Pulsanesi
Monastero di osservanza benedettina, S. Maria di Pulsano venne fondato nel 1129 da Giovanni da Matera, che lo resse sino alla sua morte (1139). Le vicende relative agli esordi della comunità sono note quasi esclusivamente tramite il testo agiografico che narra la vita del fondatore, redatto nell'arco di un paio di decenni dopo la sua morte. Da questa fonte, nonostante l'evidente intento di 'normalizzare' l'esperienza di eremita, predicatore e riformatore di Giovanni da Matera, emergono comunque tratti di spiccata originalità della comunità pulsanese, quali la rivendicazione di un sistema di vita eremitico, nonché l'accentuazione della povertà e del ritorno al lavoro manuale. Con grande rapidità, sotto i primi due successori, gli abati Giordano (1139-1145) e Gioele (1145-1177), la comunità garganica conobbe una vasta diffusione, non tanto nel numero delle dipendenze quanto nell'area geografica che le sue comunità andarono a coprire. In particolare l'insediamento nel 1143 nel monastero di S. Salvatore sulla Trebbia, a Piacenza, pose precocemente in rapporto il mondo pulsanese con le consuetudini oramai consolidate della congregazione cistercense.
Nel 1177 infatti erano sottoposti a Pulsano ben quattordici monasteri, tutti priorati, all'interno del Regno di Sicilia, e in massima parte concentrati nell'attuale provincia di Foggia: S. Giacomo presso Foggia, S. Nicola presso Troia, S. Stefano di Mattinata, S. Bartolomeo di Carbonaria, S. Andrea in Monte S. Angelo, S. Giovanni ai piedi di Monte S. Angelo, S. Paolo di Civitate, S. Giovanni di Chieuti, il priorato femminile di S. Cecilia presso Foggia, S. Maria "Fustificti", S. Giovanni di Varano, S. Pietro di Cripta Nova presso Ischitella. A essi si aggiungevano le due dipendenze più distanti di S. Pietro di Cellaria presso Calvello, in Basilicata, e di S. Pietro di Vallebona in Abruzzo.
Accanto a questi priorati, Pulsano contava anche importanti dipendenze fuori del Regno di Sicilia: una in Dalmazia, presso Ragusa (S. Maria nell'isola di Meleta), una presso Piacenza (S. Salvatore sulla Trebbia), altre ancora presso Lucca (S. Michele a Guamo), Pisa (S. Michele degli Scalzi), Firenze (S. Maria di Fabroro) e Roma (S. Pancrazio), alle quali si aggiunsero dopo il 1177 altri due monasteri femminili: SS. Trinità in diocesi di Orvieto e S. Cipriano in diocesi di Bagnoregio.
Le prime notizie riguardo queste due comunità risalgono al novembre 1243, quando papa Innocenzo IV intervenne presso il vescovo di Orvieto affinché tutelasse le monache della Trinità di Orvieto contro le ingerenze delle consorelle di S. Cipriano, che rivendicavano invece diritti di controllo. Le monache di Orvieto si erano spostate di sito durante il pontificato di Gregorio IX, con il regolare consenso dell'abate di Pulsano, a cui già allora erano sottoposte. Papa Gregorio IX aveva provveduto a prendere sotto la sua protezione il cenobio femminile, dietro il censo ricognitivo di una libbra di cera. È probabile che questa comunità in Orvieto coincida con quella denominata di S. Maria di Valleverde, attestata nei decenni seguenti come soggetta a Pulsano.
Alla fine del sec. XII si registrò invece il definitivo passaggio di S. Salvatore sulla Trebbia all'obbedienza cistercense, a conclusione di un processo di assimilazione delle consuetudini cistercensi in corso sin dalla fondazione del priorato. Dall'inizio del sec. XIII non si hanno invece più notizie dei legami di dipendenza da Pulsano per S. Maria di Meleta e S. Pancrazio di Roma. Restano all'interno della famiglia pulsanese le tre abbazie toscane, a Pisa, Lucca e Firenze, insieme alle due comunità femminili umbre.
