Sport, pubblicità e sponsor nella società moderna
La pubblicità è ormai parte integrante, anzi costitutiva, dello sport. È infatti impensabile, anche perché impossibile, immaginare oggi un qualsiasi spettacolo sportivo che non sia sponsorizzato o che si svolga in un ambiente privo di simboli o cartelloni pubblicitari e nel quale gli atleti indossino divise segnalate dai soli colori del club d'appartenenza. Ribadirlo è un'ovvietà, però necessaria per richiamare alcune questioni che attengono alle caratteristiche fondamentali del rapporto fra sport e pubblicità. Anzitutto, esso è inscritto nel processo fondativo dello sport moderno, situabile nell'ultimo quarto dell'Ottocento e impostosi come fenomeno di massa nei due decenni iniziali del secolo successivo. Le prime grandi manifestazioni popolari, come il Tour de France (1903) e il Giro d'Italia (1909), hanno infatti avuto come fattore fondamentale di sviluppo gli interessi congiunti dei fabbricanti di biciclette e pneumatici e delle imprese editoriali. Per i primi le corse si rivelarono eccellenti mezzi per promuovere le vendite, per le seconde un'opportunità unica per fare lievitare le tirature. Per questa ragione, le gare sportive da subito furono anche rivalità industriali e i giornali, quotidiani e periodici non solo specializzati, figurarono quasi sempre come organizzatori di quelle stesse gare.
Si deve inoltre sottolineare che le competizioni sportive sono venute guadagnando rapidamente un posto centrale sulla scena dello spettacolo di massa, e che tale ascesa è diventata dirompente con l'avvento e la piena democratizzazione dei mass media e segnatamente della TV. Infatti, se è il pubblico dei media che ha permesso di dilatare lo spettacolo sportivo ben oltre i suoi confini di spazio (lo stadio) e di tempo (la durata della gara), è stata la grande spettacolarità delle competizioni atletiche a fare crescere irresistibilmente gli ascolti. Un processo circolare, questo, che ha avuto e ha tuttora il suo principale elemento propulsivo nella pubblicità, a partire dal momento in cui i primi campioni sono venuti imponendosi all'attenzione popolare, accreditandosi anche, attraverso le loro imprese e i loro record, come testimonial pubblicitari impareggiabili, in forza e per effetto della capacità di canalizzare il loro capitale di notorietà e simpatia dall'ambito sportivo a quello merceologico e di trasferire la loro eccellenza atletica alle merci e alle marche reclamizzate.
Agli inizi del 20° secolo, dunque, i simboli dell'eccellenza sportiva cominciavano già a tradursi in segni pubblicitari e a definire un sistema organizzato di competizioni sfruttabile commercialmente. Ma con tutti i limiti, soprattutto in Italia, di un fenomeno che era socialmente, ancor più che economicamente, circoscritto, dovendo misurarsi con l'inesistenza di una struttura dei consumi e di un pubblico di consumatori in grado di tradurre bisogni e desideri di possesso in scelte d'acquisto. Solo ristrette élite avevano accesso a beni e merci che non fossero di carattere strettamente primario; per la grande maggioranza della popolazione i consumi extra-alimentari, peraltro anch'essi assai problematici e non sempre garantiti, si limitavano al vestiario e agli effetti personali, alle suppellettili e ai prodotti domestici strettamente indispensabili. Se le imprese e i numeri dello sport erano già ragguardevoli, i desideri che da essi scaturivano figuravano come tentazioni, tanto irresistibili quanto irraggiungibili.
Si trattasse del raid automobilistico di 14.963 km da Pechino a Parigi, che nel 1906 portarono a termine il giornalista Luigi Barzini e il principe Scipione Borghese, o delle 100.000 copie che tirò La Gazzetta dello Sport all'indomani della conclusione a Milano del primo Giro d'Italia, i possessori di biciclette e ancor più di auto erano e restavano relativamente pochi. Ai più era concesso solo di appassionarsi e spasimare per quelle sfide che incarnavano perfettamente lo spirito della nuova era meccanica, al culmine di una passione in certi casi così spinta da indurre, come scriveva apocalitticamente l'antropologo Cesare Lombroso, a commettere "un furto o un omicidio con grassazione", pur di entrare in possesso di una bicicletta e poter "raggiungere la desiderata gloria atletica e sportiva" (Lombroso 1900). Questa realtà è indirettamente comprovata dall'annuncio pubblicitario comparso nel 1895 sul giornale La Bicicletta, che, con lo slogan 'ciclisti armatevi', vantava una rivoltella fabbricata espressamente per i ciclisti "considerato che nelle attuali condizioni della pubblica sicurezza un buon revolver vi è indispensabile" (Falabrino 1993, p. 15).
In Italia come in Francia, Giro e Tour, promossi rispettivamente da La Gazzetta dello Sport e da L'Auto, presero il via con il fine di "fare concorrenza ai giornali sportivi rivali finanziando una 'grande' gara, conquistarsi dei lettori raccontando imprese originali e contemporaneamente suscitare l'interesse degli ambienti pubblicitari della bicicletta" (Vigarello 1992, p. 17). Ma se la punta di diamante del processo di sfruttamento industriale e promozionale dello spettacolo agonistico era il ciclismo, l'intero sistema sportivo, ovvero discipline e campioni delle più diverse specialità, aderiva prontamente ai richiami delle 'sirene pubblicitarie'. Risultava dunque inevitabile la de-enfatizzazione delle idealità decoubertiniane che erano state alla base della ripresa dei Giochi Olimpici, la cui prima edizione (Atene 1896), così come quelle successive, ebbe scarse attenzioni da parte della stampa. Ciò prova, appunto, che erano gli interessi economici e di mercato il principale fattore di sviluppo dello sport spettacolare, con le relative e altrettanto inevitabili distorsioni che tale processo comportava, ben più forti e concretamente agenti delle raccomandazioni e preoccupazioni di quanti auspicavano uno sport in funzione dell'uomo e della sua educazione psicofisica.
D'altronde, se le motivazioni e le aspettative dei fabbricanti di biciclette e pneumatici erano conclamate, costituendo l'espressione più sostanziosa del binomio sport-industria, i segni del crescente sfruttamento pubblicitario della merce sportiva cominciavano, al volgere del primo decennio del Novecento, a essere molteplici, in rapporto sia alle tecniche e alle modalità di utilizzazione promozionale delle icone sportive, sia alle provenienze agonistiche dei testimonial.
Le corse ippiche, per es., con il loro turf rotondo e l'elegantissimo parterre che le animava, erano il fondale di numerose affiches che pubblicizzavano vestiti e accessori della persona raffinata. In questi casi lo sport era una metafora e un pretesto per comunicare esclusività. Ma vi erano anche, a riprova di un processo ormai universale, campioni di baseball che negli Stati Uniti comparivano sui pacchetti di sigarette e sulle confezioni di gomma da masticare; yachtsmen che in Inghilterra garantivano della bontà di una marca di tè; campioni di lotta e alpinisti che in Italia venivano elevati a testimonial. Sulla stampa la ditta Herion di Venezia annunciava che la propria maglieria veniva utilizzata dal duca degli Abruzzi nel corso delle sue avventurose spedizioni himalayane, mentre l'efficacia delle pastiglie digestive Tot era garantita dal campione di lotta Enrico Scuri (L'illustrazione Italiana e Secolo XX, annate 1900 e 1902).
Tuttavia, come già detto, il rapporto fra sport e pubblicità, per tutto il periodo della belle époque e ancora per buona parte degli anni Venti, restò circoscritto alle corse ciclistiche e motoristiche e ai fabbricanti di pneumatici, che erano poi anche produttori di altri attrezzi e complementi sportivi destinati a dare grande impulso e sviluppo alle diverse discipline: dalle palline da tennis alle camere ad aria in caucciù, che consentirono di differenziare in modo visibile lo strumento del gioco, come nel caso della palla usata dal rugby e dal football, e dunque di aumentare, con la specializzazione, il fascino e il richiamo dei vari sport. I marchi Pirelli, Michelin, Dunlop, FIAT, Bugatti diventarono presto noti al grande pubblico. Pochi nomi, perché l'industria di marca era agli albori, ma già pronta, come nel caso di Campari, a utilizzare per i propri manifesti scenografie e valori sportivi, nonché a sfruttare pubblicitariamente le più importanti manifestazioni.
Tuttavia, è interessante osservare come sport e pubblicità procedessero su binari paralleli, accomunati da uno status di conclamata contemporaneità, ma anche di minorità culturale destinata a perpetuarsi a lungo, nonostante il loro rapido e impetuoso installarsi al centro della scena sociale. Invisi, con poche eccezioni, al mondo degli intellettuali, essi figuravano come espressioni degradate, perché mercificate e massificate, il primo del principio di ascendenza classica mens sana in corpore sano, la seconda dell'arte. Sia lo sport sia la pubblicità, quanto più si costituivano in sistema, con apparati, operatori, criteri di valore, leggi e regole di funzionamento peculiari, e soprattutto penetravano diffusamente e in profondità nella vita quotidiana, tanto più accrescevano i sospetti della cultura ufficiale. Benedetto Croce riassumeva questa doppia opposizione, rifiutandosi di considerare arte una creazione come quella del grande illustratore Marcello Dudovich, compromessa con il mondo degli affari; e stabilendo una relazione di causa-effetto fra l'esplosione dell'interesse pubblico per lo sport e il venir meno dell'intelligenza e del sentimento popolari (Croce 1932; Dorfles 1985).
