Quando il mercante costruì la villa: le proprietà dei Veneziani nella Terraferma
Nell'iconografia ufficiale dei secoli che qui ci interessano, il leone alato per solito viene rappresentato in due modi: in moleca (vale a dire un testone dall'espressione più stupita che aggressiva, circondato dalle proprie penne e inserito in un cerchio), oppure andante, con le zampe posteriori sull'acqua e quelle anteriori nella terra, in atto di muovere verso uno stilizzato rilievo che reca in cima una torre con stendardo.
Se questa seconda raffigurazione, di gran lunga la più diffusa e conosciuta, vuol significare la natura anfibia dello Stato da terra e da mar, costituente i domini della Serenissima, ci sarebbe da aggiungere - col senno di poi - che essa riveste anche il valore in qualche modo prefigurativo di quella che sarebbe stata l'evoluzione di una Repubblica nata nell'acqua e resa potente dalla sua vocazione "orientale", ma destinata a scomparire con quel retroterra italico cui aveva progressivamente legato la propria esistenza, al punto da identificarsi quasi del tutto con esso.
Ecco qua il conosciutissimo schemino: fino a tutto il XIV secolo Venezia vive del mare e guarda ad oriente; nel corso del '400, spinta da motivi di sicurezza, conquista diverse province della Val padana; dopo il convegno di Bologna (1530) lo sfruttamento della Terraferma e le rendite agrarie sostituiscono i proventi del commercio marittimo, sino a ridurli a poca cosa (1). Di questo processo furono pienamente coscienti gli stessi protagonisti, come provano innumerevoli testimonianze, da Raffaino Caresini a Tommaso Mocenigo a Domenico Malipiero, su su fino al celebre discorso tenuto in senato da Andrea Tron, nel maggio 1784.
Ora, pressappoco all'inizio ed alla fine degli anni '60 di questo nostro secolo, due importanti lavori vennero a fornirci le dimensioni e le ragioni del fenomeno relativo alla penetrazione economica attuata dai Veneziani in Terraferma, a partire dal '500: sono le opere, ormai classiche, di Daniele Beltrami e di Angelo Ventura (2). La prima di esse presenta il quadro sistematico dell'estensione della proprietà fondiaria posseduta dai Veneziani, a partire dagli inizi del '600: questo perché l'autore si basa sui catastici che accompagnarono le redecime a cominciare da quella del 1661, e, prima di tale data, su taluni documenti relativi al campatico del 1636; sulla scorta di tale fonte, le terre a fuochi veneti, ossia in possesso degli abitanti del Dogado e di quanti altri avessero preferito farsi allibrare all'estimo di Venezia, risultavano sommare a 233.890 ettari, all'incirca l'11,7% della superficie agraria compresa tra il Mincio e l'Isonzo, con l'esclusione della Carnia e del Cadore, purtroppo non considerati nel campatico del 1636. Ancora: di questi 233.890 ettari Beltrami forniva ulteriori precisazioni, e cioè scriveva che essi erano costituiti da 514.414 campi (di diversa misura: si andava dai m2 3.047,94 del veronese ai 5.217,01 di quello "grande" friulano), dei quali 336.600 erano arativi, 77.260 prativi, 60.800 pascolivi, 39.754 vallivi, e concludeva osservando come
agli inizi del XVII secolo nelle mani dei veneziani, ed in particolar modo dei patrizi, fossero confluiti: un terzo delle terre coltivate nel Padovano (38,2%) [...], una quota di poco inferiore a questa nel Polesine (27,4%), il 19,2% della Trevisana, il 17,8% del Dogado propriamente detto, il 19% del distretto di Cologna e il 17,8% di quello di Adria che al Dogado amministrativamente appartenevano.
Nelle altre province le percentuali erano sensibilmente più basse, oscillando intorno o scendendo di poco al di sotto del 5% delle rispettive superfici agrarie. Ma conviene ricordare che si trattava di territori lontani dalla capitale come il Veronese, o in gran parte montuosi od incolti come il Friuli e il Bellunese-Feltrino; o infine, come il Vicentino, non ancora profondamente toccati dalla penetrazione terriera veneziana (3).
