. M. Baldwin, viceversa, pur senza negare, naturalmente, l'influsso dei fattori ereditari sulla crescita individuale, sosteneva, giustamente, che lo sviluppo del bambino consiste in una costruzione autonoma e originale, che spiega, sotto numerosi aspetti, la struttura mentale dell'adulto; di qui la sua ‛battuta', che a noi piace citare, secondo cui ‟il bambino è più primitivo dell'uomo preistorico".
Attualmente l'espressione ‛psicologia genetica' continua a essere usata per indicare un campo di studi ontogenetici, ma ha assunto un significato conforme alla tradizione che fa capo a Baldwin: a differenza dalla ‛psicologia infantile', che è lo studio del bambino in quanto tale, senza altra considerazione oltre a quella della sua evoluzione, oggi chiamiamo generalmente ‛psicologia genetica' lo studio del processo di sviluppo infantile, in quanto pero esso spiega il costituirsi delle funzioni e delle strutture psichiche in generale, e particolarmente quelle dell'adulto.
Si noti che quando Freud e gli psicanalisti fanno riferimento alla psicologia infantile (e la specificità della loro dottrina esige costantemente questo riferimento), lo fanno appunto nel senso della ‛psicologia genetica' e non per un interesse intrinseco nei confronti della ‛psicologia infantile'; in altri termini, ciò che essi cercano (e per molti versi riescono a trovare) è la spiegazione dell'adulto a partire dal suo passato infantile e attraverso i successivi stadi del suo sviluppo. Le realizzazioni della Scuola di Ginevra, da una cinquantina d'anni a questa parte, sono assai simili, nel loro spirito psicogenetico, a quelle della psicanalisi, ma si collocano sul terreno delle funzioni cognitive: si tratta di spiegare la genesi e lo sviluppo delle strutture dell'intelligenza, della percezione, del pensiero, della memoria, ecc.; questo programma ha una portata talmente generale che nel suo ambito è stata sviluppata una metodologia, chiamata ‛epistemologia genetica' mediante la quale si sono potuti analizzare i grandi temi della conoscenza, tradizionalmente riservati alla ricerca filosofica.
Se intendiamo per ‛spiegazione' un procedimento teso a individuare il modo in cui i fenomeni si producono, pare che la psicologia genetica costituisca il migliore, se non il solo, metodo esplicativo in psicologia, in quanto cerca di cogliere i meccanismi stessi di formazione delle strutture mentali. Chi si limiti ad analizzarle nell'adulto, sia pur variando i fattori della sperimentazione o servendosi di raffinate analisi statistiche (come nelle ricerche cosiddette ‛fattoriali'), in realtà lavora su risultanti dei processi formatori, mentre il problema è quello di individuare e analizzare questi ultimi; solo lo studio dello sviluppo in quanto tale, dalla nascita all'adolescenza e all'età adulta, può porsi in evidenza: per questo la psicologia genetica è diventata il metodo di indagine elettivo su cui deve basarsi la psicologia generale.
In quel che segue non parleremo di psicanalisi, non essendo competenti in materia. D'altronde, avendo già pubblicato con B. Inhelder (v. Piaget e Inhelder, 1966) un libretto di introduzione alla psicologia genetica, non ripeteremo in questa sede un'esposizione dello stesso tipo, ma ci concentreremo sul processo principale dello sviluppo delle funzioni cognitive: anziché derivare dalle percezioni o da rappresentazioni per immagini di origine percettiva, come hanno sostenuto gli empiristi e più recentemente molti positivisti, le conoscenze si acquisiscono attraverso una complessa attività psichica e i meccanismi fondamentali dell'intelligenza constano di operazioni che trasformano gli oggetti e che derivano gradualmente dalle primitive azioni materiali e senso-motorie. Dopo una breve rassegna degli stadi principali di questa evoluzione, esamineremo in dettaglio i meccanismi di formazione del pensiero, dapprima per quanto riguarda le operazioni più generali (logico-matematiche) e poi per quel che concerne il concetto di causalità.
2. Gli stadi dello sviluppo
Lo sviluppo delle funzioni mentali nel bambino attraversa quattro stadi principali. Prima della comparsa del linguaggio, nel corso di una fase che potremmo chiamare ‛senso-motoria', si costituisce già una forma assai importante di intelligenza: si tratta però di un'intelligenza pratica, priva di rappresentazioni e di pensiero, che utilizza esclusivamente le percezioni e i movimenti, nonché le loro progressive coordinazioni. In questo modo il bambino giunge gradualmente a organizzare il suo universo: riesce così a scoprire (cosa che non accade affatto fin dall'inizio) che gli oggetti sono permanenti e continuano a esistere anche quando non vengono percepiti, perché nascosti da schermi, per esempio; giunge a coordinare gli spostamenti nello spazio e nelle loro successioni temporali, con possibilità di deviazioni e di ritorni al punto di partenza ('gruppo degli spostamenti'); riesce, soprattutto, a costruire delle relazioni di causa ed effetto, dapprima tra le sue azioni e i movimenti degli oggetti, poi tra gli oggetti stessi. Questi rapporti di causalità consentono infine la costruzione di taluni ‛comportamenti strumentali', quali l'impiego di un bastone o di altri intermediari per agire su oggetti posti a distanza.
Il periodo seguente (all'incirca dai 2 ai 7 anni) inizia con la formazione della cosiddetta funzione ‛simbolica', che conviene piuttosto chiamare ‛semiotica'; manifestazioni di questa funzione sono l'imitazione differita, la costruzione di immagini mentali, il gioco simbolico (o gioco di fantasia), il linguaggio, ecc., cioè processi entro cui è possibile distinguere fra ‛significanti', più o meno differenziati, e ‛significati' e che quindi servono a esprimere significati relativi a situazioni o a oggetti non solo attualmente percepibili, ma anche assenti.
La funzione semiotica rende così possibile il costituirsi del pensiero, o rappresentazione, che si sovrappone quindi alle azioni puramente senso-motorie del livello precedente. Spesso questo progresso, che è considerevole, viene attribuito all'azione del solo linguaggio; si tratta però di un grave errore (benché il linguaggio, nei soggetti normali, svolga naturalmente una funzione che assume ben presto grande importanza): basta considerare il caso dei sordomuti, il cui pensiero rappresentativo finisce per raggiungere il livello operatorio (sia pure in ritardo, in assenza di sollecitazioni sociali abbastanza ricche), per convincersi che le altre forme della funzione semiotica possono in gran parte supplire all'assenza del linguaggio articolato nell'elaborazione della rappresentazione concettuale.
Naturalmente durante questa fase l'intelligenza pratica, formatasi nello stadio precedente, continua a svilupparsi, anzi, perché questo sviluppo proceda normalmente, occorre che il bambino si dedichi a diversi tipi di attività utilizzando materiale sempre più complesso: per esempio giochi di costruzioni, giochi meccanici, in cui determinati elementi servono a sospingerne altri, a farli girare, ecc.
Come abbiamo detto, il pensiero, o capacità di rappresentazione interiore, si forma verso i 18-24 mesi con la comparsa del linguaggio, dell'immagine mentale, del gioco simbolico, del disegno (un po' più tardi), ecc.; però le forme di pensiero che si sviluppano dai 2 ai 7 anni consistono ancora, sostanzialmente, in una ‛interiorizzazione' delle azioni, senza approdare, in questa fase, a quelle che chiamiamo ‛operazioni' o ‛strutture operatorie', le quali si formano solo nel corso del terzo periodo, cioè tra i 7-8 anni e gli 11-12 anni. Elenchiamo ora brevemente le caratteristiche principali di questo terzo periodo.
Anche l'operazione è un'azione interiorizzata o interiorizzabile: per esempio, riunire o sommare due oggetti è un'azione che può essere compiuta materialmente (ponendo insieme gli oggetti, per esempio in base alla loro somiglianza), ma che può anche essere compiuta mentalmente (per esempio riunendo col pensiero tutti i gatti, il che darà luogo al concetto o alla classe dei gatti). Ma l'operazione, in quanto azione, possiede una caratteristica particolare: è reversibile; è possibile, cioè, svolgerla nei due sensi e quindi invertirla. Per esempio, l'inverso dell'addizione 1 + 1 = 2 è la sottrazione 2 − 1 = 1. Combinando operazioni dirette e operazioni inverse, il bambino giunge a costruire sin dai 7-8 anni strutture operatorie ben regolate, dotate, in quanto sistemi, di leggi proprie: per esempio, la serie dei numeri, classificazioni, seriazioni (concatenazioni di relazioni, A 〈 B 〈 C ...), sistemi di corrispondenze, ecc. Questi sistemi godono di proprietà razionali di conservazione: possiamo ripartire una totalità in diversi modi ricorrendo a differenti criteri di suddivisione, ma si tratterà sempre dello stesso tutto che si conserva attraverso le trasformazioni . Ora, proprio i caratteri di reversibilità e di conservazione mancano ancora nel periodo che va dai 2 ai 7 anni: pertanto chiameremo questo periodo ‛preoperatorio'.
Una caratteristica essenziale del secondo periodo dello sviluppo è infatti l'assenza delle nozioni di conservazione nel caso di trasformazioni della configurazione di una totalità. Se, per esempio, chiediamo a soggetti di 4-6 anni di mettere in una fila B tanti gettoni quanti ce ne sono in una fila A (per l'esperimento in genere si usano dai 7 ai 10 gettoni), essi saranno sì in grado di costruire una corrispondenza termine a termine, ma basterà distanziare di poco gli elementi di A perché i bambini li ritengano più numerosi di quelli della fila B, come se allungando una fila di 2 o 3 centimetri se ne aumentasse il numero degli elementi. Questo esperimento sul numero ci fornisce un primo esempio di una reazione molto diffusa in età prescolare, dovuta alla mancanza del concetto di conservazione di una totalità nel caso che se ne modifichino la forma o le dimensioni. Reazioni di questo tipo si ritrovano nelle situazioni più disparate. Per esempio, si danno al bambino due recipienti di uguale forma e di uguali dimensioni, A e A′; in essi si pone dell'acqua colorata, che giunge in entrambi alla stessa altezza, quindi si versa il contenuto di A′ in un terzo recipiente B, più stretto e più alto: qualsiasi bambino dichiarerà allora (e l'esperimento è stato ripetuto con lo stesso risultato in diversi paesi) che la quantità d'acqua è aumentata perché il livello è più alto. Non si pensi che l'affermazione del bambino nasca da un equivoco: quando gli si chiede di versare ‛la stessa cosa da bere' in A e in B, il bambino riempie i recipienti fino allo stesso livello prescindendo dalla loro larghezza; valutando le quantità d'acqua in base all'altezza del livello (come fa per il numero dei gettoni, in base alla lunghezza delle file), egli non trova ‛alcuna difficoltà ad ammettere che, mutando forma e recipienti, queste quantità possano modificarsi senza che alcunché sia stato tolto o aggiunto. Analogamente, se si trasforma una pallina di cera da modellare in un salsicciotto o in una tavoletta o la si spezza in più parti, i bambini in età prescolare sosterranno che la quantità di cera è variata (nel salsicciotto ce n'è più di prima, perché è più lungo, ecc.). Inoltre essi pensano che in seguito alle descritte trasformazioni mutino sia il peso della quantità di cera sia il suo volume (misurato in base al posto che la pallina e, rispettivamente, le sue forme modificate occupano in un mezzo bicchiere d'acqua). Nel caso delle lunghezze, se si mostrano al bambino due righe appoggiate su un piano con gli estremi coincidenti, in modo da verificare l'uguaglianza delle rispettive lunghezze, e poi se ne sposta una in modo tale che essa sopravanzi di poco la seconda (all'incirca di una mezza lunghezza), egli dirà che la riga spostata è diventata ‛più lunga' dell'altra, come se allo spostamento si accompagnasse un allungamento (anche in questo caso non si deve sospettare un malinteso, come se ‛più lungo' significasse ‛che arriva più lontano'; il bambino infatti giudica lo spostamento in avanti dell'estremità anteriore maggiore di quello dell'estremità posteriore). Lo stesso discorso vale per quel che concerne la non conservazione delle aree, dei volumi e in genere di tutte le grandezze, la cui conservazione in termini quantitativi si stabilisce solo tra i 6-7 anni e gli 11-12 anni e oltre.
D'altra parte, fin dallo stadio in cui compaiono le prime operazioni, che si estende dai 7 ai 10 anni, la reversibilità del pensiero comporta la formazione di nozioni di conservazione. Ritorneremo in seguito sull'argomento; per ora vogliamo precisare che le operazioni caratteristiche di questo stadio sono ancora ‛concrete', cioè si effettuano solo su oggetti materiali percepiti direttamente o facilmente rappresentabili. Solo in un quarto periodo, che inizia verso gli 11-12 anni, si costituisce una logica delle proposizioni (implicazione, incompatibilità, alternativa, ecc.), che consente di ragionare su pure ipotesi e non più solo su un contenuto dato. Il pensiero, divenuto formale, comporta allora nuove strutture, che funzionano in modo combinatorio - e non più soltanto per gradi - e riuniscono in un unico sistema globale tutte le svariate forme di reversibilità, come l'inversione (negazione) e la reciprocità, precedentemente separate.
