Quaestio de aqua et terra
. I. Titolo e caratteristiche formali. - Con questo titolo ormai vulgato e confermato dall'autorità della Società Dantesca nell'edizione collettiva del 1921, ma non legittimato ineccepibilmente da testimonianze della tradizione testuale, è solitamente designato un breve scritto dottrinale la cui attribuzione a D. è stata lungamente e tenacemente controversa ma che ora sembra resa ragionevolmente probabile dal cumulo delle ragioni e delle prove addotte dagli autenticisti. L'editio princeps del 1508 (per la quale v. oltre) intitola l'opera Quaestio aurea ac perutilis edita per Dantem Alagherium poetam Florentinum clarissimum de natura duorum elementorum aquae et terrae diserentem, ma si tratta verosimilmente di una didascalia arbitraria giacché le parole ‛ de natura duorum elementorum aquae et terrae ' mal corrispondono all'effettivo argomento dell'opera qual è, del resto, designato dall'autore stesso al principio della trattazione: Quaestio igitur fuit de situ et figura sive forma duorum elementorum, aquae videlicet et terrae (§ 4; cfr. §§ 50 e 86).
Per un desiderio di maggiore aderenza alle indicazioni del testo G. Padoan ha adottato per la sua edizione (1968) il titolo De situ et forma aquae et terrae, più preciso e forse suscettibile di essere reso ancor più pertinente nella forma Quaestio de situ et forma aquae et terrae, non aliena dagli usi medievali e ben indicativa della particolare natura dello scritto.
La ‛ quaestio ' è infatti, a partire dalla metà del XII sec., la struttura in cui di preferenza si articola la trattazione dei più diversi problemi dottrinali (teologici, filosofici, scientifici ecc.) ove la loro risoluzione dia adito, nell'ambito della scuola o anche in più ampi e compositi contesti culturali, a dubbi e controversie. Nella ‛ quaestio ', come osserva lo Chenu (cfr. Introduzione allo studio di S. Tommaso, traduz. ital. Firenze 1953, 71 ss.), le risorse dell'antica dialettica e quelle della logica dimostrativa concorrono a determinare un impianto saldo e rigoroso - sia pure insidiato dal pericolo del mero formalismo dialettico - nel dibattito dottrinale, in cui le materie più incandescenti si sottopongono così alla disciplina della ragione e alle leggi di un ordinato confronto di opinioni. Proprio per questa esigenza di rigore formale e sostanziale la ‛ quaestio ', come genere letterario (l'espressione, anche se nella fattispecie largamente approssimativa, ci sia consentita per semplicità), tende ad assumere una struttura costante tanto nella disposizione generale della materia quanto negli strumenti logici, nelle formule e nel lessico (v. QUESTIONE). Ma la stesura letteraria è solo un aspetto del complesso realizzarsi del dibattito, che si distende in più momenti secondo un preciso rituale elaborato e fissato soprattutto nel costume dell'Università e che occorre riassumere brevissimamente qui per una migliore comprensione della Quaestio dantesca.
