PUBBLICO UFFICIALE
UFFICIALE Espressione propria della legislazione e della scienza del diritto penale, avente significato più comprensivo del termine "funzionario", proprio del diritto amministrativo. Pubblico ufficiale è la persona che esercita funzioni pubbliche, che la legge intende tutelare elevando a speciali figure di reato le azioni dirette a recar danno agl'interessi a cui le funzioni si riferiscono, sia che tali azioni siano commesse dalle stesse persone investite della funzione (peculato, concussione, abuso di autorità, violazione di segreti di ufficio, falso in atto pubblico), sia da estranei contro tali persone (violenza, oltraggio, ecc.).
Secondo il codice penale italiano del 1889, la categoria dei pubblici ufficiali si esauriva quasi completamente nelle persone investite di pubbliche funzioni in qualità di organi, ossia di funzionarî: l'art. 207 definiva, infatti, i pubblici ufficiali agli effetti della legge penale "coloro che esercitano una pubblica funzione al servizio dello stato, di una provincia, di un comune o di un istituto sottoposto alla tutela dello stato, ecc." e aggiungeva soltanto alcune categorie di persone equiparate, per gli stessi effetti, ai pubblici ufficiali, quali i giurati, gli arbitri, i periti e gl'interpreti. Questo sistema fu largamente discusso e criticato dalla dottrina, in quanto escludeva dalla categoria dei pubblici ufficiali la maggior parte di coloro che, pur non essendo funzionarî, esercitano, sia pure come privati, pubbliche funzioni: i concessionarî di pubblici servizî, i capitani di navi mercantili, gli amministratori giudiziarî, i professionisti legali e quelli sanitarî, per certe loro attività, e moltissimi altri. Se la funzione pubblica deve essere protetta in modo speciale dalla legge penale, tale protezione deve essere indipendente dalla qualità delle persone che l'esercitano e dal diverso rapporto in cui esse possono trovarsi con lo stato e con gli altri enti amministrativi. A questo difetto sostanziale del vecchio articolo altri se ne aggiungevano di ordine formale, che sarebbe superfluo considerare.
Il nuovo codice del 1930 contiene all'art. 357 una definizione molto più ampia e atta a proteggere la pubblica funzione da chiunque esercitata. La definizione consta di due parti: nella prima sono compresi "gli impiegati dello stato, o di un altro ente pubblico, che esercitano permanentemente o temporaneamente una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria". Si tratta, in questa prima parte, di coloro che hanno la doppia qualità di pubblici impiegati e di pubblici funzionarî, ossia dei funzionarî burocratici. L'accenno all'esercizio anche temporaneo di una pubblica funzione fa rientrare nella definizione anche quegli impiegati che, pur non essendo funzionarî, esercitano, transitoriamente e per qualunque titolo, una pubblica funzione. L'espressa menzione delle tre funzioni legislativa, amministrativa e giudiziaria, vale a escludere la limitazione, talora fatta dai penalisti, del concetto di pubblico ufficiale ai soli funzionarî dell'ordine amministrativo. La seconda parte dell'articolo dichiara pubblico ufficiale anche "ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria". Questa parte della definizione ha un'estensione amplissima, in quanto comprende tutti i funzionarî onorarî (compresi i membri del parlamento, che nei codici preced. enti erano tenuti distinti dai pubblici ufficiali) e tutti coloro che, senza essere funzionarî né burocratici né onorarî, in qualità quindi di privati, esercitano una pubblica funzione. In questa categoria rientrano indubbiamente i notari, per tutte le loro funzioni, gli avvocati, i procuratori, i sanitarî per le loro funzioni certificative, i capitani di navi per le loro funzioni di polizia, gli arbitri, in quanto esercitano funzioni giurisdizionali.
