Tacito, Publio Cornelio
Storico latino, vissuto tra il 1° e il 2° sec. d.C. Non se ne conosce il luogo di nascita (forse la Gallia Narbonese), né l’origine familiare. Visse a lungo a Roma, dove nel 78 sposò la figlia di Giulio Agricola, il generale conquistatore della Britannia, che lo agevolò nella carriera politica. Fu pretore nell’88 e consul suffectus nel 97, quindi si dedicò interamente alla storiografia tranne per un periodo di proconsolato in Asia nel 112-13.
La sua prima opera fu il De vita Iulii Agricolae, biografia del suocero pubblicata nel 98, a cui fece seguito poco dopo il De origine et situ Germanorum; il Dialogus de oratoribus, la cui paternità è ora generalmente riconosciuta, dovrebbe essere databile al 101. Le Historiae avevano come oggetto il periodo compreso fra il 69 e il 96 e probabilmente erano già compiute nel 110 in 12 o 14 libri, di cui sopravvivono solo i primi quattro e parte del quinto; la composizione degli Annales, in 16 o 18 libri, occupò gli ultimi anni di vita dello storico, che con essi ritornava agli avvenimenti successivi alla morte di Augusto. Degli Annales si sono conservati i libri I-VI e XI-XVI.
Molto stimato dai contemporanei, T. fu pressoché dimenticato nel Medioevo (già Cassiodoro citando la Germania faceva riferimento al suo autore come quidam Cornelius). Le ragioni dell’oblio in cui cadde sono molteplici, ma è probabile che a suo sfavore giocasse soprattutto la difficoltà dello stile che ne impediva l’uso scolastico. L’età più buia sembra essere stata il periodo compreso fra il 550 e l’800 in cui T. non risulta mai citato; ricompare nel 9° sec. in Germania nell’area di Fulda, Corvey e Hersfeld, e a questa zona è infatti strettamente legata la tradizione manoscritta della sua opera. La Germania, l’Agricola e il Dialogus de oratoribus, poco noti prima del 15° sec., furono menzionati per la prima volta da Poggio Bracciolini che era venuto a conoscenza di un manoscritto contenente queste opere conservato nell’abbazia di Hersfeld. Questo codice, ora perduto, è strettamente legato al celebre Aesinas latinus, attuale Vittorio Emanuele 1631 della Biblioteca nazionale centrale di Roma, che, secondo l’opinione più accreditata, ne contiene alcuni fogli superstiti. I libri XI-XVI degli Annales e la parte superstite delle Historiae sono traditi dall’attuale Laurenziano 68.2, scritto a Montecassino nell’11° sec. e trasportato alla fine del 14° sec. a Firenze, dove fu utilizzato da Giovanni Boccaccio e ricopiato nella nuova scrittura umanistica. I libri I-VI degli Annales furono gli ultimi a tornare in circolazione: conservati in un codice scritto in Germania nell’850 circa, ora Laurenziano 68.1, rimasero sconosciuti nel monastero di Corvey in Sassonia fino a quando il manoscritto, nel 1508 circa, fu portato in Italia a Leone X, che affidò a Filippo Beroaldo il Giovane l’incarico di curare una nuova edizione degli Opera tacitiani comprendente i testi appena riscoperti. L’edizione romana del 1515 era stata preceduta da una stampa veneziana del 1471-1472, da una milanese del 1487 e da un’altra veneziana del 1497.
Le prime citazioni di T. da parte di M. si incontrano nel Principe: nel cap. xiii 26, a sostegno della necessità per un principe di disporre di armi proprie, viene riportata la sentenza tratta, non senza libertà e probabilmente a memoria, da Ann. XIII 19: quod nihil sit tam infirmum aut instabile quam fama potentiae non sua vi nixa («niente è tanto fragile e instabile quanto una fama di potenza non fondata su forze proprie»). Meno evidente è una reminiscenza di Hist. III 86, in cui T. critica Vitellio per aver ricercato le amicizie con le elargizioni di doni, in xvii 11: «perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano ma elle non si hanno».
