psicosi
Insieme di condizioni psicopatologiche gravi contraddistinte dalla perdita del contatto con la realtà e delle capacità di critica e giudizio, dalla presenza di disturbi pervasivi del pensiero, delle percezioni e dell’affettività e da una compromissione delle abilità e delle relazioni sociali. Il termine è stato introdotto da Ernst von Feuchtersleben nel 1845 con il significato di malattia mentale. Sul piano descrittivo le manifestazioni sintomatologiche più tipiche delle p. sono rappresentate da deliri, allucinazioni, disorganizzazione del linguaggio e del comportamento. Sintomi psicotici possono comparire in una grande varietà di forme morbose, ma nelle p. propriamente dette esprimono un’alterazione basilare della coscienza di sé e del proprio corpo, dove il venire meno dei confini tra mondo interno e mondo esterno comporta esperienze di estraneità dei propri pensieri e di trasformazione dei significati usuali degli oggetti e degli accadimenti. Storia del concetto di psicosi. Tutta la storia delle p., a partire da Karl T. Jaspers, è contrassegnata dalla problematica ancora aperta del rapporto tra malattia e turbe della personalità. La prospettiva di una genesi psicologica e relazionale delle p., sempre in un contesto multifattoriale, si apre con Sigmund Freud che, dopo avere annoverato tra esse la paranoia, la schizofrenia e la melanconia, le ha distinte dalle nevrosi e dalle perversioni e ne ha per primo interpretato i sintomi, in partic. il delirio, non solo come segni di regressione e disgregazione dell’equilibrio psichico ma anche come ‘restitutivi’, cioè tentativi autarchici del paziente, sia pure parziali e inefficaci, di ricostruzione dell’equilibrio mentale. Dalla psicoanalisi l’aggettivo psicotico viene impiegato anche per qualificare livelli profondi della psiche e modalità di funzionamento di cui si indagano le interrelazioni con disturbi di personalità e stati di patologia conclamata. Il principale modello di riferimento è quello psicodinamico di Otto Kernberg che differenzia l’organizzazione psicotica di personalità da quelle nevrotica (➔ nevrosi) e borderline (➔) in base alla perdita dell’esame di realtà, alla disintegrazione dell’identità e al ricorso a meccanismi di difesa primitivi.
Quadri clinici di tipo psicotico, un tempo definiti p. organiche o esogene, possono insorgere in seguito ad affezioni cerebrali di natura tossica, infettiva, vascolare, genetica, neoplastica, metabolica o traumatica. Dall’assenza di una causa esterna chiaramente identificabile deriva viceversa la dizione di p. endogene, considerate in origine da Wilhelm Griesinger come espressione di stadi differenti di una p. unica e in seguito suddivise da Emil Kraepelin in p. maniaco-depressiva (o disturbo bipolare) con prevalenti alterazioni dell’affettività, e schizofrenia (con tutte le sue varianti), dove sono in primo piano i disturbi del pensiero. A questi due gruppi si aggiungono le forme schizoaffettive, che hanno caratteristiche intermedie, le p. condivise (la folie à deux descritta da Charles Lasègue e Jules Falret) e la paranoia (o disturbi deliranti), che nell’insieme tendono spontaneamente a una evoluzione cronica o a una alternanza di fasi di riaccensione e di remissione della patologia. Fanno parte delle p. reattive, in quanto spesso precipitate da fattori contingenti scatenanti in personalità che avevano mantenuto fino a quel momento un buon adattamento alla vita, le p. puerperali e le p. brevi o bouffées deliranti, caratterizzate da insorgenza rapida e prognosi in genere buona. Disturbi psicotici sono presenti anche nell’età infantile, ma la loro appartenenza alla stessa categoria strutturale delle p. dell’adulto, particolarmente per quanto riguarda l’autismo, è controversa. Accanto alle forme tradizionali maggiori oggi si assiste a un incremento delle p. atipiche e senza sintomi clamorosi (le cosiddette p. bianche).
Attualmente (2010) c’è una generale convergenza della psicoanalisi e della psichiatria nel considerare l’azione eziopatogenetica combinata di fattori biologici, affettivi, psicodinamici e psicosociali all’origine della vulnerabilità alle p. e dei percorsi di malattia vera e propria. Un apporto fondamentale alla conoscenza delle p. è dato dall’antropofenomenologia, orientata alla comprensione delle esperienze soggettive. I numerosi contributi dei suoi autori (Ludwig Binswanger, Danilo Cargnello, Eugène Minkowski, Arthur Tatossian, ecc.) spostano l’accento dal piano dell’eziologia a quello dell’interpretazione patogenetica dei ‘modi di essere nel mondo’ dell’esistenza psicotica. In psicoanalisi, alla concezione di Freud delle p. come diniego della realtà, patologie all’epoca considerate inaccessibili al trattamento psicoanalitico, ha fatto seguito un crescente interesse per il funzionamento mentale e per la terapia psicoanalitica delle psicosi. L’indagine e la cura delle p., connesse all’analisi dei livelli precoci, preedipici dello sviluppo (➔ processo di sviluppo in psicoanalisi), sono un’area di indagine più recente. Dal pensiero di Melanie Klein, che per prima ha parlato della presenza di parti psicotiche in ogni persona, derivano le esperienze di Harold Searles e di Herbert Rosenfeld e la nozione di personalità psicotica di Wilfred R. Bion, centrata sulla frammentazione del pensiero. In continua e rapida evoluzione è il campo della neurobiologia delle p., dove i risultati finora raggiunti sono suggestivi di alterazioni strutturali della corteccia cerebrale e dei meccanismi di trasmissione molecolari, facilitate da una predisposizione genetica.