3. Il ruolo dell'azione nella formazione del pensiero
Secondo le teorie correnti, le strutture fondamentali dei processi cognitivi o sono innate o sono ricavate da una mera registrazione percettiva dei dati esterni. In entrambi i casi i processi cognitivi sarebbero predeterminati o preformati, o nel soggetto o negli oggetti. In contrasto con questa ipotesi ci accingiamo a dimostrare che lo sviluppo cognitivo consta di continue costruzioni, che generano nuove strutture, in quanto trae origine dall'azione - e non dalle percezioni o dalle rappresentazioni per immagini - e in quanto le azioni sfociano in operazioni a loro volta costruttive.
Torneremo più avanti sul problema dell'innatismo; per ora conviene cercare di verificare che né le operazioni né le nozioni possono esser tratte dalla percezione o dall'immagine mentale, perché le operazioni e le nozioni creano elementi nuovi che trascendono i dati percettivi e rappresentativi. Occorre innanzitutto insistere su una distinzione spesso trascurata: quella tra aspetti figurativi e aspetti operativi del pensiero; i primi forniscono i ‛contenuti' (mentali) e i secondi le ‛forme' e le rispettive trasformazioni.
a) Classificazione proposta e formulazione dei problemi
Le realtà fisiche, matematiche, ecc. che l'intelligenza si sforza di comprendere possono presentarsi in due forme: come stati o come trasformazioni. Ogni trasformazione muove da uno stato per giungere a un altro stato, sicché è impossibile capire le trasformazioni senza conoscere gli stati; reciprocamente, è impossibile capire gli stati senza conoscere sia le trasformazioni dalle quali derivano, sia quelle cui possono dar luogo. Dal punto di vista logico, quindi, per conoscere la realtà sono indispensabili due tipi di strumenti: dei ‛descrittori', che forniscano i caratteri degli stati e delle trasformazioni, e degli ‛operatori' o ‛combinatori', che consentano di riprodurre e di manipolare le trasformazioni nonché i rispettivi stati iniziali e finali. Si vede subito che, se per capire è necessario descrivere, la descrizione non fornisce, da sola, la comprensione; anzi, dal punto di vista della comprensione, gli stati sono subordinati alle trasformazioni.
In psicologia ritroviamo una classificazione non dissimile.
Anzitutto esistono funzioni cognitive, o meglio, aspetti di queste funzioni, che corrispondono ai descrittori: si tratta degli aspetti connessi principalmente con le configurazioni della realtà e che, per questa ragione, possiamo chiamare aspetti ‛figurativi'. Tali sono essenzialmente: a) la percezione; b) l'imitazione; c) quella sorta di imitazione interiorizzata che cerca di riprodurre i modelli percettivi e che si chiama ‛immagine mentale'. Queste funzioni figurative riguardano essenzialmente gli stati e quando si orientano verso le trasformazioni le traducono più o meno in termini di figure o di stati (come nella percezione di un moto in termini di ‛buona forma'). Ci sono però, d'altra parte, funzioni cognitive, o aspetti di queste funzioni, che riguardano essenzialmente le trasformazioni: a) l'azione nei suoi meccanismi ‛senso-motori (gli schemi senso-motori, compresi gli stereotipi dinamici, ecc.); b) le azioni interiorizzate nelle loro diverse forme preoperatorie; c) le operazioni propriamente dette, o azioni interiorizzate, nelle loro forme generali, reversibili e coordinate in strutture d'insieme coerenti.
Tutti questi aspetti ‛operativi' delle funzioni cognitive (di cui le forme ‛operatorie' non sono che il caso particolare descritto al punto c) sono indispensabili alla riproduzione, alla manipolazione e, di conseguenza, alla comprensione delle trasformazioni, in quanto, senza agire sull'oggetto e senza trasformarlo, il soggetto non potrebbe giungere a comprenderne la natura e resterebbe al livello delle semplici descrizioni.
I tre grandi problemi sollevati dalla precedente classificazione sono quindi: 1) gli elementi del pensiero (nozioni, ecc.) sono tratti esclusivamente dagli aspetti figurativi (come sostiene il positivismo, che vede nei concetti il prodotto delle percezioni, astratto, generalizzato e formulato tramite il linguaggio), oppure alla loro formazione e strutturazione sono indispensabili i meccanismi operativi? 2) I meccanismi operativi si costituiscono autonomamente oppure sono tratti a loro volta dalle strutture figurative (percezioni o immagini, ecc., come ritengono i gestaltisti, quando vogliono ridurre - con M. Weitheimer - le operazioni a strutture gestaltiche) ? 3) Le strutture figurative, a loro volta, si sviluppano in maniera autonoma oppure evolvono anche grazie all'apporto di fattori esterni tratti dai meccanismi operativi, e precisamente dall'azione in generale o dalle operazioni?
Dalla risposta che viene data a queste tre domande dipende una soluzione soddisfacente del nostro problema generale del ruolo svolto dall'azione nella formazione del pensiero.
b) Percezioni, nozioni e operazioni
Abbiamo studiato su vasta scala (v. Piaget, 1961) lo sviluppo di talune nozioni e quello delle corrispondenti percezioni, in modo da determinare i rapporti fra le prime e le seconde. Questi rapporti assumono varie forme: ne esamineremo le principali.
1. Talvolta si osserva un'evoluzione parzialmente divergente delle nozioni e delle corrispondenti percezioni. Per esempio, nei bambini esaminati a Ginevra, le nozioni proprie della geometria proiettiva (prospettiva, ecc.) fanno la loro comparsa solo verso i 7 anni; a quest'età i bambini incominciano a raffigurarsi o a prevedere la forma di un oggetto (orologio, matita, ecc.), in base alla posizione che esso occupa rispetto all'osservatore, o a prevedere la forma di un'ombra su uno schermo in base alla posizione dell'oggetto rispetto alla sorgente luminosa (v. Piaget e Inhelder, 1948). La prospettiva nel disegno viene generalmente rilevata solo verso gli 8-9 anni. Infine la corretta rappresentazione delle posizioni relative di tre montagne o di tre case (di cartone), a seconda della posizione dell'osservatore rispetto al plastico, viene acquisita solo verso i 10 anni. Si ha quindi un progresso delle nozioni proiettive a partire dai 7 anni, con una prima fase di equilibrio intorno ai 10-11 anni.
Le percezioni proiettive, invece, sono molto più precoci, poiché la costanza percettiva della forma, che comporta un aspetto proiettivo, si stabilisce fin dal primo anno. Si possono peraltro effettuare, come hanno fatto Piaget e Lambercier, delle misure percettive della grandezza apparente o proiettiva. Per esempio si mostra al bambino un'asta verticale lunga 10 cm posta a 1 m da lui e un'asta di lunghezza variabile posta a 4 m; quindi gli si chiede in quale momento quest'ultima raggiunge una lunghezza apparente uguale a quella dell'asta di 10 cm (nelle condizioni dell'esperimento l'asta variabile deve essere lunga 40 cm). In questa situazione l'adulto medio (a differenza del grafico professionista) commette notevoli errori - giudica uguali le due aste quando quella variabile misura 20 cm di lunghezza o anche meno - dato che la costanza delle grandezze (reali) prevale sulla grandezza proiettiva. Il bambino piccolo, invece, ha molta difficoltà a capire il problema (bisogna spiegargli ciò che deve fare facendogli dipingere su un vetro piano la grandezza apparente di una bambola posta a una certa distanza e vista attraverso il vetro stesso), ma quando ha capito dà a 6-7 anni risposte molto migliori di quelle dell'adulto (da 25 a 40 cm!). Dopo questa età la percezione si deteriora mentre la nozione si costruisce.
Da questo primo esperimento risulta quindi evidente che la nozione contiene molto di più della sola percezione. La percezione proiettiva fornisce infatti semplicemente la conoscenza corrispondente a un punto di vista particolare (una sola posizione rispetto all'oggetto, poi un'altra, che cancella la percezione precedente, ecc.). Le nozioni proiettive (prospettiva, ecc.) implicano invece due tipi di proprietà che la percezione da sola non fornisce: a) una messa in relazione o coordinazione tra i diversi punti di vista, tale che il soggetto comprende perché l'oggetto ha mutato forma apparente mutando posizione rispetto al soggetto; b) una possibilità di deduzione che consente di prevedere la forma corrispondente a una posizione del soggetto diversa da quella che attualmente occupa. In questo caso si vede subito che tanto la comprensione quanto la deduzione o la previsione risultano dalle azioni o dalle operazioni che il soggetto compie: per capire quei mutamenti di forma apparente, il soggetto deve spostarsi o spostare l'oggetto; è necessario quindi che egli interiorizzi queste azioni trasformandole in operazioni reversibili che gli consentano di dedurre o di riprodurre mentalmente i relativi spostamenti. Queste azioni e operazioni costituiscono il punto di partenza di uno dei gruppi di trasformazioni su cui si fonda la geometria proiettiva.
2. I rapporti fra percezione e nozione corrispondente assumono una forma opposta a quella precedentemente presa in considerazione nei casi in cui la percezione prefigura la nozione, ma con un effetto retroattivo della nozione o delle operazioni sull'organizzazione della percezione. Il termine ‛prefigura' significa semplicemente che la nozione si costruisce in maniera analoga o ‛parzialmente isomorfa' alla percezione; il problema della filiazione resta aperto e lo esamineremo fra poco.
Come esempio di questo diverso tipo di relazione fra percezione e nozione esaminiamo il caso dei sistemi di riferimento o di coordinate naturali (si tratta del problema dell'orientamento rispetto all'orizzontale e alla verticale e della determinazione di queste due direzioni privilegiate). Dal punto di vista della nozione occorre distinguere accuratamente tra lo schematismo senso-motorio e le nozioni o operazioni rappresentative. Al livello senso-motorio il neonato giunge a distinguere molto presto l'orizzontale dalla verticale, ma solo sul proprio corpo (posizione distesa o seduta e in piedi) ed esclusivamente per via tonica o posturale. Si potrebbe allora pensare che un'esperienza così precoce si traduca in una nozione ugualmente precoce, ma le cose non stanno così. Bisogna attendere fino all'età di 9-10 anni perché il bambino sappia prevedere e disegnare il livello orizzontale raggiunto da una certa quantità d'acqua contenuta in una brocca, che viene inclinata in varie posizioni; la difficoltà sta nel fatto che egli cerca dei riferimenti all'interno della brocca, mentre per individuare l'orizzontale bisogna riferirsi all'esterno della figura, cioè al supporto su cui la brocca poggia (il tavolo, ecc.). La difficoltà è la stessa per quanto concerne la verticale (un filo a piombo sospeso a un'estremità di una bacchetta inclinata, ecc.).
Dal punto di vista della percezione l'evoluzione è la seguente. Sin dai primi anni di vita il bambino può individuare l'orizzontale e la verticale rispetto alla linea dello sguardo; ciò corrisponde alla valutazione posturale ed è in relazione con essa (da qui la teoria senso-tonica di Werner e Wapner); ma non sa valutare l'orizzontalità o la verticalità di una retta rispetto a oggetti di riferimento diversi dal proprio corpo. A questo proposito abbiamo fatto con P. Dadsetan il seguente esperimento. Si inscrive una linea leggermente obliqua rispetto all'orizzontale all'interno di un triangolo la cui base è inclinata; la linea iscritta è vicina alla base del triangolo, perciò è difficile giudicare della sua orizzontalità senza cercare dei riferimenti al di fuori del triangolo, cioè sui bordi del foglio, dove è stata appositamente disegnata una cornice a trattini neri. I risultati dell'esperimento sono singolari: a) i soggetti più giovani sono poco disturbati dal triangolo, che non guardano affatto; b) in seguito l'errore aumenta fin verso i 9-10 anni, a causa del triangolo e perché i bambini non guardano la cornice esterna della figura; c) verso i 9-10 anni l'errore diminuisce bruscamente di molto, in quanto il soggetto fa riferimento alla cornice; d) applicando a ogni soggetto la prova operatoria o nozionale della previsione dell'orizzontalità del livello dell'acqua nelle brocche inclinate, si riscontra una buona correlazione tra il giudizio nozionale e la percezione, ma con una preminenza del primo.
