Pubblica amministrazione in Italia
Nelle analisi giuridiche, la locuzione pubblica amministrazione può essere declinata tanto in senso soggettivo quanto in senso oggettivo. Nel primo caso, ci si riferisce all’insieme delle figure organizzative in cui si articolano gli apparati pubblici; nel secondo caso, l’attenzione è invece rivolta all’attività svolta nell’esercizio di funzioni amministrative. In questo saggio, seppure in modo necessariamente sintetico, si cercherà di offrire una trattazione integrata di queste due diverse prospettive.
Evoluzione e trasformazioni della pubblica amministrazione
La pubblica amministrazione e lo Stato
Storicamente, la pubblica amministrazione nasce nel momento in cui l’apparato amministrativo di un ordinamento generale ad appartenenza necessaria assume rilevanza giuridica separata. Questo accade quando, negli Stati moderni, viene introdotto il principio della divisione dei poteri, che dà luogo a una separazione di complessi organizzativi. Per effetto di tale separazione, comincia a qualificarsi come pubblica amministrazione «il complesso costituito dalla Corona (o comunque dall’organo sovrano), dal governo e, infine, dagli uffici esecutivi e ausiliari» (v. al proposito M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, 1986).
In Italia, tuttavia, ancora a metà del 19° sec., l’amministrazione si identifica con il governo in quanto apparato politico: la funzione amministrativa rimane così confusa nell’insieme delle prerogative ‘sovrane’. Soltanto alla fine dell’Ottocento si afferma quello spazio istituzionale proprio e specifico dell’amministrazione, spazio che contraddistingue lo ‘Stato amministrativo’ (S. Cassese, La formazione dello Stato amministrativo, 1974): in esso, la pubblica amministrazione si interpone tra il governo e la società e acquista in tal modo un proprio statuto normativo che ne garantisce l’autonomia dall’uno e dall’altra (Mannori, Sordi 2001).
Dal punto di vista strutturale, la pubblica amministrazione si presenta come un’organizzazione monista, ordinata intorno al governo di uno Stato accentrato, retta sia dal principio gerarchico sia da quello di uniformità. Il disegno complessivo della pubblica amministrazione, dunque, è molto semplice: esistono, infatti, pochi ministeri di limitate dimensioni e un sistema di enti pubblici territoriali (Comuni e Province), ma privi di sostanziale autonomia (M. Nigro, La pubblica amministrazione tra Costituzione formale e Costituzione sostanziale, 1985, successivamente in Scritti giuridici, 1996, pp. 1843 e sgg.).
Questo assetto entra in crisi già all’inizio del Novecento, a seguito dell’estensione del diritto di voto a categorie sempre più ampie di cittadini e alla progressiva trasformazione delle funzioni dello Stato. L’amministrazione, allora, viene chiamata a occuparsi, come dice Massimo Severo Giannini nel volume Il pubblico potere, già citato, non più soltanto di difesa, ordine pubblico e politica estera, ma anche dei bisogni delle classi meno protette: si pensi alla previdenza sociale, alla tutela sanitaria, alle garanzie nel rapporto di lavoro, ai sussidi in caso di calamità, agli interventi economici per le zone depresse.
Si determina, in questo modo, una notevole crescita delle dimensioni dei pubblici poteri, che si manifesta in un aumento degli organi centrali e locali, diretti e indiretti, dello Stato. Accanto alla dilatazione dell’apparato delle amministrazioni pubbliche, si assiste al contempo a una loro complicazione. Sorgono, infatti, nuove e sempre più elaborate specie di enti pubblici, che sono preposti anche a funzioni erogative e imprenditoriali. Questa tendenza si rafforza ulteriormente negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, con l’ordinamento corporativo fascista e, poi, con la crisi economica e le esigenze belliche.
Il pluralismo e il decentramento amministrativo
La Costituzione repubblicana conferma la tradizionale concezione dell’amministrazione come apparato servente dello Stato posto alle dipendenze dello esecutivo; allo stesso tempo, ancora secondo quanto sostiene Mario Nigro nel volume citato, consente alle istanze democratiche di permeare anche le strutture amministrative che, in questo modo, accentuano il loro pluralismo, per operare nell’interesse dei cittadini, dei gruppi e delle comunità territoriali.
La concezione tradizionale traspare dall’art. 95, 2° co., Cost., secondo cui «i ministri sono responsabili [...] individualmente per gli atti dei loro dicasteri». Si tratta di una disposizione ispirata ai principi del costituzionalismo dell’Ottocento, secondo cui il ministro costituisce il tratto d’unione tra Parlamento e pubblica amministrazione. La sua doppia veste (di membro del corpo politico di governo ma pure di capo dell’amministrazione) serve a estendere la possibilità di controllo democratico. Come conseguenza di questa concezione, l’amministrazione è intesa come ufficio esecutivo del governo, di cui fanno parte i ministri-capi dell’amministrazione.
Nella Costituzione, tuttavia, l’amministrazione si presenta anche come apparato sottoposto alla legge, che, nel rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità, opera «al servizio esclusivo della nazione», assicurando la piena realizzazione dei diritti civili, sociali ed economici dei cittadini (artt. 97-98, Cost.). Ciò porta ad attenuare il rapporto dell’amministrazione con il governo in favore di quello con la collettività, avvicinando il cittadino all’amministrazione. Si sviluppano così il pluralismo e il decentramento amministrativo.
Da un lato, la molteplicità dei fini da perseguire e la necessità di soddisfare le esigenze dei numerosi e vari interessi di una società fortemente differenziata provocano un’apertura in senso partecipativo dell’amministrazione pubblica. In questo modo, si sviluppano le ‘amministrazioni per collegi’, in cui sono direttamente rappresentati i soggetti privati beneficiari delle prestazioni pubbliche. Quindi, vi è il generale riconoscimento della partecipazione nel procedimento e del diritto di accesso agli atti amministrativi (l. 7 ag. 1990 n. 241).
Dall’altro lato, trovano riconoscimento costituzionale le autonomie regionali e locali, cui spettano funzioni amministrative proprie o derivate, esercitate da apparati i cui vertici sono direttamente responsabili nei confronti delle rispettive comunità territoriali e non dello Stato (art. 5, Cost.). Viene, cioè, istituita (per le Regioni e per le città metropolitane) e garantita costituzionalmente (per le Province e i Comuni, che esistevano già prima della Costituzione) un’amministrazione dipendente da centri diversi da quello governativo. Si avvia così un lungo e complicato processo di decentramento, segnato dall’istituzione delle Regioni nel 1970 e dalla legge sulle autonomie locali del 1990.
A seguito della riforma costituzionale del 2001, quindi, si afferma che «i Comuni, le Province, le città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione» (art. 114, 2° co., Cost.). E inoltre, «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» (art. 118, 1° co., Cost.). La complessa riarticolazione delle competenze statali, regionali e locali conduce così all’affermazione di un sistema amministrativo di tipo pluralistico, composto di corpi distinti ed equiparati, i cui rapporti sono retti da meccanismi istituzionali e procedurali di tipo cooperativo.
