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PUBBLICITÀ

di Arturo Lancellotti - Enciclopedia Italiana (1935)
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PUBBLICITÀ (fr. publicité, réclame; sp. publicitad, reclamo; ted. Publizität, Reklame, Werbung; ingl. publicity, advertising)

Arturo Lancellotti

La pubblicità ha certamente origini assai antiche, come attestano, per es., i numerosi annunci scritti tramandatici, fra cui sono particolarmente noti e notevoli quelli di Pompei (v.).

Ma la forma di pubblicità più comune fu, nei tempi antichi, quella verbale, rappresentata da banditori ed araldi, di cui ancor oggi troviamo qualche avanzo nel Napoletano, in Sicilia e in Sardegna. Questi banditori pubblici si diffusero in Francia, dove nel Medioevo formarono una corporazione con statuti proprî. Durante i secoli XIII e XIV i commercianti non ebbero altro mezzo per raccomandare i loro prodotti. Solo nel sec. XVI essi presero a girovagare con le proprie mercanzie, divenendo i banditori di sé stessi, e, a poco a poco, la pubblicità verbale fu sostituita da quella dipinta sui muri, e quindi da quella stampata.

Ma prima di giungere al manifesto, essa si servì soltanto dei giornali e delle insegne. La pubblicità sui giornali ricevette il suo primo incremento con Théophraste Renaudot, che nel 1630 aprì nel centro di Parigi un ufficio il cui programma conteneva tutta l'essenza della pubblicità moderna. Il Renaudot fu il fondatore della Gazette, divenuta poi Gazette de France. Nel sesto numero di tale giornale troviamo il primo annuncio a pagamento, inserito da un medico. Un secolo dopo (13 maggio 1751) appare in Francia quello che doveva divenire il più celebre giornale di pubblicità commerciale: La Petite Affiche dell'abate J.-L. Aubert. Come si vede, il cammino è lento, e più lo diviene per le prevenzioni contro la pubblicità in genere. Si pensi che il Journal des Débats rifiutò per dieci anni di accogliere il più piccolo avviso a pagamento, e che soltanto nel 1799 aprì in dosi limitatissime le sue colonne alla pubblicità.

In Inghilterra lo sviluppo della pubblicità sui giornali procede quasi di pari passo con quello francese. Nel 1658 il Mercurius Politicus stampa il primo annuncio sul tè cinese. Fino al 1688 non si vedevano, però, sui giornali, più di tre o quattro annunci per volta. Solo nel secolo successivo apparve il General (poi Public) Advertiser, che poneva la pubblicità come base della sua esistenza. Però la tassa per le inserzioni crebbe a poco a poco in tal misura da strozzarne lo sviluppo, e solo nel 1833, quando la detta tassa venne soppressa, la pubblicità poté avere in Inghilterra quel meraviglioso incremento che oggi tutti conoscono.

Antiche quanto la pubblicità verbale e murale sono le insegne (v. insegna), mentre dovettero trascorrere molti anni prima che la pubblicità passasse dai giornali sui muri delle strade, sotto forma di manifesto d'arte. Le origini del cartellone illustrato risalgono, difatti, appena al 1830, quando si popolarizzarono i processi litografici. Il manifesto è un po' il quadro che tutti possono ammirare senza spendere un soldo; dieci, quindici manifesti tutti eguali, disposti a pochi centimetri l'uno dall'altro, sopra uno stesso piano, permetteranno al passante affaccendato di osservare, come in un caleidoscopio, ogni particolare. Egli finirà in genere col chiedersi di che si tratti. Quando si sarà fatta questa domanda, il resto verrà da sé e la battaglia pubblicitaria potrà dirsi vinta.

Il manifesto ha però sempre breve esistenza: destinato all'aria aperta, esso viene scolorito dal sole, bagnato dalla pioggia, strappato dal vento. Il suo continuo rinnovarsi corrisponde alla febbrilità della vita moderna.

Non si creda, però, che il manifesto sia nato vivo e sfolgorante come lo vediamo adesso. Il cartello murale nacque in bianco e nero, calligrafico, e fu piccolo di misura, quasi elementare e talora banale di concetto. Ma verso il 1836 appare la cromolitografia, e il manifesto si ravviva della nota del colore, detronizzando subito i suoi modesti predecessori. Furono, sul principio, due tinte soltanto: il rosso e l'azzurro. Poi i colori aumentarono, si perfezionò il processo di tiratura, e a poco a poco il manifesto pervenne, dal punto di vista tecnico, quasi all'altezza odierna. Ben pochi artisti, tuttavia, vi si dedicarono sul principio, poiché accadde del manifesto come della pubblicità sui giornali: per una curiosa prevenzione parve ai pittori che il dipingere manifesti fosse un abbassarsi verso una forma d'arte inferiore, e lo disdegnarono. Ma anche allora si ebbero, tuttavia, esempî isolati di bellissimi manifesti in Italia e fuori.

