PIRANI, Quadrio Ferruccio
PIRANI, Quadrio Ferruccio. – Nacque a Jesi, nell’Anconetano, il 25 gennaio 1878 da Oreste e da Stumera Fazi. Venne iniziato all’arte del costruire dal padre, capomastro, che gli trasmise il sapiente magistero professionale proprio della tradizione edilizia marchigiana. Nel 1897 ottenne la licenza nella sezione di agrimensura e agronomia presso il regio Istituto tecnico Pietro Cuppari e, dopo aver svolto nel 1899 il servizio militare in qualità di ufficiale bersagliere, conseguì quella fisico-matematica presso il regio istituto tecnico di Ancona. Si trasferì quindi nella capitale per frequentare la Scuola superiore di ingegneria, dove nel 1904 si laureò nella sezione civile. Anche durante gli anni universitari rimase profondamente legato all’ambiente culturale della propria città, dove era solito frequentare lo studio fotografico Dominici, punto di ritrovo di giovani artisti e intellettuali. Nel 1901, mentre ancora attendeva al proprio iter formativo, seguì, in qualità di assistente, i lavori di costruzione della diga lungo il fiume Esino.
Una volta laureato, portò a termine, in qualità di ingegnere straordinario presso l’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti delle Marche e dell’Umbria, il rilievo planimetrico del duomo di Spoleto.
Quando nel 1904 venne chiamato a Roma dall’ingegnere Innocenzo Costantini, direttore tecnico dell’ICP (Istituto per le Case Popolari) nonché suo fraterno amico e compagno di studi, disponeva quindi di una solida preparazione accademica e di una già consolidata esperienza professionale, che corroborò, l’anno dopo, lavorando nello studio di Guido Cirilli. Dall’allievo prediletto di Giuseppe Sacconi mutuò l’attenzione per il corretto uso dei materiali e il sofisticato gusto per la decorazione, elementi questi già riscontrabili nei fabbricati che portò a termine lungo via Flaminia e via Tunisi, collaborando con l’ingegner Donato Spataro.
Uno dei primi interventi dei quali si occupò in prima persona fu l’insediamento residenziale nei pressi della basilica di S. Saba (il XXI rione urbano). Affiancato dall’ingegnere Giovanni Bellucci, profuse le sue forze per consegnare al popolo case solide, funzionali e decorose, riuscendo così a conferire al mondo operaio, dal quale lui stesso proveniva, dignità e riconoscibilità all’interno del panorama urbano. Attraverso la sapiente amministrazione delle risorse coniugò l’etica del lavoro con il rigore costruttivo, derivando la venustas dalla razionale articolazione funzionale degli edifici e dalla tecnologia costruttiva che li innervava.
Facendo riferimento al modello urbano della garden city e alle esperienze portate avanti in ambito europeo, dispose sul pianoro prospiciente l’abside della basilica un nucleo di case unifamiliari elevate su due piani – isolate o allineate a schiera, in gruppi di due e quattro unità – e ne risolse gli impaginati prospettici inquadrando gli spiccati parietali all’interno di una solida intelaiatura di fasce di mattoni che si addensava in corrispondenza degli ingressi.
Successivamente, per venire incontro alla sempre crescente domanda di alloggi, e per giustificare l’ingente spesa imposta dagli importanti lavori di fondazione che l’area richiedeva, abbandonò questo modello estensivo di uso del suolo in favore di un progressivo incremento della densità edilizia. Alle schiere affiancò fabbricati di case in linea sviluppati su tre o quattro livelli, così da creare delle corti aperte all’aria e alla luce.
Agli impegni progettuali affiancò una breve, quanto intensa, attività didattica: nel 1907 divenne assistente di Guglielmo Calderini alla cattedra di architettura generale e applicazioni di geometria descrittiva presso la Scuola di ingegneria di Roma (insegnamento che mantenne fino al 1920) e nella seconda metà degli anni Dieci insegnò geometria descrittiva alla Scuola superiore di architettura, avviata allora in fase sperimentale.
Nel 1910 lasciò l’impiego, pur continuando a collaborare con l’ICP come consulente esterno: il prestigio della sua autorità tecnico-professionale era tale che lo stesso Innocenzo Costantini, quando assunse il nipote, Innocenzo Sabbatini, a capo dell’ufficio progetti, gli suggerì vivamente di attenersi ai modi di Pirani per la definizione dei prospetti delle case al Trionfale.
Nel 1911 aprì con Giovanni Bellucci un proprio studio professionale in via Cavour, aggiudicandosi, nello stesso anno, il secondo premio al Concorso per il miglior tipo di casa popolare promosso nell’ambito del II Congresso case popolari, con il progetto Per aspera ad astra.