L’incerta distinzione tra pubblico e privato
Alle profonde modificazioni interne all’amministrazione pubblica si aggiungono quelle relative ai suoi confini esterni, verso la società civile, che diventano sempre più incerti. La comparsa di imprese ed enti di erogazione pubblici e l’apertura alla partecipazione pongono in crisi, già a metà del Novecento, l’idea di una netta separazione tra Stato e società, tra amministrazione e privati. Un numero sempre maggiore di organizzazioni pubbliche, in questo modo, entra in diretto contatto con consumatori e utenti, si articola al suo interno e opera verso i terzi in base al diritto privato.
Negli ultimi anni questa tendenza si accresce ulteriormente. Innanzitutto, si cerca di riorganizzare in senso manageriale e privatistico la pubblica amministrazione. Sotto il profilo dell’attività, trova sempre maggiore favore normativo il ricorso della pubblica amministrazione ai moduli consensuali. Infine, si stabilisce che, in via generale, l’amministrazione pubblica, nel perseguimento di fini pubblici, agisce secondo le norme di diritto privato (art. 1, 1° bis co., l. 7 ag. 1990 n. 241). Si recide così il legame biunivoco tra pubblica amministrazione e diritto amministrativo e si parla, più in generale, di diritto delle pubbliche amministrazioni (Sorace 20012).
Contestualmente, si diffondono le forme organizzative del diritto privato, anche a seguito dei processi di privatizzazione, e si affidano compiti pubblici a soggetti terzi con appositi atti di ‘esternalizzazione’. Quindi, una norma inserita nella riforma costituzionale del 2001 invita i pubblici poteri a favorire l’autonoma iniziativa dei privati nello svolgimento di attività di interesse generale (art. 118, 4° co., Cost.). Il ‘partenariato’ pubblico-privato si estende così dai settori economici a quelli sociali. Allo stesso tempo, però, cresce il numero di soggetti privati tenuti all’osservanza di speciali misure di regolazione e talvolta all’applicazione delle stesse norme concepite in via elettiva per la pubblica amministrazione. Per es., il diritto di accesso ai documenti amministrativi si esercita nei confronti non soltanto delle pubbliche amministrazioni, ma anche dei gestori di pubblici servizi e dei soggetti privati che svolgono attività di interesse pubblico (artt. 22-23, l. 7 ag. 1990 n. 241). Più in generale, si impone ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative di assicurare il rispetto dei principi generali, nazionali e comunitari, dell’azione amministrativa (art. 1, 1° ter co., l. 7 ag. 1990 n. 241).
Le amministrazioni oltre lo Stato
La pubblica amministrazione, infine, perde definitivamente l’originario ancoraggio allo Stato con il formarsi di poteri sovranazionali. Questi, da un lato, si dotano di propri apparati amministrativi che acquisiscono progressivamente autonoma rilevanza giuridica e operano, anche nei confronti dei terzi, in base a un proprio corpo di regole; dall’altro, istituiscono un vincolo funzionale nei confronti delle amministrazioni degli Stati, che sono così sottoposte a un duplice dovere di lealtà. La crisi dello Stato, dunque, non determina una fuga dalla pubblica amministrazione: i moduli organizzativi e funzionali propri di quest’ultima, infatti, tendono a riprodursi nelle nuove dimensioni dello spazio giuridico europeo e globale, attorno a pubblici poteri di carattere sovranazionale (Cassese 2002).
Nell’Unione Europea, svanisce definitivamente l’idea di una potestà meramente normativa, la cui attuazione sia riservata alle amministrazioni nazionali. Si accrescono, infatti, i poteri propriamente amministrativi della Commissione europea e si sviluppa un articolato sistema di agenzie. Nel composito ordinamento europeo, si creano rapporti diretti tra amministrazione europea e amministrazioni nazionali: queste ultime vengono così a dipendere funzionalmente dalla prima piuttosto che dallo Stato e dal suo governo (della Cananea 2003). Si crea, dunque, un sistema di diritto amministrativo europeo che governa l’azione e, in misura crescente, l’organizzazione sia delle istituzioni comunitarie sia di quelle nazionali chiamate ad applicare le norme e gli indirizzi emanati dalle prime (Chiti 20042).
Un analogo processo, anche se in forme meno istituzionalizzate e ancora eterogenee, è in atto a livello globale. L’evoluzione dei modelli organizzativi e funzionali delle istituzioni mondiali, tuttavia, conduce alla progressiva scoperta di «amministrazioni senza stato» (Battini 2003). Si costituisce, così, un ordine proprio della società internazionale complessivamente intesa, in cui le istituzioni che ne rappresentano l’articolazione organizzativa entrano in relazione non soltanto con gli Stati ma anche con soggetti privati. Tali rapporti sono regolati da un embrionale «diritto amministrativo globale» in cui si ritrovano la dimensione essenziale della discrezionalità, il contemperamento fra diversi interessi, il controllo sulla ragionevolezza di tali ponderazioni, la partecipazione dei soggetti pubblici e privati (Cassese 2003).
I modelli organizzativi
L’amministrazione ministeriale
Completata la ricostruzione delle principali linee di trasformazione generale della pubblica amministrazione, è ora possibile delineare in termini più analitici i principali modelli organizzativi in cui essa oggi si articola, ponendoli in connessione con i tipi di funzione attribuiti a ciascuno di essi.
In tutti gli ordinamenti contemporanei, il nucleo originario della pubblica amministrazione è costituito dagli apparati serventi del potere esecutivo, chiamati ministeri. I ministeri, pur essendo meri organi dello Stato, privi di personalità giuridica, sono uffici complessi, dotati di personale e mezzi propri, che operano in settori di intervento omogenei. In tutti i ministeri, il vertice è mutuato dal governo, poiché, a norma dell’art. 95, 1° co., Cost., a capo dell’apparato amministrativo è posto il ministro, membro del Consiglio dei ministri. Essi, però, si diversificano in ordine ai tipi di funzioni, alle soluzioni strutturali, interne e periferiche, alle dimensioni e alla disciplina (D. Serrani, L’organizzazione per ministeri. L’amministrazione centrale dello Stato nel periodo repubblicano, 1979).
L’assetto fondamentale dell’organizzazione ministeriale è stato a lungo definito dalla riforma attuata da Camillo Benso conte di Cavour con la l. 23 marzo 1853 n. 1483. Quella disciplina, ispirandosi ai principi e ai criteri dello ‘Stato minimo’, aveva concentrato gli uffici della pubblica amministrazione in pochi ministeri, concepiti per l’esercizio di funzioni essenzialmente di ordine. Nella storia dello Stato unitario, per lungo tempo, non vi è più stata una legge generale di disciplina organica dell’organizzazione ministeriale, anche se il numero e le competenze dei singoli dicasteri sono continuamente aumentati.
Soltanto con il d. legisl. 30 luglio 1999 n. 300, l’ordinamento dei ministeri è stato assoggettato a una profonda riforma. Con tale provvedimento si riduce il numero degli apparati ministeriali; vengono limitate le singole unità di comando (segretariati generali, dipartimenti, direzioni generali); si sancisce il principio della flessibilità nell’organizzazione, con un ampio rinvio alla delegificazione (La riforma del governo 2000; Franchini 2006).
I ministeri sono così riconducibili a tre categorie fondamentali, in relazione alle funzioni svolte: a) d’ordine; b) economiche; c) sociali, culturali e ambientali.
