Virgilio Marone, Publio
Il poeta latino è il massimo auctor della cultura e della formazione letteraria di D., e uno dei maggiori protagonisti della Commedia, figura dunque centrale di tutto il mondo dantesco.
1. La tradizione medievale e il problema della ‛ magia ' virgiliana. - Per gl'influssi letterari, per le sollecitazioni di cultura, per gli ammaestramenti etico-religiosi, per la funzione simbolica riassuntiva dell'intera classicità e introduttrice all'evo cristiano, V. agisce nella coscienza dantesca in una misura tale che il senso di questa sua presenza è elemento insostituibile nella ricerca delle profonde ragioni che presiedono all'opera del nostro maggior poeta.
A ricostruire gli esatti termini del rapporto D.-V. gioverà preliminarmente esaminare la posizione dantesca nei confronti della leggenda virgiliana accolta e diffusa nel Medioevo.
Lo studioso è soccorso in questa sua esigenza da un'imponente messe d'indagini e contributi, tra i quali ancora oggi emerge per importanza il noto libro del Comparetti, Virgilio nel Medio Evo (Firenze 1872), da rileggere sulla scorta delle osservazioni di Giorgio Pasquali, giustamente sospettoso di fronte al presupposto comparettiano di una tradizione popolare virgiliana indipendente dalla trasmissione dotta, " pregiudizio romantico ", come lo definisce il Pasquali, del resto limitato al solo nucleo napoletano della leggenda.
Riassumiamo sommariamente i risultati cui perviene il Comparetti, rimandando per gli autori citati alle voci specifiche.
Centoni virgiliani a carattere cristiano circolavano numerosi in Italia tra il IV e il V secolo, con tanta fortuna di lettori da indurre papa Gelasio, compilatore di una nota di libri canonici, a dichiararli pubblicamente apocrifi. All'incirca nello stesso periodo il commento di Servio promuoveva la nozione della sterminata sapienza virgiliana, ripresa e confermata da Macrobio, mentre, a quanto riferisce Eusebio, Costantino per primo leggeva in chiave messianica la quarta Egloga, dando l'avvio all'interpretazione profetica di questo componimento, condivisa, tra gli altri, da Lattanzio (in prospettiva millenaristica) e da Agostino, ma respinta da Girolamo, che giudicava cosa puerile e degna di riso l'idea di un V. cristiano senza Cristo. Ancora, come pare, nel sec. V, Fabio Fulgenzio Planciade vedeva nell'Eneide un'allegoria della vita umana, basata sull'esatta corrispondenza fra le quattro età canoniche dell'uomo (adolescenza, gioventù, senettute e senio) e altrettante parti del poema, tesi seguita più tardi da Bernardo Silvestre e Giovanni di Salisbury (sec. XII).
Accanto ai commenti, anche le biografie, in genere influenzate da Donato, insistevano sulla sapienza di V., tanto più che l'unico termine di paragone nella poesia antica, Omero, era quasi sconosciuto nel Medioevo: il Mantovano appariva perciò come l'autore per eccellenza, sia sotto il profilo filosofico-religioso che sotto quello grammaticale-retorico (in ombra rimanevano i valori più propriamente artistici).
Quanto alla leggenda di V. mago, secondo il Comparetti, essa restava circoscritta all'area napoletana, con caratteri schiettamente popolari, e s'inoltrava ben addentro, cronologicamente, nel Medioevo.
Le conclusioni del Comparetti parvero di massima inoppugnabili, salvo che per quanto concerneva il problema della magia virgiliana. Da noi toccò al Pasquali far notare come di tale leggenda non esistessero in Italia testimonianze sino al sec. XIV: i primi che mostrino di conoscere talismani e miracoli di V. sono Cino da Pistoia, Cecco d'Ascoli e l'autore della Cronaca di Partenope. Fuori d'Italia solo il dottissimo Giovanni di Salisbury comincia a parlare di talismani costruiti da V., e altri indizi si trovano in uno scrittore inglese dei primi anni del sec. XIII, Gervasio di Tilbury, sicché la leggenda stessa, a detta del Pasquali, " sembrerebbe un'invenzione di chierici inglesi e tedeschi del secolo XII che hanno trasportato a Virgilio e a Napoli (non soltanto a Napoli, del resto, ma anche a Roma) motivi novellistici diffusi ". E va aggiunto che il carattere stesso di poesia ‛ popolare ' appare talvolta poco nitido nel libro del filologo romano, specie al paragone della poesia più strettamente letteraria.
Per la parte che c'interessa, bisogna tuttavia precisare che il Comparetti, pur ammettendo l'esistenza di una leggenda popolare predantesca accentrata sulla magia di V., evita d'individuare nel V. di D. tratti o spunti magici. Egli non dubita che D. nel guardare a V. sintetizzi " quanto sparsamente risultava dalle idee medievali ", accolga alcuni suggerimenti di Bernardo Silvestre e Giovanni di Salisbury (più che di Fulgenzio), attribuisca a V. virtù profetiche (ma inconsapevoli) e saggezza di poeta teologo; ma a suo giudizio l'autore della Commedia non dimostra mai alcun interesse per le doti magiche che si voleva fossero nel poeta latino: " È un errore ben grande... il pensare, come ha fatto qualche commentatore antico e quasi tutti i moderni, a quelle leggende a proposito del Virgilio dantesco. Dante non ne ha tenuto il menomo conto, e non c'è luogo nel suo poema in cui pur da lontano Virgilio apparisca come mago e taumaturgo o si accenni in qualche maniera a quanto si pensò su di lui in tal qualità " (Virgilio..., I 266).
Vero è che la magia di V. potrebbe trasparire in modo indiretto dai versi dell'Inferno in cui la guida di D. afferma di esser discesa già una volta nel regno dei morti congiurato da quella Eritón cruda / che richiamava l'ombre a' corpi sui (IX 23-24; altri accenni in XII 34-35 e XXI 61-63). Giacché Eritone è la maga tessala che nella Farsalia di Lucano domina un lungo episodio (VI 508-807), il ricordo di lei e della sua opera sembra prestarsi di primo acchito a gettare un'ombra sospetta sul toccato viaggio di V. nell'Inferno, viaggio che la più ovvia interpretazione indicherebbe come semplice pretesto reperito da D. per fornire al duca e maestro la necessaria conoscenza dei luoghi da attraversare, sulla scia di Aen. VI 562-565: ma l'esegesi dei primi commentatori è incerta: Pietro e Benvenuto sono per un'invenzione del poeta; il Lana fa una sola persona di V. e del soldato risuscitato dalla maga, forse male intendendo il " vatem " lucano del v. 628; l'Ottimo suppone che Eritone, alla vigilia della battaglia di Filippi, abbia richiamato in vita V., creduto morto da poco, provocando le precisazioni cronologiche del Boccaccio: " a quei tempi Virgilio era vivo e visse poi molti anni "; l'Anonimo vede in V. soltanto la figura della scienza.
In realtà quanto D. riferisce nei versi citati, senza peraltro prendere posizione in un senso o nell'altro, è, da solo, troppo poco per attrarre V. nella sfera di attive esperienze magiche. Sottolineiamo l'aggettivo ‛ attive '. In quei versi infatti il cantore di Enea ci si presenta come oggetto di un'operazione cui non contribuisce in alcun modo. E ciò non basta a farne un mago. Il D'Ovidio crede anzi che la dura condanna della gente ‛ travolta ' messa in bocca a V. in If XX 16-57 e 106-123 nasconda la protesta indignata del discepolo fiorentino contro ogni diceria sulle virtù magiche del maestro.
Un'incarnazione magica per così dire transitoria del personaggio-guida fu sostenuta qualche decennio fa dal Ferretti in armonia con le sue vedute sui due ‛ tempi ' di composizione della Commedia: nel primo tempo, comprendente i sette canti iniziali dell'Inferno, V. avrebbe fisionomia e poteri di mago, donde per esempio il suo ricorso a una " formula magica infallibile " ripetuta con poche varianti stilistiche davanti ai pericoli che gli ostacolano la via; solo dall'VIII canto in poi acquisterebbe caratteri umani. Ma è tesi ormai abbandonata.
Nulla del V. mago, dunque, nella Commedia? È conclusione che si presenta assai probabile. E poco anche del V. contaminato e adulterato in senso paracristiano dalle favole sorte e diffuse in ambienti indotti o semidotti. È un fatto importante che l'autore della Commedia, che pur doveva sentire da ogni parte spinte e richiami connessi con una mentalità arretrata e superstiziosa, se perfino Petrarca, com'è stato notato, si rammaricava di esser detto " nigromanticus " per le sue simpatie virgiliane, abbia preferito mettersi in contatto con V. per quella che gli si dimostrava come la via maestra della tradizione letteraria invece che per i sentieri tortuosi e devianti della trasmissione popolare, salvando l'uomo (e lo scrittore) dalle deformazioni grossolane cui era stato sottoposto da parte delle menti più volgari: ne faccia fede il Dolopathos. E se si vuol procedere oltre, lungo il filo d'illazioni bisognose tuttavia di una verifica a tutt'oggi mancante, lasciando alla ‛ congiura ' di Eritone funzione di espediente meccanico fatto scattare per rendere credibile un evento inaudito, di un viaggio di V. agl'Inferi parlava una Passione di s. Pansofio di Alessandria studiata da P. Peeters e da V. Ussani sr., scritta in greco intorno al sec. IV, poi volta in arabo e quindi in lingua georgiana, dove si rifletteva un mondo di credenze popolari proprio delle cerchie cristiane orientali ma che D., se ne ebbe notizia (evento poco probabile), poteva considerare come documento di un qualche peso culturale.
2. Virgilio nelle opere minori. - Dire tradizione letteraria è dire anche mediazione dei repertori e delle Summae retoriche. Com'è noto, la scarsezza delle fonti primarie rendeva indispensabile il ricorso alle Poetriae, alle Artes, alle raccolte dossografiche solitamente ben fornite di exempla e di altro materiale già pronto per un'immediata e spesso non meditata utilizzazione. Che di esse D. si sia servito, per lo più vagliandone il contenuto con buon pensiero critico, è dato indiscutibile. Ma V. si sottrae del tutto all'ipotesi di un simile acquisto indiretto; la sua presenza negli scritti danteschi è troppo continua e massiccia per raccomandarsi ad approcci fatalmente frammentari presso l'antico testo. Almeno l'Eneide (non sappiamo purtroppo in quale codice e nemmeno in quale o quali precisi commenti) dovette trovarsi assai presto tra le mani di D., insieme col Laelius di Cicerone e il De Consolatione philosophiae di Boezio, se non nelle scuole ufficiali, certo durante il suo solitario ed eccezionale apprendistato sul quale apre uno spiraglio il capitolo XII del primo libro del Convivio (§§ 2-6).
Saremo d'altra parte prossimi al vero affermando che il valore di V. non si sia rivelato al nostro poeta tutto insieme nelle sue prodigiose dimensioni di filosofia precristiana dell'uomo e di altissima tragedia. Si dovrà pensare a una conquista graduale, armonizzata da un lato col procedere della cultura dantesca, dall'altro con alcune fondamentali esperienze biografiche.
L'incertezza della cronologia e l'ambiguità delle testimonianze rendono problematica la ricostruzione della ‛ fortuna ' virgiliana all'interno del mondo dantesco. Citazioni dal I e dal III libro dell'Eneide appaiono nel XXV capitolo della Vita Nuova, in un'angolatura per ora soltanto retorica (e la cosa si spiega, data la natura artistico-programmatica del discorso dantesco). L'autore ci dirà dopo che a quel tempo, con quel poco d'ingegno e di arte grammatica che si ritrovava, già vedeva molte cose, quasi come sognando (Cv II XII 4): smarrimento e immaturità di autodidatta che confermano intanto l'avvenuto avvio ai severi studi classici. L'angolatura retorica si amplia e approfondisce nel De vulg. Eloq., dove V. campeggia tra gli autori di stile tragico, inserendosi con Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano tra i regulatos... poetas, insigni strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu, che D., prendendo a prestito, come dichiara, il parlar figurato dell'Eneide (con rimando al libro VI), chiama dilectos Dei et ab ardente virtute sublimatos ad aethera Deorumque filios (II IV 10), benché il " dis geniti " di Aen. VI 131 cui il trattatista probabilmente si riferisce non riguardi i poeti, ma coloro che scesi negl'Inferi riuscirono a " revocare gradum superasque evadere ad auras " (v. 128).
A questo punto è ragionevole supporre che al tempo della Vita Nuova V. fosse per D., in alternativa con Ovidio, un maestro di poesia, un esempio di tematica e stile sublime, senza particolare rilievo ideologico, l'autore visto in If I 85-87 all'origine di prove poetiche nobili per argomenti e modi espressivi.
La situazione par mutata nel Convivio; non nei primi tre libri, dove le osservazioni si muovono lungo le consuete direttrici linguistiche, sibbene nel quarto, che annuncia il grande argomento dell'imperiale maiestade e del suo fine tra gli uomini. Su spunti agostiniani e tomistici, nonché appunto sulla testimonianza di V., lo scrittore va qui scoprendo il carattere sacro e provvidenziale dell'Impero romano: E in ciò s'accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: " A costoro - cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine " (IV 11): sovrana scelta presupponente nel popolo di Roma grandissima vertude e grandissima e umanissima benignitade.
Il passo del Convivio è rivolto a liberare l'Impero di Roma dal sospetto (fomentato negli ambienti guelfi) che la sua affermazione fosse scaturita dall'uso della forza, sospetto che era stato un tempo del medesimo D.: Admirabar equidem aliquando romanum populum in orbe terrarum sine ulla resistentia fuisse praefectum, cum, tantum superficialiter intuens, illum nullo iure sed armorum tantummodo violentia obtinuisse arbitrabar (Mn II I 2). L'invocata autorità di V. non varca ancora l'impegno, del resto essenziale al pensiero dantesco, di ribadire la funzione civile e pratica della monarchia (la necessità de la umana civilitade, Cv IV IV 1), come più volte ha sostenuto il Nardi. Ma pure quell'accenno alla profezia di V. sembra rivelatore di una tensione intellettuale che già individua nell'autore dell'Eneide, più in là del retore, una sapienza miracolosa cui non sfugge il destino privilegiato di Roma. Da quel paragrafo V. viene già promosso a voce di verità e interprete del consiglio divino. Tutto lascia pensare che proprio V., vogliamo dire una più attenta lettura del suo poema (che potrà esser stata compiuta a Bologna, come sostiene il Leo, città ben più avanzata che non Firenze nello studio della civiltà classica), abbia sgombrato dalla mente dantesca, all'altezza cronologica del IV libro del Convivio, l'ipotesi guelfa e abbia creato le basi ideologiche della Monarchia. È ovvio, ma non sarà male ricordarlo, che un siffatto approfondimento del testo virgiliano non andava a scapito dei valori retorici, anzi li investiva di una più feconda vitalità: il bello stilo veniva rinvigorito nella misura in cui assumeva nuova ricchezza di materia, così come la scoperta della dottrina virgiliana si legava perfettamente al concetto medievale di poeta.
Dal Convivio alla Monarchia le dimensioni dell'opera virgiliana si allargano ancora, soprattutto nel senso che all'Eneide e alle Egloghe, in contrasto con l'insegnamento ufficiale delle scuole, viene riconosciuto carattere di testi storici infallibili, sia che preannuncino l'avvento dei tempi augustei (Mn I XI 1; e si noti l'esatta interpretazione di " virgo " e " Saturnia regna " in Buc. IV 6), sia che provino la veridicità di figure, fatti, episodi dell'epopea romana in voluta convergenza con l'altro testimone sempre presente nella cultura dantesca, ‛ Livio che non erra ': divinus poeta poster Virgilius per totam Aeneydem gloriosissimum regem Aeneam patrem romani populi fuisse testatur in memoriam sempiternam; quod Titus Livius, gestorum romanorum scriba egregius, in prima parte sui voluminis, quae a capta Troya summit exordium, contestatur (Mn II III 6): non sfuggirà il reciproco rinforzo fra il testatur detto di V. e il contestatur attribuito a Livio; si vedano poi altre significative formule introduttive di citazioni virgiliane: testimonium reddit (§ 11), testimonium perbibet (§ 14), vacinatur (§ 15), si verum est testimonium nostri Poetae (§ 16), ut ultima carmina nostri Poetae testantur (IX 14).
In tutto il discorso sulle vicende romane svolto nel II libro l'autorità di V. s'intreccia con quella di Livio, Lucano, Boezio e con quella delle Scritture: così, a proposito del sopravvento romano nella gara per il dominio del mondo, la serie concorde dei ‛ multa testimonia ' è chiusa dalla parola di Luca, qui omnia vera dicit (VIII 14). Ciò soccorreva D. anche in questioni particolari: la tutela della pace affidata dalla Provvidenza alla Monarchia rendeva credibile che anche i tempi più antichi non fossero stati privi dell'assistenza imperiale. Ed ecco D. collegare la nascita dell'Impero romano alla figura e all'opera di Enea patrem romani populi (Mn II III 6; v. anche X 2), che fu de l'alma Roma e di suo impero / ne l'empireo ciel per padre eletto (If II 20-21).