In tal modo, i voti della dottrina pubblicistica sono stati pienamente accolti e l'interesse pubblico avrà in avvenire la sua completa protezione. Dal punto di vista esegetico, però, è causa di non lievi difficoltà il criterio di identificazione della funzione pubblica, che il codice non determina, presupponendolo quale dato acquisito della scienza giuridica, e la cui determinazione risulta tanto più necessaria, in quanto lo stesso codice, accanto ai. pubblici ufficiali, considera gl'incaricati di pubblici servizî e definisce questi ultimi, al successivo art. 358, con formula analoga a quella usata per i primi con la sola sostituzione del pubblico servizio alla pubblica funzione. La distinzione di queste due figure è oggetto di studio e di discussione nella recente dottrina formatasi su questo punto dopo l'emanazione del nuovo codice. La questione non riguarda, evidentemente, l'attività legislativa né quella giurisdizionale, le quali rappresentano sempre ed esclusivamente l'esercizio di funzioni pubbliche; essa riguarda soltanto la funzione amministrativa, che può dar luogo all'esercizio così di funzioni come di servizî. Seguendo l'opinione che sembra preferibile, nonostante alcuni contrasti, pubblica funzione è qualunque attività nella quale lo stato; o chi per esso, esercita una potestà pubblica, ossia una potestà contenuta nella sovranità e nel potere d'impero. Perciò, la pubblica funzione dà sempre luogo ad atti giuridici di diritto pubblico, ad atti amministrativi, siano essi manifestazioni di volontà o di conoscenza, e alla loro esecuzione; laddove il pubblico servizio si risolve in attività meramente interna o prevalentemente tecnica o in attività contrattuale privata di prestazione. È ovvio rilevare che uno stesso soggetto, normalmente titolare di un pubblico servizio, può esercitare transitoriamente una pubblica funzione: ciò la legge prevede, oltreché, come già abbiamo detto, per i pubblici impiegati, anche per i privati investiti dell'esercizio di pubbliche attività.
Bibl.: G. Sabatini, Per il concetto di pubblico ufficiale, in Legge, 1905, p. 586; G. Pinto, Il pubblico ufficiale in riguardo e per gli effetti della legge penale, S. Maria Capua Vetere 1911; V. Manzini, Trattato di dir. penale, 2ª ed., Torino 1921, V, pp. 3-64; G. Zanobini, L'esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in V. E. Orlando, Trattato di dir. amm., II, iii, Milano 1920, pp. 18-23, 445-450; id., Pubblici ufficiali e incaricati di servizi pubblici nel nuovo codice penale, in Studi in onore di U. Conti, Città di Castello 1932; C. Girola, Funzione pubblica e servizio pubblico nel nuovo codice penale, in Riv. it. di dir. pen., 1932; G. Miele, Pubblica funzione e servizio pubblico, in Arch. giur., CX (1933); M. Gallo, Nozione del pubblico ufficiale, in Ann. di dir. e proc. pen., II-III (1933-34).
Corruzione di pubblico ufficiale e concussione.
Con i termini "corruzione" e "concussione" vengono indicate due specie di delitti contro la pubblica amministrazione, che il codice penale italiano del 1930 rispettivamente contempla negli articoli 318-22 e 317. Nota caratteristica e comune di questi delitti è la violazione del pubblico interesse al prestigio e al regolare funzionamento dell'amministrazione pubblica, alla correttezza e alla fedeltà del pubblico funzionario: interesse che non potrebbe dirsi adeguatamente tutelato se, congiuntamente alle opportune sanzioni disciplinari, l'ordinamento giuridico non utilizzasse la sanzione penale.
I delitti di corruzione e di concussione si differenziano per il fatto che, mentre del secondo soltanto il pubblico ufficiale può essere autore, soggetto attivo del primo è tanto il pubblico ufficiale (o la persona incaricata di pubblico servizio: art. 358 cod. pen.), quanto il privato (art. 321, 322). Perciò, mentre il delitto di corruzione è delitto comune, il delitto di concussione è delitto speciale. Il primo è delitto bilaterale, ma non il secondo.
