psicoterapia
La psicoterapia è un insieme di metodi e di tecniche psicologiche per la cura della patologia mentale. Nel tempo e nella evoluzione dei modelli, ha trovato vaste applicazioni cliniche: dalle nevrosi alle psicosi, ai disturbi del comportamento alimentare e sociale, utilizzando metodologie individuali e di gruppo, alcune delle quali fanno riferimento alla struttura inconscia della mente e altre perseguono obiettivi cognitivisti e di condizionamento relazionale e comportamentale. La psicoterapia è fondata sulla relazione tra il paziente e il terapeuta ed è tenuta a considerare unicità e dignità della persona umana, fondata sulla propria inscindibile realtà di natura psicologica, biologica e sociale in perenne interazione tra loro. [➔ nevrosi; psicoanalisi; psicopatologia; psicosi; trauma psichico; transfert] La p. è l’insieme dei metodi e delle tecniche psicologiche utilizzati da operatori professionalmente preparati con la finalità di alleviare e curare la malattia mentale. La p. si occupa di disturbi psicopatologici di diversa entità, che vanno dal modesto disadattamento all’alienazione profonda della mente, e possono manifestarsi attraverso sintomi nevrotici oppure psicotoci tali da nuocere al benessere della persona fino a produrre fattiva disabilità. La p. è una cura fondata sulla parola, nella relazione tra paziente e terapeuta. In Italia la p. ha uno statuto giuridico, disciplinato dalla legge n. 56/1989 (detta legge Ossicini), che riserva l’esercizio di tale professione solo a medici e psicologi specializzati in p. presso scuole di formazione – universitarie o riconosciute dallo Stato – autorizzate a rilasciare l’abilitazione all’esercizio professionale.
A Nancy, nel 1882, il medico Hippolyte Bern heim iniziava a interessarsi al sonno ipnotico e ne diffondeva la conoscenza e l’applicazione in ambito medico. Franz Anton Mesmer credeva nell’esistenza di un ‘fluido magnetico’ nell’organismo umano, che il medico avrebbe potuto sfruttare in funzione terapeutica convogliandolo sui malati; una cura su base suggestiva che denominò mesmerismo. Nella sua linea, Armand-Marie-Jacques de Puységur studiò a sua volta il sonno ipnotico e sonnambolico, ma comprese anche il valore della personalità del terapeuta e l’importanza della relazione tra medico e paziente nel processo di cura.
Nello stesso periodo Jean-Martin Charcot alla Salpêtrière di Parigi utilizzava la suggestione per trattare le pazienti isteriche ricoverate, sostenendo come l’ipnosi fosse una condizione patologica molto differente dal sonno e verificabile solamente in pazienti predisposte all’isteria. L’osservazione effettuata da Bernheim sugli effetti ottenuti con l’ipnosi e sulla possibilità di ottenere uguali risultati anche con la suggestione diretta durante lo stato vigile, lo indusse a ritenere che l’effetto ottenuto da questa si configurasse come una di sorta di psicoterapia. Charcot aveva ipotizzato che per comprendere le sindromi isteriche e i relativi sintomi somatici fosse indispensabile tenere in considerazione la componente affettiva delle esperienze vissute dal paziente. Nel 1895 alla Salpêtrière giunse il giovane Sigmund Freud, il quale apprese da Charcot le tecniche ipnotiche e quindi tornò a Vienna per iniziare con Joseph Breuer la sperimentazione del trattamento. Da Charcot Freud riprese il concetto di isteria traumatica (➔ trauma psichico); in seguito però avrebbe preso decisamente le distanze dall’ipnosi e da ogni tipo di cura psicologica che fosse basata sulla suggestione.