In primo luogo, vi sono i ministeri che esercitano compiti di ordine: a) il Ministero degli Affari esteri presiede ai rapporti internazionali; b) il Ministero dell’Interno ha attribuzioni molto differenziate, tra le quali la principale riguarda la pubblica sicurezza; c) il Ministero della Giustizia si occupa prevalentemente dell’amministrazione degli organi giudiziari; d) il Ministero della Difesa è preposto alla gestione delle forze armate.
In secondo luogo, vi sono i ministeri cui sono affidate funzioni di natura economica: a) il Ministero dell’Economia e delle Finanze provvede alla politica di gestione della spesa, di bilancio e fiscale, nonché alle entrate finanziarie dello Stato; b) il Ministero delle Attività produttive e dello Sviluppo economico esercita le attribuzioni in materia di industria, commercio e artigianato, rapporti commerciali con l’estero, fonti di energia, comunicazioni; c) il Ministero delle Politiche agricole e forestali svolge le funzioni statali in materia di agricoltura, foreste, caccia e pesca; d) il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si occupa della politica delle opere pubbliche e dei trasporti.
In terzo luogo, vi sono i ministeri operanti all’interno dei settori sociale, educativo, culturale e ambientale: a) il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e della Salute è competente in materia di lavoro, previdenza sociale e assistenza sanitaria; b) il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca amministra e soprintende al sistema formativo pubblico e alla ricerca scientifica e tecnologica; c) il Ministero per i Beni e le Attività culturali assicura la tutela, la promozione e la valorizzazione del patrimonio culturale; d) il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio soprintende alla promozione, alla conservazione e al recupero delle condizioni ambientali e del patrimonio naturale nazionale, nonché alla politica territoriale.
Insieme alla riforma dell’organizzazione dei ministeri, si è proceduto a quella della presidenza del Consiglio dei ministri. Con il d. legisl. 30 luglio 1999, n. 303, che modifica e integra la disciplina dettata dalla l. 23 ag. 1988 n. 400, si è inteso valorizzare le funzioni di direzione, di indirizzo e di coordinamento del presidente del Consiglio dei ministri.
L’assetto dell’amministrazione centrale, tuttavia, non si esaurisce certo nelle strutture ministeriali. La sua variegata articolazione organizzativa costituisce anzi un fenomeno ormai di lunga data nell’ordinamento italiano, prima con lo sviluppo degli enti pubblici, poi con l’istituzione di agenzie amministrative e autorità indipendenti.
Gli enti pubblici
Con la locuzione ente pubblico si indica convenzionalmente una persona giuridica pubblica, che persegue fini rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, sulla base di una missione affidata direttamente dalla legge ed eventualmente concretizzata con successivi atti amministrativi. Di norma, un ente pubblico può essere istituito soltanto per legge; ed è sempre la legge a esplicitare quando il soggetto in questione ha personalità giuridica di diritto pubblico (ex art. 4, l. 20 marzo 1975 n. 70). Quando ciò non accade, la giurisprudenza ritiene che il carattere pubblico di un ente possa essere rivelato da uno dei seguenti elementi: istituzione da parte dello Stato; perseguimento di interessi generali; finanziamento, nomina degli amministratori e controllo da parte dello Stato o altro soggetto pubblico; necessarietà dell’ente, e, dunque, impossibilità di autoscioglimento.
Il favore per lo strumento organizzativo dell’ente pubblico, nelle sue varie e molteplici forme, ha caratterizzato, per ragioni e motivi diversi, tutto il secolo scorso. Il processo di moltiplicazione degli enti pubblici sembra essersi arrestato soltanto nell’ultimo decennio del Novecento, quando il legislatore ha privilegiato il ricorso a istituti privatistici, come la società per azioni a partecipazione pubblica e spesso di diritto speciale, o a modelli originali, come quelli delle autorità indipendenti e delle agenzie amministrative, prive di personalità giuridica.
Il sistema degli enti pubblici si presenta tuttora vario e articolato. Questi possono essere classificati in diversi modi, a seconda della struttura, della funzione, della posizione rispetto agli organi politico-territoriali e ai gruppi sociali (G. Rossi, Gli enti pubblici, 1991); non vi sono, peraltro, corrispondenze necessarie tra modelli organizzativi, compiti funzionali e regimi giuridici, perché nella normazione spesso prevalgono soluzioni specifiche a problemi particolari. Una distinzione fondamentale, tuttavia, deve essere tracciata tra gli enti ad autonomia associativa o comunitaria e gli enti strumentali.
Gli enti pubblici ad autonomia associativa o comunitaria, in quanto esponenti di gruppi sociali, godono di un’autonomia costituzionalmente protetta, derivante dagli art. 2 e 18, Cost., oltre che da più specifiche previsioni costituzionali (per es., l’art. 33, Cost., per le università). Ciò significa che tali enti non possono essere piegati a indirizzi politici e che gli interventi degli organi pubblici di vigilanza possono ritenersi costituzionalmente legittimi soltanto nella misura in cui siano necessari a ripristinare condizioni di corretto funzionamento degli enti. Ove tali condizioni non siano soddisfatte è la stessa pubblicizzazione a porsi in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione (Corte cost., 7 apr. 1988 n. 396; Corte cost., 29 sett. 2003 nn. 300-301).
Nella maggior parte dei casi, si tratta, dal punto di vista strutturale, di enti associativi, cioè di enti pubblici alla cui base vi sono persone fisiche (enti associativi in senso stretto) ovvero enti o persone giuridiche (enti federativi). I principali enti pubblici associativi sono gli ordini professionali; esempi di enti pubblici federativi sono il CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e l’ACI (Automobile Club d’Italia). Spesso vi sono associazioni, di primo e secondo grado, originariamente private e successivamente pubblicizzate, perché divenute attributarie di funzioni pubbliche. Il governo di tali enti è affidato ai soggetti eletti dalla base associativa, mentre le principali decisioni sono riservate all’assemblea dei soci. Dal punto di vista funzionale, gli enti associativi svolgono essenzialmente una missione di autoamministrazione e di autoregolazione anche economica, con compiti di organizzazione, disciplina e controllo dell’attività degli associati e, più in generale, della comunità di riferimento. Si pensi ai poteri degli ordini professionali in materia di controllo sull’accesso alla professione, di regolamentazione tariffaria, di disciplina deontologica; oppure alle prerogative del CONI in ordine alla preparazione olimpica e all’organizzazione delle competizioni sportive, alla vigilanza sulle società professionistiche, alla prevenzione e alla repressione dell’uso di sostanze che alterano le prestazioni sportive.
Altri enti ad autonomia costituzionalmente protetta sono gli enti comunitari, come le università, le scuole e le camere di commercio. Tali enti non hanno una base associativa, ma rappresentano comunque gruppi sociali impegnati nello svolgimento di attività di rilevanza collettiva: per tale ragione, sono retti da organi di autogoverno, rappresentativi delle diverse categorie che compongono la comunità di riferimento. Gli enti comunitari svolgono funzioni diverse: in alcuni casi, si pensi alle camere di commercio, assolvono compiti di disciplina settoriale; in altri, come nel caso di scuole e università, esercitano attività erogative in favore degli utenti.