La novità complessiva dell'interpretazione dantesca risulta più chiara al confronto (suggerito dal Nardi) con quanto osservava s. Agostino intorno ai versi dell'Eneide citati in Cv IV IV 11: che ai Romani competesse un Impero senza fine è affermazione non rispondente a verità, fatta a scopo adulatorio, messa in bocca a Giove, falso dio e profeta bugiardo (cfr. Sermones Cv c. 7, n. 10 in Migne, Patrol. Lat. XXXVIII 622-623). Più o meno la stessa cosa che dirà Boccaccio: " non si cura Virgilio di far mentire costui, il quale egli avea per idio falso e bugiardo " (Commento, ediz. Padoan, p. 620).
D. invece non esita a prendere sul serio il vaticinio di V., conoscesse o no l'opinione di s. Agostino, e tutta l'Eneide studia e giudica alla stregua di un testo di storia, come abbiamo detto. In fondo i suoi cedimenti all'interpretazione allegorica del poema latino sono brevi e poco importanti; una volta anzi egli dichiara apertamente di non voler seguire il senso figurato intorno alle età dell'uomo su cui si soffermava Fulgenzio: lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida (Cv IV XXIV 9). Naturalmente quest'interpretazione allegorica era troppo diffusa perché egli non ne facesse qualche conto. E infatti, poco dopo l'affermazione or ora citata, trae esempi di gioventù temperata, forte, amorosa, cortese, leale dalla parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida (XXVI 8), intendendo allegoricamente gli episodi di Enea che per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa si parte da Didone, contra tanti pericoli scende con la Sibilla ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise, affida i vecchi Troiani ad Aceste, in Sicilia, cura l'educazione fisica e militare del figlio Ascanio, onora il corpo di Miseno, ricompensa i vincitori dei giochi secondo le promesse (§§ 8-15).
Più che un'allegoria, è un tipo di transumptio il rappresentar Firenze nelle vesti di Mirra che smania d'impuro amore per il padre, e in quelle di Amata che, contrastato invano il volere dei fati, laqueo se suspendit (Ep VII 24). Si veda come D. stesso illustri il suo dire metaforico a Enrico VII, cui la lettera è indirizzata: Vere in paternos ardet ipsa concubitus, dum improba procacitate conatur summi Pontificis, qui pater est patrum, adversum te violare assensum. Vere " Dei ordinationi resistit ", propriae voluntatis ydolum venerando, dum regem aspernata legiptimum non erubescit insana regi non suo iura non sua pro male agendi potestate patisci (§§ 26-27).
A parte questi casi, il grosso dell'opera virgiliana si presenta a D. senza sovrastrutture allegoriche, come lettera veridica: vera è l'impresa di Enea dalla distruzione di Troia in poi, personaggi storici sono gli avi che al futuro sposo di Lavinia trasmisero col sangue virtù e fortezza, dall'asiatico Assaraco, a Dardano europeo, a Elettra figlia del re africano Atlante: un concorso molteplice di doti da ogni parte del mondo in una sola persona, che parla chiaramente di una praedestinatio divina (Mn II III 17), sicché la missione affidata da Anchise a Enea nel sesto dell'Eneide e ricordata in Mn II VI risponde de iure a una disposizione soprannaturale, ed Enea congiunge i due mondi storici della Grecia e di Roma lungo una linea di propulsione provvidenziale corrente nei secoli, così come V. raccorda la cultura classica, pregna di presagi e di anticipazioni, alla spiritualità del Trecento.
Ma l'addensare in un testo antico, sia pure a fondamento storico, significazioni eccedenti il suo tempo cronologico e i limiti culturali del suo autore, non equivale forse a conferirgli un secondo senso, in qualche modo paragonabile all'allegoria? Sia come si vuole. La questione è troppo sottile e complessa per essere trattata qui (v. ALLEGORIA). Forse la presenza di un'ombra di verità nella poesia appartiene per D. alla natura della poesia stessa, a prescindere dalle intenzioni di chi la compone. Certo si è che, almeno sul terreno politico, nella Monarchia V. evoca valori estensibili ai grandi problemi del Trecento. Sul terreno politico, si diceva. Quando infatti nel terzo libro il tema dei rapporti fra i duo luminaria magna rivolge il pensiero dantesco a considerazioni religiose, oltre la soglia teorica della necessità dell'Impero, il nome di V. scompare.
Tanto nel caso però che la concezione storiografica dantesca accettata nel secondo libro del trattato rivesta carattere ‛ laico ' (tesi in varie gradazioni sostenuta dal Nardi, dal Gilson e dal Vinay) in quanto preludente a una funzione autonoma della monarchia in ordine alla felicità naturale dell'uomo, come nel caso che abbia diversa natura, la ‛ filosofia ' di V. continua a soccorrere anche il libro conclusivo dell'opera. L'incerta scansione cronologica contribuisce a complicare un discorso irto di difficoltà come quello che pretende di studiare in termini rigorosamente evolutivi il passaggio dal V. del trattato politico al V. del poema. A ogni modo sarà bene fin d'ora accoppiare a un'indagine per così dire recensiva, volta a raccogliere i dati della presenza virgiliana in D., la ricerca di ciò che V. rappresentava per D. come simbolo, dal momento che il poeta latino assunse presto agli occhi di D., dopo la primissima fase dell'educazione retorica, potere di organo gnoseologico illuminante, oltre il mondo classico, la civiltà medievale, continuatrice, nonostante i suoi contrasti e le sue divisioni ideologiche, della più antica civiltà greco-latina. La difficoltà sta nel verificare se e in qual momento la saggezza ‛ naturale ' della cultura classica rappresentata in maniera perfetta da V. (il savio gentil, che tutto seppe, If VII 3) pur nella prospettiva provvidenziale che ne avvalora l'incidenza sulla storia contemporanea ai lettori di D., scopra i suoi limiti e si subordini al verbum divino, preparando la gerarchia dei valori spirituali sulla quale si basa la Commedia. Il Nardi, che in seguito ai risultati dei suoi numerosi e penetranti studi sull'argomento inserisce la Monarchia a mezzo fra l'interrotto Convivio e il poema, facendo sua una formula del Gentile, caratterizza il V. del trattato politico come il saggio che non attende Beatrice, come il rappresentante cioè di quei Philosophica documenta che non abbisognano di altri sussidi per assicurare agli uomini il massimo di conoscenza e felicità terrena compatibile con la loro condizione. Secondo una formula del Convivio (III XV 9-10), l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può... Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere.
Senonché il capitolo finale della Monarchia, dopo aver distinto, com'è noto, dalla ‛ beatitudo huius vitae ' una ‛ beatitudo vitae aeternae ' alla quale la virtù umana non è in grado di ascendere nisi lumine divino adiuta, cioè per documenta spiritualia quae humanam rationem transcendunt (III XV 7-8), afferma esplicitamente che mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur (§ 17), donde la reverentia dovuta da Cesare a Pietro.
In quest'affermazione il Nardi vede non già il rinnegamento del ‛ laicismo ' politico di D. o una sua incoerenza ideologica che suonerebbe regresso rispetto all'audacia dualistica delle precedenti vedute, minanti la trascendenza scolastica, ma il preannunzio di una diversa concezione della vita intera nella quale la risposta a un problema di ordine politico non sia esaustiva delle umane speranze, il preannunzio insomma (presumibilmente aggiunto a opera compiuta) della Commedia, dove V. fin dall'inizio riconosce la propria limitata potestà e si dichiara messo e araldo di Beatrice: con la Commedia, così, all'averroismo dantesco si sostituirebbe il tomismo.
La formula gentiliana-nardiana secondo la quale, lo ripetiamo, V. nella Monarchia non attende alcuna Beatrice, sembrò tuttavia priva di senso al Gilson, e obbiezioni varie ricevette dal Vinay, dal Garin, dal Maccarrone. Si osservava non esser mai ravvisabile in D. teorico un'umana ragione naturale pura, del tutto autosufficiente e indipendente dalla rivelazione. In effetti (sempre con sottinteso riferimento al significato di V.), a prescindere dagl'intricati nodi cronologici, sia nel Convivio (si veda per es. il XIV capitolo del libro III dove la Donna gentile è tutta tesa a superarsi in filosofia divina per preparare le vie alla fede, alla speranza e alla carità, alla veritade etterna delle Atene celestiali [§ 15], o il capitolo XII del libro IV) sia nella Monarchia (dove non tutta la ratio si esaurisce nel raggiungimento della temporale felicità) il sapere razionale è sempre ordinato a un segno ultrarazionale, sì che gli antichi non videro, ma intravidero la verità, come chi, tenendo gli occhi chiusi, abbia sentore della luce (cfr. Cv II IV 17).
In tal senso V. attende Beatrice già dai trattati dottrinali e già da allora, in forma approssimativa, si configura l'arco itinerale della Commedia.
3. Virgilio nella Commedia: la persona storica. - Quando V. appare nel I canto della Commedia gli elementi base della rappresentazione dantesca sono tutti sulla scena: il personaggio che vive la vicenda (e che, insieme, a distanza la rievoca e narra), la selva, la diritta via abbandonata, il colle luminoso, il pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle, le fiere; ognuno con la sua carica espressiva ben equilibrata sul doppio sostegno letterale e parabolico. L'intervento di V. si verifica al termine di una prima vana tensione alla salvezza: Mentre ch'i' rovinava in basso loco, / dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco (vv. 61-63).
Il secolare travaglio interpretativo dedicato al verso finale della terzina documenta l'importanza che i critici hanno sempre attribuito a questo primissimo connotato del ritratto virgiliano. Ma venga il senso proprio della fiocaggine e quindi del silenzio trasferito nella sfera dei fenomeni auditivi o in quella dei fenomeni visivi, si ha la tendenza a richiamare in primo piano i valori traslati (l'evanescenza di chi è morto da più di un millennio, la voce della poesia latina, debole agli orecchi dei lettori trecenteschi per aver tanto a lungo taciuto) come quelli allegorici (lo stento della ragione a farsi udire da chi è disabituato ad ascoltarne i consigli), mentre il corretto metodo esegetico fissato in Cv II I 8-11 assegna perentoriamente la precedenza all'intendimento letterario, propedeutico agli altri significati. Per tal ragione il verso potrebbe soltanto intonarsi, come pure è stato suggerito, all'apparizione di un abitatore dell'oltretomba: D. affronta qui per la prima volta il problema di rappresentare sostanze puramente spirituali, quando la dottrina del corpo aereo non è forse ancora ben chiara nella sua mente. Disegna dunque, quasi con timore di riuscire troppo realistico, un abbozzo corporeo, sfumandone i contorni, donde il successivo qual che tu sii, od ombra od omo certo; V. è fioco come immagine che torni alla memoria dopo un lungo intervallo di oblio e stenti a prender consistenza. Il problema si ripresenterà nel III del Paradiso a proposito degli spiriti beati che, almeno sino all'Empireo, non posseggono apparenze corporee e sarà in un primo tempo risolto con un uguale ricorso a forme labili.
Del resto, fermandoci ancora per un momento al rapporto lettera-allegoria, anche Stazio, apparso come ombra innominata, trapasserà al ruolo di mediatore tra V. e Beatrice solo dopo essersi presentato con dovizia di particolari biografici. Non diversamente l'ultima guida, per qualche terzina un sene (Pd XXXI 59), un santo sene (v. 94), disvelerà quasi contemporaneamente la sua identità e la sua missione.
Nella Commedia la storia di V. comincia dal ricordo di ciò che egli fu come omo, cioè da un richiamo a nitidi fatti istoriali, impropriamente apparsi talora superflui ed estranei alla logica poetica del proemio. In questo richiamo più che le qualifiche anagrafiche, pur interessanti per certe future ripercussioni (in particolare la nascita lombarda dei parenti, If I 68), prendono rilievo, diremmo, notazioni di cronologia religiosa (nel tempo de li dèi falsi e bugiardi) e giudizi moraleggianti (poi che 'l superbo Ilïón fu combusto); ma soprattutto si afferma il fatto fondamentale che V. fu poeta e cantore di Enea. Sul volume (v. 84) di lui, amato e studiato, fanno perno le tre terzine che D. dedica con accento riverente al maestro e autore (con necessario rimando a Cv IV VI 4 e 5), fonte copiosa del parlar poetico, onore e lume degli altri rimatori.
Al cantore dell'eroe capostipite della monarchia universale D. riconosce di dover lo bello stilo che gli ha fatto onore, in un momento in cui egli ha ormai compiuto una scelta decisiva, lasciando indietro le dolci rime d'amore (più o meno ispirate al modello ovidiano e provenzale) per altre rime inquisitrici de li vizi umani e del valore. L'incontro con V. datato a mezzo circa del 1300 ha tra l'altro valore di avvertimento letterario e rappresenta " il trapasso dalla letteratura duecentesca della giovinezza alla nuova letteratura " (Petrocchi). Se poi con quell'espressione si alluda alla poesia che matura nella Commedia, con una trasposizione temporale supposta dal Boccaccio (" che m'ha fatto onore, cioè farà; e pon qui il preterito per lo futuro, facendo solecismo ") e implicitamente condivisa da Benvenuto, attento a notare l'apparente discrepanza stilistica fra i due poeti (" Sed contra stylus Virg. est tragicus, iste comicus, ille litteralis, hic vulgaris. Ad hoc respondent aliqui quod A. capit hic large stylum pro materia, et ita A. imitatur Virg. in materia "), oppure alla poesia già attuata nelle rime dottrinali, come concordemente intendono i moderni interpreti, è cosa che interessa meno il nostro discorso, per quanto sembri poco probabile che D. releghi nel passato, quasi sottilmente sminuendolo, il merito derivatogli dal poeta che gli sta innanzi come guida sulla soglia dell'opera.
Le premesse del complesso personaggio sono legate, a quanto è dato vedere, a fondamenti storici o tali creduti da Dante. Anche l'epiteto di famoso saggio (If I 89) con cui sembra iniziarsi la trasformazione simbolica di V. appartiene al piano istoriale. Saggi erano nella visione trecentesca i poeti tutti, specie i tragici: optimae conceptiones non possunt esse visi ubi scientia et ingenium est (VE II I 8); e come saggio è il padre di D., Guinizzelli (Vn XX 3; cfr. Pg XXVI 97-99), così saggio per eccellenza è V. (If 1 89, X 128, XII 16, XIII 47, Pg XXVII 69, e anche If IV 110), mar di tutto 'l senno (If VIII 7), dottore (If V 70, 123; XVI 13, 48). Né altro se non un riconoscimento della sua auctoritas indiscussa in fatto di poesia è il ripetuto ricorso a formule che ruotano idealmente attorno alle parole di Sordello O gloria di Latin... per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra (Pg VII 16-17), dove Latin si trasferisce in una dimensione più etnica che linguistica e dimostra la continuità tra la grande letteratura classica e la moderna romanza, nonostante che lingua nostra indichi certamente il latino: ma altrove l'aggettivo nostro richiama decisamente V. entro una comune civiltà letteraria, lo maggiore nostro poeta (Cv IV XXVI 8), divinus poeta noster (Mn II III 6), Poeta noster (V 11, VI 9, VII 11, VIII 11), in sexto Poetae nostri (V 13), carmina nostri Poetae (IX 14), sino a nostra maggior musa di Pd XV 26, senza che ciò valga ad assegnare a D., nei termini troppo recisi del Comparetti, una " potenza di sentimento nazionale italiano " che fa di lui " il più grande e più antico rappresentante della nostra idea nazionale ".
La continuità tra civiltà classica e civiltà medievale era di ordine anche generativo e D. sente l'orgoglio di appartenere, come fiorentino, alla sementa santa (If XV 76) dei Romani, populus ille sanctus pius et gloriosus (Mn II V 5). Ma nei confronti di V. egli avvertiva una straordinaria consonanza culturale e spirituale che gli faceva collocare l'opera del poeta mantovano alle radici stesse di quel processo di redenzione universale balenato alla sua fantasia e alla sua speranza dopo l'‛ errore ' giovanile. Perciò è importante che la prima presentazione di V. insista sul tema fondamentale dell'Eneide, il libro che celebra l'epopea dell'eroe destinato a fondare la stirpe romana, e sull'autorità che il messaggio virgiliano, attraverso il bello stilo, aveva acquistato per i posteri. Insomma si comincia già a configurare, sin dall'episodio iniziale, il vincolo tutto particolare che stringe V. a D. e fa del primo la proiezione della coscienza profetica e messianica del secondo. C'era di mezzo, s'intende, la Rivelazione, e quindi nella Commedia V. attende a suo completamento Beatrice in modo più esplicito che nelle opere prosastiche. Ma l'intervento di V. resta primigenio e insostituibile, come meglio si vedrà analizzando il rapporto di lui con Stazio, anch'egli, per un verso, mediatore tra la sapienza pagana e la verità cristiana, per un altro, in certo modo, ‛ figura ' di D. stesso.