Il maestro che si sottoponeva al cimento della questione ne fissava in anticipo l'argomento: questo era di regola espresso nella forma di un dilemma o di un'alternativa introdotta da utrum (cfr. Quaest. 5 ut quaereretur utrum aqua in spera sua, hoc est in sua naturali circumferentia, in aliqua parte esset altior terra quae emergit ab aquis [sottint. an econtra]). Seguiva nel giorno stabilito la disputa vera e propria, durante la quale gli uditori ponevano le obiezioni cui rispondeva il maestro stesso o più di frequente il suo baccelliere che in questa fase gli faceva da portavoce. La discussione, che poteva farsi assai animata, non seguiva un ordine determinato ma evidentemente si sviluppava secondo la casuale successione degl'interventi e degli argomenti degli obiettori: in questa prima forma incomposita e, per dir così, allo stato nativo, la materia era ancora indeterminata e richiedeva la determinatio, cioè la formulazione definitiva e ufficiale della dottrina da seguire, che il maestro avrebbe esposto in una seduta successiva. In questa egli raccoglieva, ordinava ed esprimeva in termini rigorosi le obiezioni che gli erano state mosse; ad esse faceva seguire gli argomenti a favore della dottrina che avrebbe sostenuto. Passava poi all'esposizione dottrinale della questione dibattuta, diffondendosi nell'esposizione e nella dimostrazione della propria tesi; infine riprendeva le obiezioni raccolte all'inizio e ordinatamente le controbatteva. La determinatio, posta per iscritto, costituiva il testo della ‛ questione disputata ' e testimoniava ufficialmente la posizione dottrinale dell'autore (un maestro o comunque un responsabile di orientamenti culturali e ideologici), mentre della disputa vera e propria avvenuta nella prima tornata non restava documentazione scritta se non qualora vi alludesse la determinatio o, per esempio, la ricordasse in un sua opera qualcuno degl'intervenuti.
Queste sommarie indicazioni, estratte dagli studi dello Chenu, del Mandonnet e del Glorieux, vanno tenute presenti in relazione a diversi problemi che sorgono dalla lettura della Quaestio. In via preliminare hanno particolare importanza per un orientamento complessivo circa l'operetta i seguenti punti: 1) ogni questione si articola in due fasi, quella del dibattito aperto, per dir così puramente orale, e quella della determinatio in forma di conferenza di cui restava la stesura per iscritto; 2) nella determinatio l'autore non era affatto obbligato a tener conto di tutte le tesi che si opponevano alla propria, ma solo di quelle effettivamente sollevate e sostenute nel corso della discussione; 3) la struttura-tipo della determinatio comporta che la dimostrazione della dottrina tenuta per vera preceda la confutazione delle tesi ritenute erronee: quest'ordine, che D. sintetizza nella formula provando e riprovando (Pd III 3) a torto invertita dai commentatori, era dunque familiare al poeta (e naturalmente è rispettato nella Quaestio). In base ai precedenti rilievi la Q. può definirsi come la determinatio, avvenuta a Verona nel sacello di Sant'Elena la domenica 20 gennaio 1320 (cfr. §§ 87-88) - e cioè durante un occasionale passaggio di D. alla corte di Cangrande, donde il poeta s'era allontanato già da due anni: v. G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Bari 1969, 140-141 -, di una questione che, sorta quando l'autore si trovava a Mantova, dilatrata multotiens ad apparentiam magis quam ad veritatem, indeterminata restabat (§ 2). Tenuto conto del fatto che il dibattito non avviene nell'ambito dell'università (dove per esempio aveva senso la norma, qui non rispettata, di tenere la determinatio nel primo giorno non festivo susseguente alla disputa), può affermarsi che da un punto di vista strettamente formale nessuna delle caratteristiche della Q. appare dubbia o contraddittoria, anzi ogni aspetto trova una precisa giustificazione negli usi culturali vigenti fra Duecento e Trecento e nella tipologia della ‛ questione disputata ' medievale.