È dunque evidente che in questa situazione, se la percezione prefigura la nozione, quest'ultima, a sua volta, agisce retroattivamente sulla percezione a partire dai 9-10 anni: sino a questa età al bambino non viene in mente di guardare la cornice esterna per valersene come riferimento, mentre al livello operatorio, in cui comincia a costruire e a generalizzare a due e a tre dimensioni i sistemi di riferimento, le abitudini che va così acquisendo orientano la sua esplorazione percettiva e modificano quindi indirettamente la percezione.
3. È inutile dare esempi di altri tipi di rapporti fra percezione e nozione: si tratta o di casi di interazione, o di casi in cui si ha prefigurazione, ma senza che si sappia ancora nulla circa effetti retroattivi del giudizio nozionale sulla percezione (per esempio, fra il modo di formazione delle costanze percettive e quello delle conservazioni operatorie, che si stabiliscono circa 6-7 anni più tardi, esiste una certa analogia, anche se le seconde non derivano affatto dalle prime).
Da questi fatti (e potremmo citarne molti altri analoghi) va tratta la conclusione che una nozione, benché ricavi naturalmente informazioni indispensabili dalle percezioni corrispondenti, tuttavia non è estratta dalla percezione mediante semplici astrazioni e generalizzazioni, come riteneva Aristotele e come pensano tuttora i positivisti contemporanei. Se così fosse, la nozione sarebbe più povera delle percezioni corrispondenti, pur essendo più generale, in quanto astrarrebbe determinati aspetti percettivi trascurandone gli altri. In realtà, nozioni come quella di prospettiva o quella di sistema di riferimento, o di coordinate, sono molto più ricche delle percezioni proiettive o delle coordinate percettive, in quanto comportano sempre un sistema di operazioni o di trasformazioni (classificazioni, seriazioni, corrispondenze, misure, ecc.). Tale aspetto operativo della nozione è irriducibile alle strutture percettive e deriva dalle strutture senso-motorie o dalle strutture d'azione in generale; ciò è quanto ci apprestiamo a verificare, confrontando le strutture operatorie con quelle delle Gestalten percettive.
4. Gli psicologi gestaltisti hanno descritto la Gestalt come la più generale struttura della percezione. Indubbiamente essi hanno ragione, senonchè una simile definizione non è una spiegazione: una struttura è il risultato di un processo funzionale e dialettico e solo la comprensione di tale processo ha valore esplicativo. Per ora, tuttavia, ci interessa unicamente confrontare questa struttura gestaltica, tipica della percezione, con le strutture operatorie tipiche dell'intelligenza, per vedere se queste ultime siano riducibili alle prime. W. Köhler e M. Wertheimer definiscono una Gestalt in base a due caratteri: a) è una totalità dotata di leggi proprie in quanto totalità, distinte dalle leggi dei suoi elementi (percezioni e sensazioni); b) è una totalità non additiva, cioè il tutto è diverso dalla somma delle parti. I gestaltisti hanno considerato solidali questi due caratteri; perciò, quando Wertheimer ha voluto spiegare le strutture operatorie di forme matematiche o logiche (per esempio il sillogismo), ha tentato di ridurle a Gestalten.
Ora, se confrontiamo la struttura gestaltica con una struttura operatoria come la successione dei numeri interi, vediamo che quest'ultima presenta il carattere a), ma non il b). Infatti la successione dei numeri soddisfa leggi di totalità: leggi di gruppo, di anello, di reticolo, ecc., che i matematici hanno descritto e che sono dotate di profondo significato psicologico. Ma, d'altra parte, si tratta di una totalità strettamente additiva: 2 + 2 fa esattamente 4 e non un po' di più o un po' di meno, come nelle approssimazioni o nelle illusioni percettive. Anche per questa ragione, va dunque esclusa la possibilità di trarre dalle strutture percettive le strutture operatorie o nozionali. Ciò dipende dal fatto che le prime, essendo non additive, sono irreversibili e di natura probabilistica, come tutte le funzioni figurative; viceversa una struttura operatoria, come il gruppo dei numeri interi, deriva da una certa forma d'azione (in questo caso l'azione di riunire), che però è diventata reversibile (riunire/dissociare → addizionare/sottrarre) e di conseguenza suscettibile di deduzione esatta o necessaria, contrariamente alle strutture irreversibili e probabilistiche.
5. Quanto ai rapporti tra percezioni e pensiero, possiamo concludere rispondendo come segue alle tre domande formulate alla fine del § a di questo capitolo.
A. In tutti i casi in cui si è cercato di spiegare la formazione di una nozione a partire dalle sole percezioni corrispondenti, si è trascurato il fatto che i due termini presi in considerazione non sono gli unici che intervengono, ma ne esiste un terzo, che è fondamentale e costituisce la comune origine degli altri due: si tratta dell'insieme delle strutture senso-motorie, dal riflesso senso-motorio all'intelligenza senso-motoria (la quale comincia a formarsi sin dalla seconda metà del primo anno).
A. E. Michotte, per es., ha cercato di spiegare la formazione della nozione di causa a partire dai fenomeni propri della causalità percettiva, da lui studiati dettagliatamente. Ma esiste una causalità senso-motoria originaria, legata esclusivamente alle azioni del soggetto (spingere, tirare, far oscillare oggetti sospesi, ecc.) e indipendente da contatti spaziali (il neonato, per esempio, già molto precocemente cerca di agire su oggetti posti a 2 o 3 metri di distanza scuotendo con movimenti di vario tipo il proprio lettino); solo verso i 10-12 mesi comincia un processo di spazializzazione (esigenza di contatti) e di oggettivazione (delega della causalità dell'azione ai rapporti tra gli oggetti). D'altronde, la causalità percettiva visiva di Michotte deriva da una causalità percettiva tattilo-cinestesica precedente, in quanto, se il soggetto non avesse muscoli e non si muovesse, non ‛vedrebbe' urti, spinte, resistenze, ecc. osservando le piccole figure usate da Michotte nei suoi esperimenti, ma solo movimenti successivi e regolari. La causalità tattilo-cinestesica dipende, naturalmente, dall'attività globale del soggetto, la quale costituisce, quindi, la comune origine della causalità percettiva e di quella concettuale.
B. Analogamente le operazioni del pensiero non derivano da Gestalten (il perché lo abbiamo spiegato nel precedente punto 4) e se ne può seguire lo sviluppo a partire dalle azioni senso-motorie. Fin dal livello senso-motorio del primo anno si assiste infatti alla formazione di schemi d'azione che comportano coordinazioni generali delle azioni in forma di ‛riunioni' (coordinazione di visione e prensione o di due movimenti in un unico movimento, ecc.), di ‛seriazioni' (esecuzione di azioni successive per raggiungere uno scopo: per esempio tirare a sé una coperta prima di allungare la mano per prendere un oggetto posto su di essa e inizialmente fuori della portata del soggetto, ecc.) e di ‛corrispondenze' (apprendimento dell'imitazione, ecc., ecc.). Queste coordinazioni generali costituiscono, già prima della comparsa del linguaggio, una sorta di logica dell'azione, fondamentale per l'ulteriore sviluppo delle operazioni. Per esempio, la coordinazione degli spostamenti (del proprio corpo o degli oggetti manipolati) finisce per acquisire, verso i 12-18 mesi, una struttura di gruppo (in senso algebrico): la possibilità di ‛ritorni' al punto di partenza (reversibilità dello spostamento) e di ‛deviazioni' (composizioni associative che consentono di raggiungere uno stesso punto attraverso cammini diversi) conferisce già a questa struttura le proprietà di reversibilità e di componibilità che caratterizzeranno le future operazioni. Inoltre questa struttura, quasi operatoria nel suo funzionamento (salvo il fatto che si tratta di azioni successive e non ancora di rappresentazione simultanea di eventi), dà luogo alla costituzione di un ‛invariante di gruppo': lo schema dell'oggetto permanente; il bambino diventa capace, verso la fine del primo anno, di cercare un oggetto nascosto da uno schermo tenendo conto degli spostamenti e delle posizioni successive. (H. Gruber ha condotto su giovani gattini i nostri esperimenti sulla permanenza dell'oggetto e ha ritrovato gli stessi stadi iniziali, che si succedono un po' più rapidamente, ma, naturalmente, non raggiungono lo stesso livello evolutivo). In queste prime fasi dello sviluppo cognitivo è perciò contenuto il germe non solo delle future operazioni, ma anche degli schemi di conservazione che le caratterizzeranno una volta costituite.
C. La percezione quindi non basta assolutamente a render conto degli sviluppi illustrati, che coinvolgono l'attività globale del soggetto. Ma la stessa percezione non evolve con l'età in modo autonomo e indipendente, in quanto è sempre più subordinata all'intelligenza e alle operazioni nella loro forma attiva e solidale con gli schemi d'azione; al punto 2 abbiamo riportato un esempio (e potremmo citarne molti altri) delle relazioni fra percezioni, nozioni e operazioni, a proposito delle coordinate percettive.
c) Le relazioni tra immagini mentali e operazioni
La percezione costituisce un primo esempio di funzione figurativa che non spiega gli aspetti operativi del pensiero ma è a essi sempre più subordinata. Un secondo esempio, del tutto parallelo, è quello delle immagini mentali.
La psicologia associazionistica considerava l'immagine mentale come un prolungamento della percezione e come un elemento del pensiero, quasi che il ragionamento consistesse nell'associare immagini tra loro e alle percezioni. Dal punto di vista dello sviluppo del bambino, non sembra che l'immagine mentale svolga un ruolo fin dalla nascita, come le percezioni; essa si manifesta solo a partire dai 18-24 mesi, al momento della comparsa della funzione simbolica (gioco simbolico, cioè d'imitazione o di fantasia, imitazioni differite, acquisizione del linguaggio, ecc.). L'immagine svolge quindi sostanzialmente funzione di simbolo e possiamo considerarla un prodotto dell'imitazione, ma in forma interiorizzata (neurologicamente la rappresentazione di un movimento fa intervenire le stesse onde elettromiografiche o elettroencefalografiche della sua esecuzione).
Possiamo allora chiederci quali siano le relazioni fra le immagini e le operazioni mentali: le prime preparano le seconde o servono solo come ausili simbolici? E le prime evolvono indipendentemente dalle seconde o sotto la loro crescente influenza? Occorre anzitutto distinguere due categorie di immagini: quelle ‛riproduttrici', che evocano eventi o oggetti già noti, e quelle ‛anticipatrici', che prefigurano eventi non ancora osservati.
1. Per quel che riguarda le immagini riproduttrici, due fatti rivestono particolare importanza ai fini della presente trattazione. Il primo è che la ritenzione nella memoria di queste immagini-ricordo è migliore quando sono state associate all'azione che quando sono state registrate solo percettivamente. Per esempio, abbiamo eseguito degli esperimenti usando modelli consistenti in piccole costruzioni fatte con blocchetti di legno. Sono state poste a confronto tre situazioni: 1) il bambino si limita a osservare il modello e poi deve ricostruirlo a memoria; 2) il bambino copia il modello con altri blocchetti e poi deve ricostruirlo a memoria; 3) il bambino guarda l'adulto che costruisce il modello e poi deve ricostruirlo a memoria. Abbiamo osservato diversi gruppi di soggetti seguendo l'ordine 1 → 2 o 2 → 1, ecc., a una settimana o a quindici giorni di intervallo. (I risultati sono ben definiti quando i modelli sono dotati di un certo piano di insieme, mentre sono privi di senso quando i modelli sono soltanto arbitrarie successioni di elementi o di immagini). Siamo così giunti alle seguenti conclusioni: a) le prestazioni del bambino sono migliori quando egli ha agito che quando si è limitato a guardare; b) nell'ordine 2 → 1 si ha una netta influenza dell'azione precedente sulla percezione successiva (anche se il modello è stato un po' cambiato da un esperimento all'altro), mentre nell'ordine 1 → 2 la percezione precedente non influisce affatto sui risultati dell'azione successiva; c) il veder agire l'adulto (in 3) non aggiunge niente alla semplice percezione (1) e non equivale in alcun modo all'azione del bambino stesso (2). Quest'ultimo punto contiene una semplice indicazione pedagogica, peraltro conforme a quanto si sa da tempo: l'allievo impara molto di più se compie in prima persona una determinata esperienza che se la vede fare.