Gli enti pubblici strumentali, invece, agiscono secondo gli indirizzi e sotto il controllo del potere pubblico di riferimento, di solito un organo politico, sia esso lo Stato, la Regione o un ente locale. Ciò spiega perché gli amministratori siano nominati all’esterno dell’ente dagli organi di indirizzo politico, anche se non mancano forme di partecipazione collegiale da parte dei soggetti beneficiari delle prestazioni o comunque interessati all’attività istituzionale di tali enti. Gli organi politici, inoltre, mantengono poteri di indirizzo e di vigilanza, che si traducono in poteri di annulamento di atti e di sostituzione, non soltanto per motivi di legittimità, ma anche di merito. Gli enti pubblici strumentali svolgono varie funzioni.
Vi sono, innanzitutto, enti pubblici di amministrazione attiva o di servizio, che svolgono attività in favore dell’amministrazione di riferimento o della collettività in generale, i cui interessi sono curati da una specifica organizzazione pubblica: si pensi, per es., agli enti culturali e di ricerca. I compiti sono svolti mediante atti autoritativi, oppure attraverso attività materiali, come quelle di studio, di informazione e di rappresentazione. Gli enti in questione sono sottoposti a poteri di indirizzo e di vigilanza da parte degli enti di riferimento. Gli specifici obiettivi e le modalità concrete di svolgimento dei compiti istituzionali sono spesso definiti con convenzioni, contratti di programma e di servizio.
Altra categoria è quella degli enti pubblici di erogazione di servizi e prestazioni a singoli cittadini. Uno dei maggiori enti di questo tipo è l’Istituto nazionale della previdenza sociale. Tali enti esprimono talvolta una componente rappresentativa degli interessi degli utenti, attraverso il voto o la designazione delle principali organizzazioni rappresentative. Lo svolgimento di funzioni erogative ne spiega la frequente soggezione a speciali forme di regolazione, per es., della qualità, affidate a strumenti unilaterali o convenzionali, come i contratti di servizio. In via generale, gli enti pubblici di erogazione svolgono servizi gratuiti o con forme tributarie o paratributarie di compartecipazioni ai costi, ovvero traggono risorse attraverso contribuzioni. A volte, tuttavia, per indicare l’obiettivo di una gestione più efficiente, tali enti sono trasformati in enti pubblici economici (è il caso delle aziende sanitarie locali).
Una terza sottocategoria di enti strumentali è quella degli enti imprenditoriali, perché preposti alla produzione e allo scambio di beni e servizi. Spesso, tali enti sono definiti enti pubblici economici e assoggettati a un regime speciale, di origine in parte legale e in parte giurisprudenziale, caratterizzato da un regime privatistico per quanto riguarda l’impiego e l’attività esterna. Gli enti pubblici economici erano numerosi fino all’avvio, nell’ultimo decennio del Novecento, del processo di privatizzazione. La categoria comprendeva banche come il Banco di Napoli e quello di Sicilia, la Banca nazionale del lavoro e la Cassa di risparmio delle province lombarde, enti pubblici di gestione o holding, come l’Istituto per la ricostruzione industriale e l’Ente nazionale idrocarburi, ed enti pubblici operativi, quale, per es., l’Ente nazionale per l’energia elettrica.
Gli enti pubblici di disciplina di settore non svolgono funzioni operative dirette, ma hanno compiti di controllo su operatori privati. Tali funzioni di disciplina in passato erano orientate soprattutto al perseguimento di obiettivi di politica economica, attraverso l’esercizio di forme di programmazione e di conformazione amministrativa del mercato. Proprio questo giustificava la strumentalità agli organi di indirizzo politico anche di tali enti. L’esempio principale è quello della Banca d’Italia, che, oltre a svolgere funzioni di banca centrale (risconto), era preposta al controllo del credito e di tutte le sue aziende, in qualunque forma costituite. L’integrazione a livello europeo di molti mercati e il pieno riconoscimento della libertà di circolazione dei servizi, tuttavia, determinano una profonda modificazione del profilo funzionale di tali soggetti nonché un tendenziale superamento del modello dell’ente strumentale, progressivamente sostituito da quello dell’autorità indipendente.
Come avvertito all’inizio di questo paragrafo, l’articolato sistema di enti pubblici stratificatosi in circa un secolo è stato sottoposto, a partire dall’ultimo decennio dello scorso secolo, a un ampio processo di riordino, con misure ed esiti diversi: privatizzazione, esternalizzazione, razionalizzazione.
La privatizzazione interessa, con poche eccezioni, prima l’intero sistema imprenditoriale pubblico, determinando la trasformazione di molti enti pubblici economici in società per azioni di diritto privato, a loro volta destinate a una dismissione parziale o integrale. Analogo processo, sulla base di successive norme generali e speciali, investe quindi gli enti pubblici non economici, che vengono trasformati in fondazioni e, meno spesso, in associazioni e società. I casi più importanti riguardano gli enti di previdenza e di assistenza dei liberi professionisti, gli enti lirici e musicali, gli enti conferenti l’azienda bancaria e le istituzioni di assistenza e beneficenza. Rimangono, invece, limitati i casi in cui si dispone la fusione o l’accorpamento con enti oppure organismi che svolgono attività analoghe o complementari, ovvero la soppressione e messa in liquidazione degli enti non indispensabili, nonostante la varietà di tecniche escogitate per facilitarne l’individuazione. Un impatto ridotto hanno anche le misure di esternalizzazione, che pur non modificando direttamente gli enti pubblici esistenti, mirano, però, a ridurne le dimensioni e i costi. In questo quadro, la maggior parte degli enti non economici, spesso con norme singolari, è sottoposta a interventi di riordino e di riassetto anche più volte modificati e corretti: prima, nel tentativo di razionalizzarne il funzionamento; poi, soprattutto, per rafforzare i poteri governativi di indirizzo e di vigilanza.
Si noti infine che gli enti ordinati nelle forme giuridiche proprie del diritto privato, derivanti dalla trasformazione di precedenti enti pubblici o istituiti per legge, sono talvolta considerati dalla giurisprudenza alla stregua di veri e propri soggetti pubblici e sottoposti alle norme riferite a questi ultimi. In un sistema caratterizzato dalla moltiplicazione delle figure soggettive incaricate della cura di interessi generali, tuttavia, si tratta di verificare quali norme dirette alle amministrazioni e agli enti pubblici siano a essi applicabili, sulla base delle finalità perseguite e degli interessi tutelati. La considerazione di soggetti formalmente o anche sostanzialmente privati come ‘enti pubblici’ varia così da disciplina a disciplina e sta a indicare non una diversa natura giuridica ma, semplicemente, con un’ellissi, l’applicazione di alcune regole, elettivamente destinate alla pubblica amministrazione, in luogo di altre (di norma riferite ai privati).
Le agenzie amministrative
Le agenzie amministrative operano al servizio del potere esecutivo e talora all’interno delle stesse amministrazioni ministeriali, svolgendo compiti sia tecnici, sia scientifici e gestionali in posizione di autonomia, ma sotto la diretta vigilanza del governo.