Del tutto naturale quindi che il grido di soccorso elevato da D. (Vedi la bestia per cu' io mi volsi; / aiutami da lei, famoso saggio, If I 88-89) segua immediatamente la menzione del suo debito poetico verso l'antico maestro. La funzione di guida che si va disvelando nei versi successivi dell'episodio e si afferma dopo un ultimo accenno alla materia dell'Eneide (l'umile Italia, Camilla, Eurialo, Niso, Turno), ond'io per lo tuo me' penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida (vv. 112-113), è in realtà implicita proprio nell' ‛ abito ' poetico di Virgilio.
Ma a distinguer meglio la figura di V. quale si manifesta nella Commedia, seguendo ancora la traccia del primo canto su cui di necessità, come sul secondo, dovremo soffermarci più a lungo, occorre ricordare come accanto ai connotati storici, messi subito in forte rilievo, se ne pongano altri pur essi ancora estranei all'acquisizione allegorica. Se la saggezza naturale del poeta ha dissipato parte di quella nebbia attraverso la quale indistintamente egli intuiva qualche aspetto della verità, l'appartenenza al Limbo ha sollevato V. a un grado più alto di quello concesso all'esperienza terrena. In quanto abitante del Limbo V. conosce gli elementi essenziali del messaggio evangelico, individua la natura malvagia e ria della lupa in ordine alla salvezza e contro di essa preannuncia la venuta del Veltro che la ricaccerà nell'Inferno - nell'Inferno cristiano, ovviamente, del quale egli anticipa al discepolo lo stato di eterno tormento -, ha precisa nozione del Purgatorio e del suo interno compenso tra pena e speranza, e infine sa del Paradiso e dell'imperador che là sù regna. Come gli altri spiriti sospesi e ‛ ribellanti ' alla legge divina, ebbe mercedi non sufficienti tuttavia a fargli oltrepassare la soglia dell'eterno esilio: insomma non adorò debitamente a Dio (IV 38), come pure era possibile secondo lo spirito caritatevole del Padre. A Sordello dichiara con pieno abbandono: Io son Virgilio; e per null'altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé (Pg VII 7-8); e poco dopo: Non per far, ma per non fare ho perduto / a veder l'alto Sol che tu disiri / e che fu tardi per me conosciuto (vv. 25-27).
Questa tardiva conoscenza di Dio, forse un rischiaramento delle confuse idee percepite dal lettore medievale nelle sue opere, è carattere essenziale del V. dantesco, dal quale dipende non solo gran parte del suo atteggiamento interiore (la malinconia che segue a una condanna riconosciuta giusta ma umanamente sofferta: Nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte / che me rilega ne l'etterno essilio, Pg XXI 16-18) ma anche quel di più di saggezza senza il quale la stessa funzione orientativa della coscienza di D. sarebbe rimasta compromessa: per rifarci a un solo esempio, come immaginare al di fuori di una teologia cristiana saldamente acquisita il fiero richiamo al quia, la diffida contro le folli pretese mondane a percorrere la via che tiene una sustanza in tre persone (Pg III 36), quasi disconoscendo la limitatezza dell'uomo e l'importanza insostituibile dell'Incarnazione?
Tanto è forte, ora soprattutto, dopo la morte, la tensione verso il Dio rimasto ignoto all'individuo terreno, che proprio in nome suo D. richiede all'ombra soccorritrice d'iniziarlo all'iter conoscitivo dei regni oltremondani: Poeta, io ti richeggio / per quello Dio che tu non conoscesti, / a ciò ch'io fugga questo male e peggio, / che tu mi meni là dov'or dicesti, / sì ch'io veggia la porta di san Pietro / e color cui tu fai cotanto mesti (If I 130-135).
Il secondo canto rielabora e compone in una sintesi più omogenea le costanti del personaggio Virgilio. Egli è ancora il cantore di Enea visitatore dell'oltretomba in cerca del padre, il poeta del VI libro dell'Eneide dove si profila tutta la storia gloriosa di Roma nella sua duplice investitura politica e religiosa, e dove l'eroe troiano precede la missione propriamente religiosa di s. Paolo e da parte sua vi collabora. Il dubbio angosciato di D., io non Enëa, io non Paulo sono, interpretato come viltate che suole rimuovere da onrata impresa, induce V. a spiegare meglio i motivi del suo intervento: dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi / nel primo punto che di te mi dolve (If II 50-51).
Il complesso intreccio dei nessi che stringono tra loro Beatrice, s. Lucia e la Madonna, le tre donne benedette che in certo modo si contrappongono al triplice ostacolo delle fiere, per quel che attiene al nostro argomento si risolve in una rinnovata fiducia di D. nell'anima cortese mantoana, o per dir meglio nella sua parola ornata, nel suo parlare onesto. La grazia, indispensabile a ogni conquista di verità (cfr. Tomm. Sum. theol. I II 109 1 e 7), scorrendo dalla fonte divina attraverso le donne celesti, troverà nella parola di V. il mezzo per attuare ciò che è mestieri al campar di Dante. Si stabilisce così un altro incontro singolare tra il poeta latino, famoso per lo stile alto e la profonda nobiltà d'animo (vv. 59-60), e colui che per l'ispirazione di Beatrice uscì... de la volgare schiera (v. 105), a confermare che le sovrastrutture simboliche si sviluppano sempre, per forze endogene, dall'originaria realtà storico-letterale dell'uno e dell'altro protagonista di questo prologo in terra alla più grande avventura mistico-gnoseologica del Medioevo: alla fine del secondo canto l'accordo tra i due poeti è raggiunto in modo perfetto, un sol volere è d'ambedue, e il moderno può rivolgersi all'antico con una sequenza di appellativi non più soggetti a riserve nemmeno nel campo morale: tu duca, tu segnore e tu maestro.
Ma un'altra sosta conviene compiere al canto IV: qui, per così dire, V. esce dal suo eccezionale isolamento, non è più l'ombra emersa nel gran diserto, ma si reinnesta nell'ambiente culturale a lui proprio, e prima di calarsi con D. nella voragine infernale, prima cioè di mettere alla prova, accanto al discepolo, le proprie virtù (già sanzionate peraltro dall'avallo divino) attesta quanto egli abbia di comune con gli altri spiriti magni della tradizione greco-latina e quanto possieda nello stesso tempo di diverso e singolare: sicché ancor meglio si definisce e illumina la sua fisionomia.
Il nodo cruciale del canto (che, si noti, adotta tutta una serie d'immagini, situazioni, architetture ispirate ancora al VI libro dell'Eneide, da Caronte alla livida palude acherontea, al passaggio delle anime sull'onda bruna, alla similitudine delle foglie autunnali e degli uccelli) è l'incontro con l'orrevol gente. D. ammirato dell'onranza che li contrassegna chiede notizie a colui che ‛ onora ' scienzia ed arte: sa già che si tratta di spiriti del Limbo, senza colpe specifiche, tormentati da un desio senza speme, ma lo colpisce il loro starsene appartati entro un emisfero di luce circondato da tenebre. E così V. ricorda l'onrata nominanza che diparte quelle anime dalle altre per una grazia acquistata in cielo. La voce che risuona a questo punto, Onorate l'altissimo poeta; / l'ombra sua torna, ch'era dipartita (If IV 80-81), appartiene quasi certamente a Omero, che saluta il ritorno del sodale nel gruppo dei grandi (vidi quattro grand'ombre a noi venire) poeti classici, poiché ‛ altissimo ' non può che riferirsi allo stile tragico che permette il gradum constructionis excellentissimum, la supremam... constructionem (VE II VI 6-7).
Del resto la serie dei poeti limbicoli (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e V., naturalmente) ripete in parte il canone dei ‛ regulati poetae ' fissato in VE II VI 7, con l'aggiunta di Omero e la sostituzione di Ovidio a Stazio. Non ci pare il caso d'insistere sull'interpretazione dei vv. 94-96 del canto, né sui criteri costitutivi del più vero canone tragico, né sui ripensamenti e le integrazioni di Pg XXII 97-114 (si vedano, per ciò, le voci sui singoli poeti). Quel che non ammette dubbi è la supremazia di Omero su ogni altro poeta (sire, If IV 87; poeta sovrano, v. 88; segnor de l'altissimo canto / che sovra li altri com'aquila vola, vv. 95-96; il Greco che le Muse lattar più ch'altri mai, Pg XXII 102), sia pure affermata su basi incerte e per testimonianze indirette, e la prossimità a lui di V. (l'altissimo poeta fa il paio con l'altissimo canto omerico, come notò il Parodi) ribadisce il fondamentale attributo storico della guida dantesca, in una sfera di ‛ onore ' che avvolge tutti coloro che imitano l'astripetam aquilam per eccellenza (VE II IV 11). Ecco perché appare scevra di ogni compiacimento volgare l'osservazione di V., però che ciascun meco si convene / nel nome che sonò la voce sola [il nome di poeta], / fannomi onore, e di ciò fanno bene (If IV 91-93). Un ‛ onore ' che si estende a D. in quanto anch'egli investito di un alto ufficio poetico: e più d'onore ancora assai mi fenno, / ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, / sì ch'io fui sesto tra cotanto senno (vv. 100-102). Se qui V. ancor meglio si presenta come mito autobiografico di D. secondo un preciso programma di poesia (cotanto senno), prende certo rilievo anche la volontà dantesca di farsi erede di uno sterminato patrimonio culturale di cui V. è termine prestigioso, l'unico degno di poter reggere il confronto con Omero, ma soprattutto anello di congiunzione tra la grande civiltà greca e la latina, oltre che annunziatore inconsapevole della futura redenzione cristiana, fruitore quindi di uno spazio poetico ignoto allo stesso maestro greco. È in fondo la ragione per cui Aristotele, maestro di color che sanno (If IV 131), maestro de li filosofi (Cv IV VIII 15), magister sapientum (VE II X 1), maestro e duca de la ragione umana (Cv IV VI 8), maestro de la nostra vita (XXIII 8), dotato d'ingegno quasi divino (VI 15), dignissimo di fede e d'obedienza (§ 7), autore di una dottrina che puotesi appellare quasi cattolica oppinione (§ 16), nutritore della stessa teologia tomistica, cede innanzi alla saggezza di V. poeta, nella prospettiva, va chiarito, di un magistero ascetico-morale culminante nel trapasso del mandato a Beatrice che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto (Pg VI 45).
I commentatori considerano in genere l'episodio di Stazio come un momento intermedio di tale trapasso e vedono nel rapporto Stazio-V. come una propedeusi e insieme un approfondimento del rapporto D.-Virgilio. L'Eneide fu a Stazio mamma... e... nutrice, poetando (Pg XXI 97-98), ispiratrice dell'arte poetica, come a D. era stata autorevole fonte di poesia. Da V. Stazio aveva preso forte a cantar de li uomini e d'i dèi (v. 126). Ma l'auctoritas artistica virgiliana si era congiunta per lui con l'ammonimento etico-religioso: Tu prima m'invïasti / verso Parnaso a ber ne le sue grotte, / e prima appresso Dio m'alluminasti. / ... Per te poeta fui, per te cristiano (XXII 64-66 e 73). Naturalmente l'analogia di questo incontro con l'incontro D.-V. non implica un parallelismo perfetto di storie interiori, ché D. non fu mai fuori del cristianesimo o cristiano chiuso. L'episodio però (a parte la questione biografica della conversione staziana, per la quale v. STAZIO) mette insieme e fonde nuovamente l'esperienza letteraria e quella religiosa, illuminando ancor meglio la concezione dantesca di Virgilio. Ma non sfugga che per D. la situazione si presenta rovesciata: non la poesia di V. lo condusse alla fede, ma il bisogno di una rinnovata fede gli svelò la poesia virgiliana sotto una luce insospettata: gli permise di tradurre le parole della IV Bucolica in chiave di speranza messianica e di fissare il significato storico della letteratura classica, non consapevole (ma provvidenziale) portatrice di luce ai posteri: Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte (vv. 67-69). Profetismo, ma profetismo singolare, che consente a D. di scansare il grossolano sfruttamento allegorico della stessa IV Bucolica, nonché dell'Eneide. Si badi la parola tua sopra toccata [dice Stazio alludendo ai noti versi Secol si rinova, ecc.] / si consonava a' nuovi predicanti (vv. 79-80), dove si consonava allude a un accordo di temi, di valori, a un'affinità di messaggi, non a un trasporto da favola a verità. Il vocabolo invero potrebbe rispondere a una scelta accorta, messo in bocca a un latino del primo secolo che ignorava la teoria dei divelsi sensi, ma è assai probabile che D. qui non sottilizzi troppo sulle espressioni linguistiche più adatte al parlante e intenda manifestare, per analogia, che cosa l'opera di V. cominciasse a significare per lui, allorché la speranza di un novus ordo trovò albergo stabile nel suo cuore. Perciò la glossa del Landino (" Similmente tu ponesti e' versi, ma non gl'interpretando rectamente gli riducesti in onore d'Octaviano; ma io aiutato dagl'interpreti cristiani gl'intesi secondo el vero senso ") suona meno appropriata rispetto a quella di Benvenuto (" Et hic nota quod unusquisque conatur reducere alta dicta sapientum placentium sibi ad saniorem intellectum, sicut egregie facit Proba, quae multa dicta tam Homeri quam Vergilii reduxit placide in obsequium fidei critianae ") o del Buti (" Virgilio veramente, andando di notte, imperò che fu ignorante de la nostra fede, disse alquante cose nei suoi poemati che si può pilliare a firmamento de la nostra fede, dato che 'l dicesse forsi elli sotto altro intendimento "). Attraverso l'episodio di Stazio si evidenzia il senso completo dell'incontro D.-V., sulla cui importanza incondizionata concordano tutti gli studiosi della cultura classica dantesca, attenti alla genesi della Commedia, dal Funaioli al Curtius, dal Comparetti al Nardi, dal Gilson al Renucci, dal Parodi al Barbi, all'Auerbach, al Paratore: " La redécouverte de Virgile par Dante fait songer à un arc de feu qui irait d'une grande âme à une autre grande âme. La tradition européenne ne connaît pas de rencontre plus saisissante par son élévation, sa délicatesse, sa fécondité, que celle des deux plus grand Latins. Historiquement, c'est l'alliance que le Moyen Age latin a scellée entre le monde antique et le monde moderne. C'est seulement dans la mesure où nous sommes capables de saisir Virgile dans toute la grandeur de son génie poétique... que nous pourrons comprendre totalement Dante ". Il riconoscimento del Curtius (La littérature et le moyen âge latin, Parigi 1956, 442) bene sottolinea l'accordo dinamico tra l'Eneide e la Commedia; ma forse il Nardi, meglio di tutti, ha indicato il senso profondo di tale evento: " Fu senza dubbio a questo momento [dopo il terzo libro della Monarchia, secondo la tesi nardiana] che egli scoprì che lo spirito e la lettera dell'Eneide s'accordavano a meraviglia con lo spirito e la lettera del Vangelo, l'umanesimo virgiliano col profetismo biblico. Questa scoperta lo commuove a tal segno da ritenerla una rivelazione soprannaturale... La Divina Commedia germogliò dall'intima e perfetta concordia dell'umanesimo virgiliano con la rivelazione evangelica " (Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 113). Si potrà dissentire sulla successione cronologica dal poema al trattato, ma difficilmente sarà concesso modificare la prospettiva, precisata dal Nardi, entro la quale l'opera antica, con la civiltà da cui promanava, fu assunta dal poeta fiorentino.
Quanto fin qui detto è sufficiente a chiarire un punto assai dibattuto un tempo dai critici, la ragione cioè per cui D. abbia scelto proprio V. a sua guida per il viaggio oltremondano, e non per esempio Aristotele che, quanto a sapienza, era nel mondo classico più in alto di V., secondo le note testimonianze del Convivio e della stessa Commedia. Come in parte abbiamo già osservato, né in Aristotele né in alcun altro filosofo conosciuto dalla cultura medievale D. poteva scorgere la somma di ‛ scienza e arte ', di auctoritas poetica e suggestioni etico-politico-religiose che vedeva in V., una così perfetta unione di vigoria intellettuale e humanitas che si prestava al suo assunto già sul piano letterale, ma soprattutto predisponeva V. a sollevarsi, da quel piano, al grado simbolico. È ovvio infatti che i due aspetti della personalità virgiliana sono in fondo un tutt'uno e nascono insieme da un medesimo concepimento.