È comunque da rilevare come, alle soglie della grande crisi che investì il Regno di Sicilia nel trapasso dagli Altavilla agli Svevi, l'insieme delle comunità pulsanesi fosse, senza dubbio, ancora in una fase di espansione e non manifestasse segnali di crisi. La floridezza della comunità pulsanese di S. Michele a Guamo è attestata dal numero degli obiti inseriti nel necrologio monastico nel corso di tutto il sec. XIII, nonché dalla costituzione di due piccoli priorati dipendenti. Il primo, a carattere squisitamente eremitico, venne costituito tra il 1198 e il 1213 nella chiesetta di S. Maria di Valle Romita, sul Monte Pisano; il secondo si legò dal 1253 alla chiesa urbana di S. Silvestro di Lucca. All'interno dell'obituario spicca la presenza di Ugo Comes, arcivescovo di Benevento, allontanato dalla sua sede, dopo il 1241, proprio da Federico II.
Anche la comunità pisana di S. Michele degli Scalzi confermò la sua solidità, riuscendo a radicare la presenza pulsanese nel priorato di S. Croce de Corvo, in diocesi di Luni, affidato ai monaci dal vescovo di Luni nel 1186; e proprio contro il vescovo, tra 1237 e 1241, i monaci pulsanesi dovettero condurre una gravosa vertenza per il controllo dell'ormai fiorente priorato; dopo lo stallo subito nel 1241 con l'imprigionamento del vescovo lunense nel corso dell'assalto all'isola del Giglio, la vertenza conobbe una conclusione giuridica nel 1258. Sempre negli ultimi decenni del sec. XII i monaci pulsanesi di Pisa avevano concretizzato i loro rapporti con Bona, pellegrina e devota pisana a sua volta divenuta rapidamente oggetto di culto, grazie alla fondazione e al popolamento del priorato di S. Jacopo de Podio. A rafforzare le attrattive per i pellegrini che il priorato giacobeo sin dalla fondazione possedeva, i monaci riuscirono anche ad ottenere nel 1204, quale reliquia dal sacco latino di Costantinopoli, la mano dell'apostolo Giacomo il minore. Complessivamente le fonti agiografiche pisane mettono in rilievo il profondo e ininterrotto rapporto dei pulsanesi toscani con il mondo devozionale femminile, del quale cercarono di soddisfare soprattutto le esigenze legate al pellegrinaggio.
Di S. Maria di Pulsano e delle sue dipendenze pugliesi non si ha praticamente alcuna notizia per tutto il periodo della minorità di Federico II, a eccezione di un documento del 1203, nel quale la comunità di S. Maria di Pulsano appare ancora numerosa. Sottoscrivono infatti tredici monaci, tutti con dignità sacerdotale, oltre l'abate Deodato. Nello specifico, comunque, l'abate, con il consenso della sua comunità, provvede alla rinuncia dei diritti spettanti sulla chiesa di S. Giorgio in Rapino (diocesi di Chieti), già legata alla dipendenza pulsanese di S. Pietro di Vallebona. Ancora nel 1222 l'abate di Vallebona, Lorenzo, ebbe bisogno dell'approvazione dell'abate di Pulsano, Stefano, per chiudere la controversia con la famiglia Ferracavallo per la gestione della chiesa dipendente di S. Angelo in Pulverio (diocesi di Chieti).
Nel 1204 Innocenzo III si rivolse all'abate di Pulsano affinché, insieme all'abate di S. Pietro di Torremaggiore, risolvesse una vertenza aperta tra S. Leonardo di Siponto e S. Maria di Stercorara, mentre nel 1216 fu Onorio III a ricorrere all'abate di Pulsano, perché, insieme all'abate di S. Nicola di Casalnuovo, provvedesse alla correzione della comunità di S. Pietro in Satiano (diocesi di Lucera), dove un illegittimo superiore stava dissipando il patrimonio monastico. Ma neanche la situazione nei chiostri pulsanesi era del tutto tranquilla, come attesta quasi tutta la documentazione successiva.