I primi organismi amministrativi denominati agenzie sono apparsi in Svezia, intorno al 17° secolo. Nei secoli successivi, le agenzie si sono diffuse, con la denominazione di agencies, negli Stati Uniti, dove hanno assunto, accanto alle autorità indipendenti, un ruolo centrale nell’organizzazione amministrativa. La figura, quindi, è stata introdotta nei principali Paesi europei: in particolare, nel Regno Unito, dove, a partire dall’inizio degli anni Novanta del 20° sec., una serie di compiti tecnico-amministrativi è stata assegnata alle next steps agencies, nell’ambito di rapporti convenzionali con i ministeri di riferimento. Anche in Europa, si è sviluppata un’amministrazione parallela alla Commissione europea, attraverso l’istituzione di numerose agenzie.
La trasposizione, nell’ordinamento italiano, di queste figure organizzative non è stata priva di difficoltà, anche perché all’istituto sono stati attribuiti significati diversi. In una prima fase storica, dall’inizio degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta del 20° sec., l’agenzia è soltanto un nomen e i diversi organismi così chiamati hanno tra loro alcuni tratti comuni, ma si distribuiscono ancora tra i numerosi tipi di enti pubblici, senza trovare un denominatore comune rilevante sotto il profilo giuridico. Tra questi, si possono menzionare l’Agenzia spaziale italiana, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale nelle pubbliche amministrazioni, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, l’Agenzia nazionale per le erogazioni in agricoltura.
In una seconda fase, che si è avviata con la l. 15 marzo 1997 n. 59 e con il d. legisl. 30 luglio 1999 n. 300, il termine agenzia comincia ad assumere un preciso significato, identificando una specifica soluzione organizzativa. Nella riforma del governo attuata con il d. legisl. n. 300 erano inizialmente previste dodici nuove agenzie, delle quali, tuttavia, ne sono state istituite solo sei. Nell’introdurre tali strutture, il legislatore italiano si è ispirato al programma Next steps, avviato nel Regno Unito nel 1988 e che ha portato alla istituzione di oltre cento executive agencies. La genesi delle agenzie ministeriali, dunque, è diversa rispetto a quella di molti enti pubblici, poiché esse si inseriscono nella riforma del governo operata con il d. legisl. n. 300. In particolare, questo decreto ne distingue due tipi: le agenzie disciplinate, in via generale, dagli art. 8 e 9 e, in via speciale, dalle singole disposizioni relative al ministero cui ogni agenzia fa capo; le agenzie fiscali, regolate dagli artt. 57 e seguenti. Nella prima categoria sono comprese l’Agenzia industrie difesa e l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, uniche sinora operative. Nella seconda categoria, rientrano l’Agenzia delle entrate, l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia del territorio e l’Agenzia del demanio, tutte sotto la vigilanza del ministro dell’Economia e delle Finanze. I successivi interventi legislativi, tuttavia, hanno previsto anche per queste strutture un’autonomia organizzativa minore rispetto al disegno originario e hanno fortemente ridotto le distinzioni tra le due categorie di agenzie regolate dal d.legisl. n. 300. Si tratta di una tendenza ulteriormente accentuata dalla sottoposizione dei direttori delle agenzie ministeriali alla disciplina dello spoil system.
Le agenzie dispongono di autonomia tecnica, scientifica e operativa al fine di realizzare gli scopi istituzionali fissati dalla legge e specificati in apposite convenzioni stipulate con i ministri di riferimento. Ognuna delle agenzie preesistenti al d. legisl. n. 300 è sottoposta alla vigilanza di uno specifico ministero o della presidenza del Consiglio dei ministri; le agenzie disciplinate in via generale dagli artt. 8 e 9, sono soggette ai poteri di indirizzo e di vigilanza del ministro competente; le agenzie fiscali sono poste sotto l’alta vigilanza del ministro dell’economia e delle finanze. Tuttavia, a differenza delle agenzie istituite prima del d. legisl. n. 300, nelle nuove strutture governative è prevista un’apposita convenzione, tra l’agenzia e il ministro competente, per definire gli obiettivi dell’agenzia e i risultati attesi, l’entità e le modalità dei finanziamenti, le strategie per il miglioramento dei servizi, le modalità di verifica dei risultati di gestione e di monitoraggio.
Si mostra, pertanto, una grande differenza tra le agenzie istituite prima del d. legisl. n. 300 e le agenzie disciplinate da quest’ultimo: le prime sono enti pubblici in rapporto di strumentalità con il governo, ma poste al di fuori dell’amministrazione ministeriale; le seconde fanno parte a pieno titolo dell’apparato governativo, come conferma l’estensione dell’ambito di applicazione dello spoil system ai relativi direttori (Casini 2003). Salvo alcune eccezioni, i compiti delle agenzie preesistenti alla riforma del governo sono di tipo tecnico-scientifico: la raccolta di informazioni, la diffusione di conoscenze, la formazione professionale, la ricerca tecnologica e applicata, l’individuazione di parametri scientifici, la valutazione dei requisiti tecnico-scientifici di determinati prodotti. I compiti attribuiti alle agenzie ministeriali sono, invece, di natura sia tecnica sia operativa. Nel caso delle agenzie fiscali, poi, si è di fronte a funzioni anche di tipo autoritativo: per es., l’Agenzia delle entrate cura la gestione delle imposte dirette e dell’IVA e, in particolare, svolge i servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi.
Le autorità indipendenti
Le autorità indipendenti si caratterizzano per la sottrazione all’indirizzo politico governativo e per l’equidistanza rispetto agli interessi privati. Le funzioni di regolazione, vigilanza e garanzia loro assegnate richiedono un alto grado di competenza tecnica e una sostanziale indifferenza rispetto al ciclo politico, al fine di assicurare la tutela dei diritti e l’affidamento del mercato e degli investitori.
Le autorità indipendenti assumono un rilievo centrale nel sistema istituzionale degli Stati Uniti alla fine del 19° sec. e caratterizzano la formazione del diritto amministrativo in quel Paese, tanto sotto il profilo funzionale quanto sotto il profilo organizzativo. In Europa, la nascita di organismi indipendenti si affianca alla tradizionale articolazione governativa per ministeri e dipartimenti. Tribunali amministrativi, commissioni e boards indipendenti dotati di poteri quasi-giudiziali sono presenti in Gran Bretagna fin dal 18° sec. e si sviluppano ulteriormente nel corso del 19° e del 20° secolo.
Negli anni Ottanta del 20° sec., il ruolo delle autorità si consolida definitivamente a seguito della privatizzazione delle utilities. Essa, infatti, si accompagna all’istituzione di ‘uffici’ di regolazione preposti a ciascun settore aventi il compito di promuovere la concorrenza e di garantire i consumatori. In Germania, l’incontro tra la scuola ordoliberale di Friburgo e l’influenza statunitense susseguente alla fine della Seconda guerra mondiale conduce all’istituzione della prima autorità indipendente di tutela della concorrenza in Europa. In Francia, le autorità amministrative indipendenti sono istituite a partire dagli anni Settanta del 20° sec., per svolgere compiti di protezione di diritti e libertà costituzionali: oggi, secondo un recente rapporto, se ne contano trentaquattro.
