Quale futuro per l’industria italiana?
Siamo all’inizio del 1944 in Svizzera, dove molti italiani si sono rifugiati dopo il disastro dell’8 settembre dell’anno precedente. In Italia c’è la guerra civile, e il professor Gustavo Colonnetti inaugura con queste parole, il 26 gennaio, il Campo universitario italiano di Vevey presso Losanna, nel quale professori e studenti profughi dall’Italia hanno ripreso le attività dell’Ateneo torinese e cercano di ricomporre le basi per la ricostruzione:
Nel nome della patria lontana, della patria che soffre, divisa e sconvolta, ma che nel dolore e nel sangue conserva intatta la sua inflessibile volontà di risorgere, e chiede a voi, giovani, il dono delle vostre forze, delle vostre intelligenze, dei vostri cuori, si apre oggi il campo universitario di Losanna. La nostra presenza qui, giovani amici, è un’alta solenne manifestazione di italianità, ed è al tempo stesso un atto di volontà e di fede. Fede nei destini del nostro paese, volontà di dare tutta l’opera nostra perché quei destini si compiano (cit. in G. Colonnetti, Pensieri e fatti dall’esilio, 18 settembre 1943-7 dicembre 1944, 1973, p. 9).
Colonnetti ha 57 anni: dal 1922 al 1925 è stato rettore del Politecnico di Torino e – dopo aver dovuto lasciare quest’incarico per essersi rifiutato di aderire al Partito nazionale fascista – dal 1928 al 1943 è stato professore di scienza delle costruzioni in quello stesso Ateneo; dopo la sua fuga dall’Italia insegna scienza delle costruzioni all’École des ingénieurs dell’Università di Losanna.
Tra i docenti del Campo di Losanna ci sono Luigi Einaudi, Gino Fano, Concetto Marchesi, Mario Donati. Uno degli studenti di ingegneria del Campo, Gianni Jarre (allora diciannovenne, e che nel 1958 diverrà professore al Politecnico di Torino), così ricorderà in seguito quella esperienza:
Sapevamo che il Prof. Colonnetti aveva organizzato un campo universitario per assicurare il proseguimento degli studi agli studenti italiani internati in Svizzera. La famiglia Colonnetti abitava nel minuscolo Hôtel des Etrangers sulle pendici sotto Saint François, dove fummo subito ricevuti sul balcone perché all’interno non c’era assolutamente posto: andavano e venivano continuamente, per lo più malvestiti e in aspetto di cospiratori, ragazzi della mia età, giovanotti e uomini più maturi. Scopersi poi che questa turba inquieta era costituita da studenti e professori, tutti alla ricerca di una qualche soluzione personale o collettiva, tutti ricevuti, indirizzati e consigliati da Colonnetti, non più elegante dei suoi ospiti, sempre sereno, energico, generoso […]. Ci raccontò la non semplice storia dei suoi sforzi per creare questa comunità universitaria in esilio […] che egli concepiva come un vivaio per la nuova classe dirigente della futura Italia […]. La sua fiducia nella riuscita di questa impresa parve al mio scetticismo giovanile persino eccessiva […]. Quando mi ritrovai poco dopo a Vevey al campo universitario cominciai lentamente a ricredermi […]. L’importanza umana e educativa della nostra convivenza fu tale che quel periodo fattivo e impegnato costituì per me e per molti compagni una lezione di vita, nel senso civile e professionale, di cui non ci scordammo più (G. Jarre, Una lezione di vita (1944), in Testimonianze in memoria di Gustavo Colonnetti, a cura della Fondazione Alberto Colonnetti, 1973, pp. 32-33).
Nel dicembre 1944 Colonnetti ritornerà in Italia su un aereo militare statunitense; si dedicherà poi a tessere la ricostruzione del Paese – tra l’altro, nel 1945 diventerà il primo presidente postbellico del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Il suo impegno politico, mai disgiunto dalla passione per la professione di ingegnere e di scienziato, sarà completamente dedicato al futuro del Paese, con uno spirito mosso da forti ideali europeistici. Nella conferenza Le premesse spirituali della ricostruzione, pronunciata all’Università di Losanna il 17 aprile 1944, aveva detto:
Voi giovani, che una insana propaganda può avere allettato con illusorie e fallaci promesse di domini e di potenza; voi, che l’odierno scatenarsi dei peggiori istinti della natura umana può aver condotto a pensare che ogni problema si possa e si debba risolvere coll’uso della violenza e della forza; voi dovete trovare il coraggio di fare tre grandi rinunce, che sono, a parer mio, la premessa inderogabile della ricostruzione: la rinuncia alle ideologie nazionalistiche; la rinuncia agli egoismi di classe; la rinuncia allo spirito di violenza (in Pensieri e fatti dall’esilio…, cit., p. 13).
Molti sono gli italiani che in quegli anni sentono la necessità di mettere un nuovo ordine non solo nelle strutture di governo, ma anche in quelle da cui dipende lo sviluppo economico e industriale del Paese.
Enrico Mattei era nato il 29 aprile 1906 ad Acqualagna, nei pressi di Urbino, e a Milano, negli anni Trenta, era diventato (non senza difficoltà) un piccolo imprenditore nel settore chimico. Dopo l’8 settembre 1943 era entrato nelle file della Resistenza tra i ‘bianchi’ (i partigiani dell’area cattolica), diventando ben presto, all’interno del Comando militare centrale del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia), l’uomo di riferimento della Democrazia cristiana. Tre giorni dopo la liberazione di Milano, il 28 aprile 1945, era stato nominato da Cesare Merzagora – in quel momento presidente della Commissione centrale economica del CLNAI – commissario liquidatore dell’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli), la principale compagnia petrolifera pubblica italiana, fondata nel 1926; ma la liquidazione di questa azienda avrebbe comportato una maggiore dipendenza dell’Italia dal cartello formato dalle grandi imprese petrolifere angloamericane. E così Mattei da liquidatore dell’AGIP ne diventerà il primo presidente. Nel 1953 fonderà l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), di cui sarà presidente fino alla sua misteriosa morte, nel 1962. Sono ben note, di Mattei, la storia dello sfruttamento del metano nella pianura padana, la ricerca del petrolio nel Meridione d’Italia, gli accordi con i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa al fine di ottenere nuove risorse energetiche per la giovane Repubblica italiana. Importante fu il suo discorso su questi temi alla Camera dei deputati, nella seduta antimeridiana del 26 ottobre 1949:
Prima di entrare in dettagli di discussione, vorrei far presente alla Camera che cosa può significare il fatto che l’enorme energia rappresentata dal metano diventi esclusivo possesso di gruppi privati. Per il momento, si hanno ragioni per ritenere che i giacimenti principali si trovino nella Valle Padana. Tali giacimenti, ricchissimi di gas, contengono anche petrolio; ma per estrarre il petrolio senza disperdere il gas, è necessario preoccuparsi dell’utilizzazione del gas, il cui impiego è altrettanto importante che quello del petrolio. […] Con il gas della pianura padana, lo Stato, e soltanto lo Stato, può proporsi di stimolare quella industrializzazione del Mezzogiorno che è stata finora irraggiungibile, perché si è sperato, a torto, che essa entrasse nei calcoli di convenienza di imprenditori privati. Con un’energia elettrica ottenuta dal gas, portata a buon mercato in qualche centro dell’Italia meridionale, molte possibilità e problemi nuovi possono essere dischiusi alla volenterosa iniziativa del Mezzogiorno. […] Una valutazione, veramente molto prudente, fa ascendere la riserva complessiva di gas dai soli quattro giacimenti attualmente in fase di coltivazione e di sfruttamento da parte della Azienda dello Stato a circa 66 miliardi di m3 e quello estraibile a circa 29 miliardi di m3, corrispondenti ad una erogazione per venti anni di 4 milioni di m3 al giorno. Per dare un’idea del valore di questa cifra si tenga presente che 4 milioni di m3 al giorno corrispondono, come potere calorifico, a circa 6000 t di carbone, cioè al carico di un piroscafo al giorno; il che rappresenta all’incirca un quinto del fabbisogno nazionale di carbone d’importazione. Se queste sono le quantità che saranno raggiunte e superate entro un paio di anni, anche in questo momento i dati di produzione rivestono una notevole importanza concreta. Infatti l’erogazione sfruttabile alla bocca dei pozzi è ora di circa 1.200.000 m3 al giorno, di cui 400.000 vengono già immessi al consumo attraverso i metanodotti Caviaga-Milano, Caviaga-Piacenza (entrambi della portata di 100.000 m3 al giorno) e Caviaga-Bergamo, della portata di 400.000 m3 al giorno. Ricordo, per inciso, che queste possibilità si riferiscono soltanto ai pozzi eseguiti su circa metà del giacimento di Caviaga e su circa un decimo del giacimento di Ripalta, mentre non tengono conto del giacimento di Cortemaggiore, che ha dimensioni più che triple di quelle di Caviaga e di Ripalta insieme. […] Ho assunto le mie responsabilità nel 1945, quando la sfiducia generale nelle possibilità petrolifere nazionali aveva persuaso gli organi pubblici sull’opportunità di interrompere le ricerche abbandonando i capitali già spesi e liquidando cantieri e macchinari. Come commissario straordinario dell’AGIP, ordinai la prosecuzione delle perforazioni ed ebbi la soddisfazione di realizzare le splendide possibilità produttive di quel campo gasifero di Caviaga, che fu il primo della fortunata serie di ritrovamenti importanti nella Valle Padana. […] Coloro che giudicheranno serenamente, senza lasciarsi influenzare dalle propagande interessate, stimeranno se convenga interrompere l’impresa e passarla ad avide mani, le quali sanno bene che oggi c’è poco da rischiare e molto da raccogliere, accettando l’eredità che reclamano a gran voce dallo Stato (cit. in E. Mattei, Scritti e discorsi 1945-1962, 2012).