Il secondo dei fatti cui abbiamo precedentemente accennato è la distribuzione dei tipi di immagini riproduttrici rispetto alla frequenza dei vari fenomeni riproducibili per rappresentazione. Si possono infatti distinguere tre tipi di immagini: statiche (rappresentanti oggetti immobili), cinetiche (rappresentanti mutamenti di posizione) e di trasformazione (rappresentanti cambiamenti di forma). Nella vita quotidiana si ha occasione di osservare tanti movimenti e tante trasformazioni quanti oggetti statici. Tuttavia, quando studiamo la rappresentazione in immagini di moti o trasformazioni elementari nel bambino di meno di 7-8 anni, constatiamo che egli incontra difficoltà assai curiose: per esempio, se gli facciamo disegnare a memoria (senza prima mostrargli il modello) un'asta che ruoti di 90° o di 180° intorno a una sua estremità, o un tubo dalle estremità colorate che ruoti di 180° intorno al suo baricentro cadendo dal bordo di una scatola posata su un tavolo, o semplicemente i quattro lati (diversamente colorati) di un quadrato che ruoti intorno al proprio centro (sul piano o nello spazio), ecc., scopriamo che il bambino incontra ogni sorta di difficoltà inattese nel rappresentare le posizioni intermedie. Nel caso della trasformazione di un arco (di fil di ferro flessibile) in un segmento di retta, il bambino si rappresenta male le posizioni intermedie e disegna il segmento non più lungo della corda dell'arco, pur sapendo che quest'ultimo è sottoposto a stiramento. In breve, prima dei 7-8 anni, le immagini riproduttrici di moti o di trasformazioni sono molto rare o molto inesatte, poiché non consistono di semplici evocazioni passive, ma implicano anticipazioni attive o rianticipazioni. Quanto alle immagini anticipatrici concernenti moti o trasformazioni ancora ignoti (per esempio il risultato che si ottiene se si piega più volte un foglio e se ne taglia poi un angolo, ecc.), va da sé che sono ancora meno precoci. S'impone allora l'ipotesi che i progressi dell'immagine, a partire dalle primitive immagini statiche, sono dovuti alle prime operazioni, che compaiono appunto verso i 7-8 anni, e che l'immagine è sempre più subordinata alle operazioni, anziché costituirne la fonte.
2. Per verificare quest'ipotesi abbiamo quindi ripreso un certo numero di vecchi esperimenti di tipo operatorio concernenti le nozioni di conservazione, ma abbiamo chiesto al bambino di immaginare in anticipo l'esito delle trasformazioni, prima di fargliele effettuare e fargliene constatare il risultato. Uno di questi esperimenti consisteva nel mostrare al bambino una fila orizzontale di 10 gettoni blu, leggermente distanziati l'uno dall'altro, e nel chiedergli di prenderne altrettanti di colore rosso. I bambini più piccoli fanno una fila di gettoni rossi lunga come quella dei gettoni blu, senza preoccuparsi della corrispondenza fra gli elementi delle due file. In un secondo stadio il bambino pone in corrispondenza biunivoca i gettoni e dice che le due file sono uguali, ma, se si avvicinano o si distanziano un po' di più gli elementi di una delle due file, dice che non si ha più lo stesso numero di gettoni nelle due file e sostiene che, per ripristinare l'uguaglianza numerica, occorre aggiungere 1 o 2 gettoni alla fila più corta. In un terzo stadio il bambino riconosce che, se si modifica la lunghezza di una delle due file, il numero degli elementi resta lo stesso, ma non la quantità: ‟Sono 10 e 10, ma qui ce ne sono di più" (il tutto non è quindi ancora uguale alla somma delle parti!). Infine, in un quarto stadio (verso i 7 anni), il numero e la quantità dei gettoni si conservano, se se ne modifica la disposizione spaziale, ‟perché si possono rimettere come prima": si ha dunque un'operazione reversibile e conservativa.
Dal punto di vista dell'immagine, la reazione dei bambini piccoli è stupefacente: essi ragionano come se, quando si spostano i gettoni, non immaginassero la possibilità di rimetterli nella posizione di partenza o non ne immaginassero la conservazione dell'identità nel corso dello spostamento. Abbiamo perciò costruito un apparecchio a forma di ventaglio aperto: i gettoni rossi, in basso, sono ravvicinati e quelli blu, in alto, sono distanziati, ma una guida dalle pareti di cartone collega ogni gettone rosso a un gettone blu e nessun gettone può uscire dalla propria guida. In questo caso l'immagine dei tragitti non pone alcun problema e va da sé che ogni gettone rosso corrisponde a un solo gettone blu e viceversa. Abbiamo quindi chiesto ai bambini di immaginare i tragitti: niente di più facile. Ma - cosa straordinaria - l'immagine del tragitto non ha influito affatto sulle reazioni preoperatorie: ‟quando salgono ce ne sono di più e quando scendono ce ne sono di meno" (!). Allora, anziché far immaginare ai bambini i movimenti dei gettoni glieli abbiamo fatti vedere, spostando tutti i gettoni contemporaneamente mediante un dispositivo meccanico: i bambini sono rimasti incantati vedendo ciò, ma hanno di nuovo concluso, semplicemente, che i gettoni rossi aumentano o diminuiscono a seconda che li si faccia salire o scendere lungo le guide.
Un altro vecchio esperimento ripreso per studiare l'immagine è quello della conservazione dei liquidi: si versa un liquido da un bicchiere A in un bicchiere B, più stretto, o in un bicchiere C, più largo. Fin verso i 7 anni la media dei soggetti ritiene che la quantità di liquido aumenti o diminuisca a seconda dei livelli raggiunti, indipendentemente dalla larghezza dei bicchieri. Per studiare il ruolo dell'immagine nella genesi delle facoltà cognitive, abbiamo chiesto ai bambini di prevedere quel che sarebbe accaduto in seguito ai travasamenti, di indicare i livelli che il liquido avrebbe raggiunto e di dire se la quantità di liquido si sarebbe conservata o meno. Abbiamo riscontrato tre tipi di risposte: a) per la maggior parte dei bambini si conserverà tutto, compresi i livelli (!). Ma quando vedono che, rispetto al livello raggiunto in A, il liquido raggiunge un livello più alto in B e più basso in C, dicono di essersi sbagliati e negano la conservazione della quantità di liquido; b) un secondo gruppo di soggetti (il 23%) prevede correttamente i livelli, ma conclude che in B ci sarà da bere di più che in A e in C di meno. Infatti, se dopo si danno a un bambino di questo gruppo i tre bicchieri vuoti e gli si chiede di riempirli in modo che ciascuno dei partecipanti all'esperimento (lo sperimentatore, l'assistente e il bambino stesso) abbia la stessa quantità di liquido (una questione di giustizia!), egli riempie i bicchieri fino alla stessa altezza senza preoccuparsi della loro larghezza; c) ci sono infine soggetti (in media dai 7 anni in su) che prevedono correttamente i livelli e accettano la conservazione della quantità di liquido.
Si vede quindi che, prima del livello operatorio (c), o l'immagine è scorretta (a) o è corretta (b), ma si limita a riprodurre esperienze anteriori del soggetto (capita di travasare un liquido da un recipiente a un altro), senza portare al concetto di conservazione, dato che non si è compreso il rapporto di compensazione fra le variazioni in altezza e quelle in larghezza. L'immagine, anche quando è corretta, non comporta l'operazione.
Analoghi risultati si ottengono con altri tipi di esperimenti sulla conservazione delle grandezze (v. cap. 2).
3. In poche parole, l'immagine è utile all'operazione nella misura in cui riproduce esattamente gli stati, ma non basta assolutamente a fornire la comprensione delle trasformazioni. Per capire queste ultime occorre agire sull'oggetto e coordinare le modificazioni prodotte in un tutto coerente; soltanto le operazioni che prolungano le azioni, interiorizzandole e rendendone reversibili le coordinazioni, permettono di capire che le trasformazioni non modificano tutto contemporaneamente ma comportano un invariante (e quindi una conservazione).
I risultati di queste ricerche sullo sviluppo delle immagini concordano con quelli relativi alle percezioni; pertanto, rispondendo ai tre interrogativi posti alla fine del § a, possiamo concludere, per quel che riguarda i rapporti fra aspetti figurativi e aspetti operativi delle funzioni cognitive, che: 1) l'immagine, al pari della percezione, non basta a render conto dei concetti o delle funzioni mentali, che derivano da attività operatorie irriducibili ai dati figurativi; 2) l'immagine, al pari della percezione, non basta a generare le operazioni, anche quando, riflettendo l'esperienza acquisita, consente di prevedere il risultato di talune trasformazioni; quel che manca al figurativo è la comprensione della trasformazione in se stessa, che è un mutamento di stato e non una configurazione; 3) l'immagine, al pari della percezione, non evolve autonomamente, ma in seguito a un indispensabile intervento delle operazioni; soltanto le operazioni, infatti, permettono il passaggio dalle immagini riproduttrici a quelle anticipatrici di moti e di trasformazioni.
d) L'azione e le operazioni mentali. Il soggetto e l'oggetto
Come abbiamo visto, gli aspetti figurativi delle funzioni cognitive, per quanto utili e necessari per la conoscenza degli stati, non possono in alcun modo generare il pensiero razionale, dato che, da soli, non giungono a cogliere le trasformazioni. Ciò dipende dal fatto che la conoscenza non consiste in una riproduzione statica della realtà. Conoscere un oggetto non significa fornirne una semplice copia: significa agire su di esso per trasformarlo e cogliere nelle trasformazioni stesse il meccanismo della sua produzione. Conoscere è quindi produrre o riprodurre dinamicamente l'oggetto; ma per poter riprodurre è necessario saper produrre, perciò la conoscenza deriva dall'azione nel suo complesso e non solo dai suoi aspetti figurativi.
L'aver constatato il primato dell'azione e l'insufficienza degli aspetti figurativi, considerati isolatamente, nel contesto delle funzioni cognitive, ci induce, innanzitutto, a stabilire un rapporto dialettico e non statico fra soggetto e oggetto. Presupporre un rapporto statico fra soggetto e oggetto significa dissociarli: questa dissociazione è fonte di inestricabili difficoltà.
Partire dal soggetto per capire l'oggetto significa porsi in una prospettiva aprioristica o idealistica, che impedisce di raggiungere l'oggetto, in quanto, considerando il soggetto come un insieme di strutture preformate, si dimentica che il soggetto non esiste in una forma data una volta per tutte: il soggetto non è altro che l'insieme delle azioni che esercita sugli oggetti e queste azioni mutano incessantemente in funzione degli oggetti e modificano il soggetto. Partire dall'oggetto indipendentemente dalle azioni del soggetto significa porsi in una prospettiva empiristica o positivistica, dimenticandosi che l'oggetto si raggiunge solo per approssimazioni successive: tutta la storia della scienza mostra che l'oggettività non è un dato di partenza, ma si costruisce e si acquista attraverso uno sforzo continuo e laborioso, dato che le successive approssimazioni che avvicinano il soggetto all'oggetto sono il risultato delle azioni che il soggetto compie per conquistare e ricostruire l'oggetto.
Il soggetto S e l'oggetto O sono quindi indissociabili e dall'indissolubile relazione S ⇄ O nasce l'azione, fonte della conoscenza. Il punto di partenza della conoscenza non è quindi né S né O, ma la loro reciproca interazione, tipica dell'azione stessa. A partire dall'interazione dialettica ⇄, il soggetto scopre gradualmente le proprietà oggettive dell'oggetto, attraverso un decentramento che libera la conoscenza delle illusioni soggettive. Sempre a partire dalla stessa interazione, il soggetto, scoprendo e conquistando l'oggetto, organizza le proprie azioni in un sistema coerente di operazioni che costituiscono il suo pensiero e la sua intelligenza.
Presentiamo anzitutto due esempi del decentramento di cui sopra, per mostrare il ruolo indispensabile delle azioni e delle operazioni nella conquista dell'oggetto e, soprattutto, per mostrare come l'operazione fondata sulla coordinazione generale dell'azione liberi quest'ultima dei suoi aspetti individuali e soggettivi.
Il primo di questi esempi è banale. Come abbiamo potuto constatare a Ginevra, molti bambini al di sotto dei 7 anni credono che la luna, di sera, li segua e ne ho visti alcuni che avevano elaborato una specie di azioni di controllo: entrare in un negozio e, all'uscita, verificare che la luna li stesse ancora aspettando o correre lungo un isolato a partire da una traversa per vedere se la luna li aspettava alla traversa successiva. In questi casi si ha dunque una pseudoconoscenza dovuta all'azione propria e immediata; manca ancora una qualsiasi forma di decentramento; infatti, quando si chiedeva a uno di questi bambini se la luna seguisse anche noi, rispondeva: ‟Certo!"; e quando gli si chiedeva che cosa avrebbe fatto la luna se noi fossimo andati in una direzione e lui nella direzione opposta, rispondeva: ‟Forse va prima con voi, ma mi riacchiappa sempre". Verso i 7 o 8 anni questa credenza scompare e alcuni bambini si ricordano anche in che modo (o, per lo meno, forniscono in proposito una spiegazione plausibile): ‟Quando a scuola mi son fatto degli amici - diceva per esempio un bambino di 7 anni - ho capito che la luna non poteva seguire tutti contemporaneamente e che sembra soltanto che ci segua, ma non è vero". Quindi, in questo caso, è bastato un decentramento per reciprocità delle azioni a correggere l'errore iniziale.