Alla fine del 20° sec., anche in Italia si avvia la progressiva diffusione di questo modello istituzionale. Accanto alla Banca d’Italia, che presenta caratteri peculiari di ente strumentale e di ente reggente di settore in posizione di autonomia e di indipendenza, sono istituite autorità per la vigilanza nei mercati mobiliari (la CONSOB, Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, nel 1974) e nel settore delle assicurazioni (l’Istituto per la vigilanza nelle assicurazioni private e di interesse collettivo, nel 1981), anche se in una prima fase si tratta semplicemente di organi o di uffici specializzati dell’amministrazione ministeriale. Soltanto a partire dagli anni Novanta del 20° sec., il ricorso al modello delle autorità indipendenti diventa oggetto di una scelta legislativa consapevole: a essa, infatti, corrisponde finalmente l’adozione di soluzioni istituzionali coerenti, sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista funzionale. Va segnalata in tale senso l’istituzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (l. 10 ott. 1990 n. 287); delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, di cui alla l. 14 nov. 1995 n. 481, e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di cui alla l. 31 luglio 1997 n. 249); del Garante per la protezione dei dati personali (l. 31 dic. 1996 n. 675). Completano il quadro la Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi essenziali, l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici (le cui competenze sono ora estese a tutti i contratti pubblici) e la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, le quali, tuttavia, presentano soltanto alcuni profili di indipendenza.
Lo sviluppo del modello delle autorità si ricollega anche all’esigenza di neutralizzare talune funzioni in relazione ai crescenti obblighi dell’integrazione europea, soprattutto in settori ‘sensibili’ dell’economia. Sempre più spesso, infatti, la normativa europea richiede l’istituzione di autorità nazionali di regolamentazione e ne dispone l’integrazione in sistemi comuni o a rete, coordinati a livello comunitario. È quanto accade in materia di tutela della concorrenza, regolazione dei servizi di pubblica utilità, vigilanza sui mercati finanziari, garanzia dei dati personali. In questo senso, l’ordinamento comunitario costituisce uno straordinario fattore di sviluppo e di omogeneizzazione del modello, che si diffonde così in tutti i Paesi europei. In tal modo si superano incongruenze e asimmetrie; e, allo stesso tempo, si pone un freno alle ricorrenti tentazioni dei governi e dei parlamenti di riappropriarsi di funzioni assegnate alle autorità indipendenti.
Al fine di garantire la separazione dai soggetti regolati e dagli organi di indirizzo politico, la nomina dei commissari delle autorità, affidata a soggetti istituzionali super partes o a procedure di largo consenso, è subordinata al possesso di requisiti di competenza e al rispetto di severe condizioni di incompatibilità, ivi compreso il divieto di rinnovo del mandato. Sul piano funzionale, inoltre, le autorità operano con piena autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione, senza essere sottoposte a indirizzi e controlli politici. L’attività di regolazione e vigilanza, infatti, ha carattere tecnico ed è sostanzialmente mimetica del mercato o correttiva dei suoi fallimenti o abusi, anche a tutela di diritti e valori costituzionali e comunitari: di qui l’impermeabilità a valutazioni politico-discrezionali e l’esigenza, invece, di un’armonizzazione a livello europeo, che si traduce anche in obblighi di consultazione e conformazione a indirizzi e orientamenti della Commissione europea e dei gruppi europei di regolatori nazionali.
La legge assegna alle autorità indipendenti funzioni di regolazione, di vigilanza e di garanzia, al fine di promuovere e tutelare la concorrenza, di assicurare la trasparenza dei mercati e dell’azione amministrativa e di tutelare il risparmio, di garantire i diritti dei consumatori e degli utenti e le libertà dei cittadini. Per lo svolgimento di tali funzioni sono attribuiti alle autorità incisivi poteri. Innanzitutto, le autorità sono titolari di funzioni normative (anche definite quasi legislative). Attraverso l’esercizio dei relativi poteri, le autorità adottano misure generali dirette agli operatori, come nel caso delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità e della CONSOB. In altri casi, le autorità esercitano poteri tipicamente amministrativi. Si pensi a quelli trasferiti all’Autorità per l’energia elettrica e il gas prima esercitati da organi dello Stato o da altri enti pubblici; all’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili rilasciata dal Garante per la protezione dei dati personali; all’autorizzazione di competenza della CONSOB, sentita la Banca d’Italia, per l’esercizio dei servizi di investimento da parte degli intermediari mobiliari. Le autorità, infine, adottano decisioni in forma ‘paragiurisdizionale’: si pensi all’esercizio dei poteri inibitori in materia di intese e di abuso di posizione dominante da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Nozioni e definizioni di pubblica amministrazione
Le nozioni funzionali
Le trasformazioni indicate della pubblica amministrazione e la pluralità dei suoi modelli organizzativi e funzionali spiegano l’impossibilità di una definizione unitaria, come quella di potere esecutivo o cura concreta di interessi pubblici (S. Romano, Corso di diritto amministrativo. Principi generali, 19373, pp. 90 e sgg.; G. Zanobini, Amministrazione pubblica, in Enciclopedia del diritto, 2° vol., 1958, ad vocem). Da un lato, infatti, dal punto di vista soggettivo, non si può ignorare la varietà delle figure organizzative di pubblica amministrazione; dall’altro, sul piano oggettivo o funzionale, definire l’amministrazione come esecuzione o come cura concreta di interessi pubblici finisce per escludere attività e apparati importanti, come quelli che preparano gli atti normativi, svolgono attività di pianificazione, emanano atti normativi e generali, regolano rapporti tra privati e ne risolvono le controversie.
La definizione di pubblica amministrazione, tuttavia, rimane un problema giuridicamente rilevante e ineludibile ogni volta che una norma faccia riferimento a essa, al fine di determinare il suo ambito soggettivo di applicazione. Ciò accade di frequente perché, anche se non vi è più una corrispondenza biunivoca tra diritto amministrativo e pubblica amministrazione, i due termini risultano strettamente correlati e il diritto amministrativo rimane quel corpo di principi e regole che si applica in via elettiva alla pubblica amministrazione. All’opposto, accade ancora spesso che norme di diritto comune, come quelle di diritto privato, commerciale e del lavoro, si applichino in via principale ai privati e non ai soggetti pubblici. Il problema è ulteriormente complicato dalla presenza di norme sopranazionali, innanzitutto europee, che dedicano specifica attenzione alla pubblica amministrazione, ora per sottrarla ai processi di integrazione ora per impedirne comportamenti distorsivi del mercato. Di qui la necessità di definizioni normative, implicite o esplicite, di pubblica amministrazione.
In molti casi, le norme parlano genericamente di pubblica amministrazione, ricorrendo così a mere qualificazioni ‘presupposte’: queste, infatti, non sono definite dal legislatore, che si limita a postularne l’esistenza e la riconoscibilità (G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, i° vol., t. 2, 1980). Rispetto a tali enunciati normativi, l’interprete può ritenere che il termine utilizzato dal legislatore sia tratto semplicemente dal linguaggio comune. In questa ipotesi, persino la qualificazione pubblica può costituire la mera recezione di un dato dell’esperienza sociale, come avviene, per es., con riguardo alle accezioni soggettive nelle quali essa significa ‘pertinente alla collettività’ (M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, 1986).
L’interprete, al contrario, può assumere che l’enunciato legislativo contenga un rinvio ad altro enunciato normativo, e, cioè, utilizzi una qualificazione giuridica. In mancanza, però, di definizioni legislative generali, le qualificazioni presupposte si traducono in un rinvio a un enunciato legislativo inesistente o non univoco. A ciò pone rimedio il giudice nazionale e quello europeo, che, abbandonati i criteri formali, sempre più spesso ricorrono a quelli sostanziali, sviluppando ‘indici rivelatori’ della pubblicità, o a interpretazioni teleologicamente orientate alla ratio della specifica previsione normativa.