Dunque, un terzo del Padovano, un quarto del Polesine, un quinto del Trevigiano e del Dogado erano dei felici abitanti della laguna: cifre impressionanti, eppure destinate ancora ad aumentare: di lì a qualche anno, infatti, la guerra di Candia impose alla Repubblica lo scorporo e la vendita dei beni comunali (colossale operazione che nel giro di ottant'anni, tra il 1646 ed il 1727, avrebbe assicurato al solo patriziato veneziano ben 34.661 ettari di buona terra), e ancora di ottenere dal pontefice la soppressione di alcune congregazioni religiose, con relativa messa all'asta di pingui proprietà per lo più situate nelle province finitime alla Dominante (1656-57), consentendo in tal modo a non pochi Veneziani di incrementare ulteriormente il proprio patrimonio fondiario: fu il caso, ad esempio, dei Widmann, che in un sol colpo si assicurarono i quasi seimila campi posseduti da tempo immemorabile dai padri di Santo Spirito presso Bagnoli, dove il Padovano giunge a sfiorare la laguna, con l'esborso di oltre 400.000 ducati (4).
Ecco dunque che il catastico realizzato in vista della redecima del 1740 indica che ormai i Veneziani detenevano 386.430 ettari di terra, ossia un quinto dell'intera superficie esaminata (escluse sempre la Carnia ed il Cadore), con un incremento di 152.540 ettari rispetto alla data del 1636, vale a dire del 65,2%, per cui nel Padovano e nel fertile Polesine di Rovigo la percentuale della proprietà fondiaria iscritta ai fuochi veneti era ormai dell'ordine del 49,5% e del 45,1% (5).
Un fenomeno in espansione, anche se la crisi economica e la contrazione demografica che interessarono il patriziato veneziano nella seconda metà del XVIII secolo fanno pensare che difficilmente le posizioni toccate nel 1740 avrebbero potuto essere non già consolidate, ma neppure conservate, appena qualche decennio più tardi.
Mi pare inoltre di poter affermare che la fase più importante del lungo processo di penetrazione economica attuato dai Veneziani nella Terraferma, si sia verificata nel corso del '500, ossia anteriormente alla quantificazione del fenomeno attuata da Beltrami.
Il quale, del resto, ne fu ben consapevole e a tal fine, in mancanza di dati seriali, riportava le indicazioni fornite da Pietro Badoer, che nel 1588 presentava al magistrato dei dieci savi i catastici del Veronese, Vicentino, Padovano ed alto Trevigiano - dove si fissava in 384.252 campi (all'incirca, 150-160.000 ettari) la proprietà a fuochi veneti -, e ricordava l'incremento delle condizioni di decima relative ai Veneziani, passate dai 33.279 ducati correnti del 1514, ai 41.685 del '37, ai 93.326 del '66, per finire coi 133.706 ducati del 1582 (6).
È vero: occorre tener conto dell'inflazione, che nel secondo '500 fu assai forte e gonfia queste cifre; pure l'aumento dell'imposizione fiscale riflette in qualche modo un deciso movimento ascendente della proprietà immobiliare dei Veneziani, e se il campatico del 1636 fissava la terra posseduta da questi ultimi in 233.890 ettari, mentre cinquant'anni prima il Badoer l'aveva quantificata in 160.000 (con l'esclusione però del Friuli, del Polesine e soprattutto del basso Trevigiano), credo si possa ragionevolmente concludere che i Veneziani realizzarono il nucleo eminente dei loro acquisti nel corso del XVI secolo, a partire da quella guerra del Polesine la cui dichiarazione (1482) fu accompagnata da plebiscitario entusiasmo popolare, e verosimilmente con la parentesi delle guerre che segnarono il secondo e terzo decennio del Cinquecento.
Su questo assunto Ventura incentrò la sua analisi. Posto che i Veneziani acquistarono la terra nel '500, e progressivamente mutarono mentalità ed interessi, senza più considerare l'investimento fondiario alla stregua di tanti altri, secondo l'antica logica del frazionamento del rischio o come una sorta di assicurazione contro i rischi della mercatura, per ricorrere ad una felice espressione di Gino Luzzatto (7), quali furono i modi, le forme, i meccanismi di questo processo? Così Ventura spostò la sua ricerca dal piano della verifica fiscale-finanziaria (la magistratura dei savi alle decime) a quello dell'indagine economico-amministrativa (i provveditori sopra beni inculti): vide cioè nella centrale operazione delle bonifiche l'esaltante stagione non solo dell'acquisto della campagna, ma anche della sua valorizzazione.
Perché, insomma, se nel corso del '500 il Veneto cambiò volto, trasformandosi da regione ove da sempre l'acqua aveva prevalso sulla terra nell'ambiente suppergiù ora a noi noto, con la scomparsa di laghi, fiumi e paludi, ed il concomitante inserimento di nuovi abitati in un diverso paesaggio, ebbene questo voleva dire che il fenomeno della corsa alla terra non si esaurì nella dimensione quantitativa, ma comportò anche una serie di opzioni qualitative. Dunque le bonifiche e la "civiltà della villa", le grandi barchesse, l'investimento del capitale. Alvise Cornaro ma anche Palladio, economia e cultura, dove il secondo termine della diade legittima e completa il primo, a coronamento di un'operazione voluta, pianificata, realizzata anzitutto dallo Stato che, a quanto pare, per l'occasione seppe fondere consenso sociale ed efficienza organizzativa.