Ma la pubblicità e lo sport erano anche due mezzi di comunicazione di massa che esprimevano un'identica capacità di sintetizzare esemplarmente i valori di eccellenza, di competizione, di visibilità sociale, di immediatezza e spettacolarità dei messaggi di cui erano portatori. Se la prima doveva essere, anche per legge, un 'marchio parlante', ovvero capace di comunicare pure a chi era analfabeta (in tale stato, ancora nel periodo fra le due guerre, era la maggioranza degli italiani), il secondo, per la semplicità e la drammaticità degli svolgimenti agonistici e delle poste in gioco, risultava massimamente coinvolgente e accessibile a tutti: popolare, nella sua piena ed estensiva accezione. Sia pure su piani diversi, essi erano entrambi funzionali alle esigenze della produzione industriale e culturale di massa, che veniva prendendo forma dopo la Prima guerra mondiale. In un mercato allargato, nel quale la crescita dei prodotti e delle marche era speculare a quello dei consumatori, la pubblicità diventava infatti essenziale, strategica per le vendite. Il tratto esclusivo ed elegante della réclame d'anteguerra veniva soppiantato dall'esigenza di comunicare in modo semplice e secondo i canoni dei nuovi media. Allo stesso modo, le competizioni e i campioni sportivi si giovavano della crescente disponibilità di tempo libero delle classi lavoratrici che, insieme alla popolarizzazione della pratica sportiva, contribuiva a fare lievitare il pubblico degli stadi, così come quello dei giornali e radiofonico. Con ciò alimentando e rafforzando gli interessi della pubblicità per gli spettacoli atletici e viceversa.
Modi e tempi di questo processo osmotico variarono da paese a paese e differirono profondamente fra Europa e Stati Uniti. Oltreoceano prendevano infatti avvio con largo anticipo i fenomeni destinati poi a diventare comuni all'intero mondo industrializzato. Coca Cola, per es., nel 1912 aveva già un budget pubblicitario che superava il milione di dollari (Pendergrast 1993), mentre il testo del 1917 di J.P. Sizer, Commercialisation of leisure, uno dei primi ascrivibili alla sociologia dello sport, già nel titolo indicava come prima della Grande guerra le attività di tempo libero fossero ormai al centro di un intenso e organizzato sfruttamento commerciale.
Ma fu la radio, che all'inizio degli anni Venti contava già su numerose reti che trasmettevano regolarmente, a dimostrare le enormi potenzialità pubblicitarie dello sport spettacolo. Nel 1921 la stazione statunitense KDKA mise in onda una radiocronaca dal vivo dell'incontro di pugilato Johnny Ray-Johnny Dundee. Nello stesso anno altre stazioni trasmisero radiocronache di gare di motonautica e partite di football. Con l'incontro, sempre in quell'anno, a Miami, fra Jack Dempsey e Georges Carpentier, diffuso in teatri e locali pubblici, il consorzio che l'organizzò attrasse ben circa 300.000 ascoltatori paganti. "Tutte queste trasmissioni, così come quelle dei notiziari o di un'opera, avevano come obiettivo di promuovere gli apparecchi riceventi, che erano costosi e nei quali i margini erano elevati. Nel 1922 furono venduti circa 60.000 apparecchi e questo fornì la base per una programmazione alquanto regolare […]. Alla fine del 1928 negli Stati Uniti c'erano oltre 10 milioni di radio. Quando il giorno di capodanno del 1927 venne trasmessa la prima partita di football del Rose Bowl, ciò avvenne utilizzando una vera e propria 'rete' di stazioni dislocate su tutto il paese" (Mandell 1984, trad. it., p. 210).
Va sottolineato che, mentre nel Vecchio continente la radio era in mano allo Stato e da esso quasi interamente finanziata, negli Stati Uniti era soggetta solo a una regolamentazione tecnica, risultando i vari broadcasting ‒ come poi in seguito quelli televisivi ‒ dipendenti interamente dalle entrate pubblicitarie. "Il fatto che la maggior parte degli americani avesse facile accesso alle radiocronache di baseball e che le trasmissioni sportive occupassero gran parte delle frequenze utilizzabili sta a indicare che il mercato aveva risposto alla domanda di questo genere di intrattenimenti da parte della popolazione" (Mandell 1984, trad. it., p. 210).
Se la radio figurava come simbolo, oltre che come colonna sonora dei roaring twenties, dei 'ruggenti anni Venti', era però l'enorme, caotico, prosperoso sviluppo capitalistico che alimentava il culto del denaro, del successo, del divismo. Alle masse che si inurbavano senza soste lo star system, che già contava stelle sportive, offriva l'illusione della partecipazione, l'ingannevole convinzione che attraverso il mondo dello spettacolo fosse a tutti possibile l'ascesa sociale. "Chiunque riesca a infilare con straordinaria abilità in una serie di buche una pallina da golf può arrivare fin dal presidente degli Stati Uniti" (Wright Mills 1956, trad. it., p. 82). D'altronde che gli idoli sportivi come il giocatore di baseball Babe Ruth fossero individui eccezionali era confermato dalla risposta che il medesimo campione diede a chi nel 1929, l'anno del crollo di Wall Street, gli chiedeva se non si vergognasse di guadagnare più del presidente Herbert C. Hoover: "No! La mia annata è stata migliore della sua" (cit. in Wright Mills 1956, trad. it., p. 83).
Anche in Europa il decennio postbellico fu un periodo impaziente e irrequieto. "Il tempo va in macchina e nessuno di noi è capace di guidarla", scriveva il poeta tedesco Erich Kastner. L'automobile era l'oggetto del desiderio, il "veemente iddio d'una razza d'acciaio" cantato da Filippo Tommaso Marinetti, che coniugava il mito della velocità e le prime leggende sportive: campioni come Achille Varzi e Tazio Nuvolari; competizioni come la 24 Ore di Le Mans e la Mille Miglia, le cui prime edizioni furono, rispettivamente, nel 1923 e nel 1927; marche come Alfa Romeo, Bugatti, Mercedes. L'America però restava lontana: più un approdo a cui tendere che una realtà effettiva, per quanto la dimensione mercantile, spettacolare e mediatica dello sport cominciasse a evidenziarsi nei diversi paesi europei.
Mentre sull'altra sponda dell'Atlantico ogni disciplina riscuoteva ampia attenzione da parte di giornali, radio e sponsor e ‒ si trattasse di una gara di bocce oppure di una partita di baseball o anche di un match di boxe ‒ veniva invariabilmente definita come una world series, sulla sponda europea ciò valeva solo per poche specialità: il ciclismo e l'automobilismo e in misura molto minore il pugilato e il calcio. I primi due sport potevano infatti fare conto non solo su una spettacolare coincidenza con lo Zeitgeist, lo spirito dell'epoca, ma anche sulle rivalità di grandi campioni che potevano essere ottimamente sfruttate dalla pubblicità. I duelli ciclistici fra Alfredo Binda e Costante Girardengo valevano quelli automobilistici fra Varzi e Nuvolari; entrambe le contese appassionavano il pubblico italiano, che sempre più numeroso correva ad affollare le strade e i circuiti ove quei campioni si affrontavano, in sfide nelle quali era ormai esplicita ed economicamente ragguardevole la relazione fra competizione agonistica e promozione industriale.
Si deve specificare, tuttavia, che lo sfruttamento pubblicitario dello spettacolo sportivo, a parte le réclame ciclistiche che godevano di un certo spazio sui giornali, era quasi esclusivamente contestuale al suo svolgimento cioè limitato ai teatri di gara: 'pubblicità live', come diremmo oggi. Il tratto unificante delle inserzioni e dei messaggi era la scarsa originalità e creatività, essendo di norma annunci piuttosto che pubblicità classica. "Non è vero che Girardengo sia un fortunato: egli è semplicemente un corridore intelligente e ha scelto il velocipede Stucchi con pneumatici Dunlop" (cit. in Marchesini 1996, p. 64). "Giovanni Brunero attraverso la più grande competizione ciclistica del 1921 e 1922, il Giro d'Italia, si dimostra il più forte come più forti si dimostrano i materiali che lo hanno condotto alla vittoria: le biciclette Legnano e i pneumatici Pirelli" (cit. in Marchesini 1996, p. 70). "Provai a prendere il 'Proton' ‒ asseriva un testimonial anonimo ‒ seguitai la cura e ora sono ritornato in salute e in forza, posso dedicarmi al lavoro anche il più pesante e partecipare a gare ciclistiche" (cit. in Marchesini 1996, p. 71).