Prima che per altre ragioni il personaggio V., come si è visto, occupa la fantasia di D. perché poeta, modello di stile e di saggezza, autore di opere racchiudenti per virtù misteriosa una luce di verità che si proietta provvidenzialmente sull'intelligenza dei posteri: qual sole o quai candele / ti stenebraron sì, che tu drizzasti / poscia di retro al pescator le vele? (Pg XXII 61-63) era stata la domanda di V. a Stazio, e Stazio aveva risposto con le terzine prima citate che riprendono il tema della luce, appresso Dio m'alluminasti. / Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro, ricorrendo anche ad assai efficaci modi metaforici: Tu dunque, che levato hai il coperchio / che m'ascondeva quanto bene io dico (vv. 94-95). Ma del poeta D. ha anche colto la realtà umana celata dietro il messaggio. Per l'età in cui viveva questa è impresa eccezionale. Rispetto alla leggenda virgiliana del Medioevo il V. di D. è sostanzialmente cosa nuova, restaurata nei valori e nelle forme. Dalle opere minori alla Commedia si completa il recupero del suo significato sia sotto le specie di un più attento e storico vaglio esegetico (v. l'esatto intendimento del virgiliano " Iam redit et Virgo " in Mn I XI 1), sia come ricostruzione amorosa di un mondo interiore troppo spesso sconosciuto o alterato. Il Vossler tra i primi ebbe a osservare che " il Virgilio della Commedia è quanto di più interiormente vero ed obiettivo ci abbia mai dato, pur nella più audace libertà estetica, la così detta poesia storica " (La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 1927, II I 310), né si discostano da lui gl'interpreti più recenti, pur ammettendo che il V. visto da noi è necessariamente altra cosa rispetto al V. visto da D. agli albori della civiltà moderna.
Del resto D. stesso fa continuamente leva sugli attributi della pietas virgiliana, sulle virtù umane del personaggio, a cominciare dal sottile intreccio emotivo che caratterizza l'inizio del III canto dell'Inferno, dove l'appello Maestro, il senso lor m'è duro (v. 12), riferito alle parole ‛ oscure ' della porta infernale, è inteso dalla guida (come a noi pare) nel suo vero senso: un ritorno comprensibile di timore di fronte alla tremenda testimonianza di quella scritta in sé chiarissima; onde V. come persona accorta piuttosto che rispondere alla richiesta ne allevia il sottinteso e intuito motivo, qui si convien lasciare ogne sospetto; / ogne viltà convien che qui sia morta (vv. 14-15), e col gesto, con l'espressione del volto, con l'esempio sostiene la virtù vacillante del discepolo: E poi che la sua mano a la mia puose / con lieto volto, ond'io mi confortai, / mi mise dentro a le segrete cose (vv. 19-21; per altri oscuro ha valore proprio e duro accenna all'orrore che da esse spira, come in Ioann. 6, 61 " durus est hic sermo ").
Di tali episodi e di tali interventi legati alla sensibilità del maestro latino le prime due cantiche sono così ricche da rendere superflua una completa schedatura. Nel III dell'Inferno, per la prima volta, V. chiama D. figliuol mio (v. 121), e l'appellativo affettuoso (per converso, nello stesso canto, V. è per D. ancora e soltanto maestro, vv. 12, 32, 43, 72) segna il clima sentimentale che avvolge la coppia itinerante, specie quando la guida s'inserisce nella schiera ideale dei ‛ maggiori ' (cfr. Cv IV XXIV 12 l'adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato) e diventa essa stessa padre (Pg XIII 34), dolce padre (If VIII 110, Pg IV 44, XV 25 e 124, XVII 82), dolcissimo patre (Pg XXX 50), dolce padre caro (XVIII 13), padre verace (v. 7), più che padre (XXII 4), premurosamente vicino al compagno di viaggio (v. If VIII 43-45, XVII 79-84, XIX 124-130, XXXI 28) sino ai momenti culminanti di If XXIII 37-42 (dove la tensione sentimentale si alimenta, in aggiunta, del paragone con la madre: Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre ch'al romore è desta, ecc.) e 51, che vede V. portarsi D. sul petto come suo figlio, non come compagno.
Ma non soltanto il nesso V.-D. si presta a rivelare le caratteristiche del personaggio. In luoghi e circostanze diverse, sia quando si accende di sdegno o smuore di pietà (v. il caso assai probante di If IV 14-21), sia quando si abbandona a pause trasognate o a candide delicatezze (o dignitosa coscïenza e netta!, Pg III 8) V. sviluppa sulla pagina dantesca le premesse etico-psicologiche contenute nell'opera sua di poeta.
Su questa base la figura di V. si offre come fedele terreno d'indagine, ove però si tenga conto di quanto precedentemente avvertito: che nella resa concreta, cioè, del personaggio agente non è più separabile ciò che gli compete in quanto dato estraibile dalla sua realtà storica da ciò che egli ha guadagnato in quanto cittadino di un regno ultra umano (Non omo, omo già fui, If I 66). Si ripete che i due aspetti, in certo modo, appartengono entrambi al momento istoriale di V., nel senso che anche il secondo rimane estraneo all'avvaloramento simbolico e se mai lo precede quale altro grado della lettera. La questione confusamente intuita dagli antichi commentatori (ma di solito trasferita in campo allegorico) fu bene impostata dal Comparetti (" C'è... fra le due vite del poeta continuità e non mai opposizione "), ma solo con l'Auerbach ha trovato solido fondamento nella teoria dei valori figurali, per la quale V., al pari di ogni altro personaggio storico della Commedia, è solo ‛ figura ' terrena di ciò che si adempirà post mortem, di ciò che conservando la precedente forma si perfezionerà come realtà vera (cfr. per le radici culturali Tomm. Sum. theol. I 118 2); pertanto il V. storico è ‛ adempiuto ' dall'abitante del Limbo, acquistando il suo più profondo e completo valore.
Qualche battuta della Commedia, come quella di Beatrice Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui (If II 73-74), o quella dell'aquila molti gridan " Cristo, Cristo! ", / che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo (Pd XIX 106-108), quest'ultima implicante il grosso problema della salvezza dei pagani (v. SALVEZZA: Salvezza dei pagani) incolpevoli e ignari della rivelazione (problema che tormentò certo D.), si è prestata a far ipotizzare una finale operazione salvifica di Dio nei confronti di V. come degli altri ‛ megalopsicoi ' limbicoli. Senza pronunciarci su una questione che va oltre i confini di questa voce (e rimandando alla voce LIMBO) ricordiamo però che salvo il caso di Catone e Rifeo, l'uno e l'altro contestualmente giustificato, per il resto il destino ultimo delle anime è commesso al misterioso e infallibile giudizio di Dio. Ma una condizione dev'essere comunque rispettata perché si acceda al Paradiso: A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno (XIX 103-105). Ora V. non sembra appartenere alla schiera dei credenti nel Cristo venturo. Egli stesso d'altra parte parla del suo etterno essilio (Pg XXI 18), mentre la funzione storica e suggestiva da lui esercitata nel poema comporta lo scacco irreparabile che l'uomo senza Dio necessariamente riceve sia pure nelle sue più alte personificazioni: " ... e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch'etternalmente è dato lor per lutto: / io dico d'Aristotile e di Plato / e di molt'altri "; e qui chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato (III 40-45).
È necessario poi considerare che la ‛ situazione ' di V. quale risulta dal sovrapporsi di una saggezza assunta post mortem sulla naturale saggezza del vivente e dal lucido recupero dei motivi morali incidenti sulla sorte eterna (Non per far, ma per non fare ho perduto / a veder l'alto Sol che tu disiri, VII 25-26) mettono il personaggio nelle condizioni più idonee a professare in modi concreti la pietas e l'humanitas tradizionali (il patrimonio vivo della cultura classica) in attinenza al compito che gli spetta. Egli può ora trasferire al discepolo amato l'impulso al ‛ ben fare ', nell'ambito della fede (cfr. XXII 60 la fede, sanza qual ben far non basta), disponendolo a far suo l'amor che drittamente spira (Pd XV 2). Può far risuonare la voce del suo magistero nelle prospettive della verità cristiana, coronamento del faticoso cammino che l'uomo, dall'inizio dei secoli, ha intrapreso alla conquista del regno. Di qui il particolare accento, diremmo l'impazienza umana (ma di estrazione teologica) delle sue esortazioni, ispirate all'urgenza dell'‛ andare ', quali che siano gli ostacoli interni o esterni che facciano guerra al viator: Dunque: che è? perché, perché restai...? (If II 121); E però leva sù; vinci l'ambascia / con l'animo che vince ogne battaglia, / se col suo grave corpo non s'accascia (XXIV 52-54); " Perché l'animo tuo tanto s'impiglia ", / disse 'l maestro, " che l'andare allenti?... " (Pg V 10-11); " Lèvati sù ", disse 'l maestro, " in piede: / la via è lunga e 'l cammino è malvagio... " (If XXXIV 94-95); Nessun tuo passo caggia; / pur su al monte dietro a me acquista (Pg IV 37-38); " Non aver tema ", disse il mio segnore; / " fatti sicur, ché noi semo a buon punto; / non stringer, ma rallarga ogne vigore... " (IX 46-48); Lascia lui e varca; / ché qui è buono con l'ali e coi remi, / quantunque può, ciascun pinger sua barca (XII 4-6); dimandai per darti forza al piede: / così frugar conviensi i pigri, lenti / ad usar lor vigilia (XV 136-138); volgiti in qua e vieni: entra sicuro (XXVII 31-32); batti a terra le calcagne (XIX 61).
Questa nota di forza in cui il personaggio redime certe sue pause e incertezze, l'unica non deducibile dall'ingenium virgiliano (ma per qualche analogia si ricordino i prodigiosi comandi impartiti a Enea nel poema latino: l'" Heu fuge, nate dea, teque his... eripe flammis " [II 289] di Ettore, l'" Eripe, nate, fugam " [v. 619] di Venere, il " Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum " [v. 780] di Creusa; e quindi i vaticini di Apollo, " antiquam exquirite matrem " [III 96]; dei Penati, " Mutandae sedes " [v. 160]; di Celeno, " ibitis Italiam " [v. 254]; di Eleno, vv. 374-462; ma soprattutto l'imperioso " naviget " [IV 257] di Giove) si giustifica così nel clima ultraterreno e felicemente concorda con le qualifiche terrene che fanno di V. poeta la guida prima di Dante.
4. Virgilio nella Commedia: il valore simbolico. - L'impresa d'individuare e valutare il secondo significato delle invenzioni dantesche, nascosto sotto la lettera, è sempre assai ardua, come quella che presuppone risolti alcuni problemi (tuttora invece aperti e discussi) pregiudiziali a chiarire la struttura del poema e la poetica sottesa alla sua composizione.
La Commedia è relazione fedele, da ‛ scriba ', di un viaggio non dirò veramente effettuato, ma vissuto come reale in una visione, in un sogno, o è nella sua sostanza ‛ favola ', popolata sì di persone storiche ma trasposte e calate in una tramatura fantastica? E conseguentemente l'allegoria in essa operante è quella dei teologi o quella dei poeti, secondo l'interpretazione più comune di Cv II I 4? E l'allegoria dantesca è continuo controcanto intessuto alla narrazione letterale, sicché in ogni momento dell'opera, in ogni gesto o parola dei personaggi si celi un senso riposto, o s'inserisce con intermittenza nell'azione, lasciando largo margine di autonomia al primo senso, come par suggerisca lo stesso poeta sull'indicazione di s. Agostino a proposito delle Scritture: Non omnia quae gesta narrantur etiam significare aliquid putanda sunt, sed propter illa quae aliquid significant etiam ea quae nichil significant actexuntur (Mn III IV 7)?
Il peso di questi interrogativi, validi per tutta la Commedia, si moltiplica quando si tratti di V., in ragione della continua presenza e della funzione fondamentale che egli ha nel poema.
Per gli antichi commentatori V. è sostanzialmente la ragione umana: tale il parere di Iacopo, che vede in lui (come poi l'Ottimo) " colui che più nella ragione umana poetando si stese ", di Graziolo, dell'Anonimo, del Vellutello. Pietro individua nel poeta latino il rappresentante della " rationalis philosophia ", Benvenuto della " ratio naturalis in homine " atta a muovere le scienze e le arti liberali. Anche Boccaccio parla di " ragione a noi conceduta da Dio ", intendendola come seconda grazia cooperante, mentre il Buti inclina a scorgere nella guida di D. la " ragione inferiore " che corregge la sensualità e induce all'amore per la virtù come al dispregio per il vizio. Al contrario il Landino, fra i vari valori di V., preferisce puntare sulla " ragione superiore ". Un po' tutti questi lettori cercano naturalmente anche il raccordo tra l'allegoria e la base storica di V., facilmente trovandolo nel tradizionale connotato di saggezza proprio del poeta latino, e aggiungendovi talora le sue doti personali di pietas e virginei costumi.
Non molto di nuovo offrono gli altri commenti e gli studi del XIV, XV e XVI secolo (con qualche eccezione per gli spunti del Beni, del Caro, del Borghini e del Castelvetro).
Dopo, specie nell'Ottocento, prevalgono le interpretazioni politiche che fanno di V. l'incarnazione dell'idea imperiale o della setta ghibellina (Rossetti), ma intanto va anche affiorando, fra nuove ricerche di rapporti (tipica quella del Bennassuti che pone V. a simbolo della ragione sottoposta alla rivelazione), qualche perplessità che disvela la complessa sostanza del problema. Il Tommaseo, intendendo V. come ragione umana o scienza umana, si domanda per esempio: " Perché la Vergine manda Lucia che mandi Beatrice, acciocché mandi Virgilio a soccorrere Dante? ". E conclude: " La ragione di ciò m'apparisce men chiara ".
Col De Sanctis il punto esegetico-critico riguardante V. viene calato all'interno di una generale valutazione dell'opera dantesca, e si pone in termini più decisi l'esigenza di definire quanto e come la trasposizione allegorica influisca sulla consistenza poetica del personaggio, anche se in genere il De Sanctis propende a isolare il momento vivo e naturale della rappresentazione ultramondana, minacciato dall'invadenza del secondo senso.
Contemporaneamente, in un settore più attento a ricostruire gli antecedenti storico-culturali della Commedia, matura il magistrale libro del Comparetti, che nel collocare il personaggio dantesco sullo sfondo di una tradizione secolare e nell'esaminarne i nessi con le deformazioni delle leggende virgiliane medievali, rivaluta l'aspetto umano e reale della guida in contrasto con i suoi tratti ideali e simbolici, i quali ultimi riguardano " quella parte in cui l'anima, rimanendo in regione umana, non fa che purificar se stessa e rendersi degna e capace della visione beatifica " (p. 260).
Dal Comparetti in poi gl'interventi critici s'infittiscono, pur senza dipartirsi notevolmente dal tracciato fin qui esposto (ma si ricordi almeno la proposta pascoliana di equiparare V. a Studio e Amore). I principali poli esegetici rimangono pur sempre quelli di V.-ragione e V.-sapienza pagana, V.-intelligenza naturale e V.-filosofia, documentum dell'imperiale autorità.
Tuttavia gli studiosi moderni sembrano, orientati di preferenza nella direzione di un giudizio sintetico che stringa insieme significante e significato, il che implica un riacuirsi dell'attenzione sul personaggio-poeta e insieme l'enucleazione di una precisa tipologia razionale (una ‛ specie ' di ragione e non l'astratta ragione) di cui il personaggio stesso possa farsi figura e voce.
Un punto di riferimento molto importante al fine di circoscrivere il significato e la funzione di V. è senza dubbio costituito da Beatrice. Nel I canto dell'Inferno V. stesso segna i propri confini sul piano della dignità spirituale di fronte a Dio: egli guiderà D. per i primi due regni oltremondani, ma non arriverà alle . beate genti: A le guai poi se tu vorrai salire, / anima fia a ciò di me più degna: / con lei ti lascerò nel mio partire (vv. 121-123). Il divario è per ora solo tra chi non ebbe fede e chi ebbe fede. Il canto successivo rivela invece un'orditura ben più complessa di motivi teologico-parabolici, fra i quali risplende il gran tema della grazia: portatrice di grazia è la Madonna-Donna gentile (forse una voluta trasvalutazione della filosofia riflessa sul nostro personaggio, data la possibile rispondenza V.-filosofia) che attraverso il moto di Lucia (Lucia... / si mosse) muove Beatrice (venni qua giù del mio beato scanno) che muove V. (Or movi... / I' son Beatrice che ti faccio andare) che muove infine D. (e poi che mosso fue, / intrai per lo cammino alto e silvestro).
V. diventa veicolo della carità divina che provvidenzialmente tocca l'uomo smarrito e lo salva per le sue vie misteriose.
Nonostante infatti l'umanissima incertezza di Beatrice (temo che non sia già sì smarrito, / ch'io mi sia tardi al soccorso levata, If II 64-65) D. è salvo nel momento stesso in cui il compianto di Maria frange là sù il duro giudizio di Dio (l'iniziativa di Beatrice in Pg XXX 133-134 soggiace evidentemente alla spinta divina e si verifica quando ogni decisione sulla salute del suo protetto è già presa). Per il resto della Commedia questo dono di grazia, rapportato non solo al viaggio nei regni oltre-mondani ma anche al destino escatologico, è più volte esplicitamente confermato a D., a cominciare dalla rabbiosa profezia di Caronte, più lieve legno convien che ti porti, e dalla postilla delucidatrice del maestro e duca: Quinci non passa mai anima buona; / e però, se Caron di te si lagna, / ben puoi sapere optai che 'l suo dir suona (If III 93 e 127-129). Sembra un'eco delle parole di Caronte il vaticinio che V. pronuncia al cospetto di Stazio: coi buon convien ch'e' regni (Pg XXI 24).