Ventura parlò di investimenti laici (le bonifiche) e di rendite ecclesiastiche (le "dinastie" dei Barbaro, Bragadin, Dolfin, Grimani, Pisani - per accontentarsi di qualche nome -, le quali per decenni, per secoli si assicurarono i proventi dei vescovati e delle principali abbazie della Terraferma), ma in via d'esempio, senza quantificare in alcun modo il fenomeno. Non ne aveva la possibilità, nell'ambito del saggio (8).
Ora, la strada indicata da Beltrami, quella del calcolo seriale della proprietà fondiaria veneziana nella Terraferma, non è più stata percorsa; altri invece hanno irrobustito e precisato le indicazioni di Ventura: senza alcuna pretesa di esaustività, mi limito a ricordare le suggestive considerazioni di Da Silva sull'inversione di tendenza del capitale che dalla città si volge alla campagna, gli studi di Ciriacono sulle irrigazioni, le dense ricerche di Corazzol sui livelli fondiari, persino un mio lavoro sui feudi posseduti dal patriziato lagunare, mentre quasi nulla sappiamo sui proventi della proprietà ecclesiastica, dal momento che anche quanti più di recente se ne occuparono in termini non settoriali, Stumpo e Del Torre, si limitano ad osservazioni (discordanti) di natura fiscale, e, ahimè, non distinguono i Veneziani dagli altri (9).
Toccherebbe dunque a chi scrive fare il punto; ma come definire i modi degli investimenti attuati dai Veneziani in Terraferma tra 1530 e 1638, in qual modo calcolare le dimensioni, stabilirne i tempi, le forme, la qualità?
Altri, più capace di me, ne spiegherà le ragioni culturali, politiche ed economiche; io, per mio conto, mi riterrò soddisfatto se riuscirò in qualche modo a fornire un'idea dello svolgersi del processo pur sulla base semplicemente numerica delle fondamentali categorie dei beni acquisiti; in altri termini, vorrei limitarmi al tentativo di quantificare la proprietà fondiaria, gli immobili, i livelli, i diritti, senza peraltro indagarne le diverse qualità e nature o l'uso che di essi venne fatto. Inoltre da questa ricerca saranno escluse le realtà artigianali e commerciali (presenti solo, ovviamente, nella loro consistenza materiale, come edifici), ossia quelle connesse all'esercizio di mulini, folli, magli, fornaci, segherie, cartiere e altro ancora, e così pure le attività da esse indotte; sto pensando, ad esempio, allo sfruttamento delle miniere o al taglio dei boschi ed alla conseguente fluitazione del legname sino alle segherie del Padovano e Trevigiano.
Premesso questo, nel ristretto ambito che mi sono proposto la questione fondamentale mi pare costituita dalle fonti utilizzabili, con particolare riguardo ai due grossi problemi rappresentati dall'arco cronologico e dalle rendite ecclesiastiche e feudali.
Ora, l'imposta fondiaria conosciuta come campatico fu istituita nel maggio del 1617, pertanto servirsi di essa, seguendo in parte l'esempio di Beltrami, avrebbe comportato l'impossibilità di disporre di riscontri seriali anteriormente a tale data; lo stesso si dica per i catastici che accompagnarono le redecime, giacché essi furono realizzati solo a partire dal 1661, e per di più in forma incompleta; non mi restava dunque che rifarmi alle polizze stesse presentate dai contribuenti che, per il periodo in esame, calzano bene con il termine iniziale, dal momento che la seconda redecima degli abitanti di Venezia e del Dogado, di cui ci sono state conservate le notifiche, cadde nel 1537, mentre si verifica purtroppo una maggiore sfasatura cronologica per quella di fine periodo, dal momento che il rinnovo dell'estimo per gli allibrati a fuochi veneti, in teoria a scadenza decennale, fu in realtà attuato nuovamente nel 1566, 1582, 1661, 1712 e 1740. Dunque non avevo a disposizione che le date del 1582 e 1661: scelsi la seconda, ritenendola male minore, pur se viziata, a partire dal 1646, dalla vendita dei beni comunali e poi anche delle congregazioni religiose soppresse.