Il 4 dicembre 1217, infatti, papa Onorio III scrive al vescovo di Dragonara perché proceda a regolarizzare l'avvenuta elezione di Benedetto, monaco di Sgulgola (quindi non pulsanese), già confermata dall'abate di Pulsano, in abate di S. Nicola di Foggia, una delle più importanti dipendenze pulsanesi, elevata solo in questi anni al rango di abbazia; la parte interessante del documento è quella che esenta il neoeletto dal recarsi a Roma per ricevere la benedizione pontificia, "pro eo quod dictum monasterium propter guerrarum dispendia nimio sit paupertatis onere pergravatum" (Vendola, 1940, I, nr. 87). Nel monastero foggiano quindi lo stato economico risultava fortemente compromesso, nonostante l'elevazione abbaziale del priorato; e forse anche il quadro disciplinare non doveva eccellere, se si ritenne di dover scegliere come abate un monaco non pulsanese.
Tra 1219 e 1220 alcuni reiterati interventi di Onorio III indicano l'emergere e il persistere anche a Pulsano di gravi problemi disciplinari e, conseguentemente, di gestione dei beni.
Nel novembre del 1219, queste sono le accuse mosse all'indirizzo dell'abate di Pulsano, Stefano: dilapidando i beni monastici, avrebbe concesso una chiesa destinata ad infermeria e altre tre ad alcuni laici, con grave danno per il monastero; avrebbe bruciato edifici appartenenti ai Templari, subendo poi gravi danni per ritorsione; nonostante un monaco avesse usato violenza nei suoi confronti e in quelli di un diacono, dietro pagamento di una cospicua somma in danaro non aveva esitato ad installarlo come abate nella dipendenza di S. Paolo a Civitate; in aggiunta, si sarebbe dato a disonesti commerci con le monache di una dipendenza non nominata, con scandalo e discredito per l'intera comunità. Quando un monaco si era deciso a denunciarlo presso la Curia, lo aveva fatto imprigionare e morire per i maltrattamenti subiti, non esitando a riservare carcere e frusta per tutti gli altri monaci che intendevano seguire l'esempio del defunto. A completare la rassegna di malefatte si aggiunge anche la sua incapacità di celebrante, in quanto sarebbe stato soggetto al mal caduco e, di conseguenza, avrebbe dovuto essere per diritto escluso dalle celebrazioni.
Un tale affresco di nefandezze era stato riportato alle orecchie del papa solo da un monaco, Nicola, che era riuscito a eludere la vigilanza di un simile abate-tiranno, e perciò va preso con una certa cautela, come pure fece il papa. Onorio registrò le accuse, ma incaricò anche Bartolomeo, arcivescovo di Trani, Leo, vescovo di Civitate, e l'abate di S. Maria di Ripalta (abbazia allora già divenuta cistercense) di procedere ad una indagine in merito. I risultati delle ripetute inchieste appaiono nel complesso alquanto contraddittori e testimoniano soprattutto di una situazione ingarbugliata, della quale lo stesso pontefice e i suoi legati non riuscivano a venire a capo.
Difatti, qualche mese dopo, i delegati scoprirono che proprio il monaco Nicola sembrava essere colpevole di furti e violenze, a seguito delle quali era stato scomunicato dal suo abate; per vendicarsi egli non aveva esitato a diffamare il suo padre spirituale presso il papa. Per motivi non chiariti, i delegati non riuscirono, però, a recarsi personalmente a Pulsano e si limitarono a incontrare l'abate Stefano e i suoi monaci fedeli in Monte S. Angelo; allo stesso tempo i monaci pulsanesi ottennero che, come delegato, l'abate di Montesacro, Gregorio, sostituisse quello di Ripalta. Evidentemente i monaci pulsanesi avevano buoni rapporti con l'abate Gregorio, noto soprattutto per la sua attività di erudito e poeta.