Negli anni della ricostruzione postbellica, molti furono i tentativi per fornire all’Italia le risorse energetiche necessarie al rilancio delle imprese e per limitarne la dipendenza dagli imperi delle ‘sette sorelle’, come venne chiamato da Mattei il già citato cartello formato dalle sette grandi compagnie (cinque statunitensi e due britanniche) che allora controllavano il mercato mondiale del petrolio: Standard oil of New Jersey, Standard oil of New York, Standard oil of California, Texaco, Gulf oil, Royal Dutch Shell, Anglo-Persian oil company.
Insieme a quello di Mattei nel settore degli idrocarburi, uno di questi tentativi fu rappresentato dallo sviluppo dell’industria nucleare, in cui un ruolo decisivo venne giocato da Felice Ippolito, nominato nel 1952 segretario generale del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN, ribattezzato nel 1960 Comitato nazionale per l’energia nucleare, CNEN). Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta (cioè nel periodo del cosiddetto boom economico), si ebbe nel nostro Paese un grande sviluppo del settore nucleare, con la costruzione delle centrali di Latina, del Garigliano e di Trino Vercellese: l’Italia divenne così il terzo produttore al mondo di energia nucleare per usi civili, e i politecnici di Torino e Milano aprirono corsi di laurea in ingegneria nucleare.
Ma nell’ottobre 1962 l’aereo su cui Mattei viaggiava dalla Sicilia a Milano si schiantò misteriosamente al suolo, mentre nel marzo 1944 Ippolito venne arrestato per presunte irregolarità amministrative commesse nell’ambito del CNEN, e pochi mesi dopo venne condannato a 11 anni di carcere.
Nell’estate del 1964, la società Olivetti – che nel 1960 aveva perso la sua guida in seguito alla morte di Adriano Olivetti, figlio maggiore del fondatore dell’azienda, Camillo – cedette alla statunitense General electric la sua Divisione elettronica. Ma sin dalla metà degli anni Cinquanta un gruppo di ricercatori della Olivetti aveva lavorato, sotto la guida di Mario Tchou, a sviluppare la serie Elea 9000 – il cui primo modello, il 9003, era stato presentato in pubblico nel 1959 –, ovvero i primi elaboratori elettronici completamente transistorizzati esistenti al mondo. Inoltre, la cessione della Divisione elettronica non pose subito fine agli investimenti nel settore: dal 1964 un altro gruppo di ricercatori, diretto da Pier Giorgio Perotto, lavorava alla creazione di una calcolatrice programmabile da tavolo – cioè l’archetipo del personal computer di oggi –, il cui primo modello, Programma 101, venne presentato nel 1965, anticipando di parecchi anni i colossi dell’elettronica mondiale.
Sembrava dunque che l’Italia, sulle frontiere delle nuove tecnologie dell’energia, dell’elettronica e dell’informazione, avesse violato qualche tabù, tanto da attirarsi le ire degli dei, o di qualche grande potenza concorrente.
Dall’altra parte c’era la grande industria automobilistica, e in particolare la Fiat, perché l’Alfa Romeo e soprattutto la Lancia stavano accusando i primi sintomi dell’inesorabile declino. La Lancia, passata in mano alla famiglia Pesenti nel 1959, nel 1969 entrerà nella galassia della Fiat, che l’acquisterà a un prezzo simbolico.
Dal 1950 al 1973, con un’accelerazione negli ultimi cinque anni del periodo, l’economia italiana era cresciuta con una velocità doppia rispetto a quella media degli altri Paesi dell’Europa occidentale.
Se per un attimo distogliamo lo sguardo dai grandi contesti industriali e politici, vediamo un settore, quello della distribuzione, che riuscì a trasmettere alla gente comune il segnale che qualcosa stava cambiando, e rapidamente: come farà notare Emanuela Scarpellini in un suo saggio (Esselunga, agli albori del commercio moderno, 2006), questo segnale è la nascita dei supermercati. Se ne accorse anche lo scrittore Italo Calvino (si veda l’episodio Marcovaldo al supermarket nella sua raccolta Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, 1963).
Di supermercati in Italia si incominciò a parlare nel 1956 – l’anno successivo all’entrata della Fiat 600 nel mercato dell’auto –, quando, in occasione di un congresso internazionale sulla distribuzione alimentare, il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, in collaborazione con la National association of food chains, allestì nel quartiere romano dell’Eur, su una superficie di oltre 1000 m2, un supermercato a scopo dimostrativo e promozionale, che conteneva prodotti offerti da 500 aziende statunitensi. Il successo fu enorme, con oltre 450.000 visitatori, e fu in quella occasione che gli italiani incominciarono a prendere coscienza dell’esistenza dei cibi surgelati.
Del resto, tutto ciò stava diventando possibile anche perché l’industria dei prodotti ‘bianchi’ (dai frigoriferi alle lavatrici) faceva entrare le più moderne tecnologie nelle case di tutti. La società Supermercato, fondata alla chiusura dell’esposizione dell’Eur rilevandone le strutture, aprì il primo punto vendita in viale Libia a Roma: la proprietà era divisa fra Franco Palma, dirigente della società Squibb, e Amedeo Malfatti, fratello di Franco Maria, allora membro della Direzione centrale della Democrazia cristiana. Il 27 novembre 1957 si apriva a Milano il primo moderno supermercato, in viale Regina Giovanna, e sul quotidiano «Il giorno» appariva un articolo in cui si poteva leggere:
Questi grandi magazzini di generi alimentari e vari somigliano un poco a grandi scintillanti drogherie. È come avere a Milano un po’ di Nuova York o Pittsburgh o Chicago. Il cliente può scegliere fra 1600 articoli inscatolati o avvolti nel cellophane, dalle mozzarelle napoletane alle pinne di pescecane, ai nidi di rondine, alla zuppa di canguro: il ben di Dio di ogni Paese.
Si apriva un nuovo capitolo nella storia di un’Italia che, secondo quanto affermava il titolo di un celebre documentario televisivo del 1960 – commissionato da Mattei al regista Joris Ivens –, «non è un paese povero». La televisione, con la RAI, aveva iniziato le proprie trasmissioni regolari nel 1953, e già pochi anni dopo era diventata un nuovo mito: il 26 novembre 1955 era iniziato il successo del programma Lascia o raddoppia?, condotto da Mike Bongiorno, con la regia di Romolo Siena.