Una tale fonte ha il pregio di fornire dati confrontabili tra essi, e di poter distinguere i Veneziani dagli altri abitanti del Dogado - che non ho ritenuto opportuno considerare alla stregua dei primi (ancorché, ad esempio, nel sestiere di S. Croce siano inseriti anche i residenti a Murano, Torcello, Mazzorbo), perché dipendenti da comunità amministrativamente autonome, e quindi separate dalla capitale -, come pure dagli altri sudditi che preferirono allibrarsi all'estimo di Venezia anziché al proprio: ne avevano teoricamente la possibilità e qualcuno - pochissimi, a dire il vero - la usò.
Naturalmente sfuggono a tale rilevazione i Veneziani risiedenti altrove e/o che preferirono iscrivere i loro beni, in tutto od in parte, ad altro estimo, ossia pagare le gravezze de mandato Dominii, anziché la decima; e così le proprietà degli ecclesiastici, se non per quel tanto rimasto alla condizione laica: per sopperire in qualche modo alla lacuna, son ricorso all'estimo del clero attuato nel 1564, l'unico utilizzabile in questa sede, sia pure, data la sua unicità, senza possibilità di raffronto in ambito cronologico.
Ancora, quasi nessun veneziano ammette di possedere feudi, neppure i Battagia, che peraltro sappiamo averne a Montecchio, i Cavalli nel Veronese, i Contarini a Loreggia, i da Lezze a Croce di Piave, i Flangini a Sacile, i Grimani alla Frattina, i Mocenigo ad Arino, i Nani a Monselice: solo Gian Francesco Labia afferma esplicitamente di possederne uno, alla Frattesina, ma si tratta di acquisto recente (1648), come la sua nobiltà, e comunque non si cura di descriverlo (10). Questa riluttanza a denunciare le rendite di natura feudale fu tradizionale nel patriziato lagunare, e a tale proposito non mi resta che rinviare al mio articolo dianzi ricordato (11).
Va anche detto che talune polizze mancano nelle buste, che qualcuna è semplicemente aggiunta o completamento di altre, e che in ogni caso si deve sempre tener presente che siamo di fronte ad una denuncia dei redditi, ossia ad un documento per sua natura incline a peccare per poco di vigore: nel 1661 Priamo da Lezze e fratelli non si vergognano a liquidare con la sbrigativa definizione di "casa per nostro uso" lo splendido palazzo di Croce, nel Trevigiano, contornato da broli, giardini, barchesse (12).
Infine, uno spoglio sistematico delle polizze relative alle redecime del 1537 e del 1661 avrebbe comportato queste cifre (13):
Diecimilaottanta polizze son davvero tante, per cui con furberia generosa verso me stesso, pensai di ridurle alla metà, affidando le conclusioni dell'indagine alla statistica ed alle percentuali. Scelsi allora il sestiere di S. Marco come il più ricco e prestigioso, quello di Cannaregio perché ci son nato, e quello di S. Croce per far numero; totale 5.377 dichiarazioni, così distribuite: 2.113 per la redecima del 1537, ossia il 50,8% della stessa; 3.264 per quella del 1661, vale a dire il 55,1% delle 5.922 costituenti il complesso presentato nella circostanza. Insomma, le pagine a seguire avranno la pretesa di delineare il fenomeno conosciuto come la penetrazione economica dei Veneziani nella Terraferma, nella sua fase saliente, attraverso l'esame del 53,3% delle notifiche dei redditi da essi sottoscritte nel 1537 e nel 1661.
I tre sestieri-campione sembrano attendibili nei confronti dell'intera città - sempre per i secoli XVI e XVII - anche per quanto concerne la superficie fabbricata (49,8%) e la densità demografica (−1%): bisogna infatti tener conto che alla vasta area semispopolata dell'Arsenale, a Castello, corrispondevano nell'altro grande sestiere di Cannaregio numerosi insediamenti artigianali dove poi sarebbero sorte le Fondamenta nuove, a malapena compensati dalla zona del Ghetto, peraltro semi-ininfluente ai fini della presenza di ditte titolari di proprietà nella Terraferma. Si veda in proposito la seguente tabella che ho elaborato sulla base dei dati forniti da Beltrami, relativi alla popolazione dei sestieri veneziani nel 1540, 1642 e 1696 (14).
Al termine dunque di questo defatigante, e soprattutto noioso elenco di precisazioni, rinnovate ancora le mie scuse per l'incompletezza dei dati sui quali poggerò il ragionamento, passo finalmente a dare i numeri, se così posso dire.