La disputa sembrava essersi appianata, se nel gennaio del 1222 Onorio III incaricava, tra gli altri, anche l'abate pulsanese Stefano di dirimere una questione vertente tra i vicini monasteri di Ripalta e S. Giovanni in Piano: la versione di Stefano doveva essere stata infine vincente.
Eppure qualcosa non funzionava nella gestione di questo abate, perché due anni dopo, nel 1224, egli fu costretto con la violenza dai suoi monaci a dimettersi, e questa volta a nulla gli valse l'essersi recato presso il pontefice. Onorio infatti, pur stigmatizzando il comportamento dei monaci di Pulsano e dichiarando nulla la deposizione di Stefano, ne accettò quella che (si dice spontaneamente) egli fece nelle sue mani, e si affrettò ad eleggere un nuovo abate, nella persona di R. da Ortona, monaco di S. Paolo fuori le Mura, a Roma. Evidentemente il papa aveva deciso che l'unico rimedio era quello di insediare direttamente una persona valida e fidata nel monastero, in modo da chiudere definitivamente queste dispute tra abate e monaci, e tra monaci e monaci.
Le aspettative da parte pontificia traspaiono dalle lettere inviate il 16 giugno alla comunità di Pulsano, a tutte quelle dipendenti dal monastero garganico e all'abate di Montesacro. Il nuovo abate, insieme a quello di Montesacro, venne incaricato "quatenus culpis singulorum provida consideratione pensatis ita puniatis eosdem secundum excessuum qualitates, quod nec iniustam misericordiam nec immisericordem iustitiam probemini habuisse" (ibid., nr. 144). Il pugno di ferro era necessario vista la consuetudine alla rivolta dimostrata dai Pulsanesi, tanto che il papa minacciò che se essi avessero perseverato nel vessare "consuetis conspirationibus" l'abate, egli avrebbe avuto cura di castigarli "taliter quod pena vestra erit aliis in exemplis".
L'intento era quello di sollecitare tutti ad aiutare R. nella sua azione di riforma del monastero, che si doveva tradurre in primo luogo in una riforma dei costumi dei litigiosi monaci pulsanesi; si spiegano così le missive del 15 giugno all'indirizzo dell'arcivescovo di Siponto, del capitolo di Monte S. Angelo e di quello di Siponto, mentre il 16 il papa ebbe cura di spedire una circolare a tutti i priorati e le dipendenze di Pulsano, oltre che all'abate di Montesacro. Ma lo stesso 15 giugno Onorio aveva provveduto a far approntare una missiva anche all'indirizzo del sovrano, cioè di Federico II, che allora si trovava in Sicilia ed era vincolato dal voto di crociata. Riassumendo brevemente gli spiacevoli avvenimenti di Pulsano, il papa ricordava all'imperatore che l'abate, oltre che "honestus", gli era "fidelis", nonché originario del suo Regno e aveva il gravoso compito di risanare una comunità in crisi ("R. de Orton. monachum de regno tuo videlicet oriundum, virum utique literatura, religione ac prudentia commendabilem, duxerimus substituendum eidem, sperantes quod monasterium ipsum per eius industriam et spiritualibus et temporalibus proficiet incrementis"). Per la sua azione di riforma era necessario l'appoggio del sovrano, che non sarebbe sicuramente mancato quale riprova delle sue virtù di governo ("serenitatem tuam attente rogandam duximus et monendam, quatinus ipsum, qui tibi fidelis est et devotus, habens propensius commendatum, sic eum favore imperialis gratie prosequaris, quod ad curam commissi sibi regiminis laudabiliter et utiliter valeat exercere, tuque per favorem sibi exhibitum complacere debeas Regi regum"; M.G.H., Epistolae, 1883, I, nr. 255, p. 182).