2. Contenuto dell'opera. - Il problema che forma l'oggetto della Q. nasce dalla necessità di conciliare con alcune presunte certezze teoretiche relative alla struttura dell'universo gli aspetti della realtà fisica, immediatamente verificabili, che appaiono contraddirle o almeno non rispecchiarle direttamente. Nell'ambito della cosmologia medievale una tale situazione di conflitto non pone generalmente in discussione il modello teorico del mondo (specie là dove a costituirlo concorrono, per esempio, istanze scritturali) ma induce piuttosto a forzare i dati dell'esperienza interpretandoli ingegnosamente per tentare di armonizzarli con le astratte premesse dottrinali. Questo aspetto caratteristico della scienza medievale (suscettibile peraltro di varie e anche luminose eccezioni che però non mutano nel complesso l'attitudine culturale di base) spiega come, pur nel pullulare della problematica fisica con le soluzioni più diverse e strane, l'immagine del mondo rimanga nei suoi lineamenti essenziali immutata e indiscussa fino alla rivoluzione copernicana. Cardine del modello cosmologico accettato dall'autore della Q. è l'identificazione del centro della Terra con il centro dell'universo. Intorno al centro si dispongono ordinatamente le sfere degli elementi terra, acqua, aria e fuoco che compongono il mondo sublunare. L'acqua sarebbe perciò esterna alla terra, o in altre parole dovrebbe ricoprirla uniformemente: ma poiché questo non avviene la questione è se la terra emersa, cioè la parte abitabile del globo, possa essere più alta (o più ‛ esterna ') rispetto alla superficie dell'acqua - e in tal caso occorre giustificare, individuandone la causa finale e la causa efficiente, l'infrazione delle premesse teoretiche; ovvero se l'acqua rimanga più alta - e in tal caso è necessario demolire o almeno reinterpretare ciò che l'esperienza dei sensi manifesta in contrario. L'autore della Q. si attiene alla prima soluzione, impegnandosi perciò a controbattere gli argomenti addotti a favore della seconda tesi nella discussione avvenuta a Mantova: e si osservi fin d'ora che altre tesi riconducibili a principi cosmologici differenti (per esempio che terra e acqua formino un'unica sfera di cui l'acqua occupa le cavità) rimangono assolutamente eterogenee rispetto all'ambito entro il quale si affrontano le tesi contemplate nell'operetta.
Dopo aver accennato alle circostanze della discussione mantovana rimasta indeterminata (§§ 2-3) e aver dichiarata l'intenzione di stendere il testo della successiva determinatio (§ 3 placuit insuper in hac cedula meis digitis exarata quod determinatum fuit a me relinquere et formam totius disputationis calamo designare) per lasciare documentazione autentica del proprio pensiero, l'autore ricorda i termini della questione (§§ 4-5). Enumera poi in rigorosa formulazione, attenendosi fedelmente allo schema-tipo del ‛ genere ', le obiezioni degli oppositori, cioè gli argomenti allegati a' favore della maggiore altezza dell'acqua: sono cinque principali, più alcune altre di lieve momento lasciate cadere propter earum levi-fateli; (§§ 6-16).
Passando quindi all'esposizione diretta del proprio pensiero, annuncia l'ordine che seguirà (§ 17). In primo luogo si chiarirà impossibile aquam in aliqua parte suae circumferentiae altiorem esse hac terra emergente sive detecta: per questo effetto sarebbe necessario che la sfera dell'acqua o fosse eccentrica o presentasse una gibbosità in qualche sua parte, ma entrambe queste ipotesi si dimostrano fallaci (§§ 18-30). Si argomenta poi che la terra emersa è in ogni sua parte più alta della superficie marina, com'è evidente sulle spiagge e tanto più nelle regioni interne, ancor più elevate (§§ 31-33). Nella seguente sezione dell'operetta instabitur contra demonstrata et solvetur instantia (§ 17): vale a dire che l'autore si prospetta gli argomenti contrari alle ragioni da lui addotte fino a quel momento, e a uno a uno li confuta (§§ 34-58).
A proposito di questa sezione si avverta che sebbene alcuni degli argomenti considerati possono corrispondere a quelli realmente fatti valere dagli oppositori non si tratta ancora, qui, del confronto diretto con le effettive ragioni degli avversari bensì del momento, essenziale nel processo scolastico, in cui la validità delle conclusioni raggiunte è saggiata esplicitando e risolvendo le istanze dialettiche interne, quali si sono presentate nel travaglio del pensiero all'autore stesso. Del resto questa fase del discorso conduce a un importante progresso, consentendo di riconoscere la causa finalis dell'emersione terrestre nella necessità che una parte dell'universo si presti alla mistione degli elementi onde si genera e si corrompe la materia vivente, secondo l'intentio della natura universale (§§ 45-49).