La distinzione tra p. psicoanalitica e psicoanalisi (➔) può apparire difficile, tuttavia esistono alcuni criteri teorici e clinici che le contraddistinguono. Anche se Freud in Vie della terapia psicoanalitica (1918) sosteneva che «l’applicazione su vasta scala della nostra terapia ci obbligherà a legare in larga misura il puro oro dell’analisi con il bronzo della suggestione diretta [...] Ma quale che sia la forza che assumerà questa psicoterapia [...] è sicuro che le sue componenti più efficaci e significative resteranno quelle mutuate dalla psicoanalisi rigorosa e aliena da ogni partito preso». Nell’ambiente della psicoanalisi si tende a sostituire la locuzione «bronzo della suggestione» con quella di «bronzo della psicoterapia»; inoltre va considerato che nel pensiero di Freud una distinzione netta tra psicoanalisi e p. è rimasta sempre incerta e lui stesso non ha considerato la p. come una suggestione, termine questo che fa invece riferimento alle esperienze che hanno preceduto la nascita della psicoanalisi stessa. Oggi sappiamo invece che il transfert è sempre presente, sia pure in forme diverse, e che ogni patologia psichica è suscettibile a un trattamento psicoterapeutico, a seconda della disponibilità del paziente a voler cambiare e alla sua capacità di introspezione, nonché a seconda della disponibilità umana e professionale del terapeuta. Robert S. Wallerstein (1986), in merito ai risultati del Psychotherapy research project della Menninger Foundation, sottolineava che tutti gli approcci psicoterapeutici sono fondati sulla comprensione, sull’ascolto psicoanalitico e «sulla efficacia terapeutica di tecniche modificate» disponibili per il terapeuta. Coloro che praticano tale disciplina sono per lo più psicoterapeuti analiticamente formati, che dividono il loro tempo tra psicoanalisi e psicoterapia. Sulle modificazioni di tali tecniche si gioca infatti la specificità della p. psicoanalitica che dà rilevanza alla natura inconscia del legame che congiunge il paziente con il proprio terapeuta. Le modificazioni essenziali della tecnica consistono in una maggiore attenzione alla realtà e all’Io del paziente e nell’analisi del ‘qui e ora’ e delle relazioni attuali, focalizzandosi su problemi talora contingenti. In genere si fa minore ricorso all’interpretazione del transfert, pur conservando attenzione ai diversi e variabili livelli dell’inconscio nei quali si pone la relazione transferale e alla sensibilità e alla disponibilità del terapeuta nell’individuare e trattare i contenuti mentali presimbolici che emergono nel corso del lavoro. Il numero delle sedute è generalmente ridotto e il setting è più flessibile alle contingenze, quali impegni di lavoro con spostamenti indifferibili, malattie intercorrenti, problemi linguistici e altro. Va aggiunto che molto spesso ciò che determina la scelta tra psicoanalisi o p. o tra un tipo o l’altro di p. è guidato da fattori culturali, socioeconomici e contingenti, piuttosto che dalle indicazioni implicite della psicopatologia del singolo paziente. Inoltre, l’attuale evoluzione delle conoscenze sulle neuroscienze ha portato alla individuazione di modelli di funzionamento cerebrale utilizzati in alcune psicopatologie. Tali informazioni, se impropriamente fornite al paziente, non sono per lo più compatibili con i contenuti psichici che si stanno affrontando nella p. ma, non di rado, sono utilizzate dallo stesso paziente per costruire strutture difensive articolate e ambigue che si oppongono al lavoro di costruzione di una nuova realtà psichica e che, talora, possono essere fonte di confusione mentale.
All’inizio del 20° sec., si crearono nel movimento psicoanalitico due grandi scissioni: quella di Alfred Adler (1911) e quella di Carl G. Jung (1913). Ciascuno dei due ex allievi di Freud fuoriuscì dal movimento psicoanalitico per fondare una propria scuola di p., che conservava però alcuni dei presupposti teorici originari. Adler è stato, con Freud e Jung, uno dei fondatori della psicologia dinamica e ha formulato una teoria del funzionamento della mente umana, conosciuta come psicologia individuale. Egli riteneva che gli individui patissero per il senso di inferiorità fisica e psichica e che da ciò derivasse l’aggressività tesa a conquistare un senso di superiorità nei confronti degli altri. Per es., la ‘protesta virile’ delle donne deriverebbe dal bisogno di compensare un sentimento di inadeguatezza. Adler dà minore importanza all’inconscio e maggiore peso, invece, ai fattori sociali e culturali come causa di nevrosi. L’analisi dello stile di vita del paziente, basato sull’autoinganno che cerca di compensare le proprie imperfezioni, costituisce il fulcro dell’analisi adleriana. Secondo Adler, nell’uomo ci sono due istanze innate, ossia la volontà di potenza e il sentimento. La coesistenza di queste due istanze rappresenta la salute mentale, mentre il loro conflitto porta alla nevrosi. La psicologia analitica (➔) trae le sue origini dal pensiero e dalle opere di Carl G. Jung, inizialmente discepolo prediletto di Freud. La sua opera è assai vasta, ricca di suggestioni e di intuizioni, ma non è formalizzata in modo organico, né giunge a una sistematizzazione teorica compiuta. Secondo Jung, la libido non è soltanto pulsione sessuale, ma una vera e propria energia psichica generale che si esprime sotto forma di creatività, conoscenza e desideri. Egli ipotizza che l’inconscio preceda la coscienza e che, oltre all’inconscio personale con i suoi contenuti, esista un inconscio transpersonale (inconscio collettivo), nel quale sono depositati i cosiddetti archetipi: immagini originarie, atemporali e collettive. Egli dà un grande rilievo agli affetti quale elemento unificante delle esperienze consce e inconsce. L’inconscio è il luogo di elaborazione più oggettiva dell’esperienza che compie l’Io, in diretta relazione con le radici della specie che costituiscono l’inconscio collettivo esprimibile attraverso il linguaggio archetipico dei simboli. La funzione trascendente è capace di superare le opposizioni di cui la psiche è costituita proprio attraverso la produzione di simboli. Essa opera affinché possa avere luogo l’individuazione, cioè quel processo sintetico che coinvolge gli opposti che costituiscono l’uomo, e nel quale l’individuo si riconosce con la sua autonomia dagli stereotipi culturali. Va sottolineato che, nonostante le sostanziali divergenze, i punti chiave del pensiero di Adler e Jung – l’aggressività e gli affetti – sono stati poi oggetto dei più significativi sviluppi della psicoanalisi freudiana moderna.
