psicosi
Malattia mentale severa che comporta un’alterazione grave del contatto con la realtà. Si ha un sovvertimento della struttura psichica nei rapporti tra rappresentazione ed esperienza, ricordi e vita vissuta, emozioni e concetti che le esprimono. Nell’Ottocento, il termine fu coniato per indicare disturbi dove era presente una complessa interazione di motivi psicologici e somatici. La definizione del termine risente dei presupposti filosofici e i fondamenti epistemici della psichiatria. Così, secondo alcune definizioni (per es., quella dell’Oxford english dictionary) la p. rappresenta ogni malattia mentale o disturbo che è accompagnato da allucinazioni, deliri o confusione mentale e perdita di contatto con la realtà esterna, attribuibile o no a una lesione organica. Secondo l’American psychiatric association (1984) la p. è un disturbo mentale maggiore di origine organica o emozionale, nel quale la capacità personale di pensare, reagire emotivamente, ricordare, comunicare, interpretare la realtà, e comportarsi appropriatamente è così compromessa da interferire in modo consistente con la capacità di far fronte alle ordinarie richieste della vita. Le definizioni correnti ricorrono a due aspetti. Il primo eminentemente pragmatico sottolinea la gravità dei disturbi per quanto riguarda la competenza sociale della persona psicotica. Il secondo è centrato su sintomi tipici: l’eventuale incoerenza verbale, o le allucinazioni, ma soprattutto il fenomeno del delirio. Ambedue questi aspetti della p. hanno quale concetto sovraordinato quello della perdita di contatto con la realtà. È questo il fenomeno centrale della p. che ne determina la gravità e ne permea i sintomi caratteristici.
Nonostante i progressi della psichiatria biologica e della biochimica dei sistemi cerebrali, manca ancora una compiuta spiegazione della p. in termini di alterazione del funzionamento cerebrale. Si ammette un’origine multifattoriale. Da un lato sono stati delineati fattori somatici anche ereditari, quali le alterazioni delle funzioni delle aree frontali e l’aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche, che portano all’aumento della pregnanza delle percezioni e delle rappresentazioni: questo evento costituisce l’elemento precursore del delirio. D’altro lato sono determinanti fattori ambientali di rischio e protettivi, quali i contesti dello sviluppo infantile, la qualità dell’accudimento parentale e della rete di relazioni, l’abuso di Cannabis. Secondo la psicopatologia clinica, tuttavia, andrebbe distinto ciò che ha un valore patoplastico, modellante i sintomi, da ciò che ha un valore causale patogenetico. Per la psichiatria tradizionale tali fattori causali sono di origine organica, anche se ignoti, perchè nella p. si attuano forme di percepire, sentire e pensare (modelli di funzionamento mentale) che non solo non hanno riscontro nella vita psichica normale, ma non mostrano transizioni rispetto a essa. Questa linea è stata sviluppata dalla psicopatologia classica mutuando da correnti filosofiche la distinzione essenziale fra forma dell’attività mentale e contenuti: solo l’alterazione della forma può avere valore fondante per il concetto di psicosi. Così, conoscendo a fondo la storia di vita e la personalità di uno psicotico ci si può rendere conto del perché egli adotti certi contenuti e temi nel delirio, del perché viva come persecutrici quelle persone, ecc., ma non ci si può rendere conto plausibilmente della forma di pensiero che connota il delirio, per cui la patologia sta essenzialmente nei modi di pensare e nei modelli di mente attraverso i quali lo psicotico struttura i convincimenti deliranti, e non nel contenuto di essi.
Si va affermando l’idea di un continuum dimensionale psicotico nel quale i poli estremi sono rappresentati dai disturbi schizofrenici e dai disturbi dell’umore (melanconia e mania), con al centro i casi intermedi, senza nette distinzioni degli uni dagli altri. La bipartizione classica dei disturbi psicotici, invece, è quella fra disturbi dell’umore e disturbi schizofrenici. I primi sono caratterizzati, oltre che dalla priorità dei sintomi a carico dell’umore, dalla tendenza alla episodicità e ciclicità; i secondi dalla priorità dei disturbi del pensiero (discordanza, frammentazione, bizzarria, ecc.), dai deliri, dalle allucinazioni e dal potenziale evolutivo verso la cronicità. Tuttavia il decorso della schizofrenia può essere tutt’altro che cronico e continuo, e lo stesso deterioramento terminale può essere un artefatto legato a innumerevoli condizioni, non ultime quelle connesse al contesto sociale dell’assistenza. Si è pertanto prospettata l’ipotesi che in realtà i disturbi schizofrenici possano essere assai più episodici di quanto non si pensasse un tempo, e che la condizione di cronicità riguardi non tanto i sintomi quanto la vulnerabilità a essi.