a) Corruzione (crimen repetundarum; la cosiddetta baratteria). - Poiché anche il codice del 1930 considera delitto a sé stante il fatto del privato che induce o tenta indurre il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio a commettere il delitto di corruzione (articoli 321, 322), torna sempre giusta in ordine a questo delitto la tripartizione fissata da V. Manzini: "corruzione passiva impropria, corruzione passiva propria, corruzione attiva propria o impropria". La corruzione passiva impropria è quella dell'art. 318: il pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, ossia un atto relativo alla sua competenza funzionale, riceve per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa (retribuzione, dunque, non semplici offerte in omaggio o attestati di benevolenza), è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire 500 a 10.000. Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto di ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino a un anno e della multa fino a lire 3000. Se l'autore del fatto sia persona incaricata di un pubblico servizio, purché rivestente la qualità di pubblico impiegato, la pena è ridotta in misura non superiore a un terzo. E nulla conta che il colpevole (quando la retribuzione si riferisca all'atto d'ufficio già compiuto) abbia cessato dalla qualità di pubblico ufficiale o assimilato (v. art. 360). Con l'incriminazione dell'art. 318 la legge non tutela un interesse attinente al regolare funzionamento della pubblica amministrazione, ma un interesse morale di questa, che non può non venire scosso da un senso di diffidenza verso l'ufficio e di disistima nei funzionarî corruttibili. Il delitto di corruzione passiva propria ha invece, a differenza del primo, come giuridica oggettività, non tanto la tutela del decoro e del prestigio della pubblica amministrazione, quanto soprattutto la tutela dell'interesse pubblico al regolare e scrupoloso funzionamento della pubblica amministrazione contro la disonestà dell'infedele funzionario. Questa figura di delitto (che anche il codice penale del 1889 distingueva dalla precedente: articoli 171, 172) è contemplata dall'art. 319. Essa ricorre quando il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), per omettere o ritardare un atto del suo ufficio, o per fare un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, ovvero ne accetta la promessa, indifferente essendo che il corruttore abbia o non abbia raggiunto lo scopo, in quanto il delitto si consuma non già col non compimento dell'atto di ufficio o con il compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio, ma con il semplice fatto di accettare la promessa o di ricevere la retribuzione. La pena (reclusione da due a cinque anni e multa da lire 3000 a 20.000) è aumentata se dal fatto derivi il conferimento di pubblici impieghi, stipendî, pensioni, onorificenze. o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l'amministrazione a cui appartiene il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, oppure il favore o il danno di una parte in un processo civile penale o amministrativo. Quando, invece, dal fatto derivi una irrevocabile sentenza di condanna all'ergastolo o alla reclusione, sarà applicata la pena della reclusione da 6 a 20 anni e la multa non inferiore a lire 25.000; se ne derivi una sentenza di condanna alla pena di morte, si applicherà la pena dell'ergastolo. Si tratta di condizioni oggettive di maggior punibilità; non occorre, cioè, che questi gravi effetti del delitto siano voluti dal colpevole. Anche in tema di corruzione passiva propria la legge (art. 319 ult. capov.) prevede la retribuzione per l'atto compiuto, comminando la pena della reclusione da uno a tre anni e la multa da lire 1000 a 10.000. Tutte le pene di cui alla prima e all'ultima parte dell'art. 319 sono ridotte in misura non superiore a un terzo, se l'autore del delitto è, anziché pubblico ufficiale, persona incaricata di un pubblico servizio. Terza figura di corruzione è, come dicemmo, la corruzione attiva propria o impropria, che consiste nell'indurre il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio a compiere uno dei delitti sopra esaminati: "Le pene stabilite negli articoli 318 prima parte, 319 e 320 si applicano anche a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio il denaro o altra utilità". Così dispone l'art. 321. Come la legge punisce, per le suindicate ragioni, il funzionario avido e infedele, è giusto e opportuno che colpisca l'opera corruttrice dei terzi, come opera che concorre, con quella del funzionario, a minacciare il prestigio e il regolare funzionamento della pubblica amministrazione: "Niuna diversità - osserva la relaz. min., II, p. 131 - è stata ammessa per i due agenti criminosi circa la misura delle pene, in quanto il corruttore, ben consapevole della violazione dei doveri inerenti a pubbliche funzioni, è anzi l'origine prima e la causa, maggiormente forse responsabile, di tale violazione. L'identità delle pene rimane egualmente giustificata nel caso di corruzione impropria, rivestendo un carattere di eguale gravità il fatto di chi lascia supporre che adempia un dovere di ufficio per l'indebita remunerazione, e il fatto di chi fomenta e incoraggia la venalità del pubblico ufficiale". Poiché il fatto del co: ruttore non s'imputa a titolo di concorso (istigazione), ma come reato autonomo, non sembra giusta l'opinione che sostiene l'inammissibilità del conato; rimane in ogni modo opportuna la disposizione del codice (art. 322) che incrimina, come reato a sé stante, il conato (l'istigazione alla corruzione non accolta), ossia il fatto di chi offra o prometta al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio denaro o altra utilità, ove manchi l'accettazione, comminando minor pena nell'ipotesi dell'istigazione alla corruzione impropria (pena stabilita nella prima parte dell'art. 318 ridotta di un terzo), che nell'ipotesi dell'istigazione alla corruzione propria (pena stabilita nella prima parte dell'art. 319 ridotta di un terzo). Se l'offerta o la promessa del denaro o di altra utilità è fatta a un testimonio perito o interprete per indurlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri (falsa testimonianza, perizia o interpretazione), si passa al titolo specifico di subornazione, cioè al delitto previsto nell'articolo 377.