La p. dell’infanzia e della adolescenza traeva inizialmente origine dalle esperienze di Anna Freud e di Melanie Klein, le quali misero a fuoco tecniche adeguate all’età e alla capacità di comunicazione dei piccoli pazienti (gioco, disegno, forme combinate di colloquio e terapia con i familiari). In seguito Donald W. Winnicott, Daniel Stern e John Bowlby proposero tecniche di terapia psicoanalitica modificate, sulla base delle quali si sono differenziate varie scuole di formazione: in questo campo praticano anche altri operatori che fanno riferimento al cognitivismo e al comportamentismo. La p. di coppia è un intervento terapeutico finalizzato ad aiutare i coniugi/conviventi in difficoltà a superare i momenti critici del rapporto. Le difficoltà incontrate possono essere di diverso tipo, a seconda della fase del ciclo vitale della famiglia (coppia senza figli, nascita del primo figlio, crescita e distacco dei figli, pensionamento, ecc.): per es., problemi nella sessualità, difficoltà di comunicazione, divergenze nelle modalità di svolgere le funzioni genitoriali, conflitti, tradimenti. Nel corso della Prima guerra mondiale, gli psichiatri improvvisarono forme di terapia ‘rapida’. Uno di questi modelli fu proposto da Franz Alexander nel 1931 con la teoria della esperienza emozionale correttiva, che aveva la finalità di favorire la reviviscenza di una esperienza traumatica rimossa. Alphonse Maeder, che già dal 1906 aveva mantenuto un posizione indipendente da Freud, propose un metodo definito appellativo, come domanda di aiuto da parte del paziente alla quale doveva corrispondere un atteggiamento più attivo e interventista del terapeuta. Nel 1968 Edmond Gilliéron iniziò a lavorare su un metodo da lui denominato in seguito p. psicoanalitica breve (1993), caratterizzato dalla focalizzazione del tema, dalla delimitazione della durata, dalla posizione faccia a faccia e dalla presa di coscienza, fin dall’inizio, della fine del trattamento. Altri autori si sono succeduti nella formulazione di metodi di p. breve: da ricordare Peter E. Sifneos (1972), Roy Shafer (1973), David H. Malan (1976) e Habib Davanloo (1978). La p. psicosintetica è un movimento psicologico di derivazione psicoanalitica, fondato agli inizi del 20° sec. dallo psichiatra Roberto Assagioli (1888-1974) e sviluppatosi poi come indirizzo umanistico-esistenziale, vicino anche a temi transpersonali e alle filosofie orientali. Si fonda sul presupposto che l’uomo ha dentro di sé l’aspirazione alla completezza e alla sintesi e si muove nella sua vita secondo due dinamiche fondamentali, quella del conflitto tra molteplicità e unità e quella del conflitto fra passato e futuro. Si differenzia per le variabilità del setting e dell’attività, anche orientativa, del terapeuta. Le psicoterapie di gruppo. Le p. di gruppo e la gruppoanalisi prendono origine negli anni Quaranta del 20° sec. dalle osservazioni condotte da Wilfred R. Bion e da Sigfried H. Foulkes con l’esperimento di Northfield e il ricovero di militari reduci dalla Seconda guerra mondiale. Negli anni successivi Malcolm Pines contribuì allo sviluppo e all’elaborazione del metodo gruppoanalitico. I fondamenti teorici hanno come riferimento la «matrice, personale, dinamica e di base» di Foulkes (1948) e la «gruppalità interna» di Bion (1961). Il processo gruppale unifica l’individuo con il gruppo e può favorire nel corso delle sedute la regressione dei partecipanti fino ai livelli primitivi della mente. Trova indicazione nelle psicosi, negli stati borderline, nelle perversioni e nelle affezioni psicosomatiche; ha applicazione nel campo istituzionale e nel counseling. Lo psicodramma analitico. Metodo psicoterapeutico ideato da Jacob L. Moreno nel 1921, appartenente all’ambito delle terapie di gruppo. Ricorre al gioco drammatico libero e mira a sviluppare attivamente la spontaneità dei soggetti. Costituisce un mezzo privilegiato di espressione e simbolizzazione dei conflitti personali attraverso la messa in scena di sogni, fantasie, ricordi di un membro del gruppo, e l’interpretazione di vari personaggi. In Europa, lo psicodramma di Moreno si è evoluto a opera di un gruppo di psicoanalisti francesi (René Kaes e Didier Anzieu, 1971).