La non dubbia e già guadagnata salvezza di D. sposta il problema delle due guide da una prospettiva soteriologica a una gnoseologica, come risulta dal testo che meglio di ogni altro allude alle loro specifiche attribuzioni. Imprendendo a trattare il tema dell'amore V. promette: Quanto ragion qui vede, / dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta / pur a Beatrice, ch'è opra di fede (Pg XVIII 46-48; meno definitorio, ma ugualmente interessante, è l'avvertimento di Pg XV 76-78). V. si fa così espressione di un ‛ vedere ', cioè di un conoscere razionale, che pare esorbiti dai limiti dell'episodio e coincida, alla radice, col suo essere simbolico. Ma conoscenza razionale è, a sua volta, modulo generico, e suppone intanto la chiara consapevolezza di ciò che la ragione significhi per D. (v. a proposito la voce specifica) e quale compito assuma di fronte alla grazia e alla fede.
Brevemente diremo qui che la ragione anche nelle opere minori, sfiorate talvolta dal dualismo averroistico, è facoltà limitata e insufficiente ad assicurare la piena felicità, la quale consiste, come si sa, nell'atto che ‛ vede ' il vero (cfr. Cv IV XXII 18 e Pd XXVIII 109-111). Di tale vero assoluto e divino essa, sia come virtù individuale, sia come forza intellettiva che agisce attraverso la ‛ hominum multitudo ' (cfr. Mn II VI 6), riceve solo un irraggiamento, secondo l'attestazione di Cv III II 14 l'anima umana... con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella (ma certo il paragone con gli angeli e l'inciso a guisa di sempiterna intelligenzia fanno di questo brano un alto omaggio alla potenza razionale dell'uomo).
La Commedia, mentre ribadisce (specie nelle prime due cantiche) la debolezza della ragione (e già la prima schiera dei peccatori è di coloro che la ragion commettono al talento, If V 39), precisa ancora che la veduta umana delle cose eterne convene / essere alcun de' raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene (Pd XIX 52-54; per le interferenze di questa partecipazione dell'intelletto alla bontà divina, v. INTELLETTO POSSIBILE).
D'altra parte occorre prendere buona nota che per D. la ragione non è uguale in tutti gl'individui e si commisura alla maggiore o minore nobiltà naturale dei vari soggetti (cfr. Cv III VII 6, IV XXI 7, VE I III 1): massima nei più nobili, minima nei meno nobili.
Non ci vuol molto per concludere che la ragione dei poeti, dei poeti tragici in particolare (hii sunt quos poeta Aeneidorum sexto Dei dilectos et ab ardente virtute sublimatos ad aethera deorumque filios vocat, quanquam figurate loquatur, VE II IV 10), nobilissimi tra gli uomini, ornati del nome che più dura e più onora, non secondi nemmeno a Cesare (cfr. Pd I 29), soccorsi inoltre da un'ispirazione quasi profetica, è la più adatta a sorprendere la spiritualità celata nelle cose, incorporandola nelle forme sensibili dell'arte. Dice il Casella: " Amando le cose nella loro vita segreta, nel principio attivo che internamente le agita e le muove, e che traluce in esse come bellezza in sé, il poeta che crea, vive, per così dire, in intesa metafisica con Dio, causa prima degli esseri e autore della natura. Ed è già cristiano in isperanza, se non in possesso ".
Nell'altissimo poeta D. rappresenta dunque, piuttosto che la ragione in generale, una precisa forma e un preciso uso della ragione, restaurando all'inizio del suo viaggio l'alleanza tra poesia e verità per il tramite dell'amore alle cose.
A parte una sorprendente intuizione di Graziolo, che già interpretava V. come momento autobiografico del viator (" inveniebat ipse Auctor in se ipso viam verae cognitionis "), solo i critici più recenti (lo ripetiamo) hanno stretto i vincoli tra la realtà storica di V. poeta e il suo valore simbolico, ora su una base puramente psicologica, come il Renaudet (" Pour la conduite et la rédemption de Dante, âme de poète, âme travaillée et douleureuse, il fallait une âme de poète, humaine et tendre "), ora con considerazioni più dottrinali, come il Renucci (" Philosophe et poète, il incarne à la fois la Raison et l'art, par conjonction des termes, la raison génératrice d'ordre en toutes choses grâce aux resources de l'Art ").
Le formule più correnti per le quali V., in quanto saggio pagano veggente in enigma e vate dell'Impero, è figura della ragione sommessa alla fede, messo e araldo di Beatrice, vanno confortate a nostro parere da questa accezione ‛ personale ' del simbolo, vanno filtrate attraverso quella coincidenza delle interne strutture che solleva V. ad aspetto vivo della coscienza dantesca.
Tutti i caratteri della lettera cooperano a una siffatta assunzione parabolica che prepara i gradi iniziali dell'itinerario ascetico; la sintesi operata dal poeta dà ragione a quanti hanno sentito la singolare concretezza del personaggio, così contrastante con le stilizzazioni allegoriche, e si sono dichiarati per un V. simbolo, in ultima analisi, di sé stesso, anche quando, come accade al Gilson, al Nardi, al Pézard, all'Auerbach, al Pagliaro, si è pur dovuta ammettere la consistenza non solo letterale della guida dantesca.
Né deve sfuggire come l'attributo della libertà, peculiare degl'intelletti più alti (Nos autem quibus optimum quod est in nobis noscere datum est, gregum vestigia settari non decet, quin ymo suis erroribus obviare tenemur. Nam intellectu ac ratione degentes, divina quadam libertate dotati, nullis consuetudinibus astrïnguntur; nec mirum, cum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur, Ep XIII 7), sia preziosa premessa all'ufficio di V.: si badi all'obbligo imposto al saggio, in nome del suo sapere, di erroribus obviare e soccorrere gl'ignoranti liberandoli dalla servitù a una ‛ vana credulitas ' (cfr. il medesimo § 7). L'avvio alla riconquista della libertà è promosso in D. appunto da V. (da ciò che V. rappresenta) che alla presenza di Catone, severissimi verae libertatis tutori: (Mn II V 15), designa il discepolo come colui che libertà va cercando (Pg I 71) e chiude il suo magistero nel momento in cui D. ha l'arbitrio ormai libero, dritto e sano (XXVII 140) e merita la piena signoria su sé stesso. V. è dunque il mezzo di questo riscatto dell'uomo D., di questo affrancamento della recta voluntas, la quale non può generarsi e sussistere senza il recupero del divino nel mondo e nella natura umana: torna a proposito la bella espressione di Stazio che su invito di V. e in qualità di suo vicario ‛ dislega ' a D. la veduta eterna (XXV 31). Perciò l'azione della guida si esplica lungo una duplice linea di esperienza (non lì era altra via / che questa per la quale i' mi son messo, Pg I 62-63), nell'Inferno (cfr. XVII 37-38, XXVIII 48-50) e nel Purgatorio (cfr. XXX 136-138), linea indirizzata a investigare gli esiti oppressivi della mala condotta (Solo il peccato è quel che la [l'anima] disfranca, Pd VII 79, e cfr. Rime CVI 24-26 e 43-52) e riaccendere il lume dato a bene e a malizia e così ridar forza al libero voler (cfr. Pg XVI 75-76).
Certo è la linea assegnata dal Convivio alla filosofia gloriosa di libertate (II XV 3, ma v. anche il successivo § 4 e III XIV 9, IV II 17), e in sede politica è anche la linea della Monarchia che alla redenzione dell'umanità vede vittoriosamente impegnato il monarca col soccorso dei philosophica documenta (cfr. I XII 8-13 e III XVI 8-11), ma con qualche tratto in più (immesso in dimensioni metafisiche) che proprio la poesia (tesa sempre in D. alla concretezza) aggiunge alla figura del poeta chiamato a rappresentarla. V. supera il philosophus dei trattati in virtù di una conoscenza poetica che è forma privilegiata e divinatrice del sapere, pur se legata di necessità alla terra: come il viaggio di V. si svolge nello spazio del nostro globo, dall'infima lacuna del Cocito al cacume del Purgatorio, così il suo comprendere si ferma là dove il terreno finisce: se' venuto in parte / dov'io per me più oltre non discerno (Pg XXVII 128-129). Egli esercita il suo ufficio scrutando il soprannaturale che è nelle cose (come lo scrutava nel suo tempo storico e nella civiltà artistica da lui rappresentata) e offrendone il riflesso alla debole volontà di D. per riconfortarla nell'esercizio ascetico-mistico: " primum gradum ascensionis collocemus in imo, ponendo totum istum mundum sensibilem nobis tanquam speculum, per quod transeamus ad Deum, opificem summum " (s. Bonaventura Itinerarium I 9).
La libertà concessa da V. al discepolo consiste nell'aver restaurato dentro la sua coscienza il senso di una legalità universale ordinata a fini trascendenti, che è l'orma dell'eterno fattore nel creato, in modo che egli accetti liberamente per sé stesso, con totale adesione della volontà, ciò che Dio con un intervento gratuito aveva scelto per lui. L'elezione consapevole di una retta norma di vita risolve la crisi dantesca (crisi intellettuale, morale e forse poetica) di cui è cenno all'inizio del poema: dal falso piacere delle presenti cose, dal breve uso di vanità mondane, dalle scuole e dalle dottrine cieche che volgono i passi per via non vera (secondo il rimprovero di Beatrice: cfr. Pg XXX 130-131, XXXI 34-35 e 58-60, XXXIII 89-90) al giusto intendimento e alla giusta fruizione della realtà e della poesia in vista del destino ultimo, dal gusto delle cose basse e delle basse voglie al senso del divino: Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi (XXIII 118-119, con l'epilogo di XXX 51).
Un gradino più in alto attende Beatrice, luce tra il vero e l'intelletto (Pg VI 45), la quale completa la conquista dantesca della libertà (Tu m'hai di servo tratto a libertate, Pd XXXI 85) favorendo la fusione delle volontà singole con la volontà di Dio in grazia di quell'amore di cui ella è figura: l'alta carità che rende le anime serve / pronte al consiglio che 'l mondo governa, il libero amore che nella città celeste basta a seguir la provedenza etterna (XXI 70-75). Tra l'uno e l'altra c'è naturalmente la rivelazione (Beatrice stessa è colei il cui bell'occhio tutto vede, If X 131). D. più volte sottolinea il divario fra ragione e fede, fra una forma di conoscenza indiretta della verità e una di conoscenza diretta, anticipata sulla terra con l'ausilio della parola rivelata e che sarà confermata in cielo: Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede (Pd II 43-45). Forme di conoscenza che tuttavia, lungi dall'essere reciprocamente indipendenti, interferiscono l'una nell'altra, almeno nel senso che la prima si arricchisce spesso di elementi propri della seconda e viene sollecitata dall'intervento di forze soprannaturali. Tipico l'episodio dei diavoli alle porte di Dite: di fronte a essi V. riconosce la propria impotenza, ma attende con piena fiducia l'arrivo del messo celeste. Di più: l'intera azione di V. si sviluppa al cospetto di uno scenario escatologico dove la storia dell'uomo è conclusa negativamente o positivamente proprio secondo la sua relazione con la fede, sicché la guida non può ignorare, e in effetti non ignora, i principi sovrani che hanno determinato il giudizio di Dio.
Il combinarsi di elementi storici e metastorici nell'abitante del Limbo (di cui si è detto) trova rispondenza in questa particolarissima significazione del simbolo della quale non sempre si tiene il dovuto conto: non c'è dubbio alcuno, per fermarci a un dato clamoroso, che il Purgatorio sia un regno di fede; eppure V. vi conduce D. con indiscussa autorità: un ulteriore invito a diffidare di ogni formula, anche di quella assai vulgata che assegna a V. il compito di rappresentare la ragione umana assistita dalla rivelazione (se fosse così l'area di competenza virgiliana invaderebbe gran parte di quella riservata a Beatrice). Chi volesse a ogni costo tentare un'individuazione categoriale del poeta latino potrebbe pensare, come suggeriscono alcuni antichi commentatori, a V. come ‛ intellectus inferior ' che si muove nei limiti dell'esperienza (Mn I XVI 5: il ‛ superior ' invece agisce rationibus irrefragabilibus), ha carattere pratico, è regolato dall'arte (III 10). Ma il pericolo di circoscrivere troppo l'aspetto simbolico del personaggio permane. Dagli stessi antichi ci giunge l'avvertimento a rispettare la mutevole sostanza della prima guida dantesca. Dice il Landino: " acciocché nel processo del poema questo nome non c'induca in qualche errore... ci sia noto che non univoce ma equivoce sarà posto Virg., e alcune volte non sonerà altro che questo poeta, alcuna volta significherà... la ragione umana semplicemente, e D. sarà la sensualità; altra volta l'interpreteremo per l'intelletto illustrato di varie e molte dottrine, altra volta esprimeremo per quello la ragione superiore, e allora D. significherà non la sensualità sola, ma ancora la ragione inferiore ". Non è dunque un discorso di comodo quello che mira a mettere in luce la pluralità dei valori che confluiscono e si fondono nel personaggio, la mobilità del suo significato entro un'area genericamente allegorica. V. ha collegamenti vari con il patrimonio culturale di D. (politico, filosofico, letterario): principalmente è un aspetto del suo pensiero proteso al raggiungimento della verità: una forza conoscitiva superiore alla filosofia ma insufficiente a raggiungere la visio diretta di Dio cui conduce la fede. Non sembra inopportuno quindi situarlo sul prolungamento di quell'attività ‛ poietica ' dell'artista che operando nella natura e con i mezzi forniti dalla natura (la materia) risale per vestigia al principio primo, scoprendo il piano di Dio attuato nella realtà (cfr. Mn I III 2, II Ir 3, If XI 99-100, Pd VIII 108, IX 106-107, X 10-12), l'ordine morale entro cui esaltare la propria libertà, e tuttavia avverte il suo esilio nel regno delle forme analogiche e approssimative, tanto più penosamente quanto delle vere sustanzie ha ormai nozione sicura. E vorremmo ancora dire che se D. personaggio vive questo momento conoscitivo con la promessa di un più alto traguardo, D. poeta lo canta quando già l'ha superato e può contemplarlo da una diversa prospettiva, adornandolo nella riconoscente memoria di note trepidanti e delicate, come chi pensi ad amico generoso venuto meno a metà del cammino: con V. spariva la sua giovinezza intellettuale. Altro verbo, aspro e amaro, lo attendeva: Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada (Pg XXX 55-57).
5. Il personaggio poetico. - Quanto ora detto c'introduce alla poesia di Virgilio. Il problema si connette alla lunga disputa sul valore poetico delle allegorie. Soggetto della poesia è la lettera o la più complessa unità risultante dalla fusione di significante e significato? Da quando la domanda ha un senso, le simpatie dei critici si sono accentrate piuttosto sugli elementi umani di V. che non su quelli concettuali e simbolici, e la cosa è comprensibile in una considerazione antitetica dei due termini, tipica del clima romantico. Il De Sanctis per primo, come abbiamo ricordato, distingueva e opponeva verità poetica e verità simbolica: " vuol costruire un'allegoria, ed eccoti fuori una poesia; ha in mente una personificazione, e sotto la penna gli esce una persona. La Teologia diviene Beatrice, la Ragione diviene Virgilio, l'uomo diviene Dante Alighieri, esseri vivi e compiuti che hanno infiniti lati propri, indipendenti dal concetto, di cui dovrebbero essere simboli ". Posti da parte i troppi antiquari e filologi della Commedia, il critico irpino raccomandava che finalmente si cercasse in essa la poesia: la parte poetica di V. è in quel che si riferisce non già al simbolo ma al suo esser poeta amato e ammirato: " ingenua ammirazione che noi possiamo concepire in un tempo in cui non c'era altra letteratura che la latina, e dove i racconti meravigliosi come quelli dell'Eneide dovean far tanto effetto sopra uomini ancora barbari e dominati dalla fantasia ".
Dal De Sanctis, senza grandi mutamenti di posizione, al Croce, per il quale o c'è l'allegoria e allora essa " è sempre, per definizione, fuori e contro la poesia ", oppure c'è la poesia, e allora non c'è più l'allegoria ma unicamente un'immagine poetica, sicché nell'incontro di D. con V. è da vedersi soprattutto la commozione del discepolo che si trova innanzi l'antico poeta da lungo tempo gran parte della sua vita interiore, " così lontano nel tempo, così vicino a tutti i suoi pensieri ".
Non si vuol certo negare che alla poesia del V. dantesco possa far velo un'eventuale scissura del personaggio in piani diversi e incoerenti tra loro; quel che può invece venir discussa è l'esistenza di tale scissura, sia dal punto di vista dell'autore che del lettore. Chi si accosti alla guida dei primi due regni ultraterreni ha infatti la sensazione, avvalorantesi a mano a mano che i canti si susseguono, che l'accordo degli elementi strutturali risulti in essa perfetto e che il secondo senso muova e si sviluppi dal primo senza forzature, i valori storici e i suggerimenti allegorici rimanendo attratti nell'unità della figura agente. I ‛ distinguo ' frequenti nell'antica esegesi si ammorbidiscono per i moderni critici nell'avvertimento che il retroterra culturale, la sapienza teologica, i propositi morali, la tradizione letteraria, cooperano al concepimento del personaggio, che nasce all'intersezione di numerosi piani ideologici, ma non sarebbe quello che in effetti è senza il fervore sentimentale, il grande amore di Dante.
