Terenzio Afro, Publio (Terrenzio)
È nominalmente ricordato da D. (in Pg XXII 97): Dimmi dov'è Terrenzio nostro antico, / Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai, domanda Stazio a Virgilio. E questi gli risponde: Costoro e Persio e io e altri assai / ... siam con quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai. La menzione del poeta (che è ricordato con altri autori, Cecilio Stazio, Plauto, Vario - ché a lui allude il Varro del testo - Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone, di cui D. conosceva poco o nulla) non permette d'inferire alcuna diretta nozione da parte di D. dell'opera del commediografo. Ma a questo spunto si è sovrapposto l'altro luogo dell'opera dantesca in cui è fatta espressa menzione del poeta, cioè il luogo dell'epistola a Cangrande (Ep XIII 29) in cui si legge: Comoedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comoediis. Questo, e il fatto che T. era fra gli autori letti e apprezzati nel Medioevo, ha indotto per lungo tempo la critica a indurre una diretta conoscenza di T. da parte di D. dal fatto che in If XVIII 127-135 nella bolgia degli adulatori è collocata, con riferimento esplicito alla prima scena del terzo atto dell'Eunuchus, Taide (la puttana che rispuose / al drudo suo quando disse " Ho io grazie / grandi apo te? ": " Anzi maravigliose! ").
Ma già i commentatori antichi, da Pietro a Benvenuto, avevano osservato che in quella scena dell'Eunuchus il dialogo si svolge fra l'amante di Taide, il soldato Trasone, e il ruffiano Gnatone e che è proprio costui - quando Trasone, avendo regalato a Taide una schiava, gli domanda: " Magnas vero agere gratias Thais mihi? " - a rispondere: " Ingentes " (vv. 391-392). La storia della chiosa di Pietro nelle sue diverse redazioni è alla base di tutto il problema, come risulta dall'attenta analisi di M. Barchiesi (Un tema classico e medievale. Gnatone e Taide, Padova 1963), che costituisce oggi il fondamento di ogni discussione. Già nel 1827, in una lettera all'amico Biondi, S. Betti annunziava di aver scoperto la causa dell'errore di D. in Cic. Amic. XXVI 98 (ma la citazione di Cicerone è già nella seconda redazione della chiosa di Pietro, quella del codice Laurenziano Ashburnhamiano 841) " ‛ Magnas vero agere gratias Thais mihi? ' satis erat respondere: ‛ Magnas '; ‛ Ingentes ' inquit. Semper auget adsentator id quod is, cuius ad voluntatem dicitur, vult esse magnum ". In Cv II XII 3 D. scrive: E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello (e già in I XII 3 ve n'è un'altra citazione). Sulla base di questa evidente testimonianza della lettura del De Amicitia da parte di D., era facile pensare che il poeta, leggendo il passo di Cicerone ove non vi è specifica indicazione degl'interlocutori (solo un generico accenno a " parasiti " e a " milites gloriosi "), abbia preso " Thais " per vocativo e quindi abbia interpretato " Ingentes " come una diretta risposta di Taide. D. quindi non avrebbe conosciuto direttamente l'Eunuchus, ma avrebbe derivato la battuta dal De Amicitia di Cicerone, per giunta male interpretato. Questa divenne l'opinione preminente della critica (fondamentale al riguardo E. Moore, e si veda E.G. Parodi e P. Chistoni, sostenente che D. non conobbe mai le opere di Terenzio e che la sua citazione discende in toto dal De Amicitia). Ma C. Beccaria cercò di salvare la diretta conoscenza dell'Eunuchus da parte di D., sostenendo che la sua allusione era al dialogo fra Trasone e Taide, nella scena successiva, in cui il soldato domanda: " O Thais mea, / meum savium, quid agitur? ecquid nos amas de fidicina istac? ", e Taide risponde: " Plurimum merito tuo " (vv. 455-458). Gli si rispose che l'allusione dantesca era troppo strettamente connessa alla scena fra Trasone e Gnatone (dalla quale Giovanni di Salisbury nel Policraticus avrebbe desunto a proposito dell'adulazione una vera e propria teoria dello ‛ gnatonismo ') perché si potesse ammettere uno scambio o una contaminazione di D. fra le due scene.
Ma successivamente, anche sulla base della solita chiosa di Pietro, che nella seconda e nella terza redazione cita il Policraticus, il Renucci e A. Pézard sostennero che la vera fonte di D. non era stato neppure Cicerone, ma il Policraticus di Giovanni di Salisbury; e il Pézard aggiunse che D. non aveva neppure capito che Taide era un personaggio di commedia, ma l'aveva confusa con la Taide storica, immaginando la scena al momento dell'incendio di Persepoli: tesi già affacciata da M. Scherillo. Il Barchiesi ha dimostrato in maniera forse definitiva l'insostenibilità della tesi del Pézard sotto entrambi i suoi aspetti, mostrando come s'imponga la derivazione di D. dal De Amicitia di Cicerone, e come proprio dal passo ciceroniano D. abbia erroneamente operato lo scambio fra Gnatone e Taide, che testimonierebbe che egli non ha letto direttamente il testo di Terenzio. Sul problema egli è ritornato in Arte del prologo e arte della transizione (in " Studi d. " XLIV [1967] 199-207), in cui - di fronte al tentativo di G. Padoan (Il ‛ Liber Esopi ' e due episodi dell'Inferno, ibid. XLI [1964] 75 ss.), di scovare un altro esclusivo antecedente medievale di D. - ha risposto che neanche il Liber Aesopi può detronizzare il De Amicitia, ma che a ogni modo " se Dante lesse quel testo, poté trarne notizia del vero essere di Taide: notizia che... gli era indispensabile, dato che (come pare) non conobbe direttamente Terenzio, mentre il passo del De amicitia non è abbastanza esplicito per fare intendere con sicurezza che si tratta di una cortigiana " (Taide è, la puttana).