Naturalmente se erano splendidi tutti i manifesti che davano immagine al nascente culto sportivo, che veniva officiato nei circuiti motoristici, nei raduni aerei, nelle riunioni motonautiche e nelle feste mondane che avevano luogo nelle stazioni di villeggiatura alla moda, non era ancora tempo di folgoranti headlines e di geniali calembours. Ne è prova il fatto che negli anni Trenta facevano testo le rime baciate dei salumi Negroni "Binda e Guerra son campioni / sono gli assi del pedale / Negronetto è il gran salame / che la fama ha mondiale" (cit. in Falabrino 2000, p. 131), mentre le corse automobilistiche e gli assi del volante ispiravano il fulminante gioco di parole del borotalco Robert's, "Sempre primo al traguardo… L'asso che dà a tutti la polvere", e che assicurava "Se vuoi stare sano e fresco senza pari, cospargi del tuo corpo sopra ai pori il Boro Talco in lievi…Nuvolari" (cit. in Jacomuzzi 1965, 3° vol., p. 321).
Tuttavia l'intelligenza commerciale era ormai in movimento e in piena azione. Le astuzie dei venditori potevano far conto su una massa di consumatori che non aveva bisogno di essere convinta, essendo già più che persuasa di volere entrare nel mondo dell'abbondanza che stava prendendo forma e del quale lo sport era parte. Anzi, nel caso del ciclismo questo movimento desiderante, che era al tempo stesso merceologico e spettacolare, assumeva le forme esemplari della 'carovana', una sfilata di automezzi pubblicitari che pagavano l'organizzazione delle corse per potere lanciare messaggi e annunci lungo il percorso. L'istituzione prese avvio nel 1930 al Tour de France e tre anni dopo in Italia con il Giro. Quell'anno oltralpe "il camion del cioccolato Meunier precede la corsa distribuendo 500.000 cappelli di carta su cui è impresso il marchio della ditta. I suoi rappresentanti distribuiscono parecchie tonnellate di tavolette di cioccolata" (Vigarello 1992, p. 30). Partecipano anche "20 ditte estranee all'industria della bicicletta, che offrono talvolta al pubblico prodotti e oggetti come il lucido da scarpe Lion Noir, il cui camion è sormontato da un'enorme scatola che riproduce la confezione del prodotto, oppure le marche di alcolici, accozzaglia di gigantesche bottiglie di cartapesta diritte, adagiate, sghembe che alterano il profilo delle vetture" (Vigarello 1992, p. 30).
In Italia invece la prima carovana era costituita da 11 variopinti mezzi che precedevano in ogni tappa il plotone dei corridori di circa mezz'ora o un'ora. Puntuali erano le formule con le quali l'organizzazione lusingava le aziende:"le strade del Giro sono lastricate di pubblicità"; "il Giro agevola i vostri rappresentanti: crea il clima di vendita" (cit. in Marchesini 1996, p. 159). Effettivamente "in assenza della televisione (fino alla metà degli anni Cinquanta) la carovana pubblicitaria risulta uno spot 'lungo' quattromila chilometri e tre settimane, che si offre a una platea ‒ senza eguali all'epoca ‒ di milioni di persone, redditizio ed efficace come poche altre iniziative perché comunicazione diretta, quasi tattile e fisica, messaggio di festa" (Marchesini 1996, p. 159).
Le carovane ciclistiche furono dunque presagio di futuro, il primo chiaro indizio del trionfale installarsi della pubblicità sulla scena sportiva. Spettacolo nello spettacolo. Più tardi, negli anni Cinquanta, il pubblico avrebbe gradito molto il passaggio di autoveicoli trasformati nel tubetto del dentrificio Binaca, nel giallo tram milanese della Campari, nel manzo debordante dalla scatola della carne Simmenthal, nel Vermouth e nell'Elisir China della Martini, nel motoscafo dell'Hatù.
Le carovane di Tour e Giro conservarono però un'assoluta eccezionalità nel configurare non un matrimonio fra sport e pubblicità, bensì rapporti saltuari che, pur nella loro evidenza mercantile, identificavano una tendenza la quale, per dispiegarsi pienamente, necessitava di condizioni che avrebbero cominciato a materializzarsi solamente nel secondo dopoguerra. La pubblicità nel suo insieme, soprattutto nella situazione italiana, scontava infatti un forte ritardo nei confronti dei principali paesi europei e ancor più degli Stati Uniti. Le crisi economiche a catena (la depressione del 1925-26, la grande recessione del 1929 e quella successiva del 1931-33, il periodo autarchico conseguente alle sanzioni del 1936) contribuivano a deprimere fortemente i consumi e con ciò a ridurre gli spazi e i ruoli funzionali della comunicazione commerciale, peraltro controversi anche sotto l'aspetto del loro pieno riconoscimento all'interno delle gerarchie e strategie aziendali. Le grandi imprese non avevano 'uffici pubblicità'bensì 'uffici propaganda' o più estensivamente 'uffici stampa e propaganda'. Erano quindi molto labili i confini fra iniziative pubblicitarie e iniziative propagandistiche, soprattutto in una società totalitaria che concepiva ogni forma di comunicazione, e dunque l'utilizzo dei mass media, come occasione e strumento privilegiato per la formazione del consenso e l'indottrinamento delle masse popolari.
A questo ruolo rispondeva ottimamente lo spettacolo sportivo, in quanto strumento di controllo e mobilitazione, ma anche di rafforzamento dello spirito e del prestigio nazionali. Ciò spiega perché non vi fossero ancora sponsor, bensì mecenati, mentre le finalità commerciali risultavano quasi del tutto soverchiate da quelle paternalistiche. Per es. negli stadi, come quello di Roma in cui nel 1933 si giocò Italia-Inghilterra, le fotografie mostrano come ben più grande, e in proporzione enorme, rispetto alle poche scritte pubblicitarie, fra cui quella di Radio Marelli, figurasse la parola d'ordine del regime 'Comperate prodotti italiani'. Come ha scritto all'inizio degli anni Cinquanta Carlo Doglio, in uno dei primi contributi italiani alla sociologia dello sport, era il tempo in cui il fascismo chiedeva alle grandi famiglie, oppure ai capitani d'impresa che avevano fatto rapidissima fortuna all'ombra di un'industria protetta, di garantire il funzionamento della macchina consensuale sportiva. "Sono gli anni delle società appoggiate a gran ricchi, la Juventus per esempio, che non ebbe per molti anni da mutare né il presidente, l'avvocato Agnelli, figlio del fondatore della FIAT, né il vice presidente, barone Mazzonis, gran proprietario di tessiture" (Doglio 1952, p. 24), ma anche "di certi industriali che 'non possono dire di no' come il Dall'Ara chiamato dal federale a presiedere il Bologna una ventina d'anni fa, quando con i famosi maglioni norge aveva dato base alla sua industria di confezioni" (Doglio 1952, p. 26).
Il rapido, travolgente montare della passione per il calcio, d'altronde, e a riprova del tratto propagandistico e paternalistico che la teneva saldamente per mano, aveva riscontri pubblicitari modesti. Gli stadi già ospitavano pubblici quantitativamente elevati: impianti da 30-40.000 posti esistevano a Bologna, Torino, Bari, Roma, Firenze, e la famosa sfida Italia-Inghilterra giocata a Milano nel 1939 fu vista da 65.000 spettatori. Tuttavia i cartelloni pubblicitari erano pochi e collocati in alto, all'estremità delle tribune e gradinate. Ma se è forse superfluo ribadire che tale limitazione atteneva alla scarsa fruizione della pubblicità da stadio, essendo visibile solo al pubblico fisicamente presente, non lo è rilevare la comparsa, sempre più consistente, di inserzionisti che non avevano alcun interesse produttivo con lo sport, ma che in esso vedevano un importante e ancor più promettente veicolo pubblicitario e promozionale. Questi andavano intuitivamente scoprendo quel che più tardi sarebbe stato scientificamente dimostrato da una ricerca di Leo Lowenthal (1950), il quale, analizzando quattro campioni di annate di riviste popolari (1901-14, 1922-30, 1930-34, 1940-41), metteva in rilievo la sempre maggiore centralità assunta dagli eroi sportivi rispetto ad altri tipi di eroi (della politica, del business, dello spettacolo). L'utilizzo delle star sportive, anche in Italia, come testimonial delle più svariate merceologie, cominciava negli anni Trenta a non essere più episodico.
"Per i miei muscoli e per i dolori adopero la rinomata frizione Conti": parola di Peppino Meazza, che prestava il suo carisma di 'bomber', oltre che di seduttore, anche alla pasta dentifricia Diadermin. "Per mantenere il mio corpo in piena efficienza, nel periodo degli allenamenti e specialmente durante le corse a tappe, da tempo uso il Rim", garantiva Binda. "Con piacere vi attesto che l'orologio Rolex Oyster ha sempre funzionato ottimamente nonostante le prove a cui è stato sottoposto durante gli allenamenti e durante le corse", affermava Nuvolari. "La mia vittoria nel Giro d'Italia rappresenta anche la vittoria delle pastiglie Fostan da me costantemente usate e alle quali ascrivo il merito di avere sempre conservata inalterata la mia forma", assicurava Learco Guerra, testimonial anche di una campagna dall'intonazione già autarchica e che nel 1934 invitava a mangiare le banane italiane in quanto provenienti dalle colonie d'oltremare: "Preferite le banane somale, che sono frutta e cibo e per le loro percentuali altissime di zucchero aiutano il ripristino delle energie fisiche. Possono essere mangiate a qualunque ora e con una sola mano, quindi anche durante la corsa" (citazioni in I nostri cent'anni 1996, p. 43).