Impossibile comprendere V. al di fuori della religione dantesca, estraniato dal grandioso disegno etico-escatologico che presiede alla Commedia o dalla speciale liturgia che ne scandisce i momenti e le situazioni: si veda per esempio la parte che ha la guida nel rito purificatorio imposto da Catone, col probabile rimando dal simbolico giunco schietto (Pg I 95) al ‛ mistero ' del " ramus aureus " celebrato in Aen. VI 136-141; o in altra sfera si consideri l'episodio dei diavoli alla porta di Dite, nel corso del quale V. saggia per la prima volta i suoi poteri nei confronti degli angeli decaduti (precedentemente aveva avuto a che fare solo con demoni pagani), ne subisce la tracotanza (subito dimensionata secondo un metro divino, sullo sfondo di Is. 45, 2) e annuncia l'intervento di una forza superiore, aprendo, con l'invito a decifrare la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani (If IX 62-63), il problema se la sua impotenza debba intendersi limitata alla sola categoria degli eresiarchi, o, come sembra più probabile, a tutta la città di Dite (il basso Inferno) unificata sotto la nozione d'ingiuria (If XI 23) fatta a Dio e che acquista odio da Dio, il che equivarrebbe a creare un rapporto nuovo tra il suo significato e il valore trascendente proprio in contatto con i mali più gravi dell'umanità, favoriti dalla corruzione dei duo luminaria magna.
Si prenda ancora in esame la preghiera al sole in Pg XIII 16-20, così densa di sottofondi mitico-religiosi e così contesta di espressioni e figure scritturali. E valga come altro elemento spia della ricchezza virgiliana la battuta di Pg XXVII 24 che farò ora presso più a Dio?, che se non è frutto di una patetica illusione, spiegabile sul piano puramente personale (un momento di oblio e di abbandono), attesterebbe una maturazione interna del personaggio-simbolo carica d'interrogativi teologici. Una rete, come si vede, assai fitta di relazioni fra il centro e il cerchio, dico fra la figura agente e l'insieme dei valori terreni e ultraterreni che concorrono a darle fisionomia e vita.
Ma se la poesia di V. soffre quando non la s'illumini convenientemente anche sotto il profilo culturale e simbolico, essa è forse ancor maggiormente minacciata dalla presunzione di una mai intermessa funzione allegorica del personaggio-guida. Non converrà quindi separare nella figura quel che vi è di umano e terreno da quel che vi è di teologico e simbolico, conducendo una lettura a due livelli (cosa che contrasterebbe con l'intenzione dantesca), ma nemmeno sarà da richiamare ostinatamente il vario sentire e agire di V. in un registro unico. E insomma la difficoltà sta nel reperire un criterio esegetico che sappia lasciare alla lettera il suo spazio vitale anche nella necessaria prospettiva dei significati secondi.
Ombre e luci, cadute e riprese di tono non dipendono nella vita artistica del nostro personaggio dal prevalere dei valori letterali o di quelli simbolici, ma dal naturale succedersi lungo le pagine di un'opera così lunga e complessa di tratti fervidi e lirici e di altri ragionativi e didascalici, come dalla mobile funzione della guida che ora si raccoglie in sé e lascia intravvedere la sua pensosa intimità, ora si dedica più distesamente al magistero di cui è investita.
Certo il pensiero del lettore corre istintivamente a quegli episodi in cui la poesia virgiliana si giova di scoperte indicazioni sentimentali, alle esitazioni, ai turbamenti, alle impennate generose, alle malinconie dell'esule senza speranza, alle premure paterne per il discepolo, ai moti gentili e agli struggimenti del suo animo, a certe grandi scene dove il mondo virgiliano sembra manifestarsi in una gamma variata di atti e reazioni. Si pensi al più volte citato incontro con i diavoli presso la porta della città di Dite, sospeso tra scoramento e fierezza, all'intervento nella bolgia degl'indovini con la condanna della magia pagana e il compiaciuto ricordo della terra mantovana, alla schermaglia con i Malebranche anch'essa chiaroscurata per un'alternanza di sfiducia e aspettazione sicura, alle fiere apostrofi contro Capaneo e Nembrot, al dialogo con Catone, al rapimento durante il canto di Casella, all'abbraccio con Sordello, al mobilissimo contrappunto sentimentale che caratterizza il colloquio con Stazio, alla mirabile sequenza di premure, ragionamenti, esempi, seduzioni, promesse che inducono il discepolo restio a entrare nelle fiamme purificatrici dell'ultima cornice.
Ma una loro poesia raccolta e severa hanno anche le ‛ ragioni ' di V., fatte segno al riconoscimento devoto dell'ascoltatore: Maestro, assai chiara procede / la tua ragione, e assai ben distingue, ecc. (If XI 67-68); tu mi contenti si quando tu solvi, / che, non men che saver, dubbiar m'aggrata (vv. 92-93); Maestro, il mio veder s'avviva / sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro / quanto la tua ragion parta o descriva (Pg XVIII 10-12).
Trattino la teoria della Fortuna (If VII 73-96) o l'ordinamento morale delle due prime cantiche (XI 16-115, Pg XVII 85-139), descrivano il Veglio di Creta (If XIV 94-120) o affrontino questioni di alta scienza etico-teologica (come in Pg III 31-39, XV 64-78 e XVIII 19-74), esse s'intonano sempre a una commossa grandiosità, senza perder contatto con chi le pronuncia, specie per i continui rimandi al più perfetto insegnamento di Beatrice (e questo valga a temperare l'osservazione del Momigliano secondo la quale in Pg XV 67-69 " Virgilio parla già come Beatrice, come un Beato, come un santo ").
Se il mai obliato avvertimento del limite da un lato porta V. a mettere un accento più intenso nelle sue parole (si noti il contrasto fra Oh creature sciocche, / quanta ignoranza è quella che v'offende, If VII 70-71, e certe riflessioni nobilmente dolorose come quella di Pg III 40-41), dall'altro prepara sin dalle prime battute il momento del distacco, altra pagina di grande poesia, cui concorrono varie componenti culturali e sentimentali: l'esaurirsi della ricerca che ha sondato la realtà terrena nei due versanti dell'errore e della redenzione, l'imminente appagamento della coscienza (Quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de' mortali, / oggi porrà in pace le tue fami, Pg XXVII 115-117), il senso di vasta pace notturna spirante dal paesaggio, i suggestivi presagi celesti (vedea io le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori, vv. 89-90), il sogno di D., l'irrompere degli splendori antelucani. Ma al centro della scena sta l'ultimo discorso di V., pronunciato dal maestro con gli occhi fissi negli occhi del discepolo. Questo discorso corona splendidamente la figurazione del personaggio e ha la forza spirituale di una consacrazione (Momigliano): poco batte, per virile pudore, sulla nota malinconica del congedo, molto sulla grande impresa compiuta dal compagno di viaggio, sul suo acquisto di libertà morale (Sapegno). Si snoda lentamente per brevi membri ben scanditi che a noi suonano come un epilogo ma a D. dovevano apparire pieni di promesse. E difatti egli mostra di non provare alcuna particolare emozione, quasi non si renda conto che quello era l'addio del maestro. Del resto V. ormai maestro non è più. Per il periodo che resta ancora vicino a D. è preso dallo stesso stupore di lui dinanzi allo spettacolo del Paradiso terrestre: Io mi rivolsi d'ammirazion pieno / al buon Virgilio, ed esso mi rispuose / con vista carca di stupor non meno (Pg XXIX 55-57).
La sua scomparsa coincide con l'apparizione di Beatrice e proprio in una circostanza in cui sembra che D. tornato debole e insicuro abbia ancora bisogno del suo conforto: volsimi a la sinistra col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto (XXX 43-45).
Ed è assai significativo che la presenza tanto attesa di Beatrice e l'incanto dell'Eden, le primizie, com'egli dice, dell'eterno piacere non impediscano o attenuino il pianto del poeta sorpresosi privo dell'amata guida, il cui nome risuona per tre volte in un'accorata ripetizione, nell'ultima terzina a lui dedicata dalla Commedia: Virgilio n'avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die' mi (Pg XXX 49-51; nulla aggiungono al personaggio i brevi accenni di Pd XVII 19, XXVI 118).
Oltre che nei luoghi citati il nome di V. ricorre in Vn XXV 9, Cv I III 10, Il V 14, X 5, III XI 16, If I 79, XIX 61, XXIII 124, XXIX 4, XXXI 133, Pg II 61, III 74, VI 67, VIII 64, X 53, XIII 79, XIX 28 (2 volte), XXI 14, 101, 103 e 125, XXII 10, XXIII 130, XXIV 119, XXVII 20, 118 e 126, XXIX 56.
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Echi virgiliani nell'opera dantesca. - Le reminiscenze virgiliane in D. non si svolgono diversamente dal modo tradizionale, già noto ai classici latini, d'imitare o rievocare un modello, ora traendone ispirazione nel momento creativo per foggiare un personaggio o un episodio o enunciare un concetto, ora su un piano più formale, ricalcando un'espressione in modo scoperto con un sottolineato richiamo: in questo caso può anche avvenire che l'espressione del modello sia piegata a un significato che è lontano da quello suo originario, che l'eco sia più fonica che concettuale. In questo caso il poeta imitatore giuoca accortamente col testo che ha presente adattandolo, attraverso una deviazione semantica, al contesto proprio. La tradizione linguistica consente siffatte deviazioni anche all'interno di una frase celebre che diventa proverbiale (è quello che accade, per intendersi, di espressioni dello stesso D. trasferite in formule correnti: come ‛ perdere il ben dell'intelletto ', che in D. significa " perdere la grazia divina ", assume il significato di ‛ perdere il senno '; il ‛ provando e riprovando ' dantesco, dal senso suo " ora approvando ora disapprovando " passa, nel motto degli Accademici del Cimento, al senso di " provando, tentando più volte "). Il caso più frequente è comunque quello della semplice allusione che ricalca il nesso latino senza alterarne il senso: l'aquila è l'uccel di Giove (Pg XXXII 112) come in V. è " Iovis ales " (Aen. I 394; XII 247); il carcere cieco di Pg XXII 103 è l'Inferno (cfr. If X 58-59) e ricorda, posto in fine di verso, una clausola virgiliana: le anime dei morti " clausae tenebris et carcere caeco " (Aen. VI 734); strazio disonesto di If XIII 140 ripete " inhonestum vulnus " di Aen. VI 496, è qualcosa che rende deforme; la livida palude di If III 98 rievoca i " vada livida " di Aen. VI 320; la schiera bruna delle formiche era già per V. un " nigrum... agmen " (Aen. IV 404; cfr. Pg XXVI 34). Così è mera traduzione conosco i segni de l'antica fiamma di Pg XXX 48, che è da Aen. IV 23 " agnosco veteris vestigia flammae ". Né molto più liberamente è reso " nulli certa domus " (Aen. VI 673) con loco certo non c'è posto di Pg VII 40, e l'accorato rimpianto di Francesca che, come vedi, ancor non m'abbandona (If V 105) non sembra lontano da " curae non ipsa in morte relinquunt " di Aen. VI 444 riferito da V. ai morti per amore come Didone, e applicato da D. a Francesca ancora e per sempre stretta al suo Paolo. La polvere sollevata dalla schiera dei sodomiti (If XV 116-117 però ch'i' veggio / là surger nuovo fummo del sabbione) può ricordare più di un luogo virgiliano, ma prima di ogni altro Aen. XI 908-909 " ac simul Aeneas fumantis pulvere campos / prospexit... ".
Certe descrizioni virgiliane sono compendiate da D. che ne coglie e mette in luce i tratti essenziali. La similitudine di Aen. X 624-628 che in cinque versi descrive il flusso alterno delle onde, che ora si scagliano contro la riva ora se ne ritraggono, è ridotta a un solo verso in Pg X 9 sì come l'onda che fugge e s'appressa; l'opposizione fra gli antipodi che vedono succedere il giorno alla notte con ritmo alterno fra i due emisferi, svolta da V. in cinque versi (Georg. I 247-251) si riassume nel dantesco qui è da man, quando di là è sera (If XXXIV 118; cfr. specialmente di V. " illic sera rubens accendit lumina Vesper " del v. 251). Più di un modello virgiliano viene citato per la similitudine di If IX 67 ss. in cui il turbine che annuncia il Messo celeste venuto ad aprire la porta della città di Dite è paragonato a un vento impetüoso per li avversi ardori, / che fier la selva...: i critici rinviano a Georg. I 318 ss. e 328 ss., a Aen. XII 451 ss., e ancora a Georg. III 196 ss., tutti passi più o meno vagamente riecheggiati dalla similitudine dantesca, nella quale, più che lasciar vedere un diretto influsso dell'uno o dell'altro, la potente e personale ricreazione dantesca respira una atmosfera senz'altro virgiliana. Riscontri con le Georgiche meno vaghi di quelli ora citati si possono stabilire per altri luoghi danteschi, e sembra ormai superato (nonostante le perplessità del Renucci) lo scetticismo di chi (come lo Scherillo) negava che D. conoscesse quel poema, o riteneva, come il Moore, che ne avesse una conoscenza antologica, da estratti medievali. A parte gli echi che vedremo più avanti parlando delle Egloghe a Giovanni del Virgilio, il Marigo ha confrontato la selva... aspra di If I 5 con " aspera silva " di Georg. I 152, i dolci nati di Pd XXIII 2 con " dulces... nati " di Georg. II 523, l'aere bruno di If II 1 con " nigrum... aëra " di Georg. I 428, e altro ancora, più o meno plausibilmente. Il vento (di If IX 67 ss.) che fier la selva e sanz'alcun rattento / li rami schianta, abbatte e porta fori / ... e fa fuggir le fiere e li pastori ricorda non solo Georg. II 440-441 " silvae, / quas animosi Euri adsidue franguntque feruntque ", ma anche la burrasca notturna di I 330 ss., in cui " fugere ferae et mortalia corda / per gentis humilis stravit pavor ", mentre i venti " nunc nemora ... nunc litora plangunt ". La similitudine di Pg XXXII 136 ss. come da gramigna / vivace terra... / si ricoperse riecheggia probabilmente Georg. II 219, secondo cui la terra " suo semper viridi se gramine vestit ". Più diretti riscontri si colgono con l'Eneide per taluni atteggiamenti di personaggi danteschi. Farinata che scuote il capo sospirando (If X 88) prima di rispondere a D. può ricordare, pur nell'assoluta diversità di situazione e di stato d'animo, Giunone delusa per il felice approdo di Enea nel Lazio: " tum quassans caput haec effundit pectore dicta " (Aen. VII 292). Ma più precisa analogia è fra la scena virgiliana in cui Enea tenta tre volte di abbracciare il padre e l'ombra vana gli sfugge (Aen. VI 700-702) e il celebre episodio dell'incontro con Casella (Pg II 79 ss.): tre volte dietro a lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto; cfr. il virgiliano " ter conatus ibi collo dare bracchia circum; / ter frustra comprensa manus effugit imago ", ecc. Nel complesso gli echi dell'Eneide sembrano prevalere nei primi canti dell'Inferno, poi si equilibrano con echi lucanei, ovidiani, staziani, ecc. Nel Convivio le citazioni virgiliane sono tutte dall'Eneide (sembrano esclusi echi delle Bucoliche, e sono almeno molto dubbi quelli dalle Georgiche). Il Renucci ammette tuttavia una reminiscenza dalle Georgiche nell'epistola ai principi d'Italia (nescio qua dulcedine [Ep V 13] deriverebbe da Georg. I 412).
Altre volte il virgilianismo, come si è detto, assume in D. una connotazione semantica del tutto nuova; non per questo è meno allusivo: la sacra fame / de l'oro di Pg XXII 40-41 che secondo D. dovrebbe reggere, guidare a giusta meta i desideri umani e tenerli parimenti lontani dall'avarizia e dalla prodigalità, è, come intendeva già il Lana, un desiderio virtuoso, che dovrebbe volgersi a buon fine. Nell'episodio dantesco Stazio rievoca l'ammonimento virgiliano che lo mise in guardia contro la prodigalità e raddrizzò i suoi pensieri e i suoi desideri (io drizzai mia cura, / quand'io intesi là dove tu chiame… / ‛ Per che non reggi tu, o sacra fame / de l'oro, l'appetito de' mortali? '); in realtà V. aveva imprecato contro la " auri sacra [maledetta] fames " (Aen. III 56 ss.) che spinge i mortali a ogni delitto (" quid non mortalia pectora cogis "): mentre in D. è diventata quasi una " santa voglia " e al " cogis ", " spingi ", " induci " si è sostituito il reggi, cioè " guidi ", " governi ": è una fame moralizzata consapevolmente da D.; e non è che egli, come si è creduto un tempo, fraintendesse V., ma, come già spiegava il Buti, " li autori usano l'altrui autoritadi recarle a lor sentenzia quando commodamente vi si possono arrecare, nonostante che colui che la ditta abbia posta in altra sentenzia; e così fa ora lo nostro autore ". Una colorazione moralistica assume anche quella umile Italia di If I 106 di fronte a " humilem... / Italiam " di Aen. III 522-523 che in V. è " bassa ", " pianeggiante " quale appare dal mare ai Troiani la penisola Salentina: in D. l'Italia, travestita biblicamente, assurge a simbolo di una virtù che è propiziatrice di salvezza (come in Ps. 17, 28 " tu populum humilem salvum facies ") per mezzo del Veltro. Le si contrappone 'l superbo Ilïón (If I 75) che è pure modulo virgiliano (" superbum / Ilium " di Aen. III 2-3), ma non più nel significato di " nobile ", " maestoso ", bensì in quello morale, negativo, per cui anche in Pg XII 61-63 la sua caduta sarà un esempio di superbia punita.