Sono gli anni in cui, alla Montecatini e al Politecnico di Milano, il chimico Giulio Natta, in collaborazione con il tedesco Karl Waldemar Ziegler, sviluppava le sue ricerche sui polimeri, che lo porteranno alla realizzazione del polipropilene isotattico e faranno guadagnare nel 1963 ai due scienziati il premio Nobel per la chimica. Per gli italiani, il polipropilene fu il Moplen, il nome con cui venne messa in commercio questa plastica che ben presto avrebbe invaso il Paese cambiandone il volto domestico, dalle stoviglie ai giocattoli, e che sarebbe stata pubblicizzata in televisione nei Caroselli con Gino Bramieri.
La ‘fumisteria’ fondata da Antonio Zanussi a Pordenone nel 1916 per produrre cucine economiche in ghisa, e presa in mano da suo figlio Lino nel 1946, nei primi anni Cinquanta era ormai una moderna industria, con più di 300 operai; nel 1954 produrrà il primo frigorifero, nel 1958 (con il marchio Rex) la prima lavabiancheria, nel 1964 la prima lavastoviglie. I marchi Rex, Naoni e Zanussi diventarono un punto di riferimento per un settore che avrebbe conquistato il primo posto in Europa. La Zanussi ottenne il premio Compasso d’oro per il design nel 1962 con la cucina serie 700 e nel 1967 con la lavabiancheria P.5. Un successo stroncato il 18 giugno 1968 dall’incidente aereo in cui Lino Zanussi perse la vita; in quell’anno, nei 13 stabilimenti del gruppo lavoravano 13.000 persone.
Nel novembre 1969, presso l’Accademia nazionale dei Lincei si svolse un convegno sul tema Tecnologie avanzate e loro riflessi economici, sociali e politici. Vi parteciparono i protagonisti della rinascita scientifica e tecnologica di un’Italia che aveva attraversato i difficili anni della ricostruzione e ha appena raccolto i frutti del miracolo economico. Pochi potevano immaginare che di lì a breve si sarebbe piombati nella prima grande crisi energetica.
Nel suo discorso inaugurale, il presidente dell’Accademia, Beniamino Segre, affermava che il convegno avrebbe dovuto anzitutto
puntare verso il futuro, senza omettere i contrasti e le contraddizioni che intercorrono tra la visione teorica del tecnologo e dell’economista e la realtà sociale del Paese, ed altresì promuovere il dialogo tra scienziati e tecnologi e fra questi e gli uomini politici meglio qualificati e consci delle svolte radicali imposte oggidì dai rapidissimi progressi scientifici e tecnologici, per infine dedurre variabili economiche e trarre suggerimenti utili e concreti circa i problemi di scelta che sempre più impellentemente l’industria si vede nella necessità di dovere affrontare (in Atti del convegno sul tema ‘Tecnologie avanzate e loro riflessi economici, sociali e politici’, Roma, 5-11 novembre 1969, 1972, p. 10).
Era questo un convegno sui generis, perché affrontava, come diceva Segre, «temi tanto delicati ed in buona parte lontani dalle attività tradizionali» dell’Accademia (p. 10). Dopo il discorso del presidente del CNR, Vincenzo Caglioti (Sviluppo scientifico e tecnologico e responsabilità connesse), le sedute si articolarono sui seguenti temi: Tecnologie chimiche avanzate, Telecomunicazioni ed elettronica, Elettricità e problemi energetici, Costruzioni e materiali, Siderurgia, Aspetti economici sociali e politici delle tecnologie avanzate. Tra i relatori spiccavano Francesco Carassa, Luigi Dadda, Arnaldo M. Angelini, Umberto Colombo, Leo Finzi, Guido Oberti, Pier Luigi Nervi, Vittorio Cirilli, Aurelio Burdese.
Ad aprire la sesta seduta fu Mario Silvestri, con una relazione intitolata Uomini nuovi per un’era nuova. Già nel suo discorso, Giorgio Bo, allora ministro per la Ricerca scientifica e tecnologica, aveva detto:
Un’era nuova, l’era della tecnologia, sta per schiudersi dinanzi a noi, un’epoca nella quale cautamente ci siamo già avventurati, timorosi talvolta che la tecnica pura possa soverchiare quei valori eterni senza i quali l’uomo finirebbe col perdere il senso di se stesso e della sua missione nel mondo (in Atti del convegno..., cit., p. 15).
Nella relazione sopra citata, Silvestri si volle però avventurare, con sincero coraggio, a scrutare il futuro.
Scrutare il futuro è stata sempre un’impresa difficile, debitamente riservata, nell’antichità, agli dei od ai fattucchieri, che degli oracoli divini si facevano in qualche modo garanti e mallevadori. Oggi invece si parla di scienza del futuribile […]. Quali ragioni abbiano fatto scivolare la divinazione su di un piano di serietà non è un mistero (Uomini nuovi per un’era nuova, in Atti del convegno..., cit., p. 683).
Ma poiché è «solo con l’avvento della civiltà industriale che il ‘futuribile’ acquista un diverso sapore e diviene un tentativo di precorrere i tempi» (p. 684), se da un lato sorgevano i primi dubbi sul fatto che a un progresso materiale potesse seguire una proporzionata conquista etica, dall’altro nasceva la convinzione di un mondo moderno sempre più debole e vulnerabile. In quegli stessi anni, il Club di Roma (un centro indipendente di ricerca fondato nel 1968 da Aurelio Peccei) aveva commissionato al System dynamic group dell’università statunitense MIT (Massachusetts Institute of Technology) un rapporto sui limiti dello sviluppo, che sarà pubblicato nel 1972 (Limits to growth, ed. D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W. Behrens III), e nella sua relazione Silvestri vaticinava che il mondo in realtà aveva bisogno «non di uomini nuovi, ma uomini migliori, per la sopravvivenza» (p. 689).
E così il professor Giovanni Demaria affermava, nella relazione conclusiva del convegno (I riflessi economici, sociali e politici delle nuove tecnologie avanzate), che «occorre assegnare alla ottimizzazione tecnica anche un parametro di remunerabilità economica. La tecnologia, infatti, è sviluppo scientifico tecnico più realizzazione economica» (p. 703). E, osservando che il progresso tecnologico nei Paesi più avanzati, a cui l’Italia continuava a guardare con attenzione, è cumulativo nel tempo, nello spazio e nelle funzioni, affermava che esso è «largamente indipendente dalla organizzazione politica» (p. 705), e concludeva che per garantire un futuro sostenibile al Paese sarebbero state necessarie tre condizioni:
La responsabilità delle imprese, delle università e delle accademie; la limitazione della giornata lavorativa; lo sviluppo ulteriore delle tecnologie sulla base delle formula generale che eguaglia i nuovi minori costi ai prezzi di offerta (p. 726).
Nel 1974 Silvio Ceccato pubblicò, sotto il titolo La terza cibernetica. Per una mente creativa e responsabile, una serie di suoi interventi che completavano il precedente volume Cibernetica per tutti (1968, 19702). Laureato in giurisprudenza e diplomato in composizione musicale, Ceccato era docente di linguistica all’Istituto universitario di lingue moderne di Milano, ed era diventato famoso per le sue ricerche di cibernetica percettiva e linguistica, che lo avevano portato a studiare l’intelligenza artificiale e le prime macchine per la traduzione meccanica dei testi.
Fu «Civiltà delle macchine» – la rivista della Finmeccanica (l’associazione di categoria degli industriali del settore metalmeccanico), fondata da Leonardo Sinisgalli e da Giuseppe Luraghi – a diffondere i primi risultati ottenuti con Adamo II, un ‘cervello elettronico’ ideato da Ceccato e costruito in collaborazione con l’ingegner Enrico Maretti. Adamo II venne esposto al Congresso internazionale dell’automatismo, svoltosi a Milano dall’8 al 13 aprile 1956. All’inizio di quell’anno, su «Civiltà delle macchine» era apparso un articolo intitolato La grammatica insegnata alle macchine. Note di Silvio Ceccato (1, pp. 46-51), tratto dalle considerazioni esposte da Ceccato e Maretti al Third London Symposium on information theory intorno ai risultati da loro raggiunti nello studio della ‘traduzione meccanica’ applicando i metodi originali della ‘scuola operativa italiana’; vi si scriveva, tra l’altro:
Sarebbe davvero miracoloso se, in una situazione in cui chi costruisce non può nemmeno contare su una definizione di ‘linguaggio’, saltasse fuori una macchina che addirittura sostituisce una lingua con un’altra, cioè traduce. No, la traduttrice meccanica non è stata fabbricata. […] La decisione di costruire la traduttrice meccanica avrà dunque ripercussioni sia sulla tecnica e gli atteggiamenti ingegnereschi, sia sulla tecnica e gli atteggiamenti del filosofo (p. 46).