La cautela con la quale Onorio III si rivolse a Federico II era ampiamente giustificata. Per un verso vi era la tradizionale opposizione da parte dei sovrani meridionali all'intervento dei pontefici nelle nomine ecclesiastiche del Regno; quello stesso controllo nel quale peraltro essi invece avevano largheggiato e che era stato messo in crisi, dopo la morte di Guglielmo II, nonché durante la minorità di Federico II e la reggenza di Innocenzo III. Proprio intorno al 1224 saliva la tensione tra lo Svevo e Onorio III a causa della volontà da parte del papa di negare sotto ogni forma a Federico il controllo delle elezioni episcopali nel Regno, con l'estensione anche alle cariche abbaziali.
Per altro verso, per il monastero di Pulsano esisteva testimonianza di interventi diretti dei sovrani, almeno da parte di Ruggero II, nel controllo dell'elezione degli abati, anche se, quasi certamente, il monastero di S. Maria era stato edificato su terre di pertinenza regia. Nella Vita di Giovanni da Matera è ricordato con chiarezza il tentativo da parte del primo sovrano normanno di garantirsi il diritto di conferma della elezione dei primi due successori del fondatore nella carica abbaziale. I sovrani aspiravano a una sorta di patronato sul monastero, di cui era spia anche l'associazione a partire dal 1177 all'Honor Sancti Angeli, per formare quel vasto possedimento feudale destinato a costituire la parte più consistente del dotario delle regie consorti.
In questa circostanza comunque gli intendimenti e le manovre del pontefice sembrano aver trovato buona accoglienza presso Federico, il quale meno di un anno dopo, appena si fu spostato dalla Sicilia a Foggia, nel maggio 1225 concesse un ampio privilegio a Pulsano e al suo abate, verosimilmente lo stesso R. da Ortona. Il privilegio, seppur molto ampio e dettagliato, non si discosta dalla norma federiciana, che è di conferma delle donazioni e dei possessi pregressi, senza largheggiare in nuove concessioni: con ogni probabilità le stesse franchigie di carattere fiscale e quelle relative al diritto di pascolo rappresentano conferme di privilegi precedenti, piuttosto che concessioni ex novo. Ma proprio le conferme e la protezione regia divenivano di fondamentale importanza nel momento in cui ci si accingeva al risanamento della vita e delle finanze claustrali.
Il confronto con l'unico altro documento generale riguardante Pulsano, il privilegio pontificio del 1177 concesso da Alessandro III, rivela che vi era stata in effetti nell'arco di questo cinquantennio un'espansione dei possessi monastici, concentrata comunque negli anni di regno di Guglielmo II, dal quale il monastero aveva ricevuto ampie donazioni in terre ‒ non meglio precisate ‒ nei dintorni, con esenzioni fiscali, posteriormente al 1177. Gli altri possedimenti sono attestati nei territori di S. Egidio, Candelaro, Casalnuovo, Rignano, Devia, Capriglia, Pantano S. Egidio, Siponto, Monte S. Angelo.