Rimane da stabilire la causa efficiens, per la cui ricerca l'autore dichiara di volersi mantenere ‛ intra ' materiam naturalem (§ 60) cioè entro i termini razionali dell'indagine scientifica volta all'accertamento di cause fisiche o tenute per tali. L'avvertimento è di singolare interesse perché attesta la consapevolezza di proporre una soluzione in una prospettiva definita e particolare e, sia pure indirettamente, la coscienza che il problema possa considerarsi anche, con soluzioni magari diverse, extra materiam naturalem. Nel campo fisico la causa efficiente dell'emergere della terra dalla sfera dell'acqua (cui nel complesso è internamente concentrica) mediante una gibbosità dal perimetro orizzontale pressappoco a forma di mezzaluna è attribuita alla virtù delle stelle comprese nella parte del cielo boreale che sovrasta le terre emerse, sia che tale virtus elevans agisca attirando la terra come la calamita attira il ferro, sia che il sollevamento si produca sotto la spinta di vapori che, attratti dalle stelle, premono nelle cavità interne del globo (§§ 59-76).
Una vibrante esortazione agli uomini perché cessino di quaerere quae supra eos sunt, et quaerant usque quo possunt (§ 77) segna il passaggio alla quinta e ultima distinzione, dove le cinque tesi degli avversari sono esaminate e respinte (§§ 79-86). I due paragrafi conclusivi, ove spicca un'allusione sarcastica a quegli avversari che, nimia caritate ardentes, si sono ben guardati dall'intervenire alla determinatio (§ 86), comprendono le indicazioni già da noi riferite sulla data e sulle circostanze dell'avvenimento.
3. Tradizione testuale e attribuzione. - La paternità dantesca della Q. è asserita in primo luogo dalle più antiche testimonianze della tradizione testuale; ma queste sono di tal epoca e natura da non saper guadagnarsi, per sé stesse, fede e assenso incondizionati. Il problema dell'attribuzione interferisce infatti, restandone in certa misura condizionato, con quello della trasmissione del testo, il cui testimone più remoto (e in definitiva l'unico, perché tutti i più recenti ne derivano) è l'editio princeps veneziana del 1508 curata da Giovanni Benedetto Moncetti (v.) e dedicata al cardinal Ippolito d'Este. Nessuna notizia diretta abbiamo della tradizione manoscritta anteriore, se si prescinde da un accenno di Gerolamo Gavardo, allievo del Moncetti e autore di un'epistola al maestro premessa alla princeps. Costui afferma in un latino goffo e scorretto che " iam multae olympiades praeteriere quod haec quaestio florulenta in scriniis quiescebat ". Il Moncetti a sua volta dichiarava nel frontespizio che la Q. era stata " nuper reperta " e si vantava nella dedicatoria di aver provveduto " ne tam erudita, perutilis ac famigerata quaestio periret ".
Queste espressioni, per quanto approssimative e contraddittorie (la Q., ad es., vi è detta " famigerata " in un contesto che viceversa la mostrava sepolta " in scriniis " e condannata all'oblio), alludono evidentemente a un manoscritto ritrovato e riprodotto per l'edizione, ma la loro credibilità è subordinata al credito che si vuol dare in generale all'editore. Di fatto la recensio non può risalire in alcun modo oltre la princeps cinquecentina (sì che all'editore moderno non resta altra risorsa che l'esercizio di un'attenta e cautissima divinatio sul testo malamente curato dal Moncetti), e questa circostanza, singolare anche se non eccezionale in assoluto - basti pensare, del resto, che altri scritti danteschi come quasi tutte le epistole, le egloghe o lo stesso De vulg. Eloq. hanno per noi una tradizione manoscritta molto esile, talvolta sopravvissuta per un puro caso avventurato -, ha contribuito a catalizzare un insieme di dubbi nati nel corso dell'Ottocento sulla genuinità di uno scritto di cui sostanza dottrinale e linguaggio sollecitavano il rifiuto impaziente degli studiosi allora poco inclini e poco preparati a comprenderli storicamente e ad apprezzarli come espressione della cultura e dell'ingegno danteschi.