Gli psicoterapeuti di indirizzo cognitivista presumono che il sintomo sia l’espressione di un precedente apprendimento di schemi, comportamentali, emotivi e di pensiero, errati o disadattativi, derivanti da peculiari esperienze di vita del paziente, eventualmente mantenuti in essere nel presente da un contesto interpersonale patogeno. Il soggetto che li mostra viene pertanto considerato portatore di strutture cognitive non adeguate (convinzioni), o di processi cognitivi inadatti a selezionare e a elaborare in modo funzionale gli stimoli ambientali. La p. sistemico-relazionale considera la persona portatrice del sintomo come «paziente designato». Tale espressione indica che il paziente è il membro del sistema- famiglia (per famiglia si intendono sia la propria sia almeno le due generazioni che l’hanno preceduta), che esprime o segnala il funzionamento disfunzionale di uno o più sistemi di cui egli è uno dei vertici. Tale membro è designato dal sistema stesso, secondo una prospettiva biopsicosociale, in quanto soggetto che esprime una modalità disfunzionale di vivere, pensare e agire, che in realtà è di tutto il gruppo familiare. La teoria originaria dell’analisi transazionale, così come venne elaborata da Eric Berne negli anni Cinquanta del 20° sec., può essere considerata un’evoluzione in senso relazionale della psicoanalisi freudiana. La comunicazione tra due individui può essere letta come una transazione (o scambio) tra stati diversi od omologhi dei due Io: nel primo caso si parla di transazioni incrociate, nel secondo di transazioni complementari. Si tratta di una teoria della personalità, dello sviluppo e delle comunicazioni relazionali. La teoria analitico-transazionale subì negli anni Sessanta un vero e proprio ‘assalto integrativo’, allontanandosi dalle sue radici psicodinamiche e assumendo una direzione decisamente cognitivo-comportamentale. La p. cognitivo-comportamentale trae origine da John B. Watson, sostenitore della teoria del comportamento, esplicitata nei termini di: adattamento dell’organismo all’ambiente, contrazioni muscolari, insieme integrato di movimenti, azioni. Inoltre fa riferimento ai lavori di Ivan P. Pavlov, sul principio del condizionamento (➔), per il quale nell’organismo esistono risposte condizionate a determinate situazioni che spiegano ogni attività umana. Tale p. è una delle più diffuse per il trattamento di diversi disturbi psicopatologici, in partic. disturbi dell’ansia e dell’umore. Questo approccio rappresenta lo sviluppo e l’integrazione delle terapie comportamentali e di quelle cognitiviste, ed è la sintesi degli approcci neocomportamentisti, della Rational- emotive behavior therapy (REBT) di Albert Ellis e della terapia cognitiva classica di Aaron T. Beck, di cui cerca di integrare i principali aspetti funzionali. Tale p. si basa sul cosiddetto modello A-B-C, in cui B (Belief, «convinzione» irrazionale) è il processo cognitivo target da modificare, A (Antecedent) è la situazione attivante che porta il soggetto a pensare B, e C (Consequences) sono le conseguenze comportamentali ed emotive che derivano da B. L’obiettivo del terapeuta cognitivo-comportamentale è di ridurre il comportamento di evitamento, facilitare un reframing («ristrutturazione») cognitivo e aiutare il paziente a sviluppare abilità di coping (➔ stress e adattamento). Per raggiungere questi obiettivi, una delle tecniche principali consiste nell’esposizione sistematica del paziente alla situazione temuta, per comprenderla e indagarla ‘sul campo’. Con tale terapia risulta possibile monitorare l’influenza dell’ambiente a fini correttivi, attuando una sorta di retroazione.