Il secondo esempio è più sottile e mostra l'influsso delle operazioni additive su una rappresentazione di conservazione. Si ricordi (v. § c, punto 2) che il bambino piccolo non possiede il concetto di conservazione del numero - non disponendo di operazioni additive - e che giunge a concepire questa conservazione quando impara a coordinare le azioni di riunione (1 + 1) in una forma coerente che gli permette di capire che il tutto è uguale alla somma delle parti. Questo decentramento dell'operazione additiva, che così si libera delle apparenze figurative (percezione o immagine) si può illustrare ricorrendo a un bell'esperimento riguardante la conservazione delle quantità fisiche. L'esperimento, da me compiuto tempo fa con Inhelder, consiste innanzitutto nel porre un bicchiere d'acqua su una bilancia e nel verificare che, se vi si immergono due o tre zollette di zucchero, il peso del bicchiere aumenta e il livello dell'acqua sale (si segna allora il nuovo livello). A questo punto si chiede al bambino: a) che cosa diventa lo zucchero una volta sciolto? b) Conserva il suo peso? c) Il livello dell'acqua resta più alto o ridiscende (conservazione del volume)? Durante gli stadi preoperatori in cui non c'è ancora composizione operatoria additiva, non si ha alcuna conservazione neppure in questo ambito fisico: lo zucchero sciolto scomparirà (e il sapore dolce dell'acqua svanirà come evapora un odore), il peso del bicchiere diminuirà dopo la soluzione dello zucchero e l'acqua ritornerà al livello che raggiungeva prima dell'immersione delle zollette. Ma a partire dall'epoca in cui si formano le composizioni additive, il bambino giunge a concepire la conservazione, prima della massa, poi del peso e infine del volume: comincia intanto col constatare che lo zucchero, sciogliendosi, si suddivide in granelli sempre più piccoli; allora postula che, quando lo zucchero sembra essere scomparso, ne restino, ‛in realtà, dei granelli tanto piccoli da risultare invisibili, ma - e qui si dimostra l'importanza della composizione additiva - tali che la loro somma equivalga alle zollette visibili iniziali; la massa dello zucchero perciò si conserva. In un primo momento il bambino pensa che quei granelli siano troppo piccoli per possedere un peso e un volume; in seguito, invece, ammetterà che ogni granello ha un suo piccolo peso e occupa un piccolo volume (a quest'ultima conclusione giunge più tardi), non solo, ma che la somma dei pesi e quella dei volumi dei singoli granelli corrispondono rispettivamente al peso totale e al volume totale - misurato in base alla variazione del livello dell'acqua - delle zollette originarie.
Questo esperimento illustra come la coordinazione delle azioni di riunire o di addizionare, una volta interiorizzata in operazioni coerenti, conduca a un decentramento e a un'oggettività sufficienti ad andare oltre le apparenze figurative e a raggiungere quelle forme di conservazione difficili da concepire, quali la conservazione della massa, del peso e del volume di un corpo diventato invisibile. La conquista dell'oggettività in questo caso è tanto più interessante in quanto si compie pressappoco alle stesse età in cui si raggiunge l'oggettività in relazione a trasformazioni nel corso delle quali tutto resta visibile; ciò si può verificare, per esempio, trasformando una pallina di argilla in un salsicciotto e chiedendo ai bambini se la massa, il peso e il volume dell'argilla si conservano: per l'argilla, come per lo zucchero sciolto nell'acqua, la conservazione della massa si osserva, in media, sin dai 7-8 anni, quella del peso dai 9-10 anni e quella del volume dagli 11-12 anni.
e) La formazione delle operazioni
Le operazioni sono azioni interiorizzate, reversibili e raggruppate in strutture dotate, in quanto tali, di proprie leggi di composizione. Un'azione che il bambino compie. molto presto consiste nel riunire oggetti simili in un mucchio o collezione A. Egli potrà analogamente riunire altri oggetti simili tra loro in un secondo mucchio A′ e, se accosterà le due collezioni A e A′ per farne un tutto B, compirà un nuovo tipo di azione - consistente nel riunire non oggetti singoli, ma collezioni o mucchi - che, per semplicità, indicheremo così: A + A′ = B. Si tratta di azioni materiali, ma dotate già di significato generale, e si vede subito che costituiscono il punto di partenza delle operazioni di riunione o di addizione. Ma tra queste azioni e le corrispondenti operazioni intercorre un lungo e laborioso processo di elaborazione, nel corso del quale le azioni vengono interiorizzate, rese reversibili e raggruppate in strutture. L'interiorizzazione delle azioni suscita problemi neurologici e psicologici di ogni tipo, che sono stati studiati specialmente in URSS. Per questo non vi insisto; notiamo soltanto che l'interiorizzazione è favorita dalla funzione simbolica: al livello senso-motorio, dalla nascita ai 18-24 mesi, le azioni non possono ancora essere interiorizzate. Col linguaggio, il gioco simbolico, l'imitazione differita e l'immagine mentale, l'interiorizzazione diventa possibile. Ma notiamo soprattutto che un'azione interiorizzata è ancora un'azione: riunire due ciottoli o riunire due unità astratte (1 + 1 = 2) significa sempre addizionare degli elementi in un tutto e l'oggetto dell'azione, che sembra scomparso nella matematica pura, in realtà è sempre presente nella forma di ‛oggetto qualsiasi'.
La reversibilità pone un problema altrettanto complesso. Si potrebbe pensare che il bambino, riunendo due collezioni A e A′ in un tutto B (A + A′ = B), compia un'azione già reversibile, dato che può sempre riottenere una delle due sottocollezioni, per esempio A, sottraendo da B la sottocollezione complementare (B - A′ = A). In effetti siamo in presenza di un inizio di reversibilità, ma si tratta di una reversibilità ancora assai incompleta, in quanto il bambino, concentrando la propria attenzione sulla sottocollezione A, dimentica il tutto B e quindi non è in grado di individuare la relazione fra la parte A e il tutto B. Questa osservazione sembra artificiosa, ma l'esperimento seguente mostra che non lo è. Si danno a un bambino di 5 o 6 anni alcuni disegni di fiori, per esempio 7 primule, 2 rose e 1 garofano e gli si chiede: ‟Tutte le primule sono fiori?"; risposta: ‟Sì, certo." - ‟Tutti questi fiori sono primule?" - ‟No, ci sono anche due rose e un garofano." - ‟Allora, in questo mazzo, ci sono più primule o più fiori?" In generale il bambino risponde: ‟Più primule, perché ci sono solo tre fiori." - ‟Ma se togliamo i fiori, restano le primule?" - ‟No, anche le primule sono fiori." - ‟Allora ci sono più fiori o più primule?" - ‟Più primule, perché ci sono solo tre fiori." ecc. In altri termini, il bambino può benissimo pensare al tutto, ‛tutti i fiori', e a una parte, ‛le primule'. Ma quando pensa a una parte, A, distrugge il tutto B e non gli resta che l'altra parte, A′: allora risponde A > A′ quando gli si chiede se A 〈 B o B > A, in quanto il tutto B per lui non esiste più, avendolo spezzato mentalmente. Per capire la relazione A 〈 B occorre conservare il tutto e pensare reversibilmente: A + A′ = B, quindi A = B − A′, quindi A 〈 B. Questa mancanza di reversibilità spiega le non conservazioni di cui abbiamo parlato prima. Quando il bambino versa l'acqua da una brocca X in una brocca più stretta Y e dice che in Y l'acqua è di più perché raggiunge un livello più alto, trascura il fatto che, se la colonna d'acqua è più alta, nello stesso tempo è anche più stretta e non pensa che, se a un tutto si aggiunge una quantità Q in altezza e si toglie la stessa quantità Q in spessore, si ha + Q − Q = O, cioè non cambia niente. Questo è proprio quanto dice il bambino di 7-8 anni quando perviene al concetto di conservazione: ‟È più alta, ma è più stretta, quindi è la stessa".
Per passare dall'azione all'operazione è quindi necessario che l'azione diventi reversibile, il che avviene quando il bambino non ragiona più per azioni particolari e isolate, quali ‛versare', ‛aggiungere', ecc., ma il suo ragionamento si fonda su coordinazioni generali delle azioni. Abbiamo già visto (v. § b, punto 5) che, sin dal livello senso-motorio, le azioni si coordinano tra loro in diverse forme generali: riunione, seriazione, corrispondenza, ecc.; solo nella misura in cui queste coordinazioni generali si applicano anche alle azioni interiorizzate particolari, queste ultime diventano reversibili. Più precisamente, ogni coordinazione di azioni come d'altronde ogni coordinazione biologica, tende a equilibrarsi attraverso un gioco di regolazioni e di autoregolazioni. Ora, un equilibrio per autoregolazione si realizza grazie a meccanismi di compensazione che effettuano correzioni retroattive e anticipatrici e presentano quindi una reversibilità approssimata; questa reversibilità, nel caso delle azioni interiorizzate, può diventare completa grazie a una regolamentazione intenzionale del pensiero, dopo che le azioni si sono coordinate in riunioni, seriazioni, corrispondenze, ecc.
Ma le operazioni non sono soltanto azioni interiorizzate e reversibili. Per loro stessa natura, sono anche raggruppate in strutture d'insieme, poiché sono invertibili (e l'inversa di un'operazione è a sua volta un'operazione dello stesso tipo) e componibili a due a due indefinitamente, dato che il risultato della composizione di due operazioni di un certo tipo è a sua volta un'operazione dello stesso tipo. Le classificazioni sono un primo esempio di strutture d'insieme operatorie: fin da quando il bambino può riunire due classi nella forma A + A′ = B, può continuare (B + B′ = C, C + C′ = D, ecc.) e costruire così una classificazione. Dal punto di vista psicologico, infatti, una classe è sempre solidale con una classificazione, dato che non esistono classi isolate e non appena una classe è costruita si contrappone ad altre classi e implica quindi la costruzione di una classificazione. Analogamente una relazione d'ordine, A 〈 B, non esiste allo stato isolato e comporta la seriazione di altre relazioni simili, B 〈 C, C 〈 D, ecc.; così un numero non esiste allo stato isolato, ma partecipa della serie operatoria dei numeri ‛naturali', una relazione di parentela fa parte, allo stesso modo, di un albero genealogico, ecc.
Due classificazioni formano una tavola di moltiplicazione o matrice a doppia entrata, due seriazioni possono essere messe in corrispondenza, ecc. Insomma, non appena si hanno operazioni reversibili, si costituiscono strutture di insieme dotate di proprie leggi di totalità in quanto strutture e sistemi. Ma queste strutture non sono un punto di partenza a priori, che caratterizza una volta per tutte il pensiero del soggetto: esse sono il punto di arrivo di una successione ininterrotta di azioni sugli oggetti, che alla fine si coordinano in operazioni reversibili; e ‛alla fine' significa semplicemente ‛a un certo livello di sviluppo', che a sua volta è seguito da una serie di livelli più avanzati nell'ambito di un processo dialettico privo di un termine ultimo.
f) L'esperienza fisica e l'esperienza logico-matematica
Se questo è il modo in cui le operazioni mentali derivano dall'azione sugli oggetti e se ogni azione sull'oggetto nasce da una indissolubile interazione S ⇆ O tra un soggetto S che agisce e oggetti O che reagiscono, resta da capire come si costituiscano due tipi di conoscenze che presentano alcune notevoli differenze fra loro: le conoscenze fisiche, da una parte, cioè quelle che concernono le proprietà dei particolari oggetti, e le conoscenze matematiche o logiche, dall'altra, che riguardano sempre gli oggetti, ma oggetti generali ‛qualsiasi', e che, a partire da un certo livello, procedono per via semplicemente deduttiva, senza più richiedere un controllo sperimentale.
1. É stato spesso sostenuto - e la scuola anglosassone del positivismo logico ancora lo sostiene - che solo le conoscenze fisiche derivano dall'esperienza, mentre le strutture logico-matematiche costituirebbero un puro meccanismo deduttivo o un semplice linguaggio atto a descrivere le esperienze, ma senza provenire da esse. Una tesi siffatta ci pare inesatta, storicamente e psicologicamente, in quanto, come abbiamo già ripetuto più volte, le operazioni logiche e matematiche derivano dall'azione e, come le esperienze fisiche, si fondano, almeno nelle fasi iniziali, su veri e propri esperimenti.
Dal punto di vista storico sappiamo benissimo che, prima della matematica assiomatica dei Greci, è esistita, in Egitto e altrove, una matematica empirica applicata all'agrimensura, all'astronomia, ecc. È quindi esistito uno stadio in cui, prima di dar luogo a una costruzione deduttiva, la matematica è stata tratta dall'esperienza: anche in questo caso, come spesso accade, la tecnica ha preceduto la scienza e l'azione materiale le operazioni intellettuali.