b) Concussione. - La nota differenziale fra la concussione e la corruzione è insieme formale e sostanziale. Formalmente la differenza è nel fatto che, mentre nel delitto di corruzione due sono i soggetti attivi necessarî, il pubblico ufficiale e il privato, nel delitto di concussione unico soggetto attivo è il pubblico ufficiale. Sostanzialmente, nota caratteristica della concussione è il mezzo di cui si serve il colpevole per realizzare i suoi illeciti fini: la violenza o l'inganno; sicché giustamente si parla (G. Maggiore) della concussione come di una particolare forma di estorsione (l'estorsione del pubblico ufficiale che abusa del suo ufficio - metu publicae potestatis). Il codice penale del 1889 contemplava in due distinti articoli il delitto di concussione; e precisamente all'art. 169 il delitto di concussione violenta, all'art. 170 il delitto di concussione fraudolenta. Le due ipotesi delittuose sono previste, nel codice del 1930 in un'unica disposizione (art. 317): "Il pubblico ufficiale, che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringe (obbliga con violenza o minaccia: concussione palese o esplicita) o induce (ingannando: concussione occulta o implicita) taluno a dare o a promettere indebitamente a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa non, inferiore a lire tremila", oltre (art. 314 cap. richiamato dal capov. dell'art. 317) l'interdizione dai pubblici uffici. Il delitto si consuma con la consegna o con la promessa al pubblico ufficiale o al terzo; in luogo della consumazione avremo tentativo punibile se il pubblico ufficiale inutilmente (cioè senza riuscire a ottenere né la consegna, né la promessa) abbia messo in opera i suoi mezzi violenti o fraudolenti. È, infine, da notare che quella forma di pseudo-concussione (detta concussione negativa) prevista nell'art. 170 cap. del codice penale del 1889, e consistente nella dolosa ricezione o nella dolosa ritenzione di ciò che indebitamente, per errore non provocato dal pubblico ufficiale, fu dato a quest'ultimo, è più esattamente considerata dal codice del 1930 come forma di peculato (peculato mediante profitto dell'errore altrui) e disciplinata nell'art. 316 (v. peculato).
Bibl.: V. Manzini, Trattato di diritto pen. it., 2ª ed., Torino 1921, V, pp. 98 e 111; C. Saltelli-E. Romano di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, IX, ii, Roma 1930, pp. 230-242; R. Sabatini, in Codice penale illustrato articolo per articolo, sotto la direzione di U. Conti, II, Milano 1933, pp. 285-318.
Oltraggio al pubblico ufficiale.
Le nozioni di "pubblico ufficiale", di "persona incaricata di un pubblico servizio" e di "persona esercente un servizio di pubblica necessità" si trovano negli articoli 357, 358, 359 cod. pen., e l'art. 360 dispone che "quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale, o di incaricato di un pubblico servizio, o di esercente un servizio di pubblica necessità (nel soggetto attivo o nel soggetto passivo) come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità (per qualsiasi motivo: collocamento a riposo, dimissioni, destituzione, ecc.) nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l'esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato".
Il delitto di "oltraggio", nelle sue diverse ipotesi, è previsto negli articoli 341, 342, 343, 344 del codice penale; e precisamente:
a) L'art. 341 prevede la figura tipica di "oltraggio a un pubblico ufficiale", punendo con la reclusione da 6 mesi a 2 anni chiunque con parole o con atti (offesa verbale o reale) offende l'onore (come sentimento della propria dignità morale, come somma di valori morali che l'uomo attribuisce a sé stesso) o il prestigio (particolare forma di decoro che attiene alla dignità e al rispetto da cui la pubblica funzione deve essere circondata) di un pubblico ufficiale, quando il fatto sia commesso, in presenza del pubblico ufficiale stesso (ossia nello stesso luogo dove egli si trova, in modo che possa direttamente percepire l'offesa), a causa o nell'esercizio delle sue funzioni (anche se non sta compiendo un atto specifico del suo ufficio). La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o disegno diretti al pubblico ufficiale e a causa delle sue funzioni. Il fatto ha da essere doloso, qui consistendo il dolo "nel compiere il fatto nella coscienza della sua attitudine offensiva e nell'intenzione di arrecare con esso un'offesa" (Relaz. min., II, 403); sì che mancherebbe il dolo del delitto di oltraggio, ove, ad es., l'offensore, trovandosi in compagnia di terzi, pronunciasse parole ingiuriose contro un pubblico ufficiale a causa delle sue funzioni, ignorando la presenza di lui (= diffamazione aggravata per la qualità del soggetto passivo: articoli 595 e 61 n. 10 cod. pen.). Il delitto di oltraggio è aggravato (pena della reclusione da 1 a 3 anni) se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato (es. attribuire al funzionario di essersi fatto corrompere in una determinata circostanza). La pena, infine (tanto quella prevista per l'ipotesi semplice del delitto di oltraggio, quanto quella relativa all'ipotesi aggravata), è aumentata fino a un terzo quando il fatto è commesso con minaccia o violenza (es. mediante percosse - se con lesione personale avremmo concorso materiale fra i due delitti), oppure quando l'offesa è recata in presenza di una o più persone, nel quale ultimo caso oltre l'onore inteso in senso soggettivo (come sentimento individuale della propria dignità morale), è offeso, nel pubblico ufficiale, l'onore in senso oggettivo (la reputazione). Il delitto di oltraggio sussiste anche se il fatto sia compiuto contro l'ex pubblico ufficiale a causa delle funzioni già da lui esercitate (art. 360). Non vi è delitto (art. 52) quando il fatto sia commesso per difendere un diritto dall'ingiusta offesa del pubblico ufficiale.