Poteva sorgere così il sospetto di una ciurmeria del Moncetti, personaggio d'altronde abbastanza " preoccupante " (Mazzoni), al quale si mosse l'accusa vuoi di aver contraffatto egli stesso la Q., vuoi di aver disinvoltamente attribuito a D. uno scritto di autore più tardo (il Boffito fece il nome dell'agostiniano Paolo Veneto). Senza ripercorrere ora i vari momenti della discussione al riguardo, ma limitandoci a un bilancio obiettivo delle risultanze, ci sembra però che la sostanziale buona fede del Moncetti non possa ormai recarsi in dubbio: le induzioni paleografiche suggerite specialmente a V. Biagi e a G. Padoan dal testo della princeps e la constatazione in prospettiva di critica testuale che in sedi appropriate della Q. è rispettato il cursus (Parodi, Toynbee) confermano infatti che a fondamento della prima edizione sta un manoscritto della prima metà del Trecento riprodotto dal Moncetti con una fedeltà molto più passiva e ottusa di quanto egli non voglia far intendere quando nell'Habes candide lector asserisce di presentare un'opera " castigatam limatam elucubratam ". Naturalmente può ancora dubitarsi che la Q. sia proprio di D. e non di un qualche suo contemporaneo; ma verso l'indicazione della paternità dantesca converge ora una serie imponente di prove e di ragioni, alcune già fatte valere dall'Angelitti, dal Moore, da V. Biagi, altre emerse negli ultimi anni per merito specialmente di F. Mazzoni e del Padoan.
L'argomento principe a sostegno della tesi autenticista è oggi un passo segnalato dal Mazzoni nella terza redazione inedita del commento di Pietro alla Commedia, che offre la prima e sinora unica testimonianza sulla realtà del dibattito che D. sostenne: vi sono infatti citate e in parte riassunte opinioni che il poeta, al dire di suo figlio, espresse " disputando semel scilicet an terra esset alcior aqua vel econtra " e che corrispondono ai §§ 51-53 (con qualche differenza non sostanziale) e 44-49 della Quaestio. Vero è che il documento non è altrettanto probante circa la genuinità dell'operetta giunta fino a noi, giacché si riferisce all'esposizione orale di D., ma ogni studioso non compromesso nella polemica sull'attribuzione non potrà ragionevolmente negare che la Q. quale l'abbiamo risponda precisamente alla ‛ quaestio ' disputata da D.: ogni apparenza di difformità tra la citazione recata da Pietro e il testo dei §§ 51-53 (più discorsiva e pianamente didascalica la prima, più rigoroso il secondo) può spiegarsi a nostro avviso anche riconducendo la prima al calore della discussione mantovana e ricordando che il secondo rappresenta un'elaborazione del pensiero più conforme alle già accennate esigenze della determinatio. E in ogni modo l'intervento autorevole di Pietro Alighieri conforta e rende conclusive quelle numerose segnalazioni di luoghi paralleli lessicali, stilistici, dottrinali tra la Q. e le altre opere dantesche che soprattutto il Moore, il Biagi e il Mazzoni hanno allineato quasi a costituire la via maestra dell'itinerario autenticista.