Ma l'esempio più vistoso di ‛ cristianizzazione ' consapevole del testo è quello celeberrimo dell'interpretazione che D. fa dare a Stazio dell'apertura della IV egloga, intesa come profezia del Cristo da Lattanzio a s. Agostino, da Abelardo a Innocenzo III. D. non accetta la leggenda di un V. cristiano e lo lascia nel Limbo, mentre salva Stazio, che V. avrebbe convertito operando inconsapevolmente come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte (Pg XXII 67-69).
Non sappiamo se il cristianesimo di Stazio sia invenzione dantesca: il poeta può aver avuto qualche fonte medievale (anche se di questa tradizione predantesca si sono cercate le tracce senza giungere a risultati consistenti), ma potrebbe aver foggiato lui la leggenda sul modello di altre analoghe (Vincenzo di Beauvais attribuisce all'egloga IV la conversione di tre oscuri pagani), a gloria di V. più che del poeta della Tebaide: v. infatti, secondo quanto D. fa dire a Stazio, non solo avrebbe allontanato quest'ultimo dalla prodigalità con la sua apostrofe alla " auri sacra fames ", ma lo avrebbe fatto poeta, e infine lo avrebbe illuminato sulla vera fede: il motivo dei debiti di Stazio verso V. (che ricorre insistente fra allusioni e citazioni virgiliane) tocca la sua acme ideale con quest'illuminazione. La parola di V. che si consonava a' nuovi predicanti (v. 80), cioè si adattava a sensi cristiani, simboleggia la continuità fra la cultura pagana e cristiana: questa si vale di enunciati e forme espressive di quella, piegandole a significati più attuali. È quello che accade nella parafrasi dantesca dei versi celebri di V. (Buc. IV 5-7): Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenïe scende da ciel nova (Pg XXII 70-72). V. aveva annunciato una nuova età dell'oro, un nuovo ciclo di secoli di giustizia e di pace; il dantesco secol si rinova, se discende da " saeclorum... ordo " e da " nova progenies ", si presta ora a essere inteso in senso cristiano, come il paolino " renovari ad paenitentiam " e simili espressioni; indica un ravvedimento, un ritorno nella grazia del vero Dio. E progenïe scende da ciel nova, traduzione letterale di " iam nova progenies caelo demittitur alto ", acquista tutt'altro spirito e significato in consonanza con la nuova predicazione: sull'aggettivo dantesco nova, in posizione di rilievo, posa l'accento l'interpretazione cristiana di D., nella quale secol, al singolare, non è tanto il " saeclorum ordo ", un lungo spazio di tempo, quanto (con un significato di origine biblica) la vita dell'uomo nelle sue manifestazioni terrene (come il secol selvaggio di Pg XVI 135 è l'umanità di oggi coi suoi vizi), e assume un valore etico-religioso; per cui anche progenie... nova non è un'altra progenie che succede alla precedente secondo l'idea virgiliana di una palingenesi orfico-pitagorica, ma è questa nostra umanità che inizia una nuova vita nella redenzione. Questa prende il posto della virgiliana età dell'oro, l'età della giustizia e dei " Saturnia regna ", com'è più storicamente interpretata da D. stesso altrove, in Mn I XI 1-2, là dove D., per affermare che il migliore ordinamento è quello fondato sulla massima giustizia, cita l'egloga IV e chiosa: ‛ Virgo ' nanque vocabatur Iustitia, quam etiam ‛ Astraeam ' vocabant; ‛ Saturnia regna ' dicebant optima tempora, quae etiam ‛ aurea ' nuncupabant. Al passo famoso si era già richiamato D. un'altra volta salutando le nuove speranze suscitate dalla venuta di Enrico VII (Ep VII 5-6): nova spes Latio saeculi melioris ef fulsit. Tunc plerique vota sua praevenientes in iubilo tam Saturnia regna quam Virginem redeuntem cum Marone cantabant.
In quest'atmosfera di ‛ cristianizzazione ' di V. si muove anche l'interpretazione allegorica che dell'Eneide è data nel Convivio sulle orme di Fulgenzio. Questi, nel De vergiliana continentia, aveva visto nel poema di V. un'allegoria della vita umana: il naufragio di Enea è la nascita intesa come inizio dei dolori e dei pericoli che all'uomo sono riserbati nella vita; segue l'infanzia fino all'uscita dalla tutela paterna (morte di Anchise), quindi l'età dei piaceri e dell'amore (episodio di Didone), da cui un più maturo intelletto (Mercurio) richiama l'uomo a più alti ideali; e così via fino al trionfo della saggezza sul furore, raffigurato da Turno che soccombe a Enea. Su questa linea interpretativa D. rintraccia (Cv IV XXVI 6 ss.) nel IV e nel VI libro dell'Eneide il contrasto fra l'appetito, il desiderio incontrollato, e la ragione che lo dirige come fa il cavaliere col cavallo, usando ora il freno, ora lo sprone: il freno è la temperanza di cui dà prova Enea nel IV libro, quando lascia Didone per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa (viceversa in Mn II III 15, per dimostrare la nobiltà del progenitore dei Romani, quello di Didone è un vero, regale matrimonio al pari di quello con Creusa); lo sprone è la fortezza, o vero magnanimitate, e grazie a questo sprone Enea nel VI libro sostiene disagi e pericoli per scendere agl'Inferi e incontrarsi con l'anima del padre (Fulgenzio nella vicenda del VI libro vede piuttosto raffigurato il desiderio di sapere).
Nel V libro D. vede raffigurato l'amore che si deve ai maggiori e ai più giovani, come dimostrò Enea quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando (§ 11). All'età della gioventù, intermedia fra adolescenza e vecchiaia, si addice per D. la cortesia, di cui è esempio Enea quando rende gli onori funebri a Miseno e aiuta i suoi a tagliare la legna per il rogo (libro VI); e ancora si addice la lealtade, raffigurata in Enea che nei ludi in memoria di Anchise ciò che promise per le vittorie, lealmente diede poi a ciascuno vittorioso. La pietas che V. attribuisce a Enea è argomento di un altro luogo (Cv II X 5-6) in cui è spiegato che non è pietà nel senso usuale di misericordia, ma ne ha uno più vasto che abbraccia amore, misericordia e altre caritative passioni. In quest'interpretazione che fa la misericordia non identica alla pietà, ma speziale effetto di questa, D. muove sulle orme di Agostino e di s. Tommaso. Nel passo già citato di Mn II III la pietas di Enea, e anche la sua giustizia e il valore guerriero sono le componenti della " propria eius nobilitas " che si aggiunge a quella dei suoi avi e delle parentele. All'interpretazione del pio Enea in chiave religiosa, offerta dal Convivio, si associa così nella Monarchia quella del ‛ nobile ' Enea progenitore del popolo romano, arra di una predestinazione divina di quest'ultimo al governo del mondo; e l'una e l'altra si compenetrano nella visione transumanata della grandezza dell'Impero; per questo assunto, la testimonianza di V. è invocata ancora in Mn II VI 9-10, prima attraverso le parole di Anchise a Enea in Aen. VI 847 ss. che si concludono col celebre " tu regere imperio populos, Romane, memento "; e poi ancora con le parole di Giove a Mercurio (vv. 227 ss.) sul destino di Enea: " fore qui gravidam imperiis belloque frementem / Italiam regeret ". E infine in Mn II VIII 11 i versi di Aen. I 234-236 valgono a dimostrare, con altri di Lucano, come i Romani abbiano superato ogni popolo nella gara per il dominio del mondo: gara vinta di diritto, perché combattuta sempre attraverso il duello, che è giudizio di Dio: la prima volta fu quando Turno fu battuto e ucciso da Enea, ut in ultimis Eneidos canitur (Mn II IX 13).
È appunto questo, come si è accennato, un modo, tutto medievale, d'interpretare il mondo classico ricavandone mezzi espressivi per rendere concetti e ideologie religiose e politiche nuove attraverso un linguaggio che si adatta all'incontro di due culture; la tradizione classica è il sostrato su cui un pensiero attuale, ricco della propria vitalità, ha potuto inserirsi rivestendosi di forme proprie del passato e facendo del nuovo mondo il diretto erede dell'antico; per cui ad es. le parole con cui Giove assicura ai discendenti di Enea un " imperium sine fine " (Aen. I 278-279) sono citate da s. Agostino come parole non di un dio falso e bugiardo, ma del Dio unico e vero (Civ. I II 29); per D. è V. che direttamente parla in persona di Dio (Cv IV IV 11). Questo processo, nel caso di V., può avvenire solo in virtù di una tradizione ininterrotta che è la fortuna del poeta mantovano dal suo tempo al tempo di D.: lungo questa tradizione incontriamo una letteratura che è mediatrice fra i due poeti ed è rappresentata tanto da imitatori latini, come Ovidio e Seneca tragico, quanto da antichi commentatori di Virgilio. Se in D. Caco è (If XXV 25) insolitamente un centauro, contro tutta la tradizione mitologica, è perché il poeta ha chiosato " semihominis Caci facies " di Aen. VIII 194 sulla scorta di Ovidio, per il quale " semihomines " sono i centauri (Met. XII 406 e 536); se la furia del Minotauro è in modo singolare paragonata a quella di un toro ferito mortalmente che gir non sa, ma qua e là saltella (If XII 24) è perché al toro virgiliano di Aen. II 222-223, il quale è sfuggito al colpo, e, infuriato, muggisce paurosamente, si sovrappone il modello di un altro toro, quello di Seneca Oed. 341 che, ferito mortalmente come quello dantesco, in realtà non è capace d'infuriarsi come il toro virgiliano (e come il Minotauro dantesco), ma " huc et huc dubius ruit ".
Altre volte sono gli antichi scoliasti a guidare D. nelle sue interpretazioni virgiliane: il secreto calle di If X 1 è, più che un sentiero appartato, uno stretto passaggio (e stretto è, anche per il Petrocchi, variante esplicativa, lectio facilior di pochi codici); ma secreto si spiega qui da una tradizione scoliastica rappresentata per noi da una glossa ai " secreti... calles " di V. (Aen. VI 443): Tiberio Claudio Donato chiosa qui " angustiae viarum " (come chiosa con " angustos calles " gli " occultos... callis " di Aen. IX 383): le due idee di ‛ via laterale o secondaria ' e ‛ via stretta ' vengono ad associarsi e identificarsi istintivamente nella coscienza di Dante. L'aere amaro e sozzo di Pg XVI 13 che impedisce al mistico viandante di tener gli occhi aperti è ricordo di " fumo... amaro " di Aen. XII 588, forse perché Servio spiega l'aggettivo con " quod elicit lacrimas ". Che in D. casso da solo significhi " morto ", o meglio nel contesto " ucciso " (il re fu casso, If XXX 15), possiamo spiegarcelo sulla scorta di Donato il quale chiosa il virgiliano " aethere cassis " (Aen. XI 104) con " mortuis ". In If XXVIII 84 non da pirate, non da gente argolica è un'eco di Aen. II 78 " neque me Argolica de gente negabo ", le parole con cui Sinone confessa ai Troiani di essere un greco, cioè uno dei loro nemici, tanto che il citato Donato chiosa " Graecus sum, hoc est dicere: vester hostis ", e più avanti chiosa " urbes / Argolicas " (Aen. III 283) intendendolo dal punto di vista troiano come equivalente di " hostiles urbes "; equivalenza che doveva essere nota anche a D. e che può spiegare come, al di fuori di ogni specifico riferimento e con un passaggio dal nome proprio al nome comune, per D. gente argolica sia qualunque nemico in guerra. D. non fraintende V. ma lo interpreta allusivamente sulla scorta dei suoi commentatori.
Non mancano peraltro esempi di veri e propri fraintendimenti del testo latino, o citazioni inesatte, nelle opere dottrinali: in Cv II V 14 le parole di Venere a Cupido " nate, patris summi qui tela Typhoëa temnis " (Aen. I 665) sono citate e tradotte con figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi, accostando " patris summi " a " nate " anziché a " tela "; più avanti (Cv III XI 16), citando a memoria, D. considera come rivolte a Enea parole dell'Enea virgiliano a Ettore (Aen. II 281: sì come fa Virgilio nel secondo de lo Eneidos, che chiama Enea: " O luce "...; e sembra solo un ripiego la congettura di Busnelli-Vandelli che propongono d'integrare che chiama Enea [a Ettore] (cioè: " dove Enea grida a Ettore "). Sviste di tal genere non sono nuove: più di una volta v'incorre Cicerone citando Omero quando attribuisce a un personaggio le parole di un altro. Che D. pensi a Enea e non a Ettore, lo riprovano le parole con cui commenta la citazione: non era esso luce né speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza de la loro salute. D. alluderà qui alla parte che Enea ha nell'estrema vicenda di Troia (Aen. II 347 ss.) quando arringa i compagni esortandoli a un disperato tentativo di resistenza e riaccende il loro spirito guerriero col suo celebre " una salus victis nullam sperare salutem ", che sembra influire proprio sul dantesco tutta la speranza de la loro salute. Anche se si obietta, con Busnelli-Vandelli, che D. doveva ben ricordare il dialogo di Enea con Ettore e non poteva fallirgli la memoria, resta sempre attribuita d'altro canto al poeta un'altra e pur grave dimenticanza, che Ettore era ormai morto, né poteva più per i Troiani fondarsi su lui tutta la speranza de la loro salute: la frase virgiliana rivolta a Ettore, " spes o fidissima Teucrum ", può significare solo che egli era stato un tempo speranza di vittoria; D. può intenderla altrimenti solo perché l'applica a Enea.
Dai fraintendimenti o dagli errori di memoria che possono riscontrarsi nelle opere dottrinali vanno naturalmente distinte, nel poema, quelle che sono libere ricreazioni dell'artista; il Minosse dantesco di If V 5 ss. ha del Minosse e del Radamanto virgiliano: essamina le colpe ne l'intrata come il Minosse di Aen. VI 433 " crimina discit ", e sono le colpe delle anime raccolte " in limite primo " (v. 427); dinanzi a lui l'anima dannata tutta si confessa, come Radamanto " castigatque auditque dolos subigitque fateri " in un'altra parte dell'oltretomba virgiliano (VI 567), nel Tartaro.
Più aderente al modello è la figura di Caronte in If III, il canto " più virgiliano di tutto il poema " (V. Rossi). In realtà era già in V. un vestibolo di qua dall'Acheronte, e come D. è ammonito dalla sua guida (vv. 14-15) a metter da parte ogni timore, così Enea già dalla Sibilla (Aen. VI 261); e come Enea chiede a questa (Aen. VI 318 ss.) il perché dell'affollarsi delle anime sulla riva dell'Acheronte, così fa D. ai vv. 72-75. In entrambi i poemi risuonano gemiti e pianti (If III 22 ss.; Aen. VI 557-558), e lo spaurito pellegrino chiede spiegazioni (rispettivamente vv. 31 ss.; vv. 559 ss.). E poi l'apparizione di Caronte: Caron dimonio, con occhi di bragia ricorda il Caronte virgiliano cui " stant lumina fiamma " (Aen. VI 300); comune a entrambi è la canizie; il personaggio dantesco, come il virgiliano, ricusa di trasportare un vivo sulla barca, poi si arrende al volere di una potenza superiore. Ma mentre il Caronte di V. è descritto in un'" enumerazione di atti abituali " quello di D. " ci balza davanti in un determinato momento del suo ufficio " (V. Rossi). In entrambi i poeti le anime si affollano impazienti sulla riva dell'Acheronte per essere traghettate, ed entrambi le paragonano a foglie che cadono dall'albero in autunno; ma V. si serve della similitudine per dare l'idea del numero delle anime (" quam multa in silvis... ", v. 309), nel mentre descrive il loro affollarsi tumultuoso (" omnis turba ad ripas effusa ruebat ", v. 305), D. per rendere quella del modo del loro muoversi (Come... si levan... / similmente... / gittansi): ora non è più modo frettoloso, impaziente, ma risponde al richiamo che Caronte fa a ciascuna, è un lasciarsi cadere, dopo le parole crude, come chi vi è costretto. Il secondo paragone che segue qui subito, come augel per suo richiamo, è pure virgiliano, e anche in V. segue immediatamente all'altro (" quam multa... cadunt folia, aut... / quam multae glomerantur aves "), e come questo è trasferito a rendere non l'affollarsi della moltitudine sulla riva, ma il modo di entrare nella barca, come al richiamo usato dal cacciatore. Virgiliana è la figura di Pier della Vigna (If XIII), uomo e pianta insieme, ma è ispirata anche alle Metamorfosi ovidiane offrendoci qualcosa d'ignoto a V. e a Ovidio, in cui il fantastico si fa reale (Spitzer): per V. il parallelo è richiamato al v. 48 (ciò c'ha veduto pur con la mia rima) quasi che Polidoro fosse l'anticipazione pagana di una sanzione del Dio cristiano (Spitzer). Come Polidoro, Pier della Vigna versa parole e sangue, ma insieme, in una sola manifestazione, più terribilmente che in Virgilio. Il lamento Perché mi schiante? e Perché mi scerpi? (vv. 33-35) rende il " quid miserum, Aenea, laceras? " di Aen. III 41, ma il verbo dantesco ricorda piuttosto Orfeo dilaniato, il " discerptum... iuvenem " di Georg. IV 522. D. rimane come l'uom che teme (v. 45) al pari di Enea " ancipiti mentem formidine pressus " (Aen. III 47). Secondo i critici, anche il dantesco v. 38 ben dovrebb'esser la tua man più pia sarebbe variazione del virgiliano " parce pias scelerare manus " (v. 42).