Sul numero 3 della stessa rivista, nell’articolo Adamo II (pp. 25-32), firmato da Maretti, così si poteva leggere:
Io sono l’ingegnere che ha costruito Adamo II, il modello meccanico di operazioni mentali presentato a Milano nel mese di aprile […]. Prima di descrivere il nostro apparecchio ed il suo funzionamento vorrei introdurre il lettore nel metodo delle originali ricerche della Scuola Operativa Italiana. […] Quando nel 1946 si costituì a Milano il Centro Italiano di Metodologia ed Analisi del Linguaggio e cominciò le pubblicazioni la sua rivista «Analysis», dedicata alla critica della scienza, il sottoscritto, ventitreenne, corse ad abbonarsi. La rivista morì al suo quinto numero; ma in questo fece in tempo a pubblicare tre articoli che mi colpirono: l’uno di Livio Gratton, un fisico astronomico oggi a La Plata, un altro di Adriano Buzzati-Traverso, un biologo genetista, oggi in California, ed il terzo di un metodologo, Silvio Ceccato. Di quegli articoli mi colpì non tanto il contenuto specifico, quanto la comunità del piano di lavoro che li ispirava e che permetteva a tre studiosi di differente competenza di mettere in comune in modo fecondo il loro sapere. […] Seguii lo svolgersi dell’indirizzo operativo, prima in una nuova rivista che si stampò a Roma, «Sigma», dedicata alla «conoscenza unitaria» con l’intervento di due nuovi studiosi, il fisico Vittorio Somenzi ed il chimico Giuseppe Vaccarino, entrambi interessati alla logica ed alla matematica ed alla metodologia della scienza, e poi nella rivista che la sostituì, «Methodos», che rimase a rappresentare il Centro Italiano di Metodologia ed Analisi del Linguaggio ed infine la Scuola Operativa Italiana, restringendo sempre più il campo di interessi al linguaggio ed alla cibernetica. […] Svolgendo una delle sue analisi operative Ceccato aveva infatti trovato che quando noi si nomina una cosa, questo avviene in quanto vengono poste in rapporto due cose, non importa quali, rappresentandosi quella fatta per prima mentre si è attivi per la seconda. La semanticità, cioè, è data da un rapporto e non da un segnale. […] La mia collaborazione personale con la Scuola Operativa Italiana ebbe inizio nel 1953, quando Ceccato ritornò in Italia dopo un lungo soggiorno a Londra (pp. 25-26).
Sarebbe lungo ora seguire tutte le vicende che portarono nel giro di tre anni a una collaborazione sempre più intensa tra Maretti e Ceccato, finché non si giunse alla verifica sperimentale di quegli assunti che, da un lato, ponevano una base artificiale alle scienze cognitive, dall’altro, avviavano una nuova fase operativa nella scienza informatica che proprio in quegli anni stava nascendo anche in Italia. Così, nel suo articolo, Maretti descriveva tali vicende:
Forse ‘Adamo II’ sarebbe stato costruito soltanto nel 1957, ed allora dotato di più ricche facoltà di questo ‘frammento del cervello di Adamo II’, se Leonardo Sinisgalli, nel gennaio di quest’anno, in un colloquio con Ceccato, non fosse venuto a sapere di questa possibilità. L’occasione di presentare la macchina ‘pensante e parlante’ si offriva con la Mostra Internazionale dell’Automatismo a Milano, in aprile. Saremmo noi riusciti a costruire un apparecchio in qualche modo dimostrativo dei risultati ottenuti con le analisi operative condotte dalla Scuola Operativa Italiana?
Ceccato ed io ci assumemmo, forse un po’ alla leggera, l’impegno di costruire ‘un modello meccanico di operazioni mentali’ entro i tre mesi dall’apertura della Mostra. Naturalmente, non c’era nemmeno da pensare ad un apparecchio dotato di sensorialità ed il cui funzionamento fosse asservito ad altro che ai bottoni di una tastiera di comando. Ma anche limitandoci alle sole operazioni mentali bisognava effettuare una limitatissima scelta fra le centinaia ormai analizzate dalla Scuola. La scelta cadde su 23 combinazioni mentali fra le più frequenti ed importanti nel lavoro della nostra mente: qualcosa, oggetto, soggetto, singolare plurale, inizio, fine, tutto, stesso, altro, spazio, tempo, e, o, niente, svolgimento, soggetto di svolgimento, oggetto di svolgimento, confronto, concetto, particolare, eguale, differente. Inoltre si pensò di mostrare la formazione di tre frasi celebri, naturalmente designanti pensieri di contenuto puramente mentale, tre frasi, per così dire, da ‘filosofi’, non già perché chi nasce cominci a tormentarsi con questi pensieri, ma perché ‘Adamo II’ nasceva ‘tutto testa’. Una frase di Descartes: “Cogito ergo sum”, una di Vico: “Verum et factum convertuntur”, ed una di Hegel: “Das Für-sich-sein im Anderssein ist der Prozess”. Ci interessava mostrare con esse sia l’attività di correlazione del pensiero, sia le connessioni con la designazione verbale. La scelta del meccanismo elementare, da ripetere in un certo numero di esemplari, non lasciò dubbi. Il più economico e sicuro era il circuito elettrico, non alimentato ed alimentato. Quali circuiti avremmo adoperato le lampadine, in modo da rendere visibile e seguibile immediatamente, attraverso il loro accendersi e spegnersi, il gioco temporale combinatorio. I comandi ai circuiti dovevano venire trasmessi da interruttori a nastro, mossi da motorini elettrici. E fu così che io trascrissi i risultati della analisi operativa, sia delle singole combinazioni mentali sia dei tre pensieri, risultati già designati con gli esse, in una scrittura atta a servire da interruttore a nastro: i trattini neri in corrispondenza del materiale conduttore, per chiudere i circuiti, ed i trattini bianchi in corrispondenza del materiale isolante, per aprire i circuiti. Appunto il tipo di scrittura con cui sono ora presentate qui le 23 combinazioni e 2 delle 3 frasi. Sennonché non si trovò a Milano chi potesse garantire la fornitura di simili nastri entro il tempo a nostra disposizione. Bisognava infatti o improvvisarne la costruzione, andando incontro ai possibili incerti tecnici, o ordinarli all’estero, andando incontro ai possibili incerti doganali. Così gli interruttori a nastro furono sostituiti con i selettori a rotazione (p. 31).
Anche Ceccato, con il suo sorprendente entusiasmo giovanile, sarà affascinato da Il futuro e le utopie (come recita il titolo di un suo saggio in La terza cibernetica, cit., pp. 263-80): ormai erano noti i risultati del progetto del Club di Roma, e «se devo profetare, profeterò anch’io», egli affermava con la sua voce pacata, dalla leggera inflessione veneta.
Vedo nel futuro dell’uomo anzitutto la perdita della cosiddetta trascendenza, cioè, in parole povere, di un mondo delle idee che preesista al nostro mondo delle idee. […] Ecco così l’uomo sempre più artefice di se stesso. Naturalmente non è che prima non lo fosse, ma la nuova consapevolezza lo rende soggetto ed oggetto di maggiori audacie. […] La fantasia apparteneva alla letteratura, ed agiva attraverso questa; oggi appartiene sempre più alla scienza e alla tecnica, come all’etica e alla politica. Fra le conseguenze di maggior portata, quella già tanto avvertita di una crisi del principio di autorità. […] In secondo luogo metterei lo sviluppo dei mezzi di comunicazione […]. Si comunicherà di tutto e dappertutto, con costi decrescenti e velocità crescenti. In tal modo anche civiltà che per millenni avevano proceduto indipendenti si sommano, si incrociano, le tradizioni si sgretolano e la mente ne esce scombussolata (p. 274).