Per converso gli argomenti di chi nega la paternità dantesca dell'operetta, ove non siano venuti cadendo da soli, non s'impongono con altrettanta necessità o almeno forte probabilità. Quanto abbiamo richiamato circa la natura e la struttura dell'opera non permette di ricavare alcuna conclusione dal silenzio che vi è mantenuto su alcune soluzioni diverse del problema discusso. Che, ad es., nella Q. non sia ricordata la soluzione sostenuta da Antonio Pelacani (v.) benché formulata in quegli anni, è un dato che comunque si voglia considerarlo ha la fragile consistenza degli argomenti e silentio. Più problematico il fatto, su cui ha insistito il Nardi, che in If XXXIV 121-126 D. avesse dato una spiegazione diversa dell'emersione terrestre, fatta avvenire dapprima nell'emisfero australe donde la terra, al cader di Lucifero, si sarebbe spostata per paura di lui nell'emisfero boreale. Si tratta invero di diversità, non di vera e propria contraddizione, nel senso che l'avvertimento che la Q. dà al riguardo - di muoversi ‛ intra ' materiam naturalem - non esclude la possibilità di altre spiegazioni su piani differenti. Del resto il presunto contrasto potrebbe volgersi paradossalmente a favorire la tesi dell'autenticità, poiché è molto probabile che un eventuale falsario si sarebbe in primo luogo preoccupato della più stretta coerenza su questo punto essenziale, mentre chi avesse voluto soltanto coprire con un nome illustre una determinatio qualsiasi per accrescerle autorità non aveva convenienza di ricorrere al nome dell'Alighieri già legato a posizioni ormai ben note e che potevano sembrare diverse.
Ma anche a non voler tener conto di ciò, l'aporia ci sembra elegantemente superata: mentre infatti il Nardi, in quello che rimane l'ultimo e più agguerrito contributo alla tesi dell'apocrifità, la radicalizza in un'alternativa nella quale l'opinione sostenuta nella Commedia esclude la paternità dantesca della Q., il Mazzoni e il Padoan ci appaiono meglio fondati quando sostengono che nel poema e nel trattato sono documentate due diverse prospettive, per dir così non complanari e quindi non destinate a interferire e a elidersi ma semmai a sorreggersi e a completarsi vicendevolmente; anche se al momento di definire l'attitudine della Commedia di fronte a quella meramente razionale e scientifica della Q. il Mazzoni preferisce scorgervi la libertà della finzione poetica e il Padoan la certezza di un'intuizione metarazionale del vero. Questa divergenza non infirma la convinzione, maturata in chi scrive attraverso una valutazione spassionata degli atti, che la Q. sia opera autenticamente dantesca.
4. Lo sfondo dottrinale. - Una volta acquisita pacificamente la sicurezza dell'autenticità, gli svariati riferimenti a pagine di autori antichi e medievali, che soprattutto dal Boffito al Biagi e via via fino al Nardi sono stati compiuti in funzione della polemica pro e contro la paternità dantesca, vanno piuttosto riconsiderati obiettivamente come elementi atti a ricomporre l'ambito dottrinale entro cui si colloca la Quaestio. L'infittirsi fra Duecento e Trecento delle risposte al problema " de situ et forma aquae et terrae " (alle cui premesse storiche e ideologiche si è accennato più sopra) attesta infatti l'attualità, staremmo per dire la tempestività dell'operetta dantesca, ed è anzi ben verosimile che dopo la presa di posizione apodittica posta quasi a conclusione della prima cantica (e già su uno sfondo di fervida attualità) D. non potesse e non dovesse evitare, come parte ormai in causa, la retractatio da un'angolazione diversa che lo impegnasse anche nel cimento della dimostrazione scientifica. E non deve meravigliare il fatto che altre soluzioni del problema, più vicine al vero (come quella del già ricordato Antonio Pelacani), non siano considerate, nemmeno indirettamente o per fuggevoli accenni, nella Q., giacché per D. e per la maggior parte dei suoi contemporanei quel carattere di scientificità che noi vedremmo nella spregiudicata accettazione della realtà sensibile consisteva viceversa nell'adeguarsi alle istanze metafisiche e nel procedere nell'alveo del formulario scolastico.