Nel campo della psicologia infantile è peraltro perfettamente evidente che, ai livelli preoperatori, ai quali la deduzione non è ancora possibile in forma regolata, e all'inizio degli stessi livelli operatori, il bambino scopre, attraverso l'esperienza, delle verità logiche e matematiche che non sa ancora dedurre. Un primo esempio è quello della transitività: quando il bambino di 7-8 anni saprà costruire una serie applicando un metodo operativo per mettere in ordine di lunghezza una decina di righelli di lunghezza variabile dai 10 ai 14,5 cm, sarà in grado di dedurre A 〈 C da A 〈 B e B 〈 C; infatti la sua costruzione operativa consiste nel cercare innanzitutto il righello più piccolo, poi il più piccolo di quelli che restano, ecc., quindi egli sa in anticipo che un elemento (E) è contemporaneamente più grande dei precedenti (E > D, C, B, A) e più piccolo dei successivi (E 〈 F, G, ecc.); questa reversibilità che porta alla seriazione sistematica implica allora l'immediata comprensione della transitività. Ma prima di procedere in questa maniera operativa, il bambino costruisce la sua serie a tentoni: stabilisce B 〈 E, poi B 〈 C 〈 E, poi A 〈 B, ecc., senza sistematicità, non sapendo coordinare anticipatamente le sue azioni. In questo caso, se gli si mostrano due righelli, A 〈 B, e poi si nasconde A, pur constatando B 〈 C, non può dedurre A 〈 C e ha bisogno di confrontare direttamente A e C per stabilire quale dei due sia più lungo: l'esperienza è quindi ancora necessaria per verificare una verità logica (la transitività)!
Analogamente, in aritmetica, una commutatività come 2 + 3 = 3 + 2 non è affatto evidente, ai livelli preoperatori, prima della verifica sperimentale sugli oggetti. D'altra parte tutto l'insegnamento concreto dell'aritmetica portato avanti attraverso un calcolo su oggetti mostra a sufficienza la necessità di continue verifiche sperimentali prima che il calcolo diventi deduttivo. Peraltro a tutti i livelli di insegnamento e anche di creatività matematica la verifica su esempi concreti è necessaria prima di giungere a dimostrazioni generali e astratte, e ciò che i matematici chiamano ‛intuizione' (che non dimostra niente ma porta alla scoperta) è un residuo di queste attività concrete di verifica.
Tutto ciò non toglie che, nel corso del suo sviluppo, la matematica raggiunga un livello puramente deduttivo al quale la verifica sperimentale diventa inutile, perchè basta la dimostrazione, e in alcuni casi impossibile, dato che l'esperienza è finita e non estrapolabile all'infinito. Questa liberazione dall'esperienza pone quindi un problema: resta da spiegare se le operazioni matematiche derivino dall'azione o dalle coordinazioni generali delle azioni. Ma per discutere un problema siffatto occorre innanzitutto impostarlo bene. Dire che il ragionamento operatorio proprio della matematica non ha più bisogno, a partire da un certo livello d'astrazione, della verifica sperimentale non significa nè che la matematica contraddica l'esperienza nè che perda ogni contatto con l'oggetto. Anzi, uno dei fatti più sorprendenti della storia della scienza è che spesso i matematici costruiscono strutture senza pensare all'esperienza e queste strutture si applicano all'esperienza fisica in un secondo momento, talvolta molto più tardi. Un caso celebre è quello delle geometrie non euclidee, che sono state elaborate per amore di generalizzazione astratta e sono servite in seguito a inquadrare molti fenomeni fisici. La fisica nucleare contemporanea utilizza continuamente ‛operatori' costruiti dai matematici molto prima che si presentasse la possibilità di una loro applicazione, ecc.
Bisogna quindi dire che ogni fenomeno fisico è matematizzabile, ma che la matematica oltrepassa l'esperienza fisica, sia perché spesso la precede, sia perché raggiunge un grado più elevato di generalizzazione astratta. Tra le operazioni logico-matematiche e l'oggetto fisico esiste dunque un rapporto, ma non si tratta di un rapporto diretto; questo fatto solleva un difficile problema psicologico.
2. Il problema apparentemente si complica, in realtà si precisa, quando si aggiunge la considerazione che nel corso della storia e nel corso dello sviluppo del bambino stesso le operazioni logico-matematiche danno luogo a conoscenze propriamente dette assai prima che le conoscenze fisiche raggiungano lo stesso grado di precisione.
I Greci hanno fondato la logica e la matematica ma non la fisica sperimentale, salvo qualche rara eccezione nel campo della statica (la statica di Archimede); si sono dedicati all'astronomia, ma la fisica di Aristotele è rimasta a un livello molto basso rispetto alla sua logica o alla matematica del tempo. È stato necessario attendere Galileo e il sec. XVII per avere una teoria del moto inerziale e disporre di una fisica propriamente sperimentale e non solo grossolanamente empirica.
Una delle ragioni di questo fatto è che, nell'ambito logico-matematico, le operazioni piu comuni, per esempio la composizione additiva, la concatenazione seriale (la nozione di ordine), le corrispondenze, ecc., sono anche le più semplici. In campo fisico, invece, i fenomeni più evidenti sono i più complessi e per poterli descrivere occorre innanzitutto dissociarne i fattori: per esempio, è impossibile scrivere in dettaglio l'equazione della caduta di una foglia e il genio di Galileo è consistito, più di venti secoli dopo la nascita della matematica deduttiva, nel dissociare i fattori quanto bastava per fare del tempo orientato una variabile indipendente e ottenere così un moto semplice.
Inhelder ha fatto una serie di esperimenti circa l'induzione di leggi fisiche elementari nel bambino; ne abbiamo quindi pubblicato insieme i risultati, sforzandoci di analizzarli dal punto di vista delle operazioni logiche in gioco. Questa ricerca ha messo in evidenza un fatto di portata generale: la difficoltà che il bambino e anche il preadolescente incontrano a dissociare i fattori; ciò si spiega in quanto la dissociazione dei fattori presuppone una combinatoria, cioè operazioni logiche appartenenti a un livello superiore rispetto a quello delle semplici classificazioni, seriazioni, corrispondenze, ecc.
Uno degli esperimenti consisteva, per esempio, nel dare ai bambini una serie di aste più o meno flessibili e nel chiedere loro: a) di individuare i fattori di maggiore o minore flessibilità (la lunghezza, lo spessore, la forma della sezione dell'asta, il materiale di cui era fatta); b) di dimostrare il ruolo dei fattori chiamati in causa. I bambini arrivavano abbastanza facilmente a scoprire i fattori, e alcuni di essi, ma solo verso i 14-15 anni riuscivano a fornire una prova sistematica: far variare un solo fattore per volta neutralizzando gli altri col lasciarli invariati. Un bambino di 9 o 10 anni, per esempio, scopre rapidamente che la lunghezza dell'asta influisce sulla sua flessibilità, ma quando gli si chiede di dimostrarlo prende un'asta lunga e sottile e un'altra corta e grossa; se gli si chiede perché, risponde: ‟Per far vedere meglio la differenza", senza sospettare che la sua scelta non può dimostrare niente.
In altri termini, i bambini piccoli passano direttamente all'azione, poi classificano, costruiscono serie, corrispondenze, ecc., ma in forma globale, senza cercare di analizzare i fattori. I bambini più grandi, dopo qualche tentennamento, fanno una lista di ipotesi e studiano i fattori l'uno dopo l'altro, poi a due per volta, a tre per Volta, ecc. (in alcune esperienze è indispensabile procedere in questo modo). Inoltre, essi non usano soltanto le operazioni elementari o ‛concrete' (classificare, mettere in relazione, enumerare), ma anche le operazioni della logica degli enunciati (implicazione, disgiunzione, congiunzione, incompatibilità, ecc.), che presuppongono anch'esse una combinatoria; per dissociare i fattori occorre quindi disporre di due combinatorie, una per le idee o gli enunciati e l'altra per i fatti o le osservazioni particolari.
Si vede quindi che il bambino, pur riuscendo fin dai 7-8 anni a manipolare deduttivamente le operazioni logicomatematiche elementari, non diventa capace di programmare un esperimento prima dei 14-15 anni; questo scarto fa pensare ai secoli che separano l'aritmetica di Pitagora o gli Elementi di Euclide dalla fisica di Galileo o di Cartesio.
3. I diversi dati presi in considerazione (punti 1 e 2) sembrano quindi indicare che l'esperienza è necessaria tanto alla formazione delle strutture logico-matematiche quanto a quella delle conoscenze fisiche e tuttavia esiste una certa differenza fra esperienze fisiche ed esperienze logico-matematiche. L'esperienza fisica consiste - lo abbiamo appena visto - nell'agire sull'oggetto modificandolo in maniera da scoprirne le singole proprietà specifiche per astrazione dall'insieme di tutte le sue proprietà; in questo modo appunto il bambino scopre che un'asta è più flessibile di un'altra, che esiste una relazione fra la lunghezza e la flessibilità di un'asta, ecc.
Esaminiamo ora un'esperienza di tipo logico-matematico, per esempio quella che porta alla scoperta del fatto che la cardinalità (numero degli elementi) di un insieme è indipendente dall'ordine in cui vengono presi i suoi elementi. Un grande matematico mi ha raccontato di avere scoperto con meraviglia questa proprietà da bambino; contando una decina di sassi allineati, egli ebbe l'idea di contarli partendo dall'ultimo e poi di ricontarli dopo averli disposti in cerchio, ecc.; il fatto di trovare sempre 10 lo riempì di entusiasmo. In che cosa consiste un'esperienza siffatta? Consiste ancora, naturalmente, nell'agire sugli oggetti (metterli in fila, in cerchio, ecc.) e nello scoprire tramite gli oggetti i risultati delle azioni compiute (10 da sinistra a destra = 10 da destra a sinistra, ecc.). La differenza tra l'esperienza fisica e l'esperienza logico-matematica sta nel fatto che le proprietà scoperte in seguito all'azione sull'oggetto appartenevano già all'oggetto nel caso dell'esperienza fisica, mentre sono state introdotte o aggiunte dall'azione nel caso dell'esperienza logico-matematica; mentre infatti l'asta è già flessibile prima che il bambino la pieghi, l'ordine lineare o ciclico non esiste prima che il bambino ordini i sassi. Quanto al numero dei sassi, essi sono esattamente 10, e non 9 o 11, già prima di venire ordinati, ma ciò significa soltanto che sono enumerabili; per attribuire loro il numero 10 occorre metterli in corrispondenza con i nomi dei numeri (1, 2, 3,..., 10) o con le dita, ecc., dal momento che il numero non è una proprietà intrinseca, ma scaturisce da un confronto. Quel che il soggetto scopre, nel caso dell'esperienza logico-matematica presa in esame, è che il risultato dell'azione di contare cardinalmente è indipendente dall'azione di ordinare. L'esperienza logico-matematica consiste quindi nell'astrarre, dopo aver agito sull'oggetto, le proprietà delle azioni compiute sull'oggetto e non proprietà intrinseche dell'oggetto messe in evidenza dalle azioni ma indipendenti da esse. Si capisce così come il pensiero matematico possa diventare puramente deduttivo: basta che, anziché procedere empiricamente sui sassi, il soggetto cominci ad applicare le stesse operazioni a oggetti qualsiasi, simbolicamente rappresentati dai segni 1, 2, 3,... o x, y, z, ..., ecc. In campo fisico, invece, se sostituiamo l'asta flessibile con un oggetto qualsiasi, rischiamo di non dire più nulla di vero.
4. L'interpretazione appena illustrata dell'esperienza logico-matematica ha sollevato numerose obiezioni: si è cercato di attenuare o eliminare completamente la differenza fra quel tipo di esperienza e l'esperienza fisica. Io ritengo però che tali obiezioni siano dovute a malintesi che è possibile dissipare con le osservazioni seguenti.
A. I due tipi di esperienza, quella fisica e quella logicomatematica, sono di fatto indissociabili: all'esperienza logico-matematica precedentemente illustrata - consistente nell'ordinare e contare 10 sassi - si associa, infatti, un'esperienza fisica, dato che i sassi si possono ordinare e contare in virtù del fatto che si conservano e non si fondono fra loro come gocce d'acqua, ecc.; questo è l'aspetto fisico dell'esperienza, indissociabile dall'aspetto logico-matematico. Viceversa, le azioni che intervengono nel corso di un'esperienza fisica sono sempre indissociabili dalle relative coordinazioni generali di natura logico-matematica (riunione, seriazione, corrispondenza, ecc.). L'esperienza logico-matematica e quella fisica sono quindi, in realtà, due poli ovvero due versanti di un'unica attività integrata; questo è naturale, dal momento che anche il rapporto tra soggetto e oggetto (S ⇄ O) è indissolubile: il polo fisico corrisponde quindi alla freccia Á e quello logico-matematico alla freccia →, in proporzioni diverse secondo le situazioni.