Sotto la dittatura fascista però i campioni furono anzitutto testimonial del regime, prima che persuasori pubblicitari, cassa di risonanza delle realizzazioni fasciste nel campo della scienza, della tecnica e del lavoro. A loro e ai numerosi trionfi sportivi (i Campionati del Mondo di calcio nel 1934 e 1938, il secondo posto nella classifica per nazioni alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932, i titoli mondiali di ciclismo di Binda nel 1930 e 1931 e di Guerra nel 1932, la corona mondiale dei pesi massimi di Primo Carnera nel 1933, la vittoria di Gino Bartali al Tour nel 1938; i primati aerei delle trasvolate atlantiche) era affidato il compito di annunciare al mondo la nascita di un uomo nuovo, indomito, battagliero, simbolo della ritrovata grandezza della razza latina. Tuttavia, la costruzione di questa macchina propagandistica era il prodotto di una situazione più generale, che vedeva ovunque emergere lo sport come fenomeno di massa, legato per un verso all'evoluzione dell'economia e dei modi di produzione e consumo propri della grande impresa, da cui anche il generalizzarsi delle attività di tempo libero; e per altro verso allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa.
Cinema, stampa e radio diventavano puntuali amplificatori degli spettacoli sportivi, e questi per effetto di narrazione diventavano epici, con ciò saldando e facendo ugualmente lievitare l'entusiasmo popolare per gli eroi atletici e, per il tramite delle cronache sportive, la diffusione dei giornali e della radio. Negli anni Trenta il quotidiano L'Auto, patrocinatore del Tour de France, sfiorava le 800.000 copie; in Italia, gli abbonati ai servizi radiofonici, che cominciarono ad andare regolarmente in onda nel 1927 e avevano nelle radiocronache sportive uno dei generi più seguiti, dai 40.000 di quell'anno passarono a 1.170.000 nel 1939. Nondimeno, se Olympia, girato da Leni Riefensthal alle Olimpiadi di Berlino del 1936, era il primo kolossal sportivo e il primo esempio delle possibilità tecnologiche di fissare in immagini sempre più minuziose e fedeli i gesti atletici, la radio era il mezzo che dimostrava le enormi potenzialità di sfruttamento pubblicitario degli spettacoli sportivi.
Lo sport-business era nato negli Stati Uniti, ma per generalizzarsi e diffondersi in tutto il mondo necessitava che finisse il confronto fra totalitarismi e democrazie e che il conflitto bellico potesse essere convincentemente sostituito, come misura delle rivalità e del prestigio delle nazioni, dalle competizioni sportive. Nel segno di una celebre massima, opportunamente rideclinata, del teorico militare Carl von Clausewitz (1780-1831): "lo sport è la prosecuzione della guerra con altri mezzi".
Nel dopoguerra, e segnatamente negli anni Cinquanta, lo sport iniziava a mostrare un volto nuovo, soprattutto nella piena affermazione di un sistema unificato su scala mondiale che, ben più delle ideologie e dei principi morali che lo solennizzavano come modello di pace e fratellanza universali, aveva come motore della sua crescita lo spettacolo e le sue componenti professionali e commerciali.
In verità già nel periodo bellico si erano manifestati i segni di un'evoluzione in essere. Fa testo, per es., il milione pagato nel 1942 dal presidente del Torino, Ferruccio Novo, al Venezia per due giocatori, Ezio Loik e Valentino Mazzola: un'operazione che costrinse il presidente della società cedente a esporre dal balcone l'assegno per placare la collera dei tifosi. Nel bel mezzo di una guerra tragica e sanguinosa come nessun'altra, il fatto, grottesco pur nella sua spasmodica voglia di evasione e normalità, era un anticipo delle follie economiche che sarebbero scoppiate pochi anni dopo il conflitto, in piena ricostruzione. I 107 milioni che il Napoli spese nel 1952 per acquistare il calciatore svedese Hasse Jeppson erano una cifra per l'epoca iperbolica, ma indicativa di una situazione che lasciava intravedere le ombre di una commercializzazione onnipresente, pronta a partire una volta che, fatte le prove tecniche di trasmissione, la televisione avesse trasformato gli spettacoli sportivi in mezzi di comunicazione planetaria, in avvenimenti ampiamente debordanti il luogo e il tempo del loro svolgimento: eventi mediatici, nell'accezione mediologica e sociologica oggi invalsa, a partire dal momento in cui andò in onda, per la prima volta, una competizone sportiva. Il debutto anche in questo caso avvenne mentre era in corso la Seconda guerra mondiale, il 29 settembre 1944, quando grazie al contributo di uno sponsor, la Gillette Safety Razor Co., il main event, cioè il match di boxe principale che si teneva tutti i venerdì sera al Madison Square Garden di New York, fu trasmesso dalla compagnia televisiva NBC (Signori 1987, p. 54).
La televisione è stata, ed è tuttora, un potente acceleratore dello show business, il medium che, a partire dagli anni Cinquanta, ha più influito sulle trasformazioni, pure tecniche, di quasi tutte le discipline sportive. Ciò all'interno di un processo che ha visto la TV mettersi anche al traino e sfruttare le grandi manifestazione sportive, sperimentando in occasione di queste nuove tecniche e strumenti di comunicazione e telecomunicazione. Non per caso le trasmissioni regolari della televisione italiana sono iniziate nel 1954 con i Mondiali di calcio in Svizzera e le trasmissioni via satellite, al pari delle 'dirette', hanno avuto nei Giochi olimpici la loro consacrazione. La relazione fra TV e sport è stata insomma virtuosa e incestuosa, aumentando enormemente il fascino e il richiamo spettacolari delle sfide da stadio ma nello stesso tempo impoverendone i gesti atletici; incrementandone cospicuamente il valore economico ma contestualmente riducendone i valori estetici ed etici alla sola dimensione della vittoria. Certo è che nel momento in cui l'occhio televisivo si è acceso sugli spettacoli sportivi il testo e il contesto, la scena e i protagonisti sono stati oggetto di profondi rivolgimenti, di vere e proprie metamorfosi. Quasi tutte nel segno pubblicitario del business.
Nell'Italia del dopoguerra, economicamente stremata e politicamente divisa, la bicicletta e lo sport ciclistico incarnarono esemplarmente bisogni e sogni, vita quotidiana e immaginario del paese. Se la prima infatti era un genere di prima necessità, allo stesso modo del pane e dei vestiti, mezzo di trasporto e di lavoro unico, perciò prezioso, come ben raccontato dal film di Vittorio De Sica Ladri di biciclette (1948), il secondo, soprattutto in occasione delle grandi corse a tappe e per il tramite dei grandi campioni, divenne il luogo privilegiato di scontro, ma anche di ricomposizone, delle passioni popolari che dividevano l'Italia. Una nazione contrapposta, senza o con rare possibilità di mediazioni, irriducibilmente schierata da una parte o dall'altra: con l'America o l'Unione Sovietica, con la Democrazia Cristiana o il Partito Comunista, con il capitale o i lavoratori. Il calcio, con i suoi tradizionali derby e le sfide campanilistiche, offriva puntuali occasioni per trasferire i contrasti politici e ideologici anche sui campi di gioco; ma erano il Giro e il Tour e ancor più la grande rivalità fra i due campioni, Fausto Coppi e Gino Bartali, ad accendere e a placare, a seconda degli esiti agonistici, l'antagonismo e il conflitto sociale. "W Coppi comunista, abbasso Bartali democristiano" stava scritto sui muri e sulle strade al passaggio del Giro, anche se le esortazioni dei tifosi sapevano essere ben più cruente: "Coppi accoppaci Bartali". Se è scontato ricordare il mitizzato episodio della vittoria di Bartali al Tour nel 1948 che riuscì, quasi per incanto, a dissolvere il clima di guerra civile incombente dopo l'attentato a Palmiro Togliatti, non lo è osservare come solo la pubblicità potesse in quegli anni mettere d'accordo, e seduti attorno a un tavolo di ristorante, i due campioni che ufficialmente facevano persino fatica a parlarsi. Un vero e proprio miracolo, reso possibile dal dado per brodo Arrigoni, nel filmato pubblicitario Un amichevole incontro tra due compagni, di A. Delli Colli e A. Giovannini che veniva proposto nelle sale cinematografiche.
La pubblicità d'altra parte, considerati il clima sociale e le passioni sportive prevalenti, riprendeva le consuetudini promozionali dell'anteguerra riversando nelle grandi corse cospicui e crescenti investimenti. La carovana del Giro toccò il suo massimo nel 1957, con una cinquantina di automezzi reclamizzanti prodotti e imprese industriali. Significativamente, scendevano in campo, come sponsor di squadre e di campioni, le marche che più propriamente simboleggiavano il nuovo corso economico e sociale caratterizzante il paese e che fragorosamente lo veniva trasformando, come indicava il nome che lo definiva: boom.