È abbastanza naturale quindi che in un discorso ‛ scientifico ' quale vuol essere quello di D. siano considerate solo quelle tesi che, pur respinte nelle loro conclusioni, si riconducono in definitiva alle medesime premesse generali di scuola e accettano, insieme con la comune inflessione del pensiero, i medesimi strumenti logici e il medesimo linguaggio (sebbene fra esse - torniamo a ribadire - siano riferite e discusse solo quelle prospettate nel corso del dibattito a Mantova). D'altra parte la stessa tesi dantesca non può che muoversi in quell'ambito e in esso avere i propri antecedenti, quali per esempio sono stati segnalati nel commento di Campano da Novara alla Sfera del Sacrobosco e nel Liber Exameron dell'agostiniano Egidio Romano. La tesi di Egidio, che nel capitolo generale degli agostiniani adunato a Firenze nel 1287 fu dichiarata obbligatoria per l'ordine, sembra in verità ripresa fedelmente nella Q.: ma sarà derivazione diretta? Per simili materie, trattate in un linguaggio largamente formulare, non è facile decidere con sicurezza, ove manchino forti prove obiettive. Di certo si può dire solo che D., pur senza farne cenno esplicito, si aggregò a una corrente di opinione preesistente; senza per questo - occorre aggiungere - confondersi e annullarsi in essa. Giacché il solido e vigoroso organizzarsi del pensiero, e l'urgere di un'eloquenza tesa e appassionata che incrina l'impassibilità del linguaggio scolastico e si leva a esprimere l'alta coscienza della dignità e della bellezza del vero sono tratti che ci sembra ormai giusto siano riconosciuti e apprezzati serenamente come propri della fisionomia inconfondibile di Dante.
Bibl. - Edizioni: in Tutte le opere di D.A., a c. di E. Moore, Oxford 1894 (successivamente ristampata più volte); G. Boffito, Memoria Il (v. oltre); La " Quaestio de aqua et terra " di D.A. Edizione principe del 1508 riprodotta in facsimile..., a c. di G. Boffito, Firenze 1905; V. Biagi, La " Quaestio de aqua et terra " di D., Modena 1907 (con bibliogr. delle edizioni, delle traduzioni e degli studi pubblicati fino al 1906); F. Angelitti, La " Quaestio de aqua et terra " di D.A., Palermo 1915 (ma in realtà pubbl. postumo nel 1932; testo assai manipolato); La " Quaestio de aqua et terra ", a c. di E. Pistelli, in Opere di D. per la Società Dantesca Ital., Firenze 1921 (su questo testo si fondano più o meno passivamente quasi tutte le edizioni successive); De situ et forma aquae et terrae, a c. di G. Padoan, Firenze 1968.
Studi: Innanzitutto fondamentali i commenti del Boffito, del Biagi, del Padoan e le relative introduzioni; inoltre: E. Moore, L'autenticità della " Quaestio de aqua et terra ", Bologna 1899 (favorevole all'autenticità); V. Russo, Per l'autenticità della " Quaestio de aqua et terra ", Catania 1901; G. Boffito, Intorno alla " Quaestio de aqua et terra " attribuita a Dante. Memoria I, La controversia dell'acqua e della terra prima e dopo di D., in " Mem. Accad. Scienze Torino " s. 2, LI (1902) 73-159; ID., Memoria Il, Il trattato dantesco, ibid. LII (1903) 257-342 (favorevole all'apocrifia); E.G. Parodi, La " Quaestio de aqua et terra " e il " cursus ", in " Bull. " XXIV (1917) 168-169; P. Toynbee, D. and the " cursus ". A new argument in favour of the authenticity of the " Quaestio ", in " Modero Language Review " XIII (1918) 420-430; F. Mazzoni, La " Quaestio de aqua et terra " (1957) e Il punto sulla " Quaestio de aqua et terra " (1962), articoli ristamp. in Contributi di filologia dantesca, serie I, Firenze 1966; B. Nardi, La caduta di Lucifero, Torino 1959 (discute il primo articolo del Mazzoni ed è controbattuto dal secondo scritto di questi); J. Freccero, Satan's fall and the " Quaestio de aqua et terra ", in " Italica " XXXVIII (1961) 99-115; G. Padoan, La " Quaestio de aqua et terra ", in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 758-767.