Quando il banchiere parla in finanziese
L’analfabetismo economico italiano, diffuso anche nei risparmiatori, è aggravato dall’uso di una terminologia, spesso inglese, di difficile comprensione che non aiuta a capire i testi finanziari e come e quando investire il proprio denaro: da bail in a subprime.
Il giornalista economico Roberto Sommella ha pubblicato su varie testate, tra fine 2015 e inizio 2016, un articolo che inizia così (citazione dal Corriere della sera del 5 gennaio 2016, p. 27): «Si dice che il diavolo sta nei dettagli, spesso in finanza è nascosto nei termini inglesi.
Due esempi su tutti: il ‘bail in’, letteralmente ‘salvataggio dall’interno’, che da quest’anno cambierà profondamente i rapporti tra risparmiatori e banche; e il ‘fiscal compact’, accordo semi-blindato, il quale, a dispetto del nome da gioco di società, ha inchiodato i governi all’austerità di bilancio. Nel primo caso, molto attuale di questi tempi, un italianissimo ‘autosalvataggio’ avrebbe spiegato meglio a Parlamento e cittadini cosa accadrà di brutto ai clienti di un istituto di credito prossimo al fallimento. Nel secondo esempio, è di tutta evidenza che un bel ‘vietato spendere’ sarebbe stato molto più chiaro, anche se sul punto gli esecutivi hanno trovato il modo di aggirare l’ostacolo. Il problema della decrittazione degli oscuri termini burocratici di Bruxelles vale per tutti i paesi e non è solo un nodo tecnico perché esso ostacola di fatto la libera circolazione delle idee».
Queste parole affrontano alcune questioni cruciali dello sviluppo del lessico della finanza: le regole e i concetti che sono alla base di quest’ultima stanno diventando sempre più complessi, ma i centri di diffusione di queste regole e concetti – invece di impegnarsi in uno sforzo di chiarificazione terminologica – hanno coniato, in genere in inglese, dei nuovi termini, a volte relativamente semplici nella lingua originale, a volte meno, e poi li hanno diffusi in tutti i paesi, in genere senza cercarne un corrispondente locale.
Di conseguenza, la chiarezza e l’accessibilità della terminologia finanziaria, almeno nei paesi non anglofoni, sono molto esigue. La responsabilità della coniazione originale – e della resa nelle varie lingue, italiano compreso – sta spesso nelle mani degli eurocrati e dei traduttori; questi ultimi, però, generalmente si confrontano con le istituzioni nazionali di riferimento (per es., da noi, la Banca d’Italia) e non sempre sono indirizzati verso soluzioni di ampia comprensibilità.
Alcuni anni fa Valeria Della Valle, che con Giovanni Adamo cura l’Osservatorio neologico della lingua italiana (ONLI) presso l’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee – facente capo al CNR –, aveva sottolineato in un’intervista all’agenzia Adnkronos 2 fatti tra loro correlati: da una parte il grande contributo che la lingua dell’economia dà all’accrescimento del lessico italiano; dall’altra il fatto che questo accrescimento avviene, in gran parte, attraverso l’introduzione di anglismi non adattati.
Possiamo citare alcuni di questi anglismi, oltre a quelli ricordati da Sommella: innanzitutto spread, una nozione che, proprio a causa della scarsa trasparenza del valore semantico del termine per molti italiani, è stata interpretata come uno spaventoso e misterioso mostro che mina la posizione finanziaria del paese; poi default, che indica una situazione generalizzata di incapacità patrimoniale del debitore, ma spesso è usato come meccanico sostituto di «fallimento»; subprime, che negli Stati Uniti è il prestito immobiliare che viene concesso a un cliente che non può godere delle condizioni migliori riservate alla clientela primaria; quantitative easing, «alleggerimento quantitativo», l’acquisto da parte della Banca centrale europea di titoli di Stato dalle banche per immettere nuovo denaro nell’economia europea e dare risorse alle banche perché possano aumentare la possibilità di concedere prestiti alle imprese; rating, che indica il giudizio di un’organizzazione indipendente sulla capacità di istituzioni e imprese – che raccolgono fondi sul mercato – di far fronte agli impegni finanziari, come il pagamento di interessi o dividendi e rimborso del capitale, alle scadenze fissate (ed esistono anche le agenzie di rating); e ancora prodotti finanziari come i futures, gli swap, i forwards.