L’istanza di una maggiore salubrità delle costruzioni, rispetto alla meschinità degli asfittici blocchi edilizi che all’indomani della proclamazione di Roma capitale avevano caratterizzato l’edificazione dei nuovi quartieri, fu alla base della strategia insediativa che adottò quando, tra il 1911 e il 1917, intervenne lungo la piana di Testaccio (nei lotti XXX, XXXII, XXXIII e XXXIV), innalzando vasti fabbricati attorno ad ampie corti.
Per garantire la maggior adduzione di aria e di luce all’interno delle corti (concepite come prolungamento dello spazio pubblico, ovvero come microrealtà urbane dotate di servizi: bagni, bucataio, casa dei bambini, deposito biciclette) si preoccupò di interrompere la continuità della cortina edilizia, tenendo distaccati i diversi corpi di fabbrica o suturando la loro distanza con la creazione di logge passanti sovrapposte. Inoltre, per combattere quella monotonia delle facciate che connotava l’edilizia tardottocentesca già biasimata da Émile Zola, Pirani individuò con maggior risalto il disegno dei singoli elementi architettonici, articolò lo sviluppo degli edifici lungo diverse quote e ne movimentò l’estensione attraverso una calibrata successione di sporgenze e rientranze. Per strutturare gli ampi spartiti parietali ricorse all’adozione di un ordine gigante di memoria michelangiolesca, impostato al di sopra di un solido basamento a sorreggere un alto cornicione.
Ribaltando – secondo un ricorso compositivo che aveva già sperimentato a S. Saba – una coppia di paraste giganti attorno agli spigoli dei fabbricati, offrì un’inedita soluzione della cantonata urbana, tema assai caro a quanti, come lui, erano iscritti all’Associazione artistica tra i cultori di architettura in Roma.
Nel 1915 collaborò con l’Unione edilizia nazionale al piano di ricostruzione seguito al disastroso terremoto della Marsica, portando a termine una serie di caseggiati in località Vadocavallo, presso Sora.
Convinto interventista, durante la prima guerra mondiale interruppe l’attività progettuale ed edificatoria e prese parte al conflitto bellico in qualità di bersagliere; distintosi per meriti di guerra, venne promosso capitano. Tornato dal fronte, si occupò, ancora una volta per conto dell’ICP, della progettazione della città giardino Roma vecchia e strutturò, con Edmondo Del Bufalo e Gustavo Giovannoni, l’impianto urbano della città-giardino Aniene (l’attuale quartiere di Montesacro), articolandolo, secondo i principi anglosassoni, in conformità con la struttura orografica del luogo.
A partire dall’anno successivo avviò l’edificazione di vasti fabbricati per l’IRCIS (Istituto Romano Cooperativo per le Case degli Impiegati dello Stato), intervenendo sui terreni dell’antica villa Lancellotti e sull’area della vecchia piazza d’Armi: eresse quattro stabili tra via Chiana e via Tagliamento (1920-23) – concepiti con un’eccezionale dotazione di servizi (mai attuati): teatro, sala conferenze, ristorante – e intervenne a ridosso di piazza Mazzini, portando a termine la costruzione di una coppia di isolati lungo via Ferrari (1924-28).
Stante l’accresciuta consistenza dimensionale degli interventi, modificò la logica insediativa sviluppando senza soluzione di continuità i corpi edilizi lungo l’intero perimetro degli isolati.
Nel risolvere gli impaginati prospettici di questi blocchi edilizi destinati ad accogliere un ceto sociale borghese, Pirani introdusse all’interno del proprio formulario architettonico nuovi termini: la prevalenza della superficie ricoperta da intonacato (sia rasato sia a rinzaffo) rispetto a un ridotto utilizzo della pietra e dei mattoni, il dispiegamento di fasce affrescate al di sotto dei cornicioni, la disposizione di un variegato repertorio di elementi in aggetto (tettoie di ingresso, terrazzini con balaustri, balconcini delimitati da semplici ringhiere di ferro battuto).
Nel 1929, in qualità di membro della commissione di studio nominata dai Circoli di cultura dei sindacati degli ingegneri e degli architetti di Roma e presieduta da Giovannoni, redasse un interessante progetto per la sistemazione dell’area archeologica di largo di Torre Argentina.
Nel 1930 il villino che progettò per se stesso lungo via Dandolo, a Roma, e la ristrutturazione della villa La Meridiana, a Jesi segnarono il definitivo ritiro dall’attività professionale; in seguito continuò a occuparsi unicamente di consulenze e perizie.
L’indefesso impegno che riversò nella trentennale attività professionale fu pari alla passione politica che sempre lo animò (nel 1906 collaborò, in qualità di redattore, al settimanale socialista di Jesi La libera parola); genuina espressione del pensiero laico e illuminista, fu un convinto assertore della dignità del popolo e un instancabile sostenitore delle politiche riformiste. La sua visione della società trovò una perfetta corrispondenza nella politica avviata, a Roma, dal sindaco di estrazione socialista Ernesto Nathan Roger.
