pubblicità e lingua
La pubblicità, in tutte le sue forme (su manifesti, nei giornali, in radio e televisione), è uno dei tipi testuali che più influenzano l’italiano comune, con coniazione di ➔ neologismi e prestito di parole, modi di dire (contro il logorio della vita moderna; cuore di panna; fatti, non parole; lavato con Perlana; Milano da bere; più bianco non si può; più lo mandi giù e più ti tira su; potevamo stupirvi con effetti speciali), strutture sintattiche e figure retoriche varie, che penetrano nella lingua e nei suoi usi concreti (Falabrino 2007; Testa 20073; Arcangeli 2008).
Vanno qui ricordate almeno le principali tra le caratteristiche morfologiche e lessicali dei messaggi pubblicitari.
L’➔articolo determinativo è spesso usato con funzione enfatica, come a sottolineare che il prodotto pubblicizzato è l’unico possibile, il prodotto per antonomasia: la buona pasta di Napoli. Anche l’articolo indeterminativo o la cancellazione dell’articolo possono assolvere alla stessa funzione enfatica: è un film Paramount; un Ramazzotti fa sempre bene; sapore vero. Le ➔ preposizioni sono spesso eliminate, dando luogo a sintagmi nominali giustappositivi: Ava lavatrice; profumodonna; riserva sapore; tè filtro.
L’uso dei possessivi (➔ possessivi, aggettivi e pronomi) è molto frequente, per sottolineare il legame esclusivo tra il prodotto e ogni singolo consumatore: il tuo profumo; sarò la tua birra. Sempre per lusingare l’egocentrismo dell’interlocutore, dandogli del tu e facendogli credere di essere unico anziché una cellula di una massa indistinta, numerosi sono gli esempi di impiego del pronome di seconda persona singolare (➔ personali, pronomi): tutto intorno a te; tu, senza confini; il gusto di farlo per te; la Coop sei tu.
Tipiche sono anche l’utilizzazione di forme assolute di comparativo e di ➔ superlativo (il massimo; il meglio; l’assoluto; linea più) e la funzione avverbiale dell’aggettivo (bevi genuino; lava pulito; vesti giovane), a sua volta derivata da costrutti verbo (o nome) + prodotto, tuttora vivi (brindate Gancia; camminate Pirelli; corre giovane chi corre Agip; oggi mi sento Danone; sorriso Durban’s; vestite Marzotto; ➔ nomi commerciali). Come tecnica enfatica sono usate anche le duplicazioni intensive: collant collant; un caffè caffè; un bianco bianco.
Molto ricca la serie degli alterati e dei composti (➔ alterazione; ➔ composizione), specialmente costruiti con gli ➔ elementi formativi arci-, extra-, maxi-, pluri-, super-, ultra-, ecc.: maxicono, supermolleggiato, ultrasensibile. Tra i composti e le ➔ parole macedonia si ricordano: docciaschiuma, ecoformula, ecoincentivo, ecolampadina, ecovantaggio, gengiprotettivo, intellighiotto, lavasmacchia, mangiasporco, salvaroma, semprasciutto, uvamaro, Viacal, Vitasnella. Vengono apposti ➔ suffissi alterativi e derivativi anche a basi che solitamente li rifiutano o che ne richiederebbero altri (comodosa, gingeramente, gingerissimo, insalatare, insalatissima, pomodorissimo, risparmiosa, scattosa, simmenthalmente, vespizzatevi), dando vita a neologismi talvolta di rapida presa. Nel 2003 la casa automobilistica Nissan battezzò una nuova lingua (do you speak Micra?), tutta fatta di parole macedonia ossimoriche, in grado di render conto della conciliazione degli opposti consentita dalla rivoluzionaria vettura: semplogica (semplice e tecnologica), sigile (sicura e agile), modtro (moderna e retrò); brilliosa (brillante e vantaggiosa), emotica (emozionante e pratica).
Nel ➔ lessico e nell’➔onomastica si possono osservare: il frequente ricorso alle lingue classiche per nobilitare certi prodotti (Aiax, Ariston, Venus e la serie Alfa, Delta, Gamma, Omega, Ypsilon, ecc., per distinguere, per es., modelli d’automobile) e l’uso di alcuni tratti dei linguaggi scientifici, per infondere nel destinatario maggior fiducia nel prodotto: blocco radente; clinicamente testato; ipersnellente; lactobacillus bifidus essensis; metabolismo corneale; oligominerale.