Altre volte, invece, il legislatore procede direttamente all’adozione di definizioni espresse, ai fini dell’applicazione della specifica disciplina: queste, dunque, sono funzionali alla determinazione delle ‘condizioni d’uso’ della singola normativa. Per affrontare il problema della delimitazione del concetto normativo di pubblica amministrazione bisogna, allora, procedere in modo analitico, tenendo presente che le nozioni variano in relazione agli scopi che le norme stesse si prefiggono (Cassese 1996). Quasi sempre, la tecnica prescelta è quella della enumerazione. Questa, tuttavia, non assicura necessariamente una maggiore certezza applicativa. Basti pensare ai casi in cui l’elenco è meramente esemplificativo, oppure, a quello in cui i termini utilizzati nell’elenco, a loro volta, possono essere tratti dal linguaggio tecnico: in questo caso, il problema interpretativo si sposta semplicemente dal definiens al definiendum (G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, i° vol., t. 2, 1980). Si noti, infine, come le definizioni legislative, a volte, fanno leva su elementi formali, altre volte su elementi sostanziali, ma non per questo le une debbono ritenersi più sicure e le altre più autentiche.
In questa sede, naturalmente, non si potrà che procedere in via esemplificativa, facendo riferimento alle principali definizioni che si traggono dal diritto nazionale e da quello europeo: alcune di esse mostrano di avere almeno apparentemente, una ‘vocazione’ generale, altre, invece, soprattutto di origine europea, adottano esplicitamente nozioni ‘estensive’ o, all’opposto, ‘restrittive’, per massimizzare il loro effetto ‘utile’.
Le definizioni a vocazione generale
Nel diritto nazionale, la definizione più completa e analitica, perché comprensiva di tutte le principali categorie, è contenuta nella normativa in materia di rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Secondo l’art. 1, 2° co., d. legisl. 30 marzo 2001 n. 165, «per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, e le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale». A tale elenco si aggiungono, a seguito della l. 15 luglio 2002 n. 145, «l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 300».
L’intenzione del legislatore di procedere alla determinazione dei destinatari della disciplina è chiaramente rivelata dall’intestazione della rubrica al suo «ambito di applicazione». I soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione sono individuati con criteri formali, per lo più tramite il riferimento a ‘macrocategorie’: si pensi, per tutti, agli enti pubblici non economici. Per questo motivo, la definizione legale contenuta nel d. legisl. 30 marzo 2001 n. 165 non costituisce un’autentica alternativa ai tradizionali sistemi di qualificazione: anch’essa, infatti, ricorre alle presupposizioni. La norma, d’altra parte, è formulata in modo tale da lasciare ampio margine alla riconduzione del singolo ente a una delle categorie presupposte; all’estensione della disciplina ad altri tipi di soggetti non menzionati, come le autorità indipendenti.
La definizione appena citata, tuttavia, è così completa e analitica da servire come riferimento per stabilire a quali organismi debbano applicarsi molte norme che fanno riferimento alla pubblica amministrazione: in tal senso, essa esprime una ‘vocazione’ generale. A volte ciò accade attraverso un espresso rinvio del legislatore (si vedano, per es., l’art. 6, 1° co., l. 24 dic. 1993 n. 537, e l’art. 44, 1° co., l. 23 dic. 1994 n. 724); altre volte, invece, è l’interprete a ricorrere a tale definizione, in presenza di norme riferite genericamente alle pubbliche amministrazioni. In questo modo, l’enumerazione del d. legisl. 30 marzo 2001 n. 165 assume una posizione preminente tra le varie definizioni legali di pubblica amministrazione, rivelando una naturale aspirazione alla generalità.
Bisogna, tuttavia, evitare improprie assolutizzazioni. La definizione normativa in questione, infatti, è geneticamente funzionale all’applicazione delle norme di privatizzazione del pubblico impiego: ciò spiega perché, per es., essa non riguarda gli enti pubblici economici, per i quali già esisteva un regime di lavoro integralmente civilistico. Anche in altri casi, l’esclusione degli enti pubblici economici dal novero dei soggetti tenuti all’applicazione di norme destinate alla pubblica amministrazione può risultare ragionevole, proprio in considerazione del loro regime tendenzialmente privatistico. Ciò, tuttavia, non vale sempre: basti pensare all’evoluzione giurisprudenziale favorevole all’applicabilità della l. 7 ag. 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, e in particolare delle norme sull’accesso ai documenti, agli enti pubblici economici e all’esercizio di attività imprenditoriale pubblica. Per questa ragione, a volte, lo stesso legislatore prevede espressamente che una determinata norma si applichi alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, 2° co., d. legisl. 30 marzo 2001 n. 165 e agli enti pubblici economici. Il che accade, per es., nelle norme dirette a tenere sotto controllo la spesa pubblica (art. 25, l. 27 dic. 2002 n. 289). In proposito, anzi, la legislazione in materia di contabilità (art. 25, l. 5 ag. 1978 n. 468, modificata con la l. 23 ag. 1988 n. 362, e poi con la l. 25 giugno 1999 n. 208), introduce la nozione del cosiddetto settore pubblico allargato. Questo, originariamente, comprende, oltre alle amministrazioni dello Stato, molti enti pubblici nazionali (alcuni indicati nell’allegato alla legge, altri in decreti successivi), i Comuni, le Province, le aziende comunali, provinciali e consortili, gli enti ospedalieri e gli enti portuali.
Nella medesima logica si muovono le disposizioni che sono rivolte a garantire l’osservanza dei vincoli di finanza pubblica da parte di tutte le amministrazioni «inserite nel conto economico consolidato, individuate per l’anno 2005 nell’elenco 1 allegato alla presente legge e per gli anni successivi dall’Istituto nazionale di statistica» (art. 1, 5° co., l. 30 dic. 2004 n. 311). L’elenco comprende le seguenti categorie di amministrazioni pubbliche, individuate per «tipologia di attività istituzionale», alcune delle quali oggetto di ulteriori enumerazioni puntuali: «Ministeri e Presidenza del Consiglio, organi di rilievo costituzionale, enti di regolazione dell’attività economica, enti produttori di servizi economici, autorità amministrative indipendenti, enti a struttura associativa, enti produttori di servizi culturali, enti ed istituzioni di ricerca non strumentale, istituzioni e stazioni sperimentali per la ricerca, Regioni, Province, Comuni e città metropolitane, unioni di comuni e consorzi di funzione di comuni, aziende sanitarie locali, enti e aziende ospedaliere, camere di commercio, enti per il turismo, autorità portuali, comunità montane e isolane, agenzie regionali del lavoro, università ed istituti di istruzione universitaria, enti per il diritto allo studio, enti autonomi lirici ed istituzioni concertistiche assimilate, enti parco, enti regionali per la ricerca e l’ambiente, enti nazionali di previdenza e assistenza sociale». Si tratta di un elenco completo e dettagliato, che comprende anche soggetti ordinati in forma privatistica (come alcune fondazioni culturali di origine pubblica e le federazioni sportive). Rimane da verificare se questo più ampio e analitico elenco, peraltro non privo di contraddizioni e di lacune, riveli una ‘vocazione’ generale pari a quella della definizione che è contenuta nel d.legisl. 30 marzo 2001 n. 165 e tale, in prospettiva, da sostituirla come punto di riferimento per ulteriori nozioni normative o giurisprudenziali.