In Francia fu J. Chéret, se non proprio a creare, certamente a rinnovare ed elevare questa forma di pubblicità. E accanto a lui vedemmo P. Gavarni, J.-A. Grun, H. Daumier, A. Deveria, D. Raffet, J. Gigoux, J.-L. Forain, Th.-A. Steinlen, A. Willette, A. Mucha, per citare solo i maggiori. Negli Stati Uniti d'America W. H. Bradley, L. Rhead, W. Carqueville, A. K. Moe, Dudley-Hardy, J. Hassell, C. Aldin, F. Penfield ed altri artisti vi si dedicarono, mirando soprattutto alle dimensioni colossali e alla violenza dei colori. In Inghilterra G. Durand, Blag, W. Crane, Aubrey-Beardsley, F. Walker portarono in questa forma d'arte, che già degenerava nelle mani d'una schiera di mediocri, il soffio della loro genialità. Anche qui per lungo tempo regnò il processo dell'incisione in legno e della tiratura in nero, e solo dopo il 1881, quando giunse a Londra Ph. Barnum col suo circo e i suoi colossali manifesti a colori, gli artisti inglesi furono persuasi dell'efficacia della cromolitografia.

Si cominciò con l'acquistare qualche celebre quadro e riprodurlo, ed è noto che un grande fabbricante di saponi si servì di un dipinto di J. Millais, rappresentante un fanciullo che si diverte appunto a soffiare iridate bolle di sapone. Più tardi sorsero i pittori di manifesti a colori, rivoluzionando nel loro paese l'arte ancora bambina del cartello.

Nel Belgio il manifesto non ebbe dapprincipio una grande originalità, e quei pochi artisti che vi si dedicarono, come A. Rassenfosse, J. E. Berchmans, F. Duyck, A. Crespin, C. Meunier, V. Mignot, L. Dardenne, H. Evenepoel, non si può dire che lo sollevassero a grande altezza. In Olanda, nonostante il parere contrario di quasi tutti i critici d'arte, si ebbero buoni manifesti, firmati dai più noti artisti, come Th. van Hoytema, W. O. Nieuwenkamp, J. Toorop, H. W. Mesdag. Del pari la Danimarca non merita l'oblio nel quale fu lasciato il suo manifesto, perché essa ebbe in P. Fischer un disegnatore eccellente, e in R. Christiansen, in E. Henningsen, in A. Schmidt altri artisti valorosi. Meno si è distinta la Norvegia nell'arte del cartello, quantunque ne vanti uno veramente bello di O. Geelmuyden. La Svezia, invece, ha avuto una schiera di cartellonisti originali nelle trovate, gustosi nel disegno e nel colore, da R. Bergh a Gunnar, a G. von Wennerberg, ad A. Engstrom e a C. Larsson. Quanto ai cartelloni russi, essi ebbero un mediocre sviluppo a causa delle condizioni del paese e del poco gusto dei committenti; ma alcuni di essi non mancano d'una pittoresca attrattiva, per merito di artisti come S. S. Solomko e J. Porfirov.

La Germania cominciò con manifesti corretti, minuti, ma non molto felici nella creazione né nella colorazione, quantunque vi si dedicassero buoni artisti come T. T. Heine, F. Stück, O. Sattler, N. Gysis, L. Hohlwein. Più scarsi furono i manifesti dell'impero austro-ungarico, dovuti a G. Basch, a H. Hunger e soprattutto al grande caricaturista Schliessmann. Gli affissi spagnoli, destinati di solito alla pubblicità delle corride, hanno un carattere troppo popolare, con sovrabbondanza di particolari decorativi, ma raggiungono, tuttavia, un efficace realismo; sul principio non erano neppure firmati, poi se ne videro alcuni con firme illustri, quali quelle di S. Rusiñol, di R. Casas, di A. De Riqueré Inglada, di M. De Unceta.