Anche l’uso delle lingue straniere moderne risponde a facili stereotipi: il francese è impiegato in prodotti che puntano sulla bellezza, sull’eleganza e sul prestigio (cosmetici, abbigliamento); l’inglese invece come contrassegno d’efficienza e di modernità (informatica e prodotti elettronici vari, automobili, ecc.; Serra 2006). Sempre più frequenti sono oggi i messaggi pubblicitari scritti o recitati integralmente in inglese o in francese: Heineken. Sounds good; Yves-Saint Laurent: l’homme sensuel et magnétique. In ascesa è anche l’uso dello spagnolo e degli pseudoispanismi.
Alcuni termini possono essere considerati emblematici della pubblicità: delicato, giovane (anche come aggettivo e avverbio), magico, morbido, genuino, sicuro. A garanzia di genuinità, naturalezza e precisa localizzazione geografica di un prodotto, si ricorre sempre più spesso al dialetto e all’➔italiano regionale: una pizzeria fa sentire ’n goppa ’o Vesuvio; la salsa di pomodoro è molto spesso una pummarola; gli industriali settentrionali Amadori, Rana e Rovagnati (nei primi anni del XXI sec.) pubblicizzano con lieve accento regionale i propri prodotti.
Si contano solo sporadici casi di vistose deviazioni dalle regole morfologiche, semantiche e lessicali: chi vespa mangia le mele; io siamo; metti un tigre nel motore.
La sintassi nominale, le forme ellittiche e la giustapposizione asindetica sono un modo tipico di sintesi nei messaggi pubblicitari: andare sempre, pensieri mai. Tipico è anche lo schema dell’interrogativa contratta, in una sorta di botta e risposta immaginario (macchie difficili sui capi colorati? anche il tuo detersivo ha bisogno d’aiuto), e la struttura tema (prodotto) + pausa + breve commento (slogan o pay off): INSA. Quando un divano ha la stoffa. Così come nei titoli dei giornali (➔ lingua e media), frequentissima è l’utilizzazione della struttura tema-rema (➔ tematica, struttura), in messaggi come i peccati di gola che non fanno ingrassare o il nuovo gusto ha meno grassi, nei quali l’attenzione del lettore viene come sviata: che un prodotto dietetico venga pubblicizzato come poco grasso è un’ovvietà, ma il fatto che sia anche gustoso al limite del peccaminoso è davvero tutto da dimostrare, benché qui l’informazione venga fatta passare come generalmente condivisa, proprio perché in posizione tematica (Lombardi Vallauri 1995).
La pubblicità non si avvale tanto di una lingua speciale, quanto di un uso ‘non naturale’ della lingua, anche se non manca, da un lato, lo sfruttamento attento di alcuni tratti del parlato informale e, dall’altro, la forza di condizionamento sul parlato spontaneo e su altri tipi di testo (letteratura, giornalismo, canzoni, ecc.). Per questo abbondano le figure retoriche, oggi più frequenti nella pubblicità che in ogni altro tipo di testo: apocopi (Budì, Chinò, Pomì); ➔ ellissi (Sanbittèr da San Pellegrino Bitter); costruzioni simmetriche (compri due paghi uno; costa un po’ di più, piace un po’ di più; migliori prodotti, miglior servizio); chiasmi (se bevi Neri ne ribevi; vèstiti per piacere; per piacere vèstiti; la guida per chi viaggia e i viaggi per chi guida); ripetizioni di vario genere (piace alla gente che piace); antitesi (è nato oggi il brodo con il sapore di ieri; il più piccolo, il più potente; l’ombra si mette in luce; più lo mandi giù e più ti tira su); iperboli (più bianco non si può; ➔ iperbole); antonomasie (liscia, gassata o Ferrarelle?; non si dice Sambuca, si dice Molinari; ➔ antonomasia); sinestesie (gusto pulito; il lato morbido della grappa; sapore alto; ➔ sinestesia); onomatopee (brrr ... Brancamenta); metafore (il computer è il nocciolo. Noi vendiamo anche la polpa; ➔ metafora); doppi sensi legati al nome del prodotto (che uomo sei se non hai Malizia?; diamoci un mondo di Baci).