Il marchio Ignis, per es., produttore di elettrodomestici che figuravano come espressione di piena partecipazione alla nascente società dei consumi ed erano perciò considerati 'beni di cittadinanza' ‒ secondo l'espressione di Francesco Alberoni (1964) ‒, fu il primo e più pronto a scendere sulle strade lungo le quali cominciava a muoversi l'Italia del benessere. Ma anche i marchi di acque minerali e bibite, nuovi status symbol alimentari da casa e da bar, al pari degli aperitivi (S. Pellegrino, Carpano, Cora), erano sintonizzati con le attese di un paese che cominciava a desiderare con l'utilitaria anche le cucine 'all'americana' (Salvarani). Ignis era il marchio che più propriamente, ma anche estensivamente, nell'Italia del boom, intuiva e sfruttava il fascino pubblicitario dello sport. Diventò anche sponsor di incontri, di campioni mondiali, come il pugile Duilio Loi e il pistard Antonio Maspes, e di una squadra di pallacanestro, l'Ignis di Varese, appunto, che con la Simmenthal Milano diede vita, nel corso degli anni, a memorabili sfide cestistiche. Nel caso della Simmenthal Milano il nome dello sponsor divenne tout court quello della squadra. Fu forse il primo caso nazionale di 'cannibalismo pubblicitario', visto che lo sport finì con il 'mangiarsi' il prodotto: quando cessò il sodalizio ultradecennale, la motivazione dell'azienda fu che era venuto a mancare il ritorno pubblicitario, in quanto il pubblico nella Simmenthal non identificava più una carne in scatola, bensì una squadra di basket.
L'abbinamento del nome di un'azienda a quello di una squadra fu sperimentato anche nel calcio: nel 1953 il Lanerossi Vicenza, l'anno dopo il Talamone Torino, nel 1959 l'Ozo Mantova, la Simmenthal Monza, il Sarom Ravenna. Ma la Federazione in quello stesso anno vi pose fine, vietando ogni forma di abbinamento pubblicitario: era ancora troppo forte l'identificazione dei tifosi con i colori del club. Se ne sarebbe ritornati a parlare più di vent'anni dopo, quando la pubblicità diventò un luogo comune sportivo, oltre che il principale, e unanimemente riconosciuto, sostegno dello spettacolo professionistico.
Negli anni Cinquanta la televisione veniva ridisegnando la mappa delle preferenze sportive e ridefinendo la graduatoria delle discipline più popolari. Il calcio, per il carattere di squadra e un calendario nazionale e internazionale più lungo, più ricco di appuntamenti e scandito da una periodicità più breve e rinforzata da un interesse crescente per il Totocalcio, che prese il via nel 1948, divenne la principale risorsa sportiva della programmazione televisiva: una programmazione pronta e abile a sfruttare la passione e il tifo, dei quali i notiziari e le telecronache calcistiche erano i principali promotori. Gli stadi, nella loro organizzazione spaziale e funzione visuale, furono i primi a essere toccati e trasformati dalle nuove sinergie promozionali materializzate dalla TV. Per la prima volta, nel 1957, al Comunale di Torino, per iniziativa del suo concessionario pubblicitario, Vasito Bastino, i cartelloni pubblicitari furono spostati ai bordi del campo, per renderli visibili al pubblico dei cine e telegiornali; e nel 1959, in occasione di Italia-Inghilterra, lo stesso Bastino anticipò di nuovo tutti nel collocare la pubblicità nello stadio di Wembley (Minerva 1990).
Si deve aggiungere che la centralità sportiva e televisiva del calcio si manifestò e venne rapidamente rafforzandosi anche per effetto della singolare situazione organizzativa dello sport nazionale. Questo, infatti, a differenza di tutti gli altri paese europei, era affidato al Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), che non riceveva finanziamenti dallo Stato, ma li traeva dai proventi del concorso pronostici, cioè dal Totocalcio. Indirettamente, dunque, lo spettacolo calcistico contribuiva a finanziare e a fare funzionare tutte le altre discipline e l'intero movimento di base. Ma il calcio era anche lo spettacolo più visto dal vivo, quello che calamitando più pubblico faceva di gran lunga i maggiori incassi. Un aspetto fondamentale, che lo caratterizzava come vera, e prima, industria sportiva.
Tra il 1962 e il 1972 le cifre del consumo di spettacoli sportivi in Italia crebbero del 200%, ma i 4/5 della spesa complessiva erano attribuiti al calcio (SIAE 1981). La prima stima del fatturato della 'fabbrica del pallone' fu elaborata dalla Federcalcio nel 1971: circa 200 miliardi che facevano di questo sport la quindicesima grande industria italiana, dopo FIAT, Pirelli, Olivetti, fra gli altri, e prima di Snam, RAI, Zanussi (Calcio, 4 novembre 1971; Paese Sera, 22 dicembre 1971).
Nello stesso arco di tempo la crescita del consumo di spettacoli sportivi fu fortemente sostenuta dalla televisione, la quale agiva anche da fattore di incremento della stampa specializzata, che dalla maggiore visibilità delle competizioni e dei campioni, lungi dall'essere penalizzata, traeva ulteriori e in parte inedite occasioni di sviluppo e diffusione. Così, negli anni Settanta, l'Italia si guadagnò il primato di unico paese industriale e sviluppato nel quale esistevano quattro quotidiani sportivi. Ma tornando al rilievo precedente, tra il 1962 e il 1971 le ore di trasmissione dedicate allo sport "passano per il programma nazionale dall'8,6% all'11,9% e dal 14% al 15% sul secondo canale. Complessivamente sempre nel 1971 le ore di trasmissione di programmi dedicati allo sport sono state 4547, pari al 12,7% […]. Nel 1970 i programmi sportivi con la loro percentuale dell'11,6% si collocano al secondo posto dopo il telegiornale (13,1%)" (Cipriani 1976, p. 153).
In questa luce era logico che attorno agli spettacoli telesportivi nascessero e si coagulassero nuovi e crescenti interessi commerciali e pubblicitari. Ciò avvenne a partire dalle Olimpiadi di Roma del 1960: i primi 'giochi televisivi', perché per la prima volta vennero versati agli organizzatori i diritti TV. Questi sancirono ufficialmente che il futuro dello spettacolo sportivo sarebbe stato televisivo; i grandi ascolti, che i Giochi Olimpici realizzavano grazie anche agli sviluppi delle telecomunicazioni, risultavano infatti un'occasione troppo ghiotta per sponsor, non solo tecnici, e inserzionisti pubblicitari. Ripercorrendo il corso del tempo sino all'ultima edizione di Sydney 2000, è facile rilevare come i diritti TV, al pari dei telespettatori e degli introiti da sponsor, pubblicità e merchandising, siano costantemente e clamorosamente cresciuti. Per fare alcuni esempi, da 1,8 milioni di dollari per i diritti di Roma si è passati ai 12,5 di Monaco 1972 e ai 407,1 di Seul 1988 (Cypel 1988); dai 600 milioni di telespettatori in occasione di Città del Messico 1968 ai circa 4 miliardi per la manifestazione inaugurale di Sydney 2000; dalle cifre nemmeno contabilizzate degli anni Sessanta ai 671,8 miliardi di lire per sponsorizzazioni, merchandising, licenze e accordi commerciali di Barcellona 1992 e ai 1081,8 di Atlanta 1996, passata alla storia come i 'giochi della Coca Cola' (Pivato 1994, p. 146).
Si può osservare anche che il peso percentuale complessivo delle entrate per diritti TV e sponsorizzazioni rispetto al totale delle spese olimpiche è stato del 59,8% a Barcellona e del 79,9% ad Atlanta. Un'identica evoluzione hanno avuto i Giochi olimpici invernali, i cui diritti televisivi sono passati dai 15,5 milioni di dollari di Lake Placid (Stati Uniti) del 1980 ai 375 di Nagano (Giappone) del 1998 (Libération, 23-24 gennaio 1998). Allo stesso modo dell'altro grande appuntamento sportivo planetario, i Campionati del Mondo di calcio, i cui proventi dalla pubblicità nell'edizione tedesca del 1974 rappresentarono il 23,8% delle entrate, mentre nell'ultima nippo-coreana gli sponsor hanno sostenuto il maggiore onere organizzativo.