In una tarda intervista concessa a Il Giornale d’Italia ricordò in questi termini obiettivi e strategie che avevano animato il suo operato: «Ho sempre avuto a cuore i problemi sociali; e ho voluto costruire per il popolo, partendo però da basi solide. Ho edificato case economiche inquadrando questo aggettivo nel suo giusto significato; economia non significa risparmio sulla qualità. Economia significa rendimento, durata» (Avviò l’edilizia di via Sebino e via Chiana, in Il Giornale d’Italia, 29 settembre 1967).
Studioso di economia, perseguì la lunga durata, obiettivo primario del costruire, attraverso la sapiente selezione dei materiali costruttivi, comprendendo come l’autentico risparmio derivi dall’azzeramento delle spese di manutenzione.
Pur realizzando un’architettura assolutamente innovativa, si oppose sempre con determinazione alla distruzione delle testimonianze storico-monumentali presenti sul territorio della valle natia. Nel 1932 si mosse senza indugio per la salvaguardia dell’arco Clementino, scrivendone apertamente sul quotidiano Il Messaggero (15 e 21 settembre) per proteggerlo da quanti ne proponevano la rimozione perché d’ostacolo al traffico veicolare.
Morì a Roma il 2 giugno 1970.
Altre opere e progetti a Roma. Case popolari in via Flaminia, 1903-05; villino Nuvoli in via Latina, 1906; sala cinematografica Teatro Umberto per Giovanni Jovinelli in piazza dell’Unità, 1908 (demolita); sala cinematografica Cesare Pennacchioli a Testaccio, 1909 (demolita); villino Pagliaro tra via Boezio e via Properzio (demolito); edificio Di Palma in via Ostiense, 1910; villino Hernandez in via Romagna 17, 1911; progetto per la cooperativa Conducenti vetture di un edificio per abitazioni e scuderie in via Emanuele Filiberto, 1912; progetto di fabbricato per la cooperativa Casa dei tipografi al lungotevere degli Anguillara, 1914; asilo per bambini deficienti a S. Saba; fabbricato in viale Trastevere 28; villino Cirino in via Bassi, 1920; edificio per la cooperativa La Fiducia in via Livenza; 350 villini (in gran parte demoliti) tra via Taranto, piazza Ragusa, piazza di Villa Fiorelli, 1922; due fabbricati tra viale Carso e via Costabella, 1923; palazzo per la cooperativa Avvocatura erariale tra piazza Mazzini e via Brofferio, 1925; fabbricato per la Cassa nazionale infortuni tra via Col di Lana e via Monte Zebio, 1925.
Scritti di Pirani. Per l’acquedotto di Jesi (note critiche), Jesi 1907; Progetto di un tipo di casa popolare per Roma, Roma 1911 (con G. Bellucci); Sulle fondazioni delle Case Popolari a San Saba in Roma, Roma 1915; Sulla sistemazione del Largo Argentina, in Bollettino del Sindacato provinciale Fascista Ingegneri, III (1929), 3, pp. 24-26; III (1929), 4, pp. 33 s.; Sui criteri di valutazione dei fabbricati, in Architettura, IX (1938), pp. 582-584.
Fonti e Bibl.: E.E. Wood, Housing progress in western Europe, New York 1923, p. 152; P. Portoghesi, L’Eclettismo a Roma 1870-1922, Roma s.d., pp. 155-162, 203; G. Accasto - V. Fraticelli - R. Nicolini, L’architettura di Roma capitale 1870-1970, Roma 1971, passim; G. Monti - A. Roccetti, L’opera di Q. P. dai documenti del suo archivio, in Architettura archivi, 1982, II, pp. 61-87; L. Toschi, Il II Congresso Nazionale per le Case Popolari (Roma 1911) e l’attività di Q. P., in Storia architettura, 1983, II, pp. 29-52; C. Cocchioni - M. De Grassi, La casa popolare a Roma. Trent’anni di attività dell’I.C.P., Roma 1984, passim; L. Toschi, La Roma popolare nelle architetture di Q. P., in Avanti!, 18 luglio 1985; Id., Q. P. (Jesi, 1878 - Roma, 1970), inserto in L’Istituto Romano Cooperativo per le Case degli Impiegati dello Stato (1908-1933) (catal.), a cura di L. Toschi, Roma 1986; A. Briotti, Il Quartiere S. Saba e l’Aventino, Roma 1988, passim; G. Strappa, Tradizione e innovazione dell’architettura di Roma Capitale 1870-1930, Roma 1989, pp. 111-114; L. Toschi, Q. P. e la casa popolare a Roma (1904-1914), in Costruire in laterizio, XXVI (1992), pp. 1-26; M.L. Neri, P., Q., 1878/1970, in Dizionario dell’architettura del XX secolo, a cura di C. Olmo, V, Torino-London 2001, p. 103; G. Duranti - E. Puccini, Testaccio. Il quartiere operaio di Roma Capitale 1870-1930, Roma 2009, passim.