In D. il quadro è reso più fosco dalle brutte Arpie (v. 10) che fanno il nido fra quelle piante; figure virgiliane anche queste, dallo stesso libro III, ma indipendenti dall'episodio di Polidoro: l'epiteto è reminiscenza del virgiliano ‛ foedus ', applicato alla sozzura di cui quelle lasciano le tracce (" vestigia foeda ") sul terreno fuggendo dalle isole Strofadi (Aen. III 244; brutto per " sozzo ", " imbrattato di fango o di sterco " è anche in If VIII 35, XVIII 119). Anche in D. le Arpie hanno volto umano, corpo di uccelli e piedi muniti di artigli (vv. 13-14; cfr. Aen. III 216-217; e in particolare, per i piè con artigli, cfr. anche " pedibus... uncis " del v. 233 di Virgilio). Il racconto del conte Ugolino si apre, com'è noto, rievocando l'esordio del racconto di Enea a Didone: Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor che 'l cor mi preme di If XXXIII 4 ss. ricorda da vicino il non meno celebre " infandum, regina, iubes renovare dolorem " di Aen. II 3. Emulando il modello e facendo poesia sulla poesia, D. piega la reminiscenza alla diversa situazione del suo personaggio e sottolinea questa diversità: mentre l'" infandum " virgiliano allude a sventura che si rifugge dal rievocare, come un tabù, il disperato dantesco ci porta nell'atmosfera di una sofferenza eterna, senza speranza; Enea rievoca il passato, il conte Ugolino guarda a un futuro che va oltre il tempo, mentre il " quis talia fando / ... temperet a lacrimis? " di V. riceve un'accentuazione nel pria ch'io ne favelli. È dunque un dolore più acerbo e crudele di quello di Enea, tanto che non solo a parlarne, ma ancor prima al solo pensarvi, serra il cuore del dannato: il cor mi preme; la frase sembra ripresa, con uno spostamento sintattico dei due termini, da " premit altum corde dolorem " di Aen. I 209. Un'eco più lontana dell'esordio di Enea è anche in VE I VII 1 (ignominiam renovare; quanquam... animus... refugiat; e poi il futuro in fin di frase che conclude, come un sospiro, percurremus, tiene il posto del virgiliano " incipiam " che pure chiude la frase).
La similitudine famosa di If V 82 Quali colombe dal disio chiamate... procede da quella virgiliana " qualis spelunca subito commota columba " di Aen. V 213, ma anche qui la situazione presupposta è molto diversa. In V. il paragone è fra una nave che solca veloce il mare in una regata e la colomba spaventata che lascia il nido per librarsi nell'aria tranquilla; in D., Francesca e Paolo si avvicinano ai due poeti come colombe che il desiderio richiama verso il nido; al di là dei singoli richiami formali (" qualis... columba ": quali colombe; " dulces... nidi ": al dolce nido) e concettuali (" celeris neque commovet alas ": con l'ali alzate e ferme; " aëre lapsa ": vegnon per l'aere) D. mette di suo la nota affettuosa della nostalgia, del ritorno al nido, per rendere il desiderio, l'ansia con cui Paolo e Francesca vanno incontro a chi è pronto a partecipare alla loro pena; mentre in V. alla fuga della colomba è paragonata la sollecitudine agonistica del rematore. D. crea con materiali virgiliani cosa del tutto nuova. Il Moore (p. 185) qui crede di poter vedere anche un ricordo di un altro episodio virgiliano, quello delle colombe mandate da Venere a indicare il ramo d'oro che Enea deve cogliere prima di scendere nell'Averno (Aen. VI 190 ss.). Qualunque sia la validità di questo raffronto, gli echi più precisamente ‛ allusivi ', a cominciare dalla movenza iniziale quali colombe già rilevata, sono chiaramente dalla similitudine virgiliana del libro v.
Echi come questi, ora ripresi letteralmente e sottolineati persino, a volte, dalla collocazione nella stessa sede del verso, ora variamente atteggiati e rinnovati nella struttura della frase o del nesso sintattico, oppure nei riferimenti di contenuto o nelle situazioni a cui si applicano, sono innumerevoli: dal grido disperato di Cavalcante mio figlio ov'è? (If X 60) all'inizio di verso come all'inizio di verso è il grido di Andromaca " Hector ubi est? " (Aen. III 312), alla lonza che di pel macolato era coverta (If I 33) che rifoggia il virgiliano " maculosae tegmine lyncis " (Aen. I 323), ai canali freddi e molli di If XXX 66 che ricordano " hic gelidi fontes, hic mollia prata " di Buc. X 42: il secondo aggettivo non ha più in D. il senso di " teneri ", " morbidi ", ma piuttosto di " irrorati ", " ricchi di acqua " forse perché D. ha frainteso o adattato a modo suo " Euphrates ibat iam mollior undis " (Aen. VIII 726) o " mollibus... undis " (IX 817). La descrizione della nave di Ulisse (If XXVI 139 ss.) che il mare percuote facendola girare tre volte su sé stessa col vortice di acqua che la inghiottisce, ricorda da vicino la sorte della nave di Oronte: " illam ter fluctus ibidem / torquet agens circum et rapidus vorat aequore vortex " (Aen. I 116-117). La descrizione del Veglio di Creta è di origine biblica (Dan. 2, 37 ss.) ma la movenza iniziale è virgiliana: " In mezzo mar siede un paese guasto ", / diss'elli allora, " che s'appella Creta... " (If XIV 94-95) rievoca dall'Eneide (III 104) " Creta Iovis magni medio iacet insula ponto ", anche se siede nel senso di " giace abbandonato, deserto " è di sapore biblico e fa pensare a " sedet sola civitas ", com'è detto di Gerusalemme nelle Lamentazioni di Geremia (1, 1). L'iniziale movenza virgiliana (a cui segue la descrizione in chiave biblica) sottolinea con questo richiamo il contrasto fra la Creta del poeta pagano ricca e popolosa (" centum urbes habitant magnas, uberrima regna ") e la Creta dantesca diserta come cosa vieta.
Di questi frequenti richiami può valersi la critica testuale in via indiziaria, per scegliere tra due varianti dantesche. Abbiamo già visto che i " secreti calles " virgiliani possono deporre a favore di secreto calle in If X 1 contro la lectio facilior stretto calle; qui aggiungiamo che in Pg I 136 onde l'avelse è preferito a ond'ei la svelse (anche dal Petrocchi) sulla testimonianza di " primo avulso non deficit alter " (Aen. VI 143) a cui D. si rifà palesemente per il concetto. In If II 60 e durerà quanto 'l mondo lontana (soggetto è la Fama), la variante moto per mondo ha a suo favore " mobilitate viget " (Aen. IV 175) detto pure della Fama, un verso che D. cita altrove: Cv I III 10 Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile (cfr. Pagliaro, Ulisse 737). In If III 31 E io ch'avea d'error la testa cinta l'autenticità del discusso orrror contro error ha l'appoggio del virgiliano " me... saevus circumsteit horror " (Aen. II 559); ecc.
A quale ramo della tradizione manoscritta virgiliana appartenesse il testo presente a D. è difficile supporre, perché quella tradizione è troppo intersecata e complessa e non può chiudersi in uno stemma codicum. Unico indizio è quello che si può rintracciare attraverso il testo di Aen. III 340, noto ai codici antiquiores e a Servio come semplice emistichio (l'unico in V. di senso incompiuto) " quem tibi iam Troia ": D. lo cita (Mn II III 14) nella forma integrata quem tibi iam Troia peperit fumante Creusa, una delle più frequenti fra varie integrazioni tardo-medievali: quella che è nota a D. s'incontra la prima volta nel codice Laur. Ashburn. 4, del sec. X-XI, collazionato dal Sabbadini. Questo attesta da un lato che in D. la lezione non va modificata come sospettò Giambattista Giuliani (1878), seguito dal Vinay, favorevole alla variante fiorente per fumante; dall'altro permette di ascrivere il testo virgiliano letto da D. alla tradizione interpolata.
La paternità spirituale che D. riconosce a V. professandosi suo discepolo (Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore), è magistero sul piano della retorica, e autorità nel senso medievale e scolastico di fonte comunemente accettata da imitare e citare (F. Mazzoni) come modello di stile (lo bello stilo che m'ha fatto onore); cioè di quello stile alto o tragico (che si concreta nella ‛ suprema constructio ' di VE II VI 7) per il quale V. è ricordato fra i regulati poetae (ibid.) accanto all'Ovidio delle Metamorfosi, a Stazio, a Lucano, e per il quale l'Eneide è alta... tragedìa (If XX 113: cfr. li alti versi di XXVI 82). Per questo V. è quasi costantemente citato nella Monarchia come divinus poeta noster (II III 6 e altrove), nel poema è l'altissimo poeta (If IV 80), nostra maggior musa (Pd XV 26), nel Convivio è lo maggiore nostro poeta (IV XXVI 8). Modello di stile egli è anche in Vn XXV 9 dov'è portato a esempio per l'uso della personificazione nell'Eneide. Solo una volta, nel canto di Stazio (Pg XXII 57), V. è 'l cantor de' buccolici carmi piuttosto che il grande poeta epico: non a caso, perché all'egloga IV sta per richiamarsi Stazio (Casini-Barbi).
Di una più diretta incidenza su D. del V. bucolico dobbiamo fare qui parola, ora che anche il più recente tentativo di negare l'autenticità delle due egloghe a Giovanni del Virgilio sembra aver avuto ben scarsa fortuna (v. da ultimo F. Salsano). A V. direttamente si ricollega D., e lo attesta Giovanni del Virgilio in una egloga al Mussato: il Boccaccio avverte che dei poeti bucolici posteriori a V. non mette conto parlare: segno che nella coscienza dei trecentisti l'egloga non si rifà ad altro modello che V. (Battisti). Gli echi non sono solo dalle Bucoliche, ma anche, non meno numerosi, dalle Georgiche e dall'Eneide; e VI s'intrecciano non rari ricordi ovidiani.
Dalle Bucoliche, oltre i nomi sotto cui si celano i personaggi (Titiro è D., come nelle Bucoliche è Virgilio; Melibeo è Ser Dino Perini Fiorentino, Mopso è Giovanni del Virgilio e così via), richiami vistosi sono in talune clausole come tana lactis abundans (II 59; cfr. " nivei quam lactis abundans " di Buc. II 20); falso ne crede favori (IV 55; cfr. Buc. II 17 " nimium ne crede colori "), mentre il dantesco carptas modo ruminat herbas (II 60) fa eco al virgiliano " pallentis ruminat herbas " (Buc. VI 54). Altrove l'allusione è nell'inizio di verso: due esametri danteschi, a poca distanza, cominciano con fortunate senex (IV 55 e 61) come due virgiliani non meno vicini fra loro (I 46 e 51). Un intero verso virgiliano è ripreso da D. in II 9 " Stulte, quid insanis? ", inquam; " tua cura capellae... " modellato su Buc. X 22 " Galle, quid insanis? " inquit " tua cura Lycoris... "; nella clausola dantesca è pure il ricordo di Buc. I 57 " raucae, tua cura, palumbes ". In diversa posizione metrica rispetto al modello, inflatos calamos di II 20 presuppone " calamos inflare " di Buc. V 2. Echi meno puntuali, imitazioni piuttosto che allusioni, insomma un colorito virgiliano è diffuso per tutte le due egloghe: ricordiamo qui la descrizione dei magici effetti del canto, che attrae gli armenti, placa i leoni, fa refluire le acque dei fiumi e ondeggiare i rami degli alberi; il vecchio motivo classico derivato dal mito di Orfeo è svolto da D. (II 21-23) ampliando Buc. VI 27-28, non senza che vi s'inserisca una clausola dell'Eneide (ut dulce melos armenta sequantur; cfr. Aen. XII 719 " quem tota armenta sequantur "). Echi delle Georgiche e dell'Eneide si avvertono qua e là: vistoso esempio è quello (II 11) delle caprette che naribus aera captant come la vaccherella di Georg. I 376 " patulis captavit naribus auras "; scopertamente allusivo a Georg. I 118 (" hominumque boumque labores ") è hominum superumque labores di II 19, dove peraltro " labores " non sono più le fatiche del lavoro quotidiano (come D. stesso intende in Pg II 3) ma diventano qui le opere prodotte dalla natura e dall'uomo. Virgiliani, sempre dalle Georgiche, sono nessi come mollia prata (II 94) o pabula nota (II 61); vaga eco virgiliana può essere quella dei cigni che fanno risuonare del loro canto le rive paludose del fiume Caistro (IV 18-19) anche se in V. si parla di uccelli variopinti che cercano cibo fra l'erba (Georg. I 383-384).
Dall'Eneide di nuovo inizi e clausole esametriche: forte recensentes (II 3) da " forte recensebat " di Aen. VI 682 (ma la situazione che D. prospetta ci riporta, al di là dell'eco formale, a Buc. VII 1); e poi ancora victus amore sui (II 8) da Aen. XII 29 (" victus amore tui "), e il già citato armenta sequantur che chiude il verso dantesco II 21 come chiude il virgiliano Aen. XII 719. Inizio e clausola dello stesso esametro fanno eco insieme a un verso dell'Eneide: IV 22 Caucason Hyrcanae maculent quod sanguine tigres risponde, con puntuale consonanza, ma in tutt'altro significato, a Aen. IV 367 " Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres "; il legame di parechesi col modello non impedisce che si rompano i legami sintattici, e che, variando qualche termine essenziale, D. ci trasporti in un contesto del tutto diverso; è questo uno dei procedimenti cari, fino dai classici antichi, all'arte allusiva, scoperto richiamo e omaggio a un poeta famoso, non già imitazione che si nasconde al lettore. L'imitazione è in tutto il colore bucolico allegorico, nelle figure dei personaggi, rese peraltro più convenzionali, in funzione di un'allegoria che, celando sotto il proprio velo confidenze e allusioni personali e consentendo al poeta di abbandonarvisi più liberamente, fa dell'egloga una poesia di occasione. L'imitazione resta in superficie, letteraria e formale: sotto certe analogie esterne condizionate dal genere pastorale, si nascondono situazioni che sono di D., con le sue aspirazioni, le sue ambizioni, i suoi affetti. La vaccherella che si offre spontaneamente al mungitore, il pastore attempato che si appoggia al bastone sono scorci rapidi di origine virgiliana, liberamente ripresi nel quadro di quell'atmosfera bucolica che peraltro è sopraffatta dall'allegoria più che non accada in Virgilio.
Bibl. - E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 166 ss.; E. Proto, D. e i poeti latini, in " Atene e Roma " XI (1908) 23 ss., 221 ss.; XII (1909) 7 ss.; XIII (1910) 76 ss.; A. Marigo, Le Georgiche di V. fonte di D., in " Giorn. d. " XVII (1909) 31 ss.; L. Spitzer, Speech and Language in Inferno XIII, in " Italica " XIX 3 (1942) 81-104 (traduz. ital. in Lett. dant. 223-248); P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, passim; C. Battisti, Le Ecloghe dantesche, in " Studi d. " XXXIII 2 (1955-56) 61 ss.; E. Paratore, D. e il mondo classico, in D., a c. di V. Parricchi, Roma 1965 (rist. in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 25 ss.); ID., L'eredità classica in D., in D. e Roma, Firenze 1965 (rist. in Tradizione, cit., 55 ss.); F. Salsano, Le Egloghe, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 749 ss.; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 124; A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in Filologia e linguistica, Roma 1968, 201 ss.; ID., Virgilianismi danteschi, in Interpretazioni grammaticali, Roma 1971, 9 ss.