Inoltre il privilegio è l'unica fonte che ci informa sull'identità dei donatori di età normanna di alcuni beni e priorati: Mastiolo di Torgisio, signore di Chieuti; Paolo, signore di Ischitella; Rao, signore di Devia; Gionata, conte di Civitate; Leonardo, signore di Candelaro. La presenza tra i donatori e i venditori di personaggi identificabili, vissuti durante il regno di Guglielmo II, lascia comunque intendere che negli ultimi decenni non si fosse manifestata una grande generosità nei confronti del monastero. Questa impressione è confermata anche dal fatto che l'elenco delle dipendenze del monastero garganico (che qui comprende solo quelle nel Regno di Sicilia) coincide perfettamente con quello del 1177. Un'unica eccezione è costituita dalla chiesa di S. Egidio, in territorio di Giovinazzo, dove peraltro il monastero aveva sin dal 1177 ampi possedimenti, soprattutto oliveti. Altra spia significativa è la precisione con cui vengono indicati, nel privilegio federiciano, i confini di alcuni appezzamenti di terra, sintomo di un possesso piuttosto recente e alquanto precario, che aveva subito qualche attacco durante i torbidi degli anni precedenti; era bene comunque che i titoli di proprietà monastica ricevessero una esplicita e chiara sanzione da parte regia. Insomma non parrebbe proprio che tra la fine degli Altavilla e l'affermazione di Federico il monastero di Pulsano abbia moltiplicato possessi e dipendenze.
Ad ogni modo non si può certo negare che Federico II si fosse mostrato ben disposto nei confronti dell'abate di Pulsano. Il suo intervento avrebbe forse potuto assicurare una più duratura tranquillità al monastero se non fossero intervenute poi la rottura con Gregorio IX, la rinnovata guerra civile nel Regno in assenza dell'imperatore e la precaria pacificazione seguente, di cui proprio la Capitanata fece ampiamente le spese. Sulla più lunga durata, l'analisi in particolare di Jean-Marie Martin rivela lo sgranarsi e rarefarsi delle strutture insediative della regione dauna, involuzione che inevitabilmente ebbe conseguenze negative sugli impianti monastici, portando con sé la rovina delle grange e dei casali monastici, riducendoli a pure entità economiche, che ancora più facilmente erano soggette ad usurpazioni e perdite. Non bisogna, peraltro, sottovalutare anche l'orientamento delle gerarchie ecclesiastiche, in particolare quelle diocesane, dove i vescovi mostrano una inversione di tendenza, sfavorevole adesso nel complesso al monachesimo, specie se esente.
Quali possano essere stati, nel dettaglio, i riflessi di questi avvenimenti e mutamenti complessivi sulla comunità e sul patrimonio di Pulsano non lo sappiamo, ma è certo che negli anni Trenta la situazione nei chiostri garganici precipitò nuovamente.
Nell'agosto del 1234 era abate di Pulsano Rainaldo, che giurava fedeltà al pontefice nelle mani del vescovo di Troia, Gregorio; nel dicembre dello stesso anno è attestato invece come abate un Bartolomeo, in un documento mutilo proveniente da S. Pietro di Vallebona, per cedere ancora una volta a censo la chiesa di S. Angelo di Pulverio; entrambi i documenti sono, però, di incerta datazione. Ad ogni modo due anni dopo, nel 1236 (20 dicembre), è chiaro che a Pulsano impera nuovamente la divisione: alla morte dell'abate i monaci avevano provveduto a un'elezione che, grazie alla litigiosità dei confratelli, era risultata doppia. I due eletti ‒ i monaci Giordano e Matteo ‒ si erano pur decisi a rinunciare entrambi al titolo, cosicché papa Gregorio IX si rivolse all'arcivescovo di Trani, Giacomo, perché sovrintendesse a una nuova elezione, non mancando di inviargli la formula di giuramento di fedeltà, divenuta essenziale visto lo scontro in atto.
A peggiorare il quadro della grave crisi di disciplina nella comunità, il papa incaricava lo stesso arcivescovo di sottrarre alla dipendenza da Pulsano il monastero femminile di S. Bartolomeo, situato nella vallata di Carbonaria, poco distante da Pulsano, lascian-do intendere che le monache conducessero una vita poco morigerata approfittando anche della vicinanza con la comunità maschile ("ita quod dicti monachi ingrediendi ad ipsas vel ipse de cetero nullam egrediendi habeant facultatem"; Vendola, 1940, I, nr. 207). E non è da escludere che questo sia lo stesso monastero femminile al quale si alludeva nella già citata lettera del 1220.