Ma non è solo una questione di anglismi. La terminologia finanziaria è ricca anche di tecnicismi italiani, come per es. titoli derivati (o semplicemente derivati), opzioni binarie, contratti di opzione, emissioni obbligazionarie chiuse, titoli di debito, certificati di deposito: tecnicismi vecchi e nuovi nei quali si può imbattere un qualsiasi risparmiatore che si prefigge di investire i propri denari. Ma quanti risparmiatori riescono ad avere un’idea sufficiente delle differenze tra
questi prodotti finanziari o tra le operazioni finanziarie che sottendono?
Il problema centrale è proprio questo: da una parte la finanza ha raggiunto gradi di complessità che possono essere rappresentati solo da uno specifico apparato terminologico, dall’altra le nozioni rappresentate da questi termini non coinvolgono solo tecnici ed esperti, ma anche qualsiasi risparmiatore.
Il risultato è che le scelte linguistiche accentuano l’analfabetismo economico, particolarmente diffuso nei risparmiatori italiani, e creano un circolo vizioso: le scarse conoscenze di economia non aiutano a capire il significato di singole espressioni esoteriche, il gran numero di parole troppo tecniche impedisce di superare l’analfabetismo economico.
Il cittadino viene poco aiutato da chi potrebbe guidarlo nella comprensione dei testi finanziari e quindi, in definitiva, a prendere decisioni informate quando decide di investire il proprio denaro. Non lo aiuta certo la legge, se persino in un testo che dovrebbe servire proprio ad aiutare il cittadino, il Codice del consumo, vengono definite le figure che entrano in gioco nei contratti con nomi che non corrispondono all’esperienza lessicale comune: se non c’è problema per consumatore, con professionista («la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario») si intende la figura che correntemente è designata come venditore. L’uso di professionista in questa accezione è, per il parlante comune, altamente ambiguo e fuorviante.
Ma non lo aiutano neanche i giornali. Anna Ceolini, che ha dedicato la sua tesi in traduzione discussa all’Università di Ginevra a Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa: il caso del lessico della crisi, è giunta alla conclusione che «le pubblicazioni ufficiali, di per sé altamente tecniche e rivolte a un pubblico di specialisti, risultano spesso paradossalmente più comprensibili di numerosi articoli di giornale il cui bacino d’utenza è molto più ampio. Concorre a ciò il fatto che gli autori delle prime, così cauti e precisi, forniscano indirettamente molti più aiuti al lettore di quanto non facciano i giornalisti». Il che può apparire davvero paradossale; ma il tentativo di scrivere in modo brillante di temi tecnici può portare a opacizzare i contenuti e a confondere i contorni delle informazioni che si intende diffondere.
Men che meno lo aiutano i promotori finanziari, che hanno dei precisi obiettivi da raggiungere e che in certi casi, come in alcuni di quelli scoppiati tra il 2015 e 2016 con il tracollo di alcune banche (giunte al default e salvate con il bail in o il bail out), non sarebbero certo aiutati, nel tentativo di affibbiare ai risparmiatori gli strumenti finanziari più arditi, da una spiegazione chiara e trasparente.
Occorre che chi si occupa di vigilare o di organizzare il settore bancario affronti seriamente questo problema, che è parte insopprimibile di qualsiasi azione di trasparenza e correttezza. Un inizio di dialogo tra chi si interessa di lingua (rappresentato dall’Accademia della Crusca) e chi organizza il mondo bancario (l’Associazione bancaria italiana, ABI) c’è già stato, con il convegno Il linguaggio dell’economia. L’italiano delle banche e della finanza, che si è tenuto il 29 maggio 2015 nella sede dell’Accademia della Crusca. Ma è necessaria un’attenzione più incisiva e più concreta: a tutela della lingua italiana, ma molto, molto di più a tutela del risparmiatore.