Molto più massiccia è la presenza dello storico latino nei Discorsi, dove, come osserva Giorgio Inglese (2006, p. 108), T. appare soprattutto come repertorio di ‘sentenze’, mentre il suo uso come fonte si concentra soprattutto, coerentemente con il progetto storiografico dell’opera, in III vi, il capitolo Delle congiure. La prima citazione tacitiana nei Discorsi ricorre a I xxix 5 dove M. riporta Hist. IV 3: Proclivius est iniuriae quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu habetur («è più facile contraccambiare un’ingiuria che un beneficio, perché la gratitudine si considera un onere e la vendetta un guadagno»). Ma le Historiae sono anche alla base dell’esempio di ingratitudine di un principe proposto nello stesso capitolo (§§ 10-11): secondo M., Vespasiano, anziché premiare le decisive vittorie del generale Antonio Primo su Vitellio, gli tolse ogni grado e lo lasciò morire «quasi disperato». In realtà T. (Hist. II 86) presenta la vicenda in termini molto diversi: non fa cenno alla morte di Antonio, e anzi riferisce dei sospetti di slealtà che avevano accompagnato la condotta del generale. Mario Martelli (1998, p. 29) ha pertanto ipotizzato che il ricordo tacitiano sia stato alterato da M. a sostegno della propria tesi. Un’altra sentenza di T. è posta a conclusione del cap. xxvi del secondo libro (II xxvi 11): Nam facetiae asperae, quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt («infatti i motti pungenti, se hanno in sé troppa verità, lasciano un segno crudele»). La frase è tratta da Ann. XV 68 dove lo storico latino narra dell’odio nutrito da Nerone verso il console Vestino, che lo aveva fatto oggetto di aspre facezie: la citazione, probabilmente a memoria, presenta significative modifiche linguistiche rispetto all’originale, dove, oltre a multum in luogo del nimium machiavelliano, T. scriveva ubi laddove il Segretario fiorentino introduce un quando, con valore tra condizionale e temporale, molto più vicino al latino parlato. «Aurea» viene definita da M. la sentenza tratta da Hist. IV 8 e inserita in Discorsi III vi 6:
E veramente quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice che gli uomini hanno a onorare le cose passate e ubbidire alle presenti, e debbono desiderare i buoni prìncipi e, comunque ei si sieno fatti, tollerargli.
Nota Martelli (1998, pp. 123-25) che in realtà nel testo latino non c’è nulla che autorizzi a ritenere che l’intenzione di T. sia quella di fornire un precetto da seguire con costanza, ma anzi lo storico attribuisce la massima all’equivoco Marcello Eprio, noto per le sue delazioni e la piaggeria nei confronti dei potenti. Tutto ciò induce a pensare che M. attingesse a un florilegio di sentenze, avulse dal loro contesto; meno credibile è l’ipotesi che l’autore dei Discorsi forzasse deliberatamente il pensiero dello storico fino a fargli dire il contrario di ciò che egli in realtà affermava. Altro caso discusso, e per certi aspetti ancora più significativo del rapporto di M. con le sue fonti, è in III xix 6 dove, dopo aver affermato che nel comandare un esercito è preferibile «essere umano che superbo, pietoso che crudele» il Segretario aggiunge: «Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentano, in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait: “In multitudine regenda plus poena quam obsequium valet”». In realtà negli Annales (III 55) T. dice l’opposto: obsequium inde in principem et aemulandi amor validior quam poena ex legibus et metus («l’adulazione e l’imitazione sono più efficaci delle pene stabilite dalle leggi e dalla paura»). Considerando che, come si è detto, i primi sei libri degli Annales apparvero per la prima volta a stampa nel 1515, e che la citazione è talmente distorta rispetto al testo originale da escluderne una lettura diretta da parte di M., si è supposto che la sentenza fosse stata riferita all’autore dei Discorsi da persona a lui vicina, come il cardinale Francesco Soderini che ebbe modo di consultare il testo tacitiano ben prima della stampa. Questa ipotesi spiegherebbe il fraintendimento della fonte, forse giunta già distorta a M. o da lui annotata o ricordata scorrettamente, e costituirebbe un dato di grande interesse sul modo di lavorare del Segretario fiorentino, che evidentemente non ricontrollò il testo degli Annales dopo la pubblicazione del 1515. Anche nel caso di T., come di altri autori classici, si può quindi concludere che M. fece un uso piuttosto libero della sua fonte, citandola talvolta a memoria, talvolta di seconda mano, ricorrendo a florilegi di sentenze o a citazioni altrui.
Bibliografia: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2° vol., Roma 1911, pp. 312-14; K.C. Schellhase, Tacitus in the political thought of Machiavelli, «Il pensiero politico», 1971, 3, pp. 381-91; R.W. Ulery Jr, Cornelius Tacitus, in Catalogus translationum et commentariorum. Medieval and Renaissance latin translations and commentaries. Annotated lists and guides, 6° vol., ed. F.E. Cranz, Washington D.C. 1986, pp. 87-102; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 479-90; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Roma 1998; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006.