Frequentissime sono inoltre le paronomasie o bisticci, le allitterazioni, le assonanze, le rime (Ava come lava; mira mira l’olandesina Miralanza ti è vicina; titilla la papilla; Renault Weekend: we can); vari giochi di parole (chicchirìcchi, che indica sia il verso del gallo, simbolo della marca di riso pubblicizzata, sia la qualità dei chicchi del riso stesso) e diversi altri tipi di deformazione di frasi e parole (metatesi, segmentazioni, accorpamenti di parole, ecc.): sentirsialseltz; selomangibevilatte; una marca di condizionatori d’aria mostra la riformulazione di un proverbio (chi la fa l’aspetti) mediante una risegmentazione (la fa diventa l’afa) e l’aggiunta di una negazione (chi l’afa non l’aspetti). Frequente anche la deformazione di ➔ titoli famosi, di frasi fatte, di citazioni: Julipet ergo sum; la marcia infinita; noccioline d’ordinaria follia; non avrai altro jeans all’infuori di me.
La sillabazione viene talora violata rispetto alla norma (Kri-z-ia; Trus-sa-rdi), così come l’uso dell’iniziale maiuscola nei nomi propri. Talvolta l’iconicità si spinge fino a usare disegni o numeri invece di parole anche all’interno della frase: tipici sono l’uso del cuore col significato di «amore», «ti amo» e sim., e del numero 8 in parole che finiscono in -otto (chin8) o, per assonanza coll’inglese eight «otto», in Q8 «Kuwait».
Tra le caratteristiche della pubblicità italiana degli ultimi anni vanno ricordate almeno la pervasiva presenza del sesso e la sempre più spiccata tendenza alla serialità. I messaggi pubblicitari presuppongono oggi un lettore sempre più scaltro e avvezzo alla multimedialità, in grado di decodificare anche testi altamente simbolici e fatti quasi esclusivamente di immagini o di citazioni spesso criptiche di messaggi precedenti. Negli spot scanditi in varie puntate (il primo esempio di pubblicità seriale fu quello della SIP, 1993: una telefonata allunga la vita), lo spettatore deve essere in grado di ricucire tutti i pezzi. Evidenti sono anche l’ibridazione dei mezzi e l’intertestualità nei messaggi pubblicitari di ultima generazione. Per dimostrarlo, oltre al frequentissimo ammiccamento dei poster stradali agli spot televisivi, basterebbe notare che quasi nessun annuncio pubblicitario può prescindere ormai dall’indicazione del sito web del marchio pubblicizzato.
Il sesso viene spesso utilizzato per pubblicizzare automobili e bevande alcoliche, dal momento che l’obiettivo primario della pubblicità non sembra più tanto quello di vendere un determinato prodotto, quanto di convincere il pubblico a desiderare di entrare a far parte del mondo prestigioso, godibile e peccaminoso popolato dai consumatori abituali di quel dato prodotto, sia esso un gelato, una bevanda, un abito: più che un profumo, verrà dunque pubblicizzata la sensualità che esso incarna, più che un certo liquore, la virilità di cui è simbolo. Ma al sesso si ricorre anche per prodotti apparentemente di là da ogni tentazione, come uno yogurt: fate l’amore con il sapore. L’allentamento dei freni censori ha dato la stura anche a doppi sensi di dubbio gusto: da l’antifurto con le palle al pornodivo Rocco Siffredi che pubblicizza le patatine fritte: la patatina tira e a chi piace la patatina (Giacomelli 2003; Rossi 2009).
Arcangeli, Massimo (2008), Il linguaggio pubblicitario, Roma, Carocci.
Falabrino, Gian Luigi (2007), Storia della pubblicità in Italia dal 1945 a oggi, Roma, Carocci.
Giacomelli, Roberto (2003), La lingua della pubblicità, in La lingua italiana e i mass media, a cura di I. Bonomi, A. Masini & S. Morgana, Roma, Carocci, pp. 223-248.
Lombardi Vallauri, Edoardo (1995), Tratti linguistici della persuasione in pubblicità, «Lingua nostra» 2-3, pp. 41-51.
Rossi, Fabio (2009), Emozioni e retorica in vendita: il linguaggio pubblicitario, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 407-416.
Serra, Alessandra (2006), L’uso dell’inglese nella pubblicità italiana, Roma, Aracne.
Testa, Annamaria (20073), La pubblicità, Bologna, il Mulino (1a ed. 2003).