Erano anni in cui ancora non si usavano i personal computer e il web non esisteva, ma quando, nel 1985, Antonio Ruberti – rettore dell’Università di Roma e futuro ministro dell’Università e della Ricerca – curò il volume Tecnologia domani. Utopie differite e transizione in atto, si poteva a pieno diritto dire che il futuro era già cominciato. Così infatti scriveva Ruberti nel risvolto di copertina: «telematica, intelligenza artificiale, microelettronica, robotica: un’autentica rivoluzione tecnologica sta caratterizzando questo scorcio di secolo», nel mondo, ma anche in Italia.
In questa raccolta di saggi – scaturiti da una brain session di psicologi e tecnologi, sociologi e urbanisti, informatici e filosofi – si prendeva atto che la correlazione tra sapere scientifico e tecnologia veniva a essere diretta inducendo un’altra correlazione, ben più forte, tra ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Così scriveva ancora Ruberti nell’introduzione al volume: «l’una indicando l’attività intesa a modificare il sapere e l’altra l’introduzione di cambiamenti nelle regole di un processo produttivo» (p. VII). E proprio andando ad approfondire le sue riflessioni sul «prevedere il futuro», egli constatava che
tutti gli autori [di questo libro] giudicano epocale l’introduzione delle ‘nuove tecnologie’ […], e nel ritenere che il disegno degli scenari che abbiano in ascissa il tempo tendono a introdurre la convinzione che questa sia la variabile di maggior rilievo […] e che il processo di trasformazione in atto, come gli altri processi epocali che lo hanno preceduto e come gli effetti già manifestati confermano, non si sviluppi in modo uniforme e omogeneo (p. XII).
E quando affrontava il tema della ‘fabbrica automatica’, Ruberti constatava che le metodiche dell’automatica, della sistemistica e dell’informatica, pur affondando le loro radici nella matematica, stavano fondando una nuova area scientifica, con un proprio approccio metodologico, dove i modelli dei sistemi dinamici permettevano l’osservazione dei processi durante le loro evoluzioni, prevedendone il comportamento e permettendo di sviluppare le strategie ottimali di controllo. Questa nuova scienza non stava dando i suoi risultati, con un approccio quantitativo, soltanto nel mondo della produzione industriale, ma trovava sempre più interessanti applicazioni anche in altri settori, dall’economia alla biologia.
Di fronte ai nuovi scenari della ricerca, il finanziamento pubblico si spostò dal finanziamento ordinario dei singoli progetti presentati dai ricercatori, per lo più universitari, ai Progetti finalizzati (PF) del CNR, che videro la propria origine nell’art. 15 della legge nr. 702 del 22 dicembre 1975. Per poter valutare l’impegno dello Stato nei PF, basta osservare che dal 1985 al 1993 i finanziamenti statali versati al CNR passarono da 600 a 1082 miliardi di lire, mentre i finanziamenti ordinari restarono costanti, aggirandosi intorno ai 200 miliardi (e successivamente sarebbero diminuiti); ne consegue che i PF assorbirono sul totale una percentuale che passò dal 66% all’80%. Dal primo rapporto della Fondazione Rosselli sulla ricerca industriale italiana (Le priorità nazionali della ricerca industriale, 1996), si evince che nel periodo 1976-82 il progetto Tecnologie avanzate assorbì il 35% dei finanziamenti disponibili per i PF, mentre a ciascuno di altri tre progetti, Salute, Territorio ed Energetica, andò il 17-18%; il rimanente 12% andò al progetto Fonti alimentari. Le cose cambiarono nel periodo 1983-86, quando alle Tecnologie avanzate andò il 45,6% dei fondi e alla Salute il 22,7%. Un ulteriore cambiamento si sarebbe verificato nel periodo 1987-92, quando le Tecnologie avanzate ottennero il 64,4% e la Salute scese al 17,4%, mentre tutti gli altri progetti restarono al di sotto del 10%. Nel periodo 1987-93, di fronte a una riduzione dei fondi disponibili e all’estinzione dei progetti Energetica ed Economia, le Tecnologie avanzate otterranno il 56,9% e la Salute il 25,1%.
Ciò che però in questi anni più angustiava la ricerca italiana era la mancanza di una definizione univoca degli obiettivi dei PF, che non risultava chiara né nella già citata legge del 1975 né nei successivi interventi del CNR stesso. Sarà solo una delibera del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), la nr. 157 dell’8 aprile 1987, a chiarire gli obiettivi dei PF: ridurre la dipendenza tecnologica dell’Italia dall’estero, accrescere e qualificare il capitale umano, infine – e soprattutto – promuovere e incrementare lo sviluppo delle aree di recente industrializzazione, in particolare del Mezzogiorno. E se da un lato – pur con tutte le osservazioni critiche che potrebbero essere avanzate sull’argomento – i PF in questo periodo favorirono la collaborazione tra università, centri di ricerca e imprese, non si può negare che dal 1988 in poi i risultati, in termini di pubblicazioni scientifiche, avrebbero subito un notevolissimo decremento, non giustificabile solo in base ai minori fondi disponibili.
Quando nel 1994, su incarico di un centro di ricerca dipendente dal CNR, il Ceris (Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo), verrà tracciato un primo bilancio sull’industria della robotica nel Paese (Struttura e strategia dell’industria italiana di robotica, a cura di S. Rolfo), emergeranno le lacune da parte europea nella
politica volta a sostenere il decollo e il consolidamento di un settore innovativo costituito per lo più in tutti i paesi da un forte numero di piccole imprese costituite ad hoc e quindi caratterizzate dai problemi tipici delle attività imprenditoriali innovative a forte rischio (S. Rolfo, Il ruolo della robotica nel processo innovativo, in Struttura e strategia…, cit., p. 22).
E, nell’ultimo saggio ospitato dal volume, Paolo Vaglio, chiedendosi perché «un’impresa di medie dimensioni, alla quale si impone un più attento utilizzo di elementi hard, debba registrare nei settori di specializzazione un minore ritorno in termini di margini lordi e risultati netti», concludeva che «forse un buon numero di industriali italiani, produttori di beni complessi, opera benissimo quando può permettersi di essere per metà intermediario mercantile […] individuando fasce di mercato protette nelle quali operare al riparo dalla concorrenza», dal momento che «quando la dimensione d’impresa cresce è impensabile di pensare di sopravvivere sfruttando le strozzature di mercato» (Evoluzione di alcuni comportamenti economico-finanziari di un campione di imprese produttrici di robot, in Struttura e strategia…, cit., p. 198).
E per allargare le considerazioni a temi che vanno ben oltre le finestre temporali esaminate nel bilancio del Ceris, si potrebbe affermare che il peso eccessivo degli oneri finanziari spesso è una giustificazione che nasconde, ma solo in parte, la scarsa propensione ad apportare capitale di rischio da parte dell’azionista, che dimostrerebbe così la propria autosfiducia di imprenditore.
Dal 1985, la ricerca e i suoi canali di finanziamento subirono una nuova svolta perché si aprirono a uno scenario non più limitato all’Italia, ma allargato all’Europa intera. Il programma Eureka (European Research Coordination Agency) prese l’avvio nell’aprile del 1985 a opera di Roland Dumas, ministro per gli Affari esteri francese: le conferenze di Hannover (novembre 1985) e Londra (giugno 1986) definiranno le linee guida per questa iniziativa di finanziamento internazionale-intergovernativa.
Da questo momento in poi, il ruolo dell’Italia si dovrà confrontare con un contesto europeo, e ricordando che il progetto Eureka era essenzialmente diretto a un contesto industriale, la presenza del nostro Paese in termini di costi ha continuato a mantenere una buona rilevanza nell’ambito della robotica e delle tecnologie laser, mentre ha dimostrato, nel primo decennio, i propri limiti nel settore delle tecnologie dell’informazione e dell’energia. Ma sarebbe fuorviante non sottolineare come anche nei decenni successivi, nonostante gli sforzi per un migliore controllo degli esiti delle ricerche da parte di vari enti di valutazione, la ricerca applicata del Paese, sia come finanziamenti sia come ricadute, rimarrà, salvo le dovute eccezioni, al di sotto della media europea.