Ovunque nei decenni Sessanta e Settanta, in Europa come negli Stati Uniti, lo sport televisivo acquistò una rilevante dimensione, per la sua capacità di incrementare gli ascolti e attirare investimenti pubblicitari. Si deve però anche dire che sino agli anni Ottanta, relativamente alla quantificazione sia degli investimenti pubblicitari sia dei ritorni dalla sponsorizzazione, hanno fatto testo un orientamento e un approccio abbastanza empirici. La misura dell'efficacia delle iniziative di sponsorizzazione veniva infatti computata ‒ e ancor oggi è sostanzialmente così ‒ sulla base dello spazio ottenuto dalle squadre o dai campioni sponsorizzati sui mass media e parametrato sulla base dell'investimento pubblicitario che sarebbe stato necessario per avere uno spazio equivalente. Inoltre, sul piano della spesa complessiva, anche nel momento in cui gli spot, le interruzioni pubblicitarie e telepromozioni inserite in programmi sportivi hanno cominciato ad avere una sicura evidenza, le cifre e i dati analitici hanno continuato a scarseggiare. Prova ne è il fatto che Il Sole 24 ore, nel 1981, di fronte al rilievo economico assunto dal mercato sportivo, dedicò al tema due ricchi inserti, il 9 e 10 ottobre. Perdipiù quell'anno la Juventus, caduto il divieto di apporre marchi sulle magliette dei calciatori, aveva firmato un accordo di sponsorizzazione con l'industria produttrice di elettrodomestici Ariston, memorabile anche per l'importo: un miliardo. Ma il dossier sul rapporto fra 'sport e industria' del giornale confindustriale era molto povero di numeri. Un limite peraltro apertamente riconosciuto: "Che lo sport e tutto ciò che gli ruota intorno rappresenti un fatto economico secondo in Italia a pochissime altre 'voci' è fuor di dubbio. Purtroppo la voce 'spesa sportiva' in Italia non è mai stata quantificabile. E non perché non lo sia in teoria, quanto perché in pratica nessuno ha avuto sinora la necessità di effettuare uno studio del genere. I dati noti sono pochissimi. Essi riguardano una cifra assai vicina ai 5000 miliardi di lire: ma certamente non è tutto" (Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 1981).
Sul piano più generale, in quegli anni era indubbio il manifestarsi di un forte interesse, da parte delle grandi imprese, per la sponsorizzazione. Era però la sponsorizzazione culturale, ben più di quella sportiva, che attraeva, in forza anche dell'imporsi prepotente del made in Italy, quale marchio della moda, del design, del prodotto artigianale di lusso, che veniva accreditato sul piano internazionale come un secondo rinascimento. Se faceva scuola e da battistrada il binomio cultura-tradizione, che vedeva in prima fila i marchi industriali storici, come FIAT e Olivetti, sponsor di grandi mostre, s'imponeva intanto all'attenzione pubblica, oltre che degli addetti ai lavori, l'approccio particolarmente innovativo alla sponsorizzazione sportiva di Benetton e Parmalat: due imprese di prima generazione che hanno trovato nello sport un mezzo decisivo sulla strada della loro internazionalizzazione.
Benetton, l'impresa trevigiana dell'abbigliamento giovane (ancora oggi sponsor in numerose discipline sportive: pallacanestro e rugby), oltre alla creazione di una scuderia di Formula 1 vincitrice di due titoli mondiali, nella seconda metà degli anni Ottanta, attraverso l'acquisizione di marchi sportivi, ha posto le premesse per la creazione di un polo, la Benetton Sportsystem, poi risultata fra i primi produttori mondiali (Benetton, Lee 1990; Mantle 1999). L'azienda di Collecchio (Parma) ha invece fatto della sponsorizzazione sportiva il perno delle sue politiche di marketing e comunicazione. A partire da una fortunata occasione, le world series di sci, negli anni del travolgente successo della 'valanga azzurra', Parmalat ha abilmente sfruttato la crescente attenzione dei mass media per i grandi eventi sportivi. È diventata infatti leader di mercato sponsorizzando lo sci, poi la Formula 1 e il calcio, ma anche campioni come Gustavo Thoeni, Niki Lauda, Clay Regazzoni e Nelson Piquet, utilizzati come testimonial del 'latte da campioni' nelle campagne pubblicitarie sui mezzi classici. La sintesi di questo matrimonio felicissimo, diventato un caso emblematico, sta nella corrispondenza fra investimenti sportivi e crescita aziendale, autorevolmente esposta da uno dei suoi artefici. Parmalat "dal 1975 al 1986, in dodici anni, ha speso in sponsorizzazioni una cifra record: 64 miliardi di lire […]. In molti sport ha vinto tutto quello che c'era da vincere, dando di sé l'immagine di un'azienda giovane, forte, dinamica, vincente. Ha generato notorietà, simpatia, credibilità, ma soprattutto vendite, fatturato, sviluppo. Dal 1975 al 1986, in soli dodici anni, è passata da un fatturato annuo di 46 miliardi di lire a 920, collocandosi fra le primissime aziende alimentari del nostro paese" (Barili 1987, p. 13).
Il decennio Ottanta rappresenta un ulteriore momento di svolta e di accelerazione nel rapporto fra sport e pubblicità, sponsor e squadre, commercializzazione dell'immagine dei campioni e diritti TV, marketing dei prodotti di largo consumo e merchandising sportivo. Alcuni dati qualitativi e quantitativi ne offrono un quadro d'insieme abbastanza indicativo, anche in senso tendenziale. In Europa, ma soprattutto in Italia, scendevano in campo le TV commerciali e quindi gli spot cominciavano a interrompere gli incontri sportivi, soprattutto quelli calcistici. Prese il via anche l'uso di far comparire il logo degli sponsor in apertura delle telecronache domenicali e dei più seguiti programmi televisivi: la Domenica sportiva nel 1985 e l'anno successivo Il processo del lunedì. D'altronde, dai 6 miliardi e mezzo di lire investiti nel corso del 1981 dalle aziende per la sponsorizzazione di società calcistiche si passò agli oltre 18 miliardi del 1988.
Nel 1981 i campioni cominciarono a mettersi in proprio per la gestione promo-pubblicitaria della propria immagine: sulla strada che anni prima aveva aperto Pelé si mise Michel Platini, costituendo l'agenzia '10 Platini OK Sport' e indossando anche i panni del conduttore della rubrica RAI, N.10 Platini, che andò in onda dal 1984 al 1986 sponsorizzata dagli orologi Zenith. Tuttavia gli esempi più eclatanti continuavano a venire dagli Stati Uniti, dove per es. l'asso della pallacanestro Michael Jordan traeva più della metà dei suoi guadagni multimiliardari da sponsor e contratti pubblicitari. Sempre negli Stati Uniti, per evocare altre due rilevanti modificazioni intervenute sulla struttura economica dello sport, le entrate televisive e pubblicitarie erano ormai ampiamente più cospicue di quelle garantite dal pubblico pagante, con la conseguente subordinazione delle necessità tecniche e agonistiche a quelle della programmazione TV; e questa era a sua volta legata agli imperativi di aumentare la spettacolarità delle esibizioni in funzione delle audience e degli interessi di sponsor e inserzionisti.
A questo riguardo risultano puntuali le riflessioni di Benjamin G. Rader (1984) che, ricostruendo la storia del rapporto fra sport e TV, notava come il football americano avesse rivoluzionato le regole di gioco nel 1978 per venire incontro alle richieste dei network, ormai imprescindibili, dopo che l'anno precedente le entrate per diritti televisivi avevano superato quelle dei biglietti per l'accesso agli stadi. Ma il sistema risultò in seguito ancora più condizionato dalla pubblicità, visto che la spesa degli inserzionisti pubblicitari riferita alle trasmissioni sportive fu nel 1988 di circa 2,5 miliardi (Capodacqua 1988) e che la Lega professionistica di football per il triennio 1989-91 firmò un contratto con le principali reti televisive statunitensi di 1,43 miliardi di dollari. D'altra parte, non esiste spettacolo atletico che assorba meglio le pause pubblicitarie, per le caratteristiche intrinseche di una disciplina che prevede molte interruzioni di gioco e perciò consente una pianificazione commerciale del tutto particolare, grazie anche al fatto "che un funzionario della televisione è sempre presente sul campo dove si giocano gli incontri di football professionistico per segnalare agli addetti quando chiedere l'inserimento della pubblicità e quando riprendere il gioco" (Mandell 1984, trad. it., p. 217). Le straordinarie sintonie pubblicitarie del football americano sono sottolineate dalla consuetudine per cui ogni anno il Super Bowl che si gioca sul campo ‒ e che per l'edizione del 2001 ha avuto 144 milioni di telespettatori, quasi il 75% dell'audience totale ‒ ha un Super Bowl parallelo disputato dagli inserzionisti dei break e sanzionato dai lettori del quotidiano USA today che votano gli spot più graditi (per es. dal 1994 al 1998 il Super Bowl degli spot pubblicitari è stato vinto dalla Pepsi Cola).