In Italia i primi manifesti artistici apparvero nel 1902 e recarono i nomi di A. Sezanne, A. Hohenstein, G. M. Mataloni, D. Cambellotti. Poi la piccola schiera si infoltì con L. Cappiello, M. Dudovich, L. Metlicovitz, P. Nomellini, A. Villa, A. Terzi, A. Ferraguti, E. Lionne, E. Sacchetti, E. Dalbono, A. De Carolis, E. Malerba, A. Bompard, V. Grassi, R. Craffonara, F. Gamba, A. Mazza, D. Battaglini, R. Bernardi, F. Corbella, L. Ramo. Alcuni di questi artisti producevano manifesti classicheggianti, calligrafici, minuti, di piccolo formato in bianco e nero. Solo più tardi anche l'Italia ebbe il manifesto a colori, nel quale emersero e si affermarono alcuni di essi, come il Cappiello, l'Hohenstein, il Dudovich, il Metlicovitz, il Grassi, autori dei più bei cartelloni del loro tempo.

L'aver voluto cimentarsi nel manifesto senza possedere le qualità necessarie a crearlo, è stato un errore comune agli artisti di tutto il mondo; si può essere pittore sommo e cartellonista infimo, come si può essere pittore mediocre e cartellonista eccellente.

Il cartello murale è di difficile esecuzione per gli stessi specializzati, e lo provano le grandi differenze di valore che corrono tra l'uno e l'altro di essi. Alcuni usano servirsi di una ricca tavolozza: errore: la policromia finisce col distrarre l'attenzione del pubblico; tre o quattro colori che contrastino vivacemente tra loro debbono bastare. In Germania e in Francia vi sono cartellonisti che ne adoperano due o tre al massimo. Ma non basta, benché sia essenziale, risolvere la questione cromatica: occorre tenere ben presenti molte altre cose, dalla genialità della trovata alla chiarezza dell'idea, alla bella disposizione dei caratteri. Il pittore da cavalletto si rivolge a un pubblico limitato; il pittore di manifesto, invece, a tutti, alla folla che circola per le vie. Tutti debbono capirlo, vecchi, giovani e bambini, dotti e analfabeti. Ma vi è di più: non basta che un manifesto colpisca l'occhio; esso deve colpire anche la mente, far opera di persuasione, indurre all'acquisto. E tutto questo in pochi istanti, nel tempo cioè in cui esso resta sotto lo sguardo del passante frettoloso.

Circa una ventina d'anni or sono, fatte in ogni paese le necessarie epurazioni, tolti di mezzo quegli artisti, anche illustri, che erano negati a questo genere, il quale, come abbiamo visto, richiede specialissime qualità e attitudini, rimasero sul campo i veri cartellonisti, e poterono così sviluppare le loro qualità, dandoci le produzioni più felici. In questo gareggiarono Germania, Francia, Russia, Austria, Spagna e Italia. In Italia non è esagerato dire che rimasero sulla breccia il Cappiello (il quale s'è formato e vive in Francia), il Dudovich, A. Mauzan (il quale, viceversa, è un francese che s'è formato e vive in Italia) e pochi altri. Cappiello è tra i più vivaci ed eleganti. Possiede fantasia e senso del colore. Egli non si lambicca il cervello a trovare simboli astrusi, che non possono essere prontamente afferrati dalle moltitudini, ma crea cartelli dinnanzi ai quali il viandante è costretto a fermarsi. Il Mauzan giunse in Italia quando il manifesto era uscito, fortunatamente, dal primo periodo di classicismo e di freddezza. Il manifesto che si limitava ad evocare figure tratte dalla storia greco-romana, o anche da fatti mitologici, circondando il tutto da discutibili arabeschi, andava scomparendo per dar posto a gustose stilizzazioni di figure femminili; esso era, dunque, in pieno sviluppo. Dudovich, soprattutto, lo aveva condotto a un alto grado di nobiltà artistica. Ma Mauzan seppe dargli un'impronta propria, e, sdegnando ogni elemento calligrafico, sostituì alle figure muliebri massicci tipi di negri, o di pingui borghesi, ecc., che sul principio si staccavano da fondi neri, poi da fondi arancioni, disegnati con grande disinvoltura e dipinti con freschezza.