L’avventura spaziale italiana svoltasi nella seconda metà del 20° sec. può per molti versi essere considerata come una cartina di tornasole della società industriale nazionale, attenta a cogliere le migliori occasioni, ma spesso incapace, al di là degli immediati successi, di consolidare gli obiettivi raggiunti.
Le prime anticipazioni c’erano state già nel 1914, con un articolo dell’ingegnere (e futuro generale dell’aeronautica) Giulio Cesare Costanzi, contenente alcune proposte di navigazione nel cosmo (Per uscire dal Pianeta, «Aer», 5, pp. 11 e segg.). Più tardi, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, un altro ingegnere, Luigi Gussalli, prima aveva ipotizzato un viaggio dalla Terra alla Luna (Si può già tentare un viaggio dalla Terra alla Luna? Relazione di esperienze eseguite coi propulsori a doppia reazione, 1923) e poi aveva anticipato le ricerche sulla propulsione a vento solare (I viaggi interplanetari per mezzo delle radiazioni solari, 1946). Ma queste idee non si erano trasformate in esperienze concrete. Rimasero isolate e senza seguito, peraltro, anche quelle sperimentazioni che pure c’erano state, come i lanci di razzi compiuti alla fine degli anni Venti dall’ufficiale dell’aeronautica Gaetano Arturo Crocco e all’inizio degli anni Cinquanta dal professor Aurelio Robotti, che nel 1952, primo in Italia, lanciò un razzo a propellente liquido, l’AR3.
Tuttavia nell’ottobre 1955, con decreto del presidente della Repubblica, veniva istituito presso l’Università di Roma un corso di laurea in «ingegneria aeronautica con indirizzo missili», che diverrà operativo nel 1958. Nel 1959 il CNR, assieme all’aeronautica militare, stanziava una somma di 600 milioni di lire per la realizzazione di razzi sonda da alta quota. A capo del programma veniva nominato il colonnello Luigi Broglio. In Sardegna, il poligono di Salto di Quirra e, più tardi, quello di Perdas de Fogu diventeranno le basi sperimentali per una sempre più attiva collaborazione tra Italia e Stati Uniti. Per la realizzazione del progetto San Marco sulla ricerca spaziale, si arrivò nel 1962 a un nuovo accordo Italia-Stati Uniti; da un poligono mobile galleggiante – situato di fronte alla città africana di Malindi, in Kenya – ebbe inizio una lunga serie di lanci di missili Scout e Nike – protagonisti di importanti ricerche satellitari –, destinata a terminare nel 1988.
Ernesto Vallerani, fondatore nel 1990 della società Alenia spazio e suo primo presidente dal 1991, nel volume L’Italia e lo spazio: i moduli abitativi (1995) ripercorreva l’avventura che, a partire dai primi anni Settanta, aveva coinvolto l’industria nazionale nella costruzione di una stazione spaziale. Verso la fine del 1969, l’agenzia governativa statunitense NASA (National Aeronautics and Space Administration) aveva costituito presso il suo quartier generale a Washington una task force per esaminare due ambiziosi progetti – quello di una navetta spaziale e quello di una stazione spaziale in orbita geostazionaria –, che iniziarono a definirsi sia presso il Marshall space flight center di Huntsville in Alabama, sia presso il Manned spacecraft center di Houston in Texas. Le due agenzie spaziali europee dell’epoca, l’ELDO (European Launcher Development Organisation) e l’ESRO (European Space Research Organisation), inizialmente conobbero delle difficoltà, ma presto i rappresentanti di Italia e Germania riuscirono a suscitare l’interesse dei Paesi europei per una collaborazione con gli Stati Uniti; così, quando nel 1972 il presidente statunitense Richard M. Nixon approvò il programma Space shuttle, la sua decisione fu accolta con entusiasmo anche in Italia.
Intanto, nel 1969 la Fiat Aviazione si era trasformata in Aeritalia e, anche se con qualche ritardo, nella nuova struttura venne istituito un Ufficio spazio. A partire dal 1973 si avviò – sotto la guida di un consorzio per la ricerca spaziale formato da aziende tedesche, l’ERNO (EntwicklungsRing NOrd) – la prima fase del progetto europeo per un laboratorio spaziale, lo Spacelab, da portare in orbita nella cargo bay dello Shuttle. All’Aeritalia vennero affidati la costruzione della struttura del modulo e il controllo termico (per quest’ultimo sarà affiancata dalla Microtecnica). La prima missione ebbe inizio il 28 novembre 1983 e fu coronata da successo. E così, dopo successivi lanci, l’ottimale comportamento dello Spacelab porterà alla sua evoluzione nel laboratorio Columbus orbital facility (un cilindro lungo 6,75 m e dal diametro di 4,477 m), messo in orbita nel 2008 come elemento componibile abitabile per la stazione spaziale internazionale ISS (International Space Station).
Intanto, come già detto, l’Aeritalia si era trasformata in Alenia spazio, e i rapporti tra Stati Uniti e governo italiano erano mantenuti dall’Agenzia spaziale italiana (ASI); tuttavia, la crisi economica statunitense del 1993 e il ridimensionamento dei fondi stanziati per i progetti di ricerca spaziale portarono a una sua battuta d’arresto anche nel nostro Paese. Le questioni all’interno dell’ASI e l’incapacità dei vari governi italiani di assumersi delle responsabilità, prendendo importanti decisioni, non aiutarono a risolvere i problemi strutturali del settore e così anche l’industria spaziale italiana entrò in una situazione di impasse, che lasciava solo al satellite Tethered – ideato dall’astrofisico Giuseppe Colombo – ancora qualche spazio per future ricerche. Nel frattempo l’Alenia, in difficoltà per trovare nuove commesse, manteneva i contatti già precedentemente presi con l’azienda aeronautica statunitense Boeing. I grandi progetti scomparivano lentamente dietro l’orizzonte, nel vortice delle incertezze della fine del secondo millennio.
Molti sarebbero ancora i temi da affrontare nel tracciare il quadro di un’Italia alla ricerca di un posto nell’Europa del nuovo millennio, e certamente quello dell’innovazione ricopre un ruolo significativo, soprattutto quando entrano in gioco nuovi Paesi emergenti sullo scacchiere internazionale.
Così ha rilevato il rapporto prodotto dall’edizione 2009 degli ‘Incontri di Artmino sullo sviluppo locale’ (Inventori e invenzioni in Italia, a cura di F. Ramella, C. Trigilia, 2010):
Non tutte le innovazioni sono tecnologiche (per esempio molti settori del made in Italy lo sono poco); non tutte le innovazioni tecnologiche sono brevettabili e brevettate; a volte i brevetti rispondono più a preoccupazioni strategiche nei riguardi dei concorrenti che a un effettivo uso commerciale (F. Ramella, C. Trigilia, I tre mondi sociali delle invenzioni, in Inventori e invenzioni in Italia, cit., p. 9).
Ma poiché i brevetti, pur con i loro limiti, sono un indicatore utile per esplorare i processi di innovazione, questa indagine conserva una sua obiettività. Dai risultati emerge «il radicamento territoriale (a livello locale e regionale) delle reti di collaborazione delle imprese» (p. 9); si sono individuati due ‘modelli’:
Quello dell’alta tecnologia in senso stretto, con una presenza più marcata della farmaceutica e degli apparecchi medicali, concentrato nelle grandi aree metropolitane del Centro-Nord (e a Roma). E quello della meccanica, della medio-alta tecnologia, che è il settore che brevetta di più ed è più presente nei centri medio-piccoli, specie nella Terza Italia, ponendosi più in continuità con il modello distrettuale (p. 10).
Chi sono gli inventori? E che cosa si inventa? Queste sono le domande più significative a cui il rapporto ha cercato di fornire una risposta; tale risposta potrà servire come base per ulteriori approfondimenti, quando l’esistenza di una serie storica sufficientemente lunga di dati permetterà di analizzare questi temi con il necessario distacco.