Tornando al decennio Ottanta, numerose altre sono state le manifestazioni emblematiche e in certi casi clamorose che lo hanno segnato e accompagnato. Anzitutto l'ingresso massiccio, come sponsor degli eventi più mediatizzati, dei gruppi multinazionali: marche di sigarette e alcolici (per es. Philip Morris e Pernod-Richard) che hanno trovato nella Formula 1 la possibilità di fare pubblicità a prodotti in qualsiasi altro luogo vietata; compagnie petrolifere (da Shell ad Agip) che oltre agli interessi motoristici istituzionali hanno potuto perseguire politiche di 'buona immagine'; aziende globali come Coca Cola e IBM che, attraverso il sostegno allo sport, hanno inteso emendarsi dalle accuse di imperialismo. Sempre nel segno dello sponsor, in Italia partì nel 1983 l'operazione Azzurra, la barca a vela armata da un consorzio di imprese nazionali che partecipò all'America's Cup: nucleo iniziale di un progetto velistico sempre più ambizioso e costoso, come avrebbero dimostrato le vicende successive del Moro di Venezia nel 1992 e di Luna Rossa nel 1999 e nel 2002, tenute rispettivamente a battesimo e interamente finanziate da Montedison e da Prada. Nel 1985 l'esempio di Azzurra fu seguito anche dagli azzurri del calcio: otto sponsor che per 6 miliardi di lire all'anno e sino al 1988 potevano sfruttare l'immagine della nazionale per iniziative commerciali. Pure in questo caso le cifre salirono rapidamente, mentre alla sponsorizzazione collettiva subentrò quella in esclusiva: l'azienda petrolifera IP divenne sponsor unico degli azzurri a Italia 1990, il Mondiale che registrò un'ulteriore svolta commerciale, rilevata anche dalla grande visibilità dei marchi delle aziende che lo sostenevano (fra esse Canon, Philips, Gillette, Alfa Romeo) e di quelle fornitrici ufficiali delle divise nazionali (Adidas, Diadora e Puma). Di nuovo la crescita degli introiti da pubblicità e sponsor (circa 200 miliardi di lire) era contestuale a quella dei diritti TV (passati dagli oltre 47 miliardi di lire di Messico 1986 ai quasi 80 del Campionato del Mondo italiano), a loro volta correlati con l'inedita e imponente copertura televisiva che caratterizzò Italia 1990 (Minerva 1990).
Ma ancora, del decennio Ottanta, va ricordato come nell'immaginario popolare e sportivo cominciasse a emergere un'icona planetaria: Nike, un logo che nel 1971 fu pagato al suo creatore 36 dollari, ma che nel 2000 valeva 7,6 miliardi di dollari (Italia Oggi, 28 luglio 2001). Questo conferma una crescita trionfale, propiziata anche dall'uso innovativo del linguaggio pubblicitario e dei testimonial: grandi campioni come Michael Jordan, Ronaldo, Eric Cantona, Paolo Maldini messi a servizio di una narrazione spettacolare, efficace, creativa. Una escalation soprattutto puntuale nell'incrociare le sensibilità individuali e collettive diventate flagranti nel decennio scorso e scaturenti dalla sportivizzazione della vita quotidiana, dalla normalizzazione dell'abbigliamento e del cibo 'da campioni' (per es. Gatorade), dalla diffusione di marchi sportivi storici (per es. Lacoste) trasformati in griffe della moda tout court. Ciò all'interno di una società nella quale competere, vincere e stabilire record diventavano valori sociali sempre più agenti, imperativi validi per qualsiasi persona e impresa, quanto più procedeva la trasformazione dei campi di gara in teatro quotidiano. Così situazioni e immagini sportive cominciarono a trasformarsi in moneta pubblicitaria spendibile in ogni ambito merceologico, secondo dinamiche e processi che hanno visto e vedono crescere enormemente l'attrazione della pubblicità palestrata e in forma.
Nel contempo, a livello di imprese, di formazione del personale e di politica delle risorse umane, lo spirito di squadra, l'addestramento e l'allenatore (anche personale, secondo l'ultimo grido della formazione del manager di successo) sono diventati strumenti e modelli d'azione per il business vincente (Triani 2002). Il fenomeno ha raggiunto livelli tali da indurre un allenatore con fama di intellettuale, come Julio Velasco, a salire in cattedra di master in marketing e strategie aziendali, o un tecnico con caratteristiche più popolari e meno cerebrali, come il commissario tecnico della nazionale di calcio Giovanni Trapattoni, a indossare i panni del testimonial prima delle lavatrici Zerowatt e poi dell'integratore anti-colesterolo Mister Fish. Ciò in un quadro pubblicitario che ha visto progressivamente venire meno tabù e certezze. Valgano come esempi specifici l'utilizzo 'sacrilego' di un'icona popolare, come il gol di Marco Tardelli al Mundial spagnolo del 1982, messa a servizio prima delle videocassette TDK e poi del prodotto dietetico Kalo, e lo sconvolgimento del classico binomio donne e motori, a opera di Roberto Baggio: testimonial di IP, all'indomani del grande successo ai Mondiali USA 1994, il calciatore ebbe più successo delle star e teledive che lo avevano preceduto, Francesca Dellera, Alba Parietti e Valeria Marini.
Olimpiadi e campionati mondiali, campionati nazionali e coppe europee (soprattutto di calcio), riscontrati da ascolti televisivi crescenti, sono stati potenti acceleratori della crescita degli investimenti pubblicitari sui media-sport e dell'utilizzo promozionale di immagini e personaggi sportivi. La sponsorizzazione della società di telecomunicazioni Tim del campionato di serie A calcistico è l'esempio nazionale più immediato, e più sostanzioso sotto l'aspetto economico.
Viceversa, è meno facile enumerare i tanti annunci che da anni ormai insistono su soggetti e oggetti sportivi, però con esiti creativi tanto più modesti quanto più lo sport figura come un espediente retorico a servizio di luoghi comuni (il calcio che affratella dei biscotti Ringo o la razionalità e lo spirito di squadra del basket su cui fa leva IBM); e con ancor più dubbia efficacia promozionale e sicuro spreco di risorse economiche, quando sponsor e inserzionisti scommettono troppo sulle squadre e i campioni accreditati, dimenticando che l'imprevedibilità degli esiti agonistici è sempre molto alta. È risultato esemplare in questo senso il fallimento della nazionale italiana agli ultimi Mondiali di calcio Corea-Giappone 2002, con sponsor e fornitori ufficiali che, di fronte all'inaspettata uscita dalla competizione degli azzurri, hanno ritirato campagne e spot in corso d'opera, avendo ritorni inferiori del 60% rispetto alle aspettative e agli investimenti fatti; mentre la RAI, per il calo d'ascolti, ha dovuto restituire agli inserzionisti, come controvalore in spazi pubblicitari, 7 milioni d'euro (Italia Oggi, 18 giugno 2002).
Resta tuttavia straordinaria la crescita che nel decennio Novanta hanno registrato la pubblicità e lo sport, intesi come settori e mercati autonomi. La prima ha avuto infatti incrementi tali da indurre analisti, addetti ai lavori e inserzionisti a parlare di "una stagione ancora più felice del 'periodo d'oro' attraversato nella seconda metà degli anni Ottanta" (UPA 2002, p. 12). Il mercato della comunicazione (mezzi classici e nuovi, più promozioni) dai 11.872 milioni di euro del 1997 è passato ai 16.003 milioni del 2000. Questi risultati sono stati resi possibili dall'allargamento dell'area e dei mezzi classici (stampa, affissioni, radio e TV) con l'avvento dei new media, ma soprattutto da promozioni, media events e sponsorizzazioni, all'interno dei quali lo sport ha giocato un ruolo decisivo. Dato, questo, rilevabile dal valore delle sponsorizzazioni che dal 1990 al 2000 hanno avuto un incremento del 224% (Vulpis 2002). Strepitoso, anche in relazione alla modestia (relativa) della situazione di partenza. Il mercato mondiale e globale delle sponsorship valeva infatti 8556 milioni di euro nel 1990, dieci anni dopo cresciuti a 27.761. Come già accennato, lo sport, rispetto alle sponsorizzazioni culturali e sociali, vale il 60% dell'importo globale. Più o meno la stessa percentuale riferibile al mercato nazionale, dove le sponsorizzazioni sportive nel 2000 hanno fatturato 1058 milioni di euro, rispetto ai 1604 dell'intero comparto. Anche in Italia il confronto con il 1990 evidenzia una crescita dell'ordine del 200%, visto che la spesa degli sponsor in eventi sportivi quell'anno fu di 561 milioni di euro.
Prima di una valutazione quantitativa e qualitativa più analitica, sia pure per larghe trame, si deve considerare che il ruolo e il peso preponderanti assunti negli ultimi dieci anni dalla pubblicità nel mondo dello sport non sono stati semplicemente un effetto mediatico, ma anche un processo segnato dall'occupazione fisica, ormai totale, della scena e dei protagonisti che in essa si muovono. Se la pubblicità è infatti sempre più mobile, anzi e-mobile, per effetto della diffusione di massa dei nuovi media interattivi, il movimento promo-pubblicitario trova la sua più spinta traduzione, perfetta anche sotto l'aspetto simbolico, negli stadi e nei grandi impianti per lo sport spettacolare. Grandi schermi amplificano e raddoppiano le immagini del gioco, opportunamente inframmezzate a spot e annunci commerciali, mentre i cartelloni, che sino a qualche anno fa erano fissi, ora si muovono, facendo ruotare i messaggi a intervalli regolari.