Da un decennio a questa parte, però, è avvenuta nel manifesto una radicale trasformazione. E quelli che parevano i pionieri del suo rinnovamento, Cappiello, Dudovich, Mauzan, sono apparsi, come oggi si dice, superati, da un lato per la diminuzione di una parte della clientela, dall'altro per il mutato gusto del tempo. Il manifesto del Novecento non ha nulla di comune con quello dell'Ottocento; quanto era preciso nel disegno e armonico nel colore il secondo, altrettanto il primo è volutamente deformato e stridente. Figure e lettere si riducono oggi a un'espressione quasi geometrica; siamo fra cubi, triangoli, parallelepipedi, diciture che spesso bisogna decifrare. Come si collocano nelle riviste di oggi le figure a taglio di pagina, coricate e intrecciate nelle più curiose maniere, così si fanno talvolta correre le scritte dei manifesti intorno intorno ai loro quattro lati. Ma, a parte gli eccessi di cattivo gusto, è evidente l'inadattabilità del vecchio manifesto al mutato spirito del tempo. Alcuni grandi cartellonisti di ieri resistono, perché vivono nel loro tempo e si evolvono col loro tempo. Tra i nuovi, e in particolare fra quelli che si dedicano con competenza al solo manifesto, possono menzionarsi P. Sinopico, il quale ha creato un tipo di cartellone lineare, pieno di movimento e di spirito, fondato su due o tre colori bene uniti; "Seneca", che dipinge cartelloni in cui dominano, morbidamente schematizzate, dolci figure di donne e di fanciulli; G. Latini, G. Rondini e pochissimi altri. Alcuni dipingono manifesti solo occasionalmente: da G. Chini a G. Guerrini, da G. Rosso a G. Cisari, da F. Dal Pozzo a F. Romano, da M. Nizzoli a G. Marussig, da A. Mori a E. Puppo. Le realizzazioni di qualche importanza sono comunque assai scarse, e la via è libera per le nuove competizioni di cui si sente vivamente il bisogno. All'estero si notano alcuni risultati maggiori: i nuovi cartellonisti cominciano, difatti, a formarsi in Germania, ove si fanno grandi passi con L. Hohlwein, con F. Klinger, O. Glaf, V. Zietara, W. Defflice, O. Arpke, O. Leonard, Wohlfeld; in Ungheria con G. Vegh, P. Tibor; in Russia col manifesto anonimo sovietico; in Inghilterra con M. Greifenhagen, W. Owen, ecc.; negli Stati Uniti con H. Fisher, N. Rockwell, F. Stanley, C. F. Underwood, Ch. E. Chambers, ecc.; in Francia, con Poulbot, A.-M. Cassandre, C. Lonpot, V. Carlu, P. Coolie, ecc.

Ma il manifesto non è la sola forma moderna di pubblicità. Non dimentichiamo l'immenso sviluppo che ha avuto la pubblicità sui giornali, dove essa s'è adeguata ai nuovi tempi. Occorre creare nell'animo del pubblico uno stato di "attesa", e ciò si ottiene insistendo con lo stesso consiglio. Con la ripetizione dell'annunzio viene esercitata una vera e propria suggestione sul lettore: suggestione che non agisce in genere direttamente, ma che apre all'impulso del lettore una "via di minor resistenza" per il momento in cui egli abbia bisogno del prodotto o del servizio annunziato.

Dominata in un primo tempo dall'empirismo e dall'improvvisazione spesso del tutto inadeguata, la pubblicità si è sviluppata infatti gradualmente in senso tecnico e scientifico, anche e soprattutto in seguito all'approfondimento sistematico delle leggi psicologiche e psicofisiologiche relative all'attenzione, alla rapidità di percezione e di comprensione, alla maggiore o minore ricettività degli organi di senso (specialmente la vista e l'udito) nell'individuo medio. Si sono così determinati una serie di principî fondamentali per ciò che riguarda, ad es., l'uso e la disposizione dei caratteri in un avviso tipografico, la distribuzione delle masse e dei colori in un manifesto, le linee di orientamento di un testo pubblicitario offerto in lettura, ecc. Sono sorti così dei veri e proprî "specialisti" della pubblicità, cui gli interessati si rivolgono per consulenza, onde conseguire, con gli avvisi relativi ai loro prodotti, il massimo rendimento possibile.

Ogni cosa offerta in vendita, anche la più nota, ha bisogno di pubblicità. Il vecchio adagio "A buon vino non occorre insegna" è oggi sfatato. La pubblicità non crea il valore delle merci; crea però la domanda e, se il valore esiste, genera la fiducia. Per gli Inglesi o per gli Americani è assioma che il successo di un'impresa è sempre proporzionato, restando uguali gli altri coefficienti, all'importanza della pubblicità che si è fatta prima per lanciarla e poi per sostenerla. Gli Americani giungono a diffidare della bontà di un prodotto o della solidità di una ditta allorché la pubblicità non li sorregge.