I nostri protagonisti hanno caratteri in parte differenti. […] In tutti e tre i mondi sono prevalentemente maschi, ma nella farmaceutica troviamo un 22% di donne con elevati titoli di studio, mentre nella meccanica sono sotto il 2%. L’età media è elevata (oltre i 50 anni), nella farmaceutica è solo un po’ più bassa. Questo dato contrasta con l’immagine diffusa che vede gli inventori come dei soggetti giovani. Lo sono un po’ di più nella farmaceutica, dove il brevetto indicato come più importante arriva in media dopo 10 anni di lavoro. Ma è soprattutto il livello di istruzione che distingue i diversi mondi: nella farmaceutica, la maggioranza ha una laurea e spesso un titolo superiore (nell’89% dei casi); nella meccanica solo poco più di un terzo ha un titolo universitario (il 40%).
I percorsi che conducono gli inventori della meccanica e della farmaceutica alle loro scoperte più importanti sono molto diversi. In primo luogo sotto il profilo formativo e professionale. L’inventore della farmaceutica ha alle spalle una brillante carriera di studi in facoltà attinenti alle specializzazioni richieste dal settore. Successivamente, svolge la gran parte della sua carriera per lo più in imprese private del Centro-Nord, spesso di grandi dimensioni (oltre i 250 addetti). Il brevetto più significativo viene in genere realizzato dopo i 40 anni. Differente è il profilo dell’inventore della meccanica, che esprime fin da giovane una forte attitudine per la soluzione di problemi tecnici. […] Colpisce poi, particolarmente, l’elevata stabilità aziendale e la bassa propensione alla mobilità orizzontale che abbiamo registrato (solo il 16% degli inventori intervistati ha cambiato lavoro dopo il brevetto). […]
Nella farmaceutica il processo di ricerca è più strutturato e formalizzato. L’attività da cui origina il brevetto richiede: maggiori investimenti (il costo medio oltrepassa i 700 mila euro); tempi più lunghi (solamente nel 37% dei casi viene realizzata in meno di un anno); team con un maggior numero di ricercatori e con competenze variegate; rapporti sistematici con la letteratura scientifica e le università; collaborazioni esterne fondate anche su reti lunghe (extra-locali). Nella meccanica, invece, le risorse necessarie si riducono (in media 240 mila euro), i tempi si accorciano (nel 72% dei casi le ricerche durano meno di un anno) mentre cresce – in termini relativi – il ruolo della creatività individuale, delle conoscenze tacite, degli stimoli provenienti dal mercato (mediante i clienti e la concorrenza) e delle reti corte di collaborazione. Possiamo ipotizzare che tutte queste caratteristiche siano più marcate nella meccanica a bassa istituzionalizzazione della ricerca, dove ancora più avvertito è il problema dei costi, anche in relazione alla dimensione più piccola e meno strutturata delle imprese coinvolte che incide sui finanziamenti (pp. 18-19, 27).
Se si utilizza il parametro delle citazioni di brevetti italiani durante il triennio successivo al deposito, per l’industria farmaceutica si evidenzia un buon livello rispetto agli standard europei:
Questo risultato sembra indicare una discreta dotazione di capacità scientifiche di base, e una tradizione che resiste, testimoniate anche dalla presenza di rapporti di collaborazione più forti con le università, e dalla presenza stessa degli atenei tra i titolari dei brevetti (p. 29).
Una situazione diversa riguarda invece la meccanica, perché in questo settore le invenzioni richiedono tempi più ridotti e hanno costi più bassi. Esse sono realizzate da team più piccoli, da inventori isolati o indipendenti; si basano su conoscenze tacite, rapporti di collaborazione stretti con fornitori e clienti, di solito per il tramite di reti corte locali; sono caratterizzate da uno scarso coinvolgimento di università e centri di ricerca. Così Ramella e Trigilia spiegano i motivi per cui in questo settore il livello medio delle citazioni dei brevetti è sensibilmente più basso rispetto a quello dell’industria farmaceutica italiana e a quello dell’industria europea in generale. E aggiungono:
Tra le aziende con più citazioni: il Centro di Ricerca Fiat di Orbassano (4 brevetti con 6 citazioni per ognuno); la GD di Bologna, un’azienda di packaging specializzata in macchine per la produzione e il confezionamento delle sigarette (4 brevetti con 4,5 citazioni); la Jobs di Piacenza, specializzata in robotica (2 brevetti con 4 citazioni) (p. 31).
In questo elenco andrebbe inclusa la Technogym di Cesena, che dal 1983 si è guadagnata un posto importante, a livello mondiale, nella progettazione e produzione di attrezzature sportive e per il fitness, nonché di quelle della ricerca medico-scientifica e dello sport.
La presenza, presso i politecnici e le università più innovative, di ‘incubatori’ (spazi che ospitano nuove imprese e mettono a loro disposizione dei servizi), nei quali i giovani possono trovare un primo terreno fertile per intraprendere iniziative imprenditoriali con l’aiuto degli stessi centri di ricerca dove si sono formati, è una delle opportunità oggi esistenti. Vi si affianca la presenza dei parchi tecnologici, dove imprese e laboratori trovano nella reciproca vicinanza fisica le condizioni per nuove collaborazioni.
Come ha sostenuto più volte la Assobiotec (Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie), i parchi scientifici e tecnologici stanno svolgendo un ruolo sempre più importante nel processo di sviluppo delle biotecnologie, soprattutto in una fase molto delicata come quella del technology transfer, quando dal laboratorio si deve passare all’ingegnerizzazione del prodotto e alla sua produzione industriale.
In Italia, i principali parchi biotech si trovano concentrati nel Nord: in Lombardia, l’Insubrias biopark di Gerenzano e il Parco tecnologico padano di Lodi – attivi il primo in campo biomedico, il secondo nell’area dei prodotti caseari e delle innovazioni genetiche per la riproduzione di specie animali –; in Piemonte, nella zona di Ivrea, il Bioindustry park ‘Silvano Fumero’; nel Nordest, infine, l’AREA science park di Trieste e il Parco scientifico e tecnologico di Venezia. In Toscana opera il Toscana life sciences, e in Campania Technapoli, che ospita il TIGEM (Telethon Institute of GEnetics and Medicine). Non sono da dimenticare, infine: in Sicilia, il Parco scientifico e tecnologico della Sicilia, e, in Sardegna, Sardegna ricerche. L’APSTI (Associazione Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani) è il network nazionale dei parchi scientifici e tecnologici, a cui aderiscono 31 associati.
L’Environment park di Torino è nato nel 1996 per iniziativa della Regione Piemonte, della Provincia di Torino, del Comune di Torino e dell’Unione Europea; rappresenta un’esperienza originale nel panorama dei parchi scientifici e tecnologici europei, perché ha saputo coniugare innovazione tecnologica ed ecoefficienza, sviluppando imprese e laboratori nei settori della bioedilizia con attività di supporto alla progettazione a privati e istituzioni nell’ambito dell’architettura ecocompatibile; in quello dei progetti ambientali integrati rivolto a imprese e istituzioni per offrire soluzioni innovative ed ecoefficienti basate su trasferimento tecnologico, analisi ambientali e territoriali, strumenti innovativi di gestione ambientale; in quello dell’energia finalizzato a offrire un servizio di assistenza a imprese e a enti pubblici nel campo delle tecnologie energetiche. Dell’Osservatorio energia fanno parte Hysylab, centro di eccellenza e supporto alle imprese sulle tecnologie dell’idrogeno, e Bioenergy lab, laboratorio di ricerca sui sistemi di produzione di idrogeno da biomasse. Il laboratorio Clean NT lab, dotato di tre impianti per processi al plasma, è orientato alla ricerca e al trasferimento tecnologico nell’ambito del trattamento delle superfici con nanotecnologie ecoefficienti basate sul plasma.
Tuttavia, malgrado le punte di eccellenza, all’inizio del secondo decennio del 21° sec. la crisi economica mondiale non ha lasciato indenne l’Italia che, nel contesto di una Unione Europea fortemente diversificata, stenta a mantenere il suo status di Paese industrializzato.