E. Paratore ha ricordato che il Casini e anche il Mattalia (pur riconoscendo che l'allusione dantesca va alla prima scena del terzo atto dell'Eunuchus) ammettono la legittimità della tesi del Beccaria, e soprattutto ha obiettato al Barchiesi che egli sostiene in toto l'autenticità dell'epistola a Cangrande, da cui sarebbe legittimo dedurre una conoscenza di T. da parte di D., alla stessa maniera con cui molti studiosi, sulla base della medesima epistola, hanno voluto inferire che D. conoscesse Seneca tragico e hanno scovato reminiscenze del teatro senecano in D. (cfr. Seneca). A ciò ora si potrebbe aggiungere che la chiosa di Benvenuto riferita dallo stesso Barchiesi (p. 43) conserva nonostante tutto la sua validità: " Et hic nota, quod aliqui mirantur, imo calumniant dictum auctoris, hic dicentes, quod Thais non fecit istam responsionem Trassoni... Ad quod respondeo, quod istud est rixari de lana caprina... Nam si Thais retulit istas grates Gnatoni nuncio Trassonis, bene potuit dicere autor quod retulerit ipsi Trassoni, quia procurator et nuncius est tamquam pica et organum referens verba domini ". Alla luce di questa così ovvia e felice riflessione, si può anche escludere la necessità di far ricorso col Beccaria alla scena successiva o si può pensare che D. dalla conoscenza di quella seconda scena sia stato portato a valorizzare come effettiva risposta di Taide quella che Gnatone aveva data a nome suo. Il Medioevo, che pur leggeva tanto T., ci ha dato spesso prova di scarti, fraintendimenti e omissioni: la monacella Rosvita di Gandersheim, tanto per fare l'esempio più noto, pur dicendo di essersi ispirata a T. per costituire un teatro più cristiano che potesse sostituirlo, non ci ha offerto sostanzialmente alcuna traccia di riecheggiamenti di T., neanche nel Pafnutius. Così nel nostro caso lo scambio fra Gnatone e Taide, giustificato per giunta nei modi sopra illustrati, non può essere addotto a prova dell'ignoranza dantesca del testo di Terenzio. Quanto in fondo la ‛ scoperta ' del Betti sia più un ingannevole luccichio di filologica arguzia che non un risultato indiscutibile lo dimostra il già ricordato particolare che sulla base del luogo ciceroniano D. non poteva sapere che Taide era la puttana. E allora, anziché aggrapparsi come piano di sostegno al Liber Esopi come fanno il Padoan e il Barchiesi, perché non supporre che D. dalla lettura del De Amicitia sia stato indotto a volgersi a quella diretta di T., che era del resto autore molto diffuso ai suoi tempi, e dall'insistita situazione delle prime scene dell'atto terzo sia stato indotto ad attribuire direttamente a Taide la battuta che sostanzialmente partiva da lei? Si noti fra l'altro che l'infinito " agere " contenuto nella citazione ciceroniana doveva rendere più difficile far interpretare a D. " Thais " come un vocativo. Questo sia detto, naturalmente, senza alcuna idea di prendere netta posizione sul problema dell'autenticità dell'epistola a Cangrande.
Bibl. - C. Beccaria, D. e T., in " Il Borghini " II (1875-76) 324-326; E. Moore, Studies in D., I serie, Oxford 1896, 12, 261 ss.; M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di D., Torino 1896, 598; E.G. Parodi, in " Bull. " VIII (1900-1901) 283; P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco, Livorno 1903, 96; J.A. Russo, Did Dante know Terence?, in " Italica " XXIV [1947] 212-218; A. Pézard, Du Policraticus à la Divine Comédie, in " Romania " LXX (1948-49); P. Renucci, Une source de D., le Policraticus de Jean de Salisbury, Parigi 1951, 39 ss.; J.P. Bowden, An Analysis of Pietro Alighieri's Commentary, on the D.C., New York 1951; G. Brugnoli, Ut patet per Senecam in suis tragediis, in " Rivista Cult. Classica e Mediev. " V (1963) 146 ss.; L. Caretti, Il canto XVIII dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 585-611; E. Raimondi, Noterella dantesca (a proposito di Taide), in " Lettere Italiane " XVII (1965) 443 ss.; E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961; ID., Il canto XVIII dell'Inferno, in Nuove lett. II 137 ss.; E. Paratore, Biografia e poetica di Persio, Firenze 1968, 213-214; R. Mercuri, T. nostro antico, in " Cultura Neolatina " XXIX (1969) 84-116.