B. D'altra parte, e soprattutto, ricondurre le azioni logico-matematiche alle azioni del soggetto non significa trascurare la realtà fisica, ma ritrovarla all'interno dell'organismo. Le coordinazioni generali delle azioni sono infatti legate alle coordinazioni nervose ed è noto che Mc Culloch e Pitts hanno rinvenuto, nei diversi tipi di legami neuronici o sinaptici, strutture isomorfe a quella della logica proposizionale. Le coordinazioni nervose dipendono a loro volta dalle coordinazioni organiche in generale, che sono di natura fisico-chimica. Il problema di sapere come mai la matematica si adatti alla realtà fisica, pur non essendo astratta dall'esperienza fisica, ma dalle coordinazioni generali delle azioni, potrà quindi ricevere una risposta in termini biologici: più che la psicologia infantile sarà la biologia della variazione e dell'evoluzione a fornire i dati riguardanti le fondamenta ultime della nostra attività cognitiva. Ciò naturalmente non significa che la matematica e la logica siano inscritte a priori nell'organismo, ma che le azioni e le operazioni attraverso le quali si costruiscono non sono arbitrarie, bensì traggono le proprie leggi da quelle di un organismo che è oggetto tra gli altri, pur costituendo il soggetto.
4. Lo sviluppo della causalità
Le analisi precedenti mostrano che le strutture mentali implicano una costruzione molto più laboriosa e complessa di quanto si immagini, il che esclude che esse risultino da una semplice programmazione innata, benché la maturazione del sistema nervoso predeterminata geneticamente svolga naturalmente un ruolo necessario nel funzionamento dell'apparato mentale (ma non nella sua strutturazione). D'altro canto, l'analisi dei rapporti fra gli aspetti figurativi e quelli operativi del pensiero dimostra a sufficienza che le strutture cognitive non si impongono dall'esterno attraverso la percezione degli oggetti e che le attività del soggetto creano continuamente nuove situazioni e arricchiscono la realtà di nuove forme logico-matematiche che ne consentono l'assimilazione e la rendono intelligibile. Ma se questa concezione costruttivistica dello sviluppo mentale è relativamente ovvia per quel che riguarda il campo logico-matematico, che dipende strettamente dal soggetto, come giustificarla nel caso della strutturazione della causalità fisica, che sembra imposta dall'esperienza e dalla natura degli oggetti? Nelle pagine seguenti cercheremo di mostrare come anche la nozione di causalità sia necessariamente legata alle operazioni del soggetto e ai loro due caratteri fondamentali: la produzione di strutture e la conservazione di grandezze. L'unica differenza, rispetto alle nozioni logico-matematiche, consiste in questo: nel caso della causalità, dal momento che si tratta di spiegare i rapporti tra gli oggetti, e non semplici nessi concettuali, le operazioni deduttive sono ‛attribuite', per così dire, agli oggetti stessi, i quali vengono concepiti come una specie di operatori e solo in quest'ottica diventano comprensibili, fase per fase, ai diversi livelli dello sviluppo mentale. Per giustificare questa concezione psicogenetica è utile, innanzitutto, ricordare le tre possibili teorie concernenti la causalità, di cui le prime due, malgrado siano state fatte passare per genetiche, non sembrano confermate dai fatti, mentre la terza, apparentemente meno psicologica, risulta più adatta a render conto delle osservazioni e dei risultati sperimentali (v. § a). Passeremo poi ad analizzare lo sviluppo della causalità partendo dal livello senso-motorio (v. § b) per giungere ai livelli rappresentativi e operatori (v. § c).
a) Le teorie della causalità
Tutte le ipotesi che sono state fatte a proposito della causalità si possono ricondurre a tre sole ipotesi generali.
La prima è quella di Hume, secondo cui la relazione causale si riduce a una successione regolare, senza che vi sia, oggettivamente, alcuna trasmissione (di energia, ecc.) o un'effettiva produzione (di un effetto da parte di una causa). Quando una palla da biliardo ne urta un'altra, il soggetto - secondo Hume -,dapprima percepisce una semplice ‛congiunzione' senza ‛connessione'; solo dopo aver assistito ripetutamente al verificarsi del fenomeno, l'osservatore, per associazione di idee, ricaverebbe l'impressione di un nesso causale necessario. Per Hume, quindi, la necessità del legame causale resta soggettiva e ogni evento può provocarne un altro, purché i due eventi si succedano regolarmente. È ovvio che, nella sua analisi, Hume ha semplicemente dimenticato il giocatore e la stecca con cui muove le palle, altrimenti avrebbe forse preso in considerazione la possibilità di un passaggio oggettivo dalla causa all'effetto.
La seconda ipotesi è quella di Maine de Biran, secondo cui esisterebbe addirittura una situazione, in verità molto particolare, in cui si avrebbe la diretta percezione del passaggio dalla causa all'effetto. La situazione cui si riferisce Maine de Biran è l'azione del soggetto. In effetti, nel caso dell'azione del soggetto, c'è una causa - l'io e la sua volontà - c'è un effetto - il moto periferico del braccio, della mano, dell'oggetto spostato dalla mano - e qualcosa di simile alla percezione del passaggio dalla causa all'effetto - la sensazione dello sforzo muscolare. Quanto alla causalità fisica, sarebbe semplicemente il prodotto di un'induzione', di una generalizzazione fatta a partire dalla descritta situazione particolare. A sfavore dell'ipotesi di Maine de Biran depone il fatto che il bambino molto piccolo, l'infante, presenta già una forma di causalità (senso-motoria) in un'epoca in cui ancora non è capace di distinguere il mondo interno dal mondo esterno, l'io dagli oggetti, e in cui non possiede neppure la nozione di oggetto permanente. D'altra parte, il senso dello sforzo, come ha mostrato James con una celebre analisi e poi P. Janet e molti altri, non è una sensazione centrifuga, non muove dall'io e dal centro verso gli oggetti, ma muove dalla periferia e, come ha dimostrato Janet, non corrisponde al passaggio di una forza, ma soltanto a una regolazione delle forze in gioco.
È allora possibile una terza ipotesi, che consiste nell'ammettere l'esistenza di un nesso causale - contrariamente a Hume -, ma non percepibile direttamente, come vorrebbe Maine de Biran, bensì ricostituito a ogni nuova esperienza e introdotto nella realtà dall'intelligenza. Questa è l'ipotesi del razionalismo: la troviamo in Cartesio (causa seu ratio), in Leibniz, quando afferma che la relazione di causa ed effetto lega gli oggetti come la relazione di ragione lega le verità, in Kant e, malgrado le loro divergenze, in Brunschvicg, in Meyerson, nei neokantiani (Cohen), ecc.
Nel complesso esistono quindi tre possibilità: assenza di nesso causale, di un passaggio dalla causa all'effetto; percezione diretta di un'obiettiva trasmissione (di energia, ecc.) dalla causa all'effetto; ricostituzione, a ogni nuova esperienza, di un nesso causale ad opera dell'intelligenza; quest'ultima ipotesi è motivata dalla considerazione che la causalità è di natura inferenziale.
Apparentemente esiste una quarta possibilità: che il concetto di causalità possa derivare dall'osservazione. I noti esperimenti di Michotte sulla percezione visiva della causalità sembrano puntare in questa direzione. Quando un oggetto ne urta un altro, come i quadrati o i rettangoli usati da Michotte nei suoi esperimenti, si ha un'impressione di causalità, indubbiamente di origine visiva, in quanto è subordinata a determinate condizioni di spazio, di velocità, di tempo (se il secondo oggetto non si muove appena viene urtato, ma dopo un po' di tempo, abbiamo l'impressione di moti indipendenti). Il grande merito di Michotte sta nell'aver mostrato che esiste una percezione della causalità così come esiste una nozione di causalità; questo peraltro è un fatto consueto in molti altri casi: esiste una nozione di velocità e una percezione della velocità, una nozione di spazio e una percezione dello spazio, una nozione di tempo e la percezione dello scorrere del tempo, ecc. Quando però tentiamo di analizzare la percezione della causalità, ritroviamo le tre ipotesi illustrate precedentemente. In primo luogo potremmo supporre che i fenomeni prodotti sperimentalmente da Michotte si riducano a successioni regolari di eventi (di moti) connessi per associazione di idee, secondo l'ipotesi di Hume; in questi termini L.-C.-H. Piéron ha interpretato la causalità percettiva visiva evidenziata da Michotte. In secondo luogo potremmo applicare l'ipotesi di Maine de Biran, tanto più che, come lo stesso Michotte ha riconosciuto, la causalità percettiva, oltre che visiva, può essere tattile. Anzi, se non ci fosse una percezione tattilo-cinestesica della causalità, concomitante con l'atto di spingere realmente un oggetto e costituita dalla sensazione del contatto con l'oggetto, dall'impressione della resistenza inerziale che l'oggetto oppone allo spostamento, ecc., non ci sarebbe neppure una causalità percettiva visiva. Quest'ultima sembra costituire quindi una traduzione in termini visivi di quella causalità percettiva fondamentale che è la causalità tattilo-cinestesica. Ma l'ipotesi di Maine de Biran non regge a un'analisi psicologica più approfondita della percezione della causalità. Michotte ha infatti mostrato che si ha percezione della causalità anche quando l'oggetto attivo non tocca l'oggetto passivo, quando cioè la distanza tra i due non si annulla. Michotte ha allora cercato di individuare una grandezza percepibile passante dal primo al secondo oggetto, qualcosa di simile al ‛moto ϕ' dei gestaltisti, un moto senza mobile, senza supporto, una sorta di flusso paragonabile al vento che passa attraverso l'erba e la muove; ma ha dovuto constatare che fra i due oggetti non passava assolutamente nulla. In che cosa consiste allora la percezione della causalità rilevata da Michotte? Non si tratta della percezione di un passaggio, bensì della percezione di una risultante. Una volta che siano soddisfatte determinate condizioni (di spazio, di tempo, di velocità, ecc.), vediamo - se così posso esprimermi - che qualcosa è passato, ma non vediamo passare niente, vediamo la risultante dei fenomeni in gioco. L'impressione di causalità che ne ricaviamo scaturisce quindi da una composizione percettiva e non è il frutto di una percezione semplice e diretta; si tratta di una composizione non già tra inferenze concettuali, ma tra regolazioni o ‛preinferenze' percettive. È di questa composizione che percepiamo la risultante, senza percepire il passaggio in se stesso. È noto che Helmoltz ha parlato di inferenze percettive e con ragione, dato che nella percezione, come in ogni meccanismo senso-motorio, possono intervenire delle preinferenze; anche a questo livello abbiamo quindi a che fare con qualcosa che non può essere direttamente osservato, ma che comporta una ricostruzione. Ricadiamo così nell'ipotesi razionalistica; possiamo quindi concludere dicendo che esistono solo tre forme di interpretazione della causalità e anche nel caso della percezione della causalità siamo costretti a scegliere tra l'associazione estrinseca, il passaggio percepibile e la ricostruzione, la composizione preinferenziale.
b) La causalità senso-motoria
Prendiamo le mosse da una serie di vecchie osservazioni, condotte in modo particolarmente dettagliato, concernenti le prime forme di causalità, riscontrabili nel comportamento del bambino fin dall'età di 4-5 mesi. Il bambino giace in una culla al cui tetto sono fissati dei giocattoli che egli può azionare tirando uno spago sospeso sopra di lui; i giocattoli, muovendosi, producono rumore. La prima volta il bambino tira lo spago per caso, i giocattoli si muovono e fanno rumore: immediatamente interessato, il bambino ricomincia a tirare lo spago, questa volta intenzionalmente. Il giorno dopo nessun giocattolo è fissato al tetto della culla, mentre lo spago è al suo solito posto. Si appende un nuovo giocattolo sotto gli occhi del bambino, che, immediatamente, cerca lo spago e lo tira guardando il giocattolo. Esiste quindi, evidentemente, una connessione causale; i controlli seguenti sono perciò molto istruttivi. Anziché sospendere il giocattolo al tetto della culla, lo si appende a una specie di canna da pesca e lo si fa oscillare a una distanza di 1-2 metri dal bambino. Appena l'oscillazione ha termine, il bambino tira lo spago guardando il giocattolo. In altri termini, il rapporto causale è ancora indipendente da ogni contatto fra gli oggetti, dato che il bambino cerca di applicare lo stesso procedimento anche per muovere un oggetto distante uno o due metri. Per poter trarre delle conclusioni generali da queste osservazioni, si cambiano le condizioni sperimentali: lo sperimentatore si nasconde dietro un paravento posto in un angolo della stanza; da lì, usando un fischietto per non farsi riconoscere, emette dei brevi fischi. Appena i fischi cessano il bambino cerca con gli occhi lo spago e lo tira.