Il 31 maggio 2001, nelle Considerazioni finali della Relazione annuale sul 2000, il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, nell’auspicare un nuovo, possibile miracolo economico – che a tutt’oggi, peraltro, non si è ancora visto –, constatava la perdita di competitività dell’industria nazionale, imputandola
alla tipologia e qualità dei prodotti; più in generale alla inadeguata rispondenza dell’offerta alla composizione della domanda. Influisce la limitata presenza del nostro sistema nella produzione di beni ad alta tecnologia (p. 23).
Subito dopo, il governatore precisava che, nel decennio 1990-2000, la quota delle esportazioni di prodotti ad alta tecnologia sul totale delle esportazioni era passata dal 13 al 19% nell’Unione Europea e dal 26 al 29% negli Stati Uniti, mentre in Italia era rimasta invariata, intorno all’8%.
Nel volume di Patrizio Bianchi La rincorsa frenata: l’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea (2002), emerge un giudizio sull’industria italiana che risulta sostanzialmente in accordo con quanto espresso da Gian Maria Gros-Pietro, Edoardo Reviglio e Alfio Torrisi nel loro Assetti proprietari e mercati finanziari europei (2001). Afferma Bianchi:
Ad eccezione dell’Italia, in tutta Europa si sta imponendo un modello di impresa basato su una proprietà diffusa, avente un nocciolo duro costituito da banche e grandissime imprese, anch’esse definibili come ‘public companies con nocciolo di riferimento’, cioè società per azioni con una proprietà estremamente diffusa e con una quota azionaria posseduta da azionisti stabili, che svolgono una costante funzione di monitoraggio sull’operato dei manager (p. 288).
Le incertezze politiche degli ultimi anni, le oscillazioni dello spread tra Italia e Germania, l’andamento costantemente incerto dei mercati mondiali sono fattori che certo non aiutano un Paese in cui la privatizzazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e delle banche ha fatto praticamente scomparire gli elementi pubblici di regolazione del sistema industriale. Il nucleo della grande impresa privata si è ulteriormente ristretto: da un lato la moneta unica europea e dall’altro la globalizzazione impongono un confronto che non può più essere gestito a livello locale. Secondo Bianchi, un’apertura dell’economia al di là dei confini nazionali ed europei richiede aggiustamenti istituzionali che possono mettere a dura prova l’identità del Paese.
Questi aggiustamenti istituzionali non sono ancora stati messi in cantiere e forse, assieme a quanti già negli anni Settanta profetizzavano tempi duri, bisogna riportare in primo piano i principi etici che sono alla base di una crescita sostenibile. I problemi demografici di un Paese che è diventato testa di approdo di nuove immigrazioni non devono essere trascurati neppure dagli altri partner dell’Unione Europea; una Unione dove soltanto una piena accettazione delle diversità culturali potrà permettere un’armonica crescita comune.
E la rincorsa sfrenata a imitare chi è più grande di noi, non può che portare a nuove tensioni, come sta accadendo anche nel settore dell’istruzione, della ricerca e, in generale, della cultura. Perché, nella piena consapevolezza dei limiti che il nostro Paese impone a un progresso che non può dirsi illimitato, assieme all’economista tedesco Ernst F. Schumacher possiamo ricordare che «piccolo è bello» (come dice il titolo di un suo celebre libro, Small is beautiful: a study of economy as if people mattered, 1973, trad. it. 1977), nel senso che «soltanto quando l’intervento avviene sulla scala della comprensione scientifica anziché sulla scala della possibilità tecnologica si riesce a valutare se l’ammontare dei costi non superi l’ammontare dei benefici» (come afferma Laura Conti nel risvolto di copertina della traduzione italiana). Sostiene Schumacher che solo se la società saprà accettare «senza criminalità, senza assuefazione alla droga, senza malattie mentali le condizioni di vita che l’esasperata industrializzazione ha creato» (p. 245), sapremo cambiare rotta a beneficio di tutti, «mettendo in discussione i fondamenti stessi di una cultura che vede il successo dell’uomo nel dominio violento dei fenomeni naturali anziché nel conseguimento di stabili equilibri» (p. 248).
Queste considerazioni sul futuro industriale dell’Italia hanno preso avvio ricordando l’impegno di Colonnetti negli anni della guerra civile 1943-45, e ora, con un flashback, si ritorna a un suo scritto che risale al 1961, quando per le Edizioni di Comunità fondate da Adriano Olivetti, raccoglieva alcuni suoi scritti sotto il titolo Si può salvare l’università italiana?. In una conferenza tenuta al Collegio universitario di Torino il 18 marzo 1960, affermava
È passato ormai più di un anno dall’entrata in vigore del trattato sul Mercato Comune Europeo e ci stiamo ogni giorno più inoltrando in una nuova e vasta sfera di interessi nazionali e internazionali, economici e sociali, che per tutte le Nazioni interessate – ma per noi italiani in modo particolare – creeranno un complesso di problemi della cui gravità ed importanza non ci rendiamo forse ancora sufficientemente conto. Mercato comune significa infatti mercato aperto a tutti, uomini, servizi, merci di ogni genere; significa libera concorrenza là dove a tutt’oggi domina, sotto una forma o sotto un’altra, un regime di deciso protezionismo. Donde situazioni professionali, industriali e commerciali, completamente nuove e, almeno in un primo tempo, sicuramente difficili. Il problema si presenta particolarmente grave per la mano d’opera. Oggi in Italia i lavoratori qualificati scarseggiano, mentre abbondano i disoccupati, gente senza mestiere che nessuno nella nuova Europa vorrà accogliere. La situazione tenderà ad aggravarsi ulteriormente se, nel nuovo assetto di libera circolazione degli uomini, i nostri migliori tecnici specializzati emigreranno all’estero attratti da rimunerazioni superiori alle nostre (p. 125).
Ora che è trascorso più di mezzo secolo, e che l’Unione Europea è una realtà, queste affermazioni di Colonnetti (profetiche, sotto molti aspetti) sono ancora più valide, e le sue raccomandazioni devono essere tenute presenti per garantire al nostro Paese, pur nel mantenimento della sua identità culturale, un responsabile e sostenibile ruolo nel contesto di un mondo ormai globalizzato. Proseguiva Colonnetti:
Così si pone in termini drastici il problema della educazione e della formazione professionale delle nostre maestranze; problema intimamente legato ad altri problemi che l’integrazione europea proporrà ai vari Paesi: quello della divisione del lavoro, quello della specializzazione della produzione, quello della riduzione dei costi, con conseguente profondo travaglio organizzativo di trasformazioni, di soppressioni, di ridimensionamenti, in cui verranno messi a dura prova lo spirito di iniziativa e le capacità realizzative dei quadri direttivi.
A preparare questi quadri ad un così arduo compito deve provvedere la Scuola avviando il maggior numero possibile di futuri ingegneri verso quella che, con felice espressione, fu autorevolmente definita “una diversa, più compendiosa e più comprensiva visione del mondo e delle relazioni fra gli uomini”. […] Occorre che ai giovani resti tempo, e sia offerta occasione, di inquadrare le nozioni scientifico tecniche nelle più vaste e spesso misteriose prospettive dei problemi umani e sociali alle cui esigenze e scienza e tecnica devono prestarsi (pp. 125-26).
Assieme a quelle di Colonnetti, ricordiamo le parole che nel 1961 papa Giovanni XXIII scriveva nell’enciclica Mater et magistra:
I progressi delle scienze e delle tecniche in tutti i settori della convivenza moltiplicano e infittiscono i rapporti tra le comunità politiche e rendono perciò la loro interdipendenza sempre più profonda e vitale. Di conseguenza può dirsi che ogni problema umano di qualche rilievo, qualunque ne sia il contenuto, scientifico, tecnico, economico, sociale, politico, culturale, presenta oggi dimensioni soprannazionali e spesso mondiali. Pertanto le singole comunità politiche non sono più in grado di risolvere adeguatamente i loro maggiori problemi nell’ambito di se stesse con le sole loro forze; anche se sono comunità che emergono per l’elevato grado e la diffusione della loro cultura, per il numero ed operosità dei cittadini, per l’efficienza dei loro sistemi economici, per la vastità e la ricchezza dei loro territori.