PUNIZIONE
. Pedagogia. - Castigo, che s'infligge per mancanza commessa. Dal tempo, in cui s'insegnava con la ferula, o a suon di nerbo, sino ad oggi, in cui ai castighi corporali si sono, generalmente, sostituiti quelli morali, s'è attribuita ad essi grande efficacia nella scuola e nella vita. La storia delle punizioni si può dire che sia congiunta con quella della dignità umana e, nella dottrina pedagogica, con quella particolare del fanciullo. Come si vien superando il concetto di casta e di classe, a cui l'uomo, nascendo, è legato e si giunge a quello che lo considera come persona e come fine, la punizione si libera dalle sue asprezze, più o meno tormentose.
La teoria delle conseguenze, dal Locke al Rousseau, allo Spencer, assumendo la forma di reazione naturale, tende a rimuovere l'intervento del maestro nel punire e a ridurre il castigo al dolore fisico o morale, che si prova come effetto della mancanza. Secondo questa teoria, il castigo inflitto da un agente esterno non sempre è proporzionato al fallo commesso, idoneo a suscitare il rimorso e il ravvedimento, quando non desti avversione per colui che lo dà; quello naturale aumenta l'esperienza diretta e perciò serve all'educando come il miglior tirocinio per la vita. Non bisogna mai intervenire, quando non sia assolutamente necessario: se il fanciullo può senza suo danno, conquistare direttamente il sapere, formare la sua esperienza della vita, l'educatore deve assisterlo, non guidarlo; preparargli l'ambiente propizio, non comunicargli o anticipargli la cognizione del bene e del male. Questa è, si può dire, in sintesi, la dottrina pedagogica del Rousseau, che mette le reazioni naturali al centro della sua teoria intorno alla disciplina; dottrina non seguita, del resto, da altri pedagogisti.
Nei regolamenti scolastici italiani, non si parla che di punizioni morali (rimprovero in privato o in pubblico), di sospensione dalle lezioni per un determinato periodo e, per gli alunni delle scuole medie, anche di esclusione dall'istituto o da tutti gl'istituti del regno. Di punizioni corporali si fa assoluto divieto.
In ordine alla pedagogia pratica, si deve tenere conto che, in gran parte, le mancanze degli scolari sono prodotte o da ignoranza, o da irrequietezza causata da uno stato di disagio, e assai raramente da un vero e proprio dolo. Le maggiori e più frequenti, anzi, sono l'effetto della scarsa arte educativa dell'insegnante. Bisogna evitare ch'essi siano stanchi, interessarli alle lezioni non già con imporre l'attenzione battendo il pugno sulla cattedra o rimproverando aspramente i distratti, ma facendoli partecipare a ciò che si vuol insegnare, in modo ch'essi diano vita al loro sapere come per generazione spontanea dalla loro interiorità, non già per sovrapposizione.
Le classi indisciplinate sono sempre dirette da maestri che non sanno insegnare e non hanno alcun prestigio sui loro alunni.
Ma, quando sia effettivamente commessa una mancanza, si chiami, prima, in disparte il colpevole e si cerchi di entrare nel suo animo per signoreggiarlo. Senza troppo umiliarlo, richiamandolo, anzi, al sentimento della sua dignità di uomo, lo si induca alla confessione piena di quello che ha fatto. E gli si faccia sentire dolore per avere turbato la serenità della vita scolastica, di esser venuto meno nella stima che di lui avevano maestro e compagni, e si concluda che questa stima gli si restituirà completa, quando se la sarà saputa riconquistare con la sua condotta.
Se poi con questo non si riuscisse a correggerlo, si ricorrerà allora alle punizioni che il regolamento consente, senza ira, anzi con visibile dolore, e con fermezza, perché servano a ristabilire l'ordine violato, e giovino a tutti, di correzione al colpevole e di ammonimento agli altri.
La punizione, insomma, è diversa dalla pena. Questa non può rinunziare al dolore fisico e, in casi speciali, alla soppressione del colpevole, per ristabilire e consolidare i cardini dell'ordine giuridico e sociale infranto, ma va sempre meglio acquistando il carattere educativo, di mezzo cioè diretto a riabilitare il colpevole e a farlo rientrare nei confini dell'umanità dai quali era volontariamente uscito. Quella, pur avendo un valore sociale e giuridico, è soprattutto un sussidio eccezionale, e perciò raro, all'opera educativa dell'insegnante. Dovrebbe anzi diventare sempre più raro nelle famiglie, dove i rapporti continui tra genitori e figli, quando siano ben regolati e fondati sull'esempio vivo e operoso del bene, non richiedono, per un'azione educativa efficace e duratura, altro che l'amore avveduto e, quando occorra, il santo, ben inteso perdono.