Quale delle tre ipotesi precedentemente illustrate spiega meglio questi fatti? Dapprima pare sia quella di Hume: qualunque cosa può produrre qualunque altra cosa, purché gli eventi si presentino in successione regolare. D'altra parte solo l'azione del soggetto (nella fattispecie, l'azione di tirare lo spago) genera l'impressione di causalità, dato che a 4-5 mesi di età l'azione di un oggetto su un altro oggetto non basta ancora a produrre una connessione causale. Questo fatto depone, quindi, a favore dell'ipotesi di Maine de Biran. Così, in sostanza, né l'ipotesi di Hume né quella di Maine de Biran, troppo parziali e incomplete, forniscono una spiegazione soddisfacente della causalità. Per ottenere una spiegazione esauriente è necessario 0sservare come il bambino reagisce crescendo. Nel periodo che va dai 4-5 mesi alla conclusione della fase senso-motoria si assiste a una complessa evoluzione della percezione della causalità, in una duplice direzione: 1) verso un'oggettivazione: il bambino arriva a capire che un oggetto può agire su un altro indipendentemente dall'azione del soggetto; si ha quindi un decentramento rispetto all'azione del soggetto; 2) verso una spazializzazione: solo un contatto fra causa ed effetto produce l'impressione di causalità. Questa evoluzione avviene in concomitanza con l'elaborazione della nozione di oggetto permanente e con la strutturazione dello spazio (tramite la coordinazione delle posizioni, degli spostamenti, ecc.). Di pari passo con la costituzione del gruppo degli spostamenti, che va organizzandosi, sia pure in forma empirica e non ancora concettuale, durante la fase senso-motoria, si costruiscono anche le successioni temporali, che all'inizio sono molto mal registrate.
Da quanto precede risulta, in conclusione, che la causalità senso-motoria è legata all'intelligenza del bambino nel suo complesso e non è il prodotto di eventi osservabili, di esperienze dirette. Pertanto, fin da questa fase, l'ipotesi più adatta a render conto della causalità sembra essere quella razionalistica.
c) La causalità operatoria
Passiamo ora ad analizzare la causalità al livello del pensiero, delle rappresentazioni e delle operazioni mentali. In questo campo abbiamo condotto, negli ultimi anni, una lunghissima serie di esperimenti, coadiuvati anche da alcuni fisici. Quel che abbiamo scoperto sembra confermare, in linea generale, l'ipotesi razionalistica più che quella di Hume o quella di Maine de Biran. Ciò dipende dal fatto che l'evoluzione del concetto di causalità avviene in concomitanza e in stretta corrispondenza con quello delle operazioni logico-matematiche, di cui il bambino diventa padrone via via che cresce. Questa evoluzione parallela ha un profondo significato psicologico, tanto che, prima di passare a presentare, a titolo esemplificativo, alcuni degli esperimenti di cui sopra, è opportuno rilevare le analogie e i rapporti intercorrenti fra le operazioni logico-matematiche e la nozione di causalità. Sia le operazioni logico-matematiche sia la nozione di causalità presuppongono e implicano trasformazioni accompagnate da conservazioni. Le operazioni logico-matematiche, infatti, si formano allorché il soggetto giunge a concepire la conservazione di invarianti nel corso delle trasformazioni prodotte dalle azioni. Analogamente il rapporto causale implica una trasformazione della realtà, la produzione di un effetto da parte di una causa; non si tratta però di una trasformazione totale, radicale: ciò che si trasmette dalla causa all'effetto, e su cui si fonda concettualmente il nesso causale, si conserva. Anche il passaggio dalla causa all'effetto, che viene costruito per via inferenziale e non osservato direttamente, implica quindi una conservazione attraverso la trasformazione. Data la natura inferenziale del nesso causale, la nozione stessa di causalità è influenzata direttamente dalle operazioni logico-matematiche: tutti gli studi effettuati hanno confermato l'esistenza di un legame diretto, a tutti i livelli di maturazione delle strutture cognitive, fra la nozione di causalità e le operazioni logico-matematiche. Questo legame dipende da una specifica e particolare utilizzazione delle operazioni logico-matematiche, le quali, nel caso dell'istituzione del nesso causale, non sono semplicemente applicate agli oggetti, ma sono loro addirittura attribuite. In altri termini, gli oggetti sono concepiti come operatori (in senso lato e non solo nel senso tecnico, per esempio, della meccanica quantistica) e quindi in grado di agire gli uni sugli altri secondo le stesse leggi operatorie che regolano il pensiero. Illustriamo quanto detto con alcuni esempi.
Il primo riguarda la trasmissione della quantità di moto. Si allinea su un piano una fila di biglie tutte uguali; ogni biglia tocca la successiva. Da una guida inclinata si fa scendere un'altra biglia, uguale alle precedenti, in modo che vada a urtare la prima della fila. Prima di eseguire l'esperimento i bambini piccoli credono che in conseguenza dell'urto si muoveranno tutte le biglie; dopo aver constatato che in realtà si muove solo l'ultima della fila, i bambini forniscono del fenomeno una spiegazione alquanto fantasiosa: pensano che la prima biglia abbia toccato l'ultima passando dietro alle altre. Questa spiegazione viene fornita fin verso i 4-5 anni. In un secondo stadio il bambino si rappresenta la trasmissione alla stregua di una successione di moti molari: la biglia che scende dalla guida urta la prima della fila, che si muove e urta la seconda, ecc. fino all'ultima, che si sposta. Le biglie intermedie non si spostano perché ogni biglia viene fermata dalla successiva, tranne l'ultima. A questo livello comincia a essere capita la trasmissione, però si tratta ancora di una trasmissione immediata, da ogni biglia alla successiva, basata sugli spostamenti delle singole biglie. Verso i 7-8 anni comincia un terzo stadio; il bambino dice: ‟la biglia che scende urta la prima della fila e le dà un impulso. Poi questo impulso viene trasmesso alla successiva e così via". Egli precisa inoltre che l'impulso attraversa le biglie. Siamo quindi all'inizio della trasmissione mediata: c'è qualcosa che passa attraverso le biglie, ma, pur cogliendo questa trasmissione mediata, il bambino non accetta ancora, ad onta di ogni verifica, l'immobilità dei mediatori. Parliamo in questo caso di trasmissione semunterna e semiesterna; solo verso gli 11-12 anni si avrà la trasmissione interna: le biglie intermedie vengono attraversate dall'impulso restando immobili.
Il ‛salto qualitativo', nella comprensione della trasmissione della quantità di moto, avviene dunque intorno ai 7 anni; in questo stesso periodo compare la transitività nell'ambito delle operazioni logico-matematiche (v. cap. 3, § f). È proprio la scoperta della transitività che permette al bambino di concepire un impulso che attraversa le biglie; secondo quanto detto all'inizio di questo paragrafo, il bambino ‛attribuisce' agli oggetti la transitività (una proprietà logico-matematica): ogni biglia trasmette alla successiva il moto che riceve dalla precedente.
Passiamo a un secondo esempio, la scoperta del principio di azione e reazione. In un tubo a U, chiuso a un'estremità da un pistone, si mette dell'acqua. Il bambino prevede facilmente che, aumentando la pressione sul pistone, il livello dell'acqua nel ramo libero sale. Sostituiamo l'acqua con un liquido più pesante: una miscela di acqua e glicerina. Chiediamo allora ai bambini: ‟Mettendo dell'acqua ‛più pesante' che cosa succede?". Per i soggetti più giovani, fin verso gli 11-12 anni, se l'acqua è ‛più pesante' salirà più in alto, dato che alla pressione esercitata sul pistone si aggiungerà il peso dell'acqua. Le forze in gioco hanno ancora tutte lo stesso verso. Intorno agli 11-12 anni, appunto, si comincia a capire la reazione. Il bambino dice: ‟L'acqua è più pesante, resisterà di più; è più forte e se spingete con la stessa forza un'acqua più pesante, l'acqua resisterà di più e salirà meno in alto". In altri termini si ha una reazione diretta in senso inverso all'azione. Sempre a proposito del principio di azione e reazione, ecco un altro esperimento: lo sperimentatore da una parte e il bambino dalla parte opposta premono contro un blocco di plastilina una moneta saldata, al centro, a una sbarretta di metallo che funge da impugnatura. Si chiede al bambino: ‟Uno di noi due farà affondare di più la propria moneta o otterremo lo stesso risultato?" Tutti i bambini piccoli, fino ai 10-11 anni, rispondono: ‟Lei è più grande di me, è più forte, farà un buco più profondo. Io sono meno grande, quindi farò un buco meno profondo". A partire dai 10-11 anni, viceversa, si ottengono risposte che attestano la comprensione del principio di azione e reazione: ‟Lei è più forte di me, certo, ma quando lei spinge forte io resisto forte e quando io spingo leggermente lei resiste leggermente; allora la sua spinta e la sua resistenza sono uguali alla mia spinta e alla mia resistenza: l'una compensa l'altra". In altri termini, si ha la comprensione, molto notevole in questo caso, dell'uguaglianza fra azione e reazione. Anche la comprensione del principio di azione e reazione è resa possibile dalla maturazione delle operazioni logico-matematiche. Infatti la coordinazione di azione e reazione non presuppone semplicemente una coppia, ma una quaterna di operazioni, che corrispondono all'azione diretta (aumento della spinta), all'azione inversa (diminuzione della spinta), alla reazione diretta (aumento della resistenza) e alla reazione inversa (diminuzione della resistenza). La combinazione di inversione e reciprocità non si ha ancora al livello delle operazioni concrete; bisogna attendere che si formi il gruppo di quaternalità delle operazioni proposizionali: ciò avviene, appunto, intorno agli 11-12 anni. Anche in questo caso ritroviamo quindi una sincronizzazione piuttosto singolare tra lo sviluppo delle operazioni e quello della nozione di causalità: operazioni divenute familiari sul piano logico-matematico vengono attribuite agli oggetti, che son visti agire gli uni sugli altri in conformità con tali operazioni.
Un ultimo esempio, concernente la distributività. In matematica la distributività si presenta nella forma di una legge algebrica pura: n(x + y) = nx + ny, che presuppone una combinazione di addizione e moltiplicazione e il concetto di proporzione. Sia la moltiplicazione sia, soprattutto, la proporzione (che è un'uguaglianza di rapporti) appartengono a un livello di astrazione superiore rispetto all'addizione, in quanto sono operazioni applicate ad altre operazioni; pertanto non sono comprese prima degli 11 - 12 anni. È naturale quindi che prima di quell'età neppure la distributività in matematica sia capita. In fisica, viceversa, la nozione di distributività sembra molto più semplice: si applica ogni volta che un sistema in equilibrio è sottoposto a una perturbazione che si espande omogeneamente al suo interno. Per esempio, quando si tende un elastico, tutte le sue parti si allungano in modo omogeneo, come si 0sserva facilmente. Si potrebbe perciò pensare che la distributività in fisica sia capita molto tempo prima che in matematica; invece non è così: prima di poter essere ‛ritrovato' nella realtà fisica, il concetto di distributività deve essere elaborato al livello delle operazioni logico-matematiche. Fin verso gli 11-12 anni, infatti, lo stiramento dell'elastico non viene affatto concepito come omogeneo; l'elastico è visto tendersi più agli estremi che al centro: i bambini confondono sistematicamente lo spostamento con lo stiramento, come risulta anche dagli esperimenti sulla conservazione delle lunghezze (v. cap. 2). Anche in questo caso, quindi, constatiamo che le operazioni logico-matematiche influiscono direttamente sulla nozione di causalità e, in generale, sulla capacità di comprendere i fenomeni fisici: una volta acquisite, le operazioni logico-matematiche vengono attribuite agli oggetti e si ottiene così una strutturazione in termini di causa ed effetto di situazioni precedentemente non strutturate. Ciò non significa che le operazioni logico-matematiche si sviluppino autonomamente: se la soluzione di problemi desunti dall'osservazione dei fenomeni fisici presuppone la messa a punto di strumenti logico-matematici, inversamente l'osservazione dei fenomeni fisici favorisce lo sviluppo delle operazioni logico-matematiche e costituisce un incentivo alla loro formazione.
In conclusione, lo sviluppo della nozione di causalità, come quello delle operazioni logico-matematiche, indica che l'evoluzione mentale si attua attraverso una continua costruzione di strutture, che pertanto non sono preformate né nel soggetto né negli oggetti. Al pari della vita organica, la vita della mente crea in continuazione forme nuove. La psicologia genetica, più di altre discipline psicologiche, si presta a evidenziare questo importante aspetto dell'evoluzione mentale. In questo senso, il suo traguardo ultimo è la ricostruzione del pensiero scientifico (epistemologia genetica), in quanto - come diceva un fisico assai acuto - l'uomo di scienza capace di inventare è colui che è riuscito, malgrado la sua cultura, a conservare il dinamismo tipico dell'intelligenza del bambino.
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