In questo caso l'intervento pontificio non ebbe efficacia immediata, tanto a Pulsano quanto nella dipendenza femminile, probabilmente per la scarsa diligenza dello stesso arcivescovo tranese; d'altra parte, in contemporanea a Pulsano, si registrano nei documenti pontifici gravi situazioni disciplinari anche a S. Maria di Tremiti, S. Giovanni in Lamis, alla SS. Trinità di Montesacro, il che lascia intuire l'esistenza di una diffusa situazione di malessere nell'area, che toccava i principali insediamenti benedettini e traeva anche alimento dalla tensione crescente e prossima alla conflagrazione nei rapporti papa-imperatore.
Sei mesi dopo, il 19 giugno 1237, Gregorio IX si rivolgeva agli abati cistercensi di S. Maria di Ripalta e S. Maria dell'Incoronata perché si occupassero del distacco del monastero di Carbonaria da Pulsano e lo riformassero. Per la correzione dell'abbazia madre di Pulsano, appena tre giorni dopo, decise invece di percorrere un'altra strada, forse mai, sino ad allora, utilizzata. Egli si rivolse infatti questa volta agli abati di due altri monasteri pulsanesi, filiazioni di S. Maria di Pulsano, ma che si trovavano in tutt'altro contesto, quelli cioè, entrambi intitolati a S. Michele, di Lucca e di Pisa.
Non sappiamo se i due abati, Gregorio di Pisa e Graziano di Lucca, ebbero concretamente, nei mesi a cavallo del trionfo imperiale di Cortenuova, la possibilità di visitare l'abbazia madre, né tantomeno si possono fare illazioni sulle conseguenze immediate di una loro visita di correzione. Quello che sappiamo con certezza è che da questo momento comincia a delinearsi più nettamente un destino diverso tra i due tronconi, quello pugliese e quello toscano, della congregazione pulsanese. Mentre di S. Maria di Pulsano e delle sue dipendenze meridionali abbiamo solo qualche sporadica notizia, nel monastero lucchese di S. Michele a Guamo, in quello pisano di S. Michele di Orticaria e in quello fiorentino di Fabroro la vita comunitaria non perse vigore e floridezza per tutto il sec. XIII.
Subito dopo la morte di Federico II, nel luglio 1251, si registra comunque un intervento disciplinare da parte dell'abate di Pulsano, Angelo, nei confronti proprio dell'abate di S. Michele degli Scalzi, Ugo, accusato di scarsa efficienza. Nel luglio del 1261 è invece documentata per la prima volta una visita dell'abate di Pulsano, Andrea, nel monastero di Pisa; nel corso della visita l'abate pulsanese prese atto dello stato di indebitamento in cui la comunità pisana versava e diede il suo consenso a che si operassero alcune alienazioni di immobili. Nonostante questi segnali, nel corso della seconda metà del secolo si evidenzia comunque una maggiore tenuta da parte delle comunità toscane rispetto a quelle pugliesi.
Complessivamente, alla metà del sec. XIII può dirsi segnato il declino di Pulsano come centro della piccola congregazione; a partire dal 1237 l'iniziativa e la guida paiono definitivamente essere trasmigrate nei più tranquilli chiostri toscani, e qui resteranno sino all'estinguersi nella seconda metà del sec. XIV di tutte le comunità pulsanesi. È difficile valutare quanto in tutto questo abbia giocato la politica federiciana; l'unico intervento diretto ‒ a noi noto ‒ dello Svevo fu certamente benefico per la comunità garganica, ma ben più ampia e negativa influenza ebbe sicuramente la più generale temperie, in tutte le sue componenti, dai torbidi, che avevano caratterizzato la vita monastica sino al 1220, all'esosità fiscale e alla rapacità più o meno controllata dei funzionari, dalle leggi contro la proprietà ecclesiastica, alla incipiente crisi demografica e insediativa proprio dell'amata Capitanata.
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