Gira la pubblicità, gira e non si ferma mai: stampata sulle maglie degli atleti, sulle tute, sui caschi e i bolidi dei piloti della Formula 1 e del Motomondiale. Dopo il 'sopra' anche il 'sotto' dei campioni di calcio, e perfino il corpo nudo di velocisti e pugili, sono ormai guadagnati alla causa pubblicitaria. Le canottiere marchiate e da mostrare alzandosi la maglietta sul petto o togliendosela, per festeggiare un gol, fanno il paio con il marchio dello sponsor tatuato sul corpo inaugurato in occasione delle Olimpiadi di Atlanta nel 1996, quando prima Puma e poi Nike sono comparse sui bicipiti e sulle chiome degli sprinter statunitensi. Una moda, questa, accolta dal campione mondiale di boxe, l'italiano Vincenzo Cantatore, che si è fatto tatuare sulle spalle la cifra 3570, il numero di telefono dei taxi di Roma.
Tante altre, ancora, sono le strade e i luoghi sportivi che la pubblicità percorre e raggiunge, con attitudine che interessa non solo gli atleti di alto livello, ma anche i praticanti e gli amatori. I 'momenti di gloria' dei campioni così come degli agonisti della domenica sono ora invariabilmente segnalati e accompagnati da marchi commerciali, da consigli per gli acquisti, prodotti offerti dagli sponsor. Ma non potrebbe essere diversamente, considerato che la pubblicità è ormai una presenza che scandisce ogni momento della quotidianità, invasiva e pervasiva delle nostre esistenze. Al punto che la convinzione che essa, ci piaccia o meno, e in molti casi ci disturbi, sia 'parte della nostra esistenza' è da quasi un ventennio condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani. È ormai conclamata, in Italia come negli altri paesi europei, la situazione autorevolmente riassunta attorno alla metà degli anni Novanta da Business Week (1° luglio 1996): "Il pubblico dei consumatori è praticamente sepolto vivo dalla pubblicità".
Questa constatazione sintetizza anche i fattori principali che ci riportano ai dati precedenti sul successo delle sponsorizzazioni sportive, confermati dal crescente favore del pubblico verso gli sponsor, pure in termini di preferenze nelle scelte d'acquisto. In primo luogo, appunto, l'overdose pubblicitaria che offre, attraverso lo sport, un canale e modalità di comunicazione originali e personalizzate. In secondo luogo, l'esigenza del marketing delle grandi imprese di individuare universi valoriali forti, emozionanti, coinvolgenti. In terzo luogo, le sinergie fra il medium sport e i media di comunicazione, che nel caso delle Olimpiadi e dei Campionati del Mondo delle principali discipline, ma soprattutto del calcio, offre agli sponsor ritorni di immagine e notorietà di marca (brand awareness) che su scala planetaria non hanno pari. Prova ne è che partecipano all'Olympic programme 11 grandi multinazionali (fra cui Coca Cola, Panasonic, Kodak, Visa) che versano ciascuna al CIO (Comité international olympique) 50 milioni di euro all'anno, per potere sfruttare commercialmente, su scala mondiale, la qualifica di sponsor ufficiale dei giochi. Per fare due esempi, il giro d'affari relativo alle sponsorship è stato di 575 milioni di euro nei Giochi di Sydney 2000, mentre l'ultimo (e primo per il continente asiatico) campionato mondiale di calcio ha toccato la cifra record di 800 milioni di euro, risultanti da 16 sponsor worldwide e 10 locali, fra i quali spiccano Coca Cola e Mastercard che hanno pagato alla FIFA (Fédération internationale de football association) una cifra oscillante fra i 20 e i 25 milioni di euro. Cifre stupefacenti, se si considera per es. che USA 1994 dagli sponsor ricavò 165 milioni di euro, secondo i dati di Vulpis (2002).
Ormai eccessivi, quando non esorbitanti, risultano i numeri di tutti gli avvenimenti sportivi che richiamano un pubblico internazionale. Per es. la Maratona di New York, non casualmente chiamata gold run, nell'ultima edizione ha avuto un giro d'affari stimato di 125 milioni di euro (dei quali 16 dagli sponsor), e gli Open di tennis USA di Flushing Meadows hanno registrato un giro d'affari di 450 milioni di euro, con lo sponsor principale, la banca d'affari JP Morgan Chase, che ha versato 35 milioni di euro. Non meno rilevanti sono i 100 milioni di euro per i nomi degli sponsor sulle maglie delle squadre della seria A calcistica italiana per la stagione 2002-03 (Italia Oggi, 13 settembre 2002), così come i 37 milioni di euro scommessi dagli sponsor sulle dieci 'stelle' annunciate dei Mondiali di Corea-Giappone 2002: con in testa Zinedine Zidane e David Beckham, più che uomini sandwich, veri e propri contenitori di pubblicità, visto che entrambi avevano sei sponsor per un valore stimato di 6,8 milioni di euro a testa, secondo i dati di France Football (giugno 2002) riportati su Italia Oggi (18 giugno 2002). Cominciano davvero ad apparire remoti i tempi, pure abbastanza recenti, dei primi atleti showmen che cominciarono a ricevere lauti ingaggi dai fabbricanti di materiale sportivo, figurando anche come testimonial pubblicitari delle più svariate marche, come Carl Lewis e Alberto Tomba.
Perché oggi, così fanno tutti. Non c'è campione e campionessa infatti ‒ da Michael Schumacher al golfista Tiger Woods, dalle sorelle tenniste Serena e Venus Williams alle pallavoliste e sciatrici azzurre ‒ che, in quanto volti-immagine dello sport e delle discipline in cui primeggiano, non diventino segni, messaggi e mezzi pubblicitari. Inevitabilmente, automaticamente, in una società e in un mondo in cui la misura del valore sportivo è prima d'ogni altra cosa una grandezza economica.
F. Alberoni, Consumi e società, Bologna, Il Mulino, 1964.
F. Ascani, Sponsor e sport, Milano, Rizzoli, 1984.
D. Barili, Parola di sponsor, Milano, Longanesi, 1987.
La battaglia degli spot miliardari dietro le quinte del Super Bowl, "Italia Oggi", 21 marzo 2001.
L. Benetton, A. Lee, Io e i miei fratelli, Milano, Sperling&Kupfer, 1990.
E. Capodacqua, I big del telecomando, "La Repubblica", 7 settembre 1988.
I. Cipriani, 600 ore di Rai-Tv per lo 'sportivo seduto', in Sport e società, Roma, Editori Riuniti, 1976.
B. Croce, Storia d'Europa nel secolo Decimonono, Bari, Laterza, 1932.
S. Cypel, L'or des J.O., "Le Monde", 17 settembre 1988.
C. Doglio, Lo sport in Italia, "Comunità", gennaio 1952.
G. Dorfles, Arte, pubblicità e industria in Marcello Dudovich, in Marcello Dudovich 1878-1962. I 100 bozzetti e manifesti per la Rinascente, Milano, Fabbri, 1985.
G.L. Falabrino, A dir le mie virtù. 100 anni di slogan pubblicitari, Milano, Vallardi, 1993.
Id., Effimera & bella. Storia della pubblicità italiana, Torino, Gutenberg, 2000.
S. Jacomuzzi, Gli sport, 3° vol., Torino, UTET, 1965.
C. Lombroso, Il ciclismo nel delitto, "Nuova Antologia", 1° marzo 1900.
L. Lowenthal, Biografie in riviste popolari [1950], in Comunicazioni e cultura di massa, a cura di M. Livolsi, Milano, Hoepli, 1969, pp. 331-49.
R.D. Mandell, Sport. A cultural history, New York, Columbia University Press, 1984 (trad. it. Storia culturale dello sport, Roma-Bari, Laterza, 1989).
J. Mantle, Benetton: the family, the business and the brand, London, Little, Brown and Company, 1999 (trad. it. Milano, Sperling&Kupfer, 1999).
D. Marchesini, L'Italia del Giro d'Italia, Bologna, Il Mulino, 1996; L. Minerva, Il pallone nella rete. Storia e numeri, vizi e virtù del calcio televisivo, Roma, Nuova ERI, 1990; I nostri cent'anni, Speciale "La Gazzetta dello Sport", 3 aprile 1996; M. Pendergrast, For God, country and Coca Cola. The unauthorized history of the great American soft drink and the company that makes it, New York, Scribner, 1993 (trad. it. La vera storia della Coca Cola, Casale Monferrato, Piemme, 19982); S. Pivato, L'era dello sport, Firenze, Giunti, 1994; B.G. Rader, In its own image. How television has changed sports, New York, Harper, 1984; SIAE (Società italiana autori ed editori), Lo spettacolo in Italia. Annuario statistico. Anno 1980, Roma, SIAE, 1981; G. Signori, Gli eroi del venerdì notte, in La conquista del primato, a cura di M. Melissano e G. Triani, Bologna, DSE, 1987; G. Triani, Sedotti e comprati. La pubblicità nella società della comunicazione, Milano, Eleuthera, 2002; UPA (Utenti pubblicità associati), Il futuro della pubblicità. Gli investimenti in comunicazione in Italia 1999-2002, Milano, UPA, 2002; G. Vigarello, Il Tour de France. Memoria, territorio, racconto, "Ludus&Loisir", 1992, 2; M. Vulpis, Sponsorizzazioni, +224% in 10 anni, "Italia Oggi", 2 ottobre 2002; C. Wrights Mills, The power élite, Oxford, Oxford University Press, 1956 (trad. it. Milano, Feltrinelli, 1959).