Le definizioni estensive
Altre definizioni di pubblica amministrazione non presentano un’analoga ‘vocazione’ generale, ma sono più chiaramente destinate a un’applicazione limitata a una specifica disciplina. In questa prospettiva, si trovano, nel diritto europeo e in quello nazionale, nozioni opposte di pubblica amministrazione, ora ‘estensive’, quando si tratta di controllare gli apparati pubblici (e, dunque, a tal fine, si estende l’ambito soggettivo di applicazione delle relative norme anche per evitare tentativi di elusione), ora ‘restrittive’, soprattutto quando si prevedono privilegi e deroghe all’applicazione del diritto comune in favore dei pubblici poteri e si intende circoscriverne l’ambito.
Un esempio del primo tipo si trova nelle norme in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, per determinare l’area delle amministrazioni aggiudicatrici tenute all’osservanza di procedure concorsuali di scelta dei contraenti (art. 1, 9° co., Direttiva 2004/18/CE). Questa include lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le rispettive associazioni. Gli organismi di diritto pubblico, in particolare, sono persone giuridiche, pubbliche o private, istituite per soddisfare finalità d’interesse generale, e dunque prive di carattere «industriale o commerciale», finanziate, controllate oppure influenzate in prevalenza dallo Stato o da altri enti territoriali o organismi di diritto pubblico. Ai medesimi vincoli, nei cosiddetti settori esclusi, sono sottoposte anche le imprese pubbliche e gli operatori privati titolari di diritti speciali o esclusivi (art. 2, 1°-2° co., Direttiva 2004/17/CE). La nozione è così ampia (comprende anche soggetti aventi natura privata) perché lo scopo delle norme che la regolano è di consentire la libera circolazione dei servizi in Europa. A tal fine, sono dunque vincolati all’osservanza di procedure di bando e di esame comparativo delle offerte, per la stipulazione di contratti di appalto di servizi e forniture, tutti i soggetti accomunati agli enti pubblici da un presunto allentamento delle logiche di efficienza, suscettibile di determinare comportamenti discriminatori e distorsivi del mercato. Per questa ragione, l’ascrivibilità del singolo soggetto alla categoria dell’organismo di diritto pubblico è attuata alla luce di indici che rivelano l’assenza di vincoli all’efficienza economica (per es., è considerato tale l’ente che non sopporta le conseguenze delle proprie perdite, perché può contare sul ripianamento pubblico dei disavanzi di bilancio).
Anche in questo caso, però, bisogna evitare improprie generalizzazioni. La nozione di organismo di diritto pubblico, per es., richiede un’interpretazione funzionale, alla luce degli obiettivi perseguiti dalla disciplina degli appalti. Questa nozione, invece, non può essere utilizzata al di fuori di tale ambito, per dimostrare la pubblicità ‘sostanziale’ e ‘globale’ di un dato soggetto, per es., ai fini dell’applicazione di norme di diritto amministrativo nazionale, in generale riferite alle pubbliche amministrazioni.
Nozioni altrettanto ampie di pubblica amministrazione ricorrono in altre discipline. Un esempio significativo, sempre in materia contrattuale, è contenuto nell’art. 2, 1° co., lett. b, d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231, in attuazione della Direttiva 2000/35/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Ulteriori definizioni estensive di pubblica amministrazione, infine, si trovano nelle norme europee in materia di finanza pubblica. Si pensi alla disciplina relativa agli impegni finanziari assunti da amministrazioni statali, enti regionali, locali, enti pubblici, organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche (art. 103, Trattato CE); e a quella concernente i disavanzi eccessivi che riguarda «l’amministrazione statale, regionale o locale e i fondi di previdenza sociale, ad esclusione delle operazioni commerciali, quali definiti dal Sistema europeo di conti economici integrati» (art. 2, Protocollo sui disavanzi eccessivi, che fornisce l’interpretazione autentica dell’art. 104, Trattato CE).
Le definizioni restrittive
All’estremo opposto, si trovano nozioni ‘restrittive’ di pubblica amministrazione, spesso allo scopo di circoscrivere l’ambito di applicazione di norme derogatorie o di privilegio.
Un esempio in tal senso è costituito dalla definizione di pubblica amministrazione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria in materia di libera circolazione dei lavoratori. In proposito, il Trattato si limita a stabilire che la libertà di circolazione non vige per gli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 39, 4° co., Trattato CE). Allo scopo di definire in modo restrittivo tale esclusione e, quindi, di favorire la circolazione delle persone, la giurisprudenza comunitaria afferma che la pubblica amministrazione è caratterizzata da due tratti: l’esercizio di poteri pubblici e la tutela di interessi generali dello Stato o di altre collettività pubbliche. Se, dunque, l’impiego riguarda le amministrazioni preposte all’«esercizio dei pubblici poteri» e alla «tutela degli interessi generali dello Stato o degli enti pubblici» (si pensi ai compiti di difesa, di ordine pubblico, di imposizione fiscale), questo può essere riservato ai cittadini nazionali. La deroga alla libera circolazione, invece, non opera se il rapporto di lavoro riguarda servizi svolti da soggetti pubblici, ma che sono «distanti dalle attività specifiche della pubblica amministrazione» (come avviene nei campi della ricerca, dell’istruzione, della sanità, dei trasporti, delle comunicazioni, delle fonti di energia, della cultura: Corte di giustizia CE, 2 luglio 1996, cause 173/94, 473/93, 290/94).
Se si confronta questa definizione ‘restrittiva’ adottata dal giudice comunitario con quella ‘estensiva’ elaborata dal legislatore europeo in materia di appalti, ci si rende conto che, in realtà, entrambe sono ispirate al medesimo obiettivo di massimizzare l’effetto utile delle discipline di integrazione del mercato. Il giudice comunitario, confrontandosi soprattutto con quelle disposizioni originarie del Trattato, nelle quali sia pure eccezionalmente, si rifletteva la tradizionale immagine della specialità del diritto amministrativo quale prerogativa e privilegio, è naturalmente portato a restringere l’area di applicazione del diritto derogatorio. Il secondo, invece, introducendo regole speciali per l’amministrazione a garanzia del processo di integrazione e dei privati, altrettanto naturalmente, è portato a espandere la nozione di pubblica amministrazione, al fine di ampliarne l’ambito di applicazione e impedire agli Stati di eluderne i vincoli attraverso qualificazioni formali diverse.
Da questo excursus, si può, quindi, trarre conferma che non vi è una definizione unitaria di pubblica amministrazione; che le pubbliche amministrazioni possono essere definite o elencate, secondo diversi criteri, ora formali ora sostanziali; che le nozioni di pubblica amministrazione sono sia di fonte normativa sia di fonte giurisprudenziale; che queste nozioni di contenuto variabile non costituiscono un elenco chiuso, perché, per altri scopi, leggi o giurisprudenza possono scegliere altre nozioni, a seconda dell’interesse protetto.
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