Il sapiente organizzatore di pubblicità illustra sempre í proprî avvisi con una figura. Ciò provoca o acuisce il desiderio nel pubblico. La pubblicità fatta a un nuovo tipo di penna stilografica conseguirà un effetto cento volte maggiore se sarà accompagnata dalla fotografia della penna stessa. La pubblicità di un'agenzia di viaggi dev'essere illustrata con vedute panoramiche dei luoghi che vengono proposti, in modo da far nascere nel pubblico il desiderio di visitarli. Non v'è attività umana che non possa servirsi con profitto della pubblicità.

Oltre a quelle accennate esistono altre molteplici forme di pubblicità, dalla circolare all'opuscolo, al catalogo mandati per posta sino alla pubblicità luminosa. Quella compiuta con i cosiddetti "uomini sandwich", recanti un cartello sul petto e uno sulle spalle per annunciare le cose più diverse, volge al tramonto, ed è un bene, perché offensiva per la dignità umana. Va ancora ricordata la pubblicità a mezzo di quei modernissimi strumenti di diffusione delle notizie che sono la radio e il cinematografo: in qualche caso si è usato persino l'aeroplano (lancio di manifestini dall'alto, tracciati di fumo bianco nel cielo).

Lo sviluppo della pubblicità nel mondo moderno si è compiuto di pari passo con quello della grande industria, che ha trovato e trova in essa il mezzo insostituibile ed efficacissimo per diffondere la conoscenza dei proprî prodotti in tutti gli strati della popolazione. Va dunque particolarmente sottolineata l'importanza economica della pubblicità, che riesce, nonché ad orientare, addirittura a creare la domanda di certe merci o di certi servizî, e a far sorgere la necessità di un prodotto laddove essa non era sentita. Il successo di alcune moderne industrie di fama mondiale si fonda per buona parte su una pubblicità sapientemente effettuata, cosicché le "voci" ad essa relative assurgono, in taluni bilanci di società industriali, a cifre che sembrano esorbitanti a chi non sappia valutare il rendimento di un tale impiego di capitali.

La pubblicità può farsi in tutti i modi, ma non dovrebbe offendere la morale, ingannando il pubblico con le lodi di articoli scadenti, non dovrebbe offendere l'estetica, deturpando il paesaggio o le vie, non dovrebbe offendere il buon senso esagerando in aggettivi e in trovate di spirito; altrimenti rischia di ottenere un risultato opposto a quello prefissosi, di allontanare cioè il pubblico invece di attiratlo. (V. tavv. LXXXVII-XCII e tavv. a colori).

Bibl.: A. Lancellotti, Storia aneddotica della réclame, Milano 1912; L. Ramo, L'arte in réclame, Milano 1917; E. Roggero, Come si riesce con la pubblicità, Milano 1920; H. Tipper, H. L. Hollingworth, G. B. Hotchiss e F. A. Parsons, Advertising, its principles and practice, 2ª ed., Londra 1921; W. D. Scott, Psychology of Advertising, Londra 1921; V. Pica, Attraverso gli albi e le cartelle, VII: I cartelloni illustrati in Francia, America, Inghilterra, ecc., Bergamo s. a.; P. Cavalli, La spada dell'America, Genova 1921; D. C. A. Hemet, Traité de publicité, voll. 2, Parigi 1923; K. Lauterer, Lehrbuch der Reklame, Vienna 1923: id., Die Reklame von Morgen, Zurigo 1929; P. V. Bradshaw, Art in Advertising, Londra 1925; E. McKnight Kauffer, The art of the poster, Londra 1925; S. R. Hall, Theory and practice of advertising, New York 1926; G. French, Twentieth Century Advertising, New York 1926; G. Russell, Advertisement Writing, Londra 1927; J. H. Picken, Advertising, voll. 10, New York 1927; A. Halbert, Praktische Reklame, Amburgo 1927; S. E. Hall e altri, Advertising handbook, New York s. a.; R. E. Ramsay, Effective direct advertising, 2ª ed., Londra 1928; R. Seyffert, Allgemeine Werbelehre, Stoccarda 1929; Rosenberg e Hartley, Art of advertising, New York 1930; H. W. Hess, Advertising: ist economics, philosophy and technique, Chicago 1931; K. M. Goode, Manual of modern advertising, New York 1932.

Vedi anche
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