b) Se l'offesa è diretta contro un "magistrato (singolo o collegiale, appartenente alla giurisdizione ordinaria o a quella speciale) mentre siede in udienza", la pena è della reclusione da 1 a 4 anni. Questa particolare figura di oltraggio è prevista dall'art. 343 cod. pen., in considerazione della "particolare importanza ed elevatezza della funzione di giustizia, nel momento in cui si svolge così solenne e imponente estrinsecazione di una potestà sovrana dello Stato" (Relaz. min., II, 151). La legge parla di "magistrato" e non di "giudice"; rientrano nella previsione legislativa, dunque, anche gli ufficiali del pubblico ministero. L'offesa deve avvenire in cospetto al magistrato, ma non occorre che sia da lui percepita. La pena è della reclusione da due a cinque anni se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato. Le pene, infine (tanto nell'ipotesi semplice quanto in quella aggravata), sono aumentate fino a un terzo se il fatto è commesso con violenza o minaccia.
c) Dal delitto di oltraggio al pubblico ufficiale la legge distingue il delitto di "oltraggio a un pubblico impiegato (art. 344) che presti un pubblico servizio". In questo caso le pene comminate dall'art. 341 per il delitto di oltraggio al pubblico ufficiale (in tutte le sue ipotesi) si applicano ridotte di un terzo. Se l'incaricato di pubblico servizio, vittima dell'offesa, non sia nel contempo pubblico impiegato, si avrà reato di ingiuria o di diffamazione aggravato (art. 61, n. 10).
d) Speciale figura di oltraggio è quella del cosiddetto oltraggio corporativo, previsto nell'art. 342 del codice: "Chiunque offende l'onore o il prestigio di un corpo politico (ossia di un corpo cui sono attribuite funzioni politiche o di governo; es. consiglio dei ministri), amministrativo (es. corte dei conti e consiglio di stato nell'esercizio di funzioni amministrative, consiglio superiore dei lavori pubblici, della pubblica istruzione, ecc., commissione suprema per la difesa nazionale, ecc.) o giudiziario (collegio che esercita funzioni giurisdizionali ordinarie, speciali, permanenti, temporanee), o di una rappresentanza di esso (purché collegiale), o di una pubblica autorità costituita in collegio (es. consiglio dei professori negli esami di stato, commissioni esaminatrici di concorsi) al cospetto del corpo, della rappresentanza o del collegio, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno, diretti al corpo, alla rappresentanza o al collegio, a causa delle sue funzioni; mentre la reclusione è da 1 a 4 anni se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato. Le pene, in ognuna delle ipotesi, sono aumentate quando il fatto è commesso con violenza o minaccia, ovvero quando l'offesa è recata in presenza di una o più persone. L'offesa deve commettersi al cospetto del corpo, ecc., ma non occorre che il soggetto passivo la percepisca. Quando il fatto costituente offesa al corpo, ecc., si compia fuori degli estremi qui previsti (es. divulgazione di offese a danno di corpi collegiali, ecc.) si applica l'ultimo comma dell'art. 595 (diffamazione aggravata). Se il fatto assurge a vilipendio delle istituzioni costituzionali si applica l'art. 290. Per la procedibilità del reato di oltraggio corporativo non occorre più oggi quell'autorizzazione del corpo offeso, voluta, invece, dal codice penale del 1889.
Per violenza e minaccia a pubblico ufficiale, v. resistenza.
Bibl.: V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1921; C. Saltelli-E. Romano di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, Roma 1930, II, pp. 287-96; N. Levi, I delitti contro la pubblica amministrazione, Roma 1930; R. Sabatini, Codice penale ill. articolo per articolo, sotto la direzione di U. Conti, II, Milano 1934; G. Maggiore, Principii di diritto penale, II, Bologna 1934.