Quanto capiamo di finanza (secondo la Consob)
Gli italiani e la finanza:
■ il 50% non conosce oppure definisce in modo parzialmente errato il significato del termine inflazione
■ il 55% non è in grado di indicare correttamente cosa significhi diversificare gli investimenti
■ il 57% non sa esplicare il nesso logico presente tra i concetti di premio e rischio
■ il 67% non riesce a calcolare un montante in regime di interesse semplice
■ il 72% non riesce a calcolare il rendimento atteso di un investimento.
Il Rapporto Investimenti delle famiglie 2016 della Consob sostiene che, nonostante la diffusa percezione positiva delle proprie competenze in materia di scelte economiche e di investimento, le conoscenze finanziarie e le capacità logico-matematiche degli italiani rimangono basse.
Inflazione, diversificazione, relazione rischio-rendimento, interesse semplice e ren dimento atteso di un investimento continuano a essere nozioni poco note e di difficile applicazione. Genere, istruzione e area di residenza sembrano essere correlati con il livello di conoscenze finanziarie.
In dettaglio, in termini di percentuale di soggetti che hanno risposto correttamente ad almeno 4 domande su 5, il divario è pari a 13 punti tra uomini e donne (vale a dire che i primi tendono a mostrare maggiori conoscenze finanziarie), 18 punti tra laureati e individui con un livello di istruzione più basso, 18 punti tra residenti al Nord e residenti al Sud.
47,5%
gli italiani che affermano di avere una conoscenza limitata di economia e finanza.
32,9%
gli italiani che ammettono di essere totalmente ignoranti in materia.
La parola
■ spread
Dal 2010, a seguito della ‘grande crisi’, ha assunto un notevole rilievo lo spread fra i titoli decennali emessi in euro dai vari Stati europei, in particolare fra i Bund tedeschi – considerati come titoli privi di rischio di insolvenza dell’emittente – e i BTP italiani, i Bonos spagnoli o gli OAT francesi.
Gli spread dei titoli italiani e spagnoli hanno subito una brusca impennata a partire dall’inizio dell’estate del 2011.
In questa accezione la definizione è la differenza fra 2 quotazioni di un titolo o 2 tassi di interesse o, più in generale, fra 2 grandezze economiche collegate a uno stesso problema.
Altro significato è quello di un contratto di borsa a premio analogo allo stellaggio, mediante il quale uno dei contraenti si riserva la facoltà, nel giorno della scadenza stabilito dal calendario di borsa, di acquistare o vendere i titoli o di abbandonare il premio.
Anche la Crusca si mobilita
Il gruppo di specializzazione in ‘forestierismi’ dell’Accademia della Crusca si è rivolto direttamente agli operatori finanziari e ai giornalisti chiedendo di evitare i forestierismi sia nell’uso sia nelle comunicazioni con il largo pubblico. Secondo il gruppo di specializzazione, di cui fanno parte studiosi come Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, il presidente dell’Accademia Claudio Marazzini e Claudio Giovanardi e che si occupa di esaminare e valutare neologismi e parole straniere cosiddette ‘incipienti’ (cioè nella fase in cui si affacciano per fare ingresso nella nostra lingua), l’utilizzo dell’italiano al posto dell’inglese in questi casi aiuterebbe decisamente la comprensione dei contenuti bancari. Sarebbe quindi preferibile l’utilizzo delle espressioni ‘salvataggio interno’ e ‘salvataggio esterno’, più chiare dei termini inglesi economici bail in e bail out. E sarebbe altrettanto opportuno sostituire smart working con ‘lavoro agile’, locuzione italiana perfettamente equivalente a quella inglese: «Con grande piacere dobbiamo notare» dice l’Accademia «che non siamo isolati in questa opinione: dopo l’incertezza iniziale il termine smart working sta perdendo terreno e lascia il posto al trasparente ed espressivo ‘lavoro agile’».