È una buona data, quella del 1537, per fare i conti in tasca ai Veneziani. Riconquistata la Terraferma dopo Noyon (1516), consolidata la pace in Italia con il convegno di Bologna, la Repubblica poteva badare a rinnovare la propria immagine sul piano politico e culturale, sotto il brillante dogato di Andrea Gritti, e mentre il Rinascimento trionfava finalmente anche tra le lagune, il suo patriziato, non ancora scosso da crisi economiche o finanziarie, prendeva a guardare con occhi nuovi alla terra.
Un conflitto contro il Turco, scoppiato appunto nel '37, suggerì l'opportunità di rinnovare la decima.
Ecco dunque i risultati dello spoglio delle polizze presentate per l'occasione dai residenti nei sestieri di S. Marco, S. Croce e Cannaregio (15), ricordando che ho omesso dal computo dei beni tutti i non Veneziani, ossia gli abitanti del Dogado e i forestieri che pure avevano stabilito pro tempore la loro residenza nella capitale. Inoltre, sulla scorta di Beltrami, ho ripartito le ditte in quattro categorie: patrizi veneziani, enti laici, enti ecclesiastici, tutti gli altri.
Qualche avvertenza: nelle tabelle che seguono, in presenza di definizioni generiche del tipo "valle" o "terreno vallivo", ho equiparato questo bene a 50 campi, e a 25 quello di "possessione" non quantificata; due casoni li ho considerati come una casa; sotto la voce "botteghe" ho accorpato pure le case con bottega, i mulini, folli, magli, segherie ed ogni altro edificio da lavoro; i livelli comprendono sia quelli a generi che a contanti e i capitali di livello (peraltro rarissimi in questo estimo); con "jus" ho inteso ogni tipo di diritto (decime, privative, concessioni idriche).
Il Friuli comprende anche la Carnia, il Cadore e Pordenone; il Bellunese anche il Feltrino; il Dogado i distretti di Adria e Loreo; il Vicentino anche il Bassanese; per "altre" si intendono la Lombardia veneta e l'Istria; ovviamente, i confini tra le diverse province sono quelli esistenti al tempo della Repubblica veneta.
Ricordo infine che i campi avevano le seguenti misure: Friuli, grande m2 5.217,01, piccolo m2 3.505,83; Bellunese m2 3.778,73; Trevigiano m2 5.204,69; Dogado m2 3.656,60; Polesine m2 4.464,40; Padovano e Vicentino m2 3.862,57; Veronese e Colognese m2 3.047,94 (v. tabb. 3-6).
Su un complesso di 800 polizze, 325 patrizi (= 40,6%) denunciano proprietà nella Terraferma (appartiene loro il 78,1% dei campi), gli enti laici sono 2, pari allo 0,2% delle notifiche, e quelli ecclesiastici 5 (= 0,6%) (gli uni e gli altri si dividono il 3% dei campi); tutti gli altri, ovvero in gran parte gli esponenti della borghesia, sono 234 (= 29,3%), con il 18,9% del totale delle unità rurali.
Da notare come, nell'ambito delle 800 notifiche, 73 patrizi maschi (= 9,1°/o) e 26 femmine (= 3,2%) si dichiarino titolari di immobili o livelli collocati solo nella capitale; caratteristica, questa, comune alla maggior parte degli enti, sia laici che ecclesiastici, e abbastanza diffusa anche tra la borghesia (135 casi, pari al 16,8%).
Un'ultima osservazione: in questo sestiere, 424 ditte (= 53%) sono di patrizi, la qual cosa significa una concentrazione residenziale molto elevata e - tenuto conto della proprietà fondiaria - assai qualificata, da parte di questa classe sociale. Passiamo ora al sestiere di S. Croce, esclusa, come si è detto, Murano.
Su 413 polizze, 145 patrizi (= 35,1%) denunciano proprietà nella Terraferma, con il 65,5% dei campi posseduti dai residenti nel sestiere; non compare alcun ente laico, quelli ecclesiastici sono 7 (= 1,7%), con il 2% dei campi; i borghesi sono 162 (= 39,2%), e detengono il 32,5% della proprietà fondiaria. Nell'ambito delle 413 notifiche, 25 patrizi maschi (= 6%) e 12 femmine (= 2,9%) non dichiarano alcun bene fuori della capitale, mentre in questa situazione troviamo 62 borghesi, pari al 15% dei dichiaranti.
Il totale dei patrizi è di 182 (= 44%) su 413 notifiche; ne consegue una presenza nobiliare percentualmente meno forte sia in termini numerici che di consistenza economica rispetto al sestiere di S. Marco (v. tabb. 7-10).
Vediamo ora l'ultimo sestiere in esame, quello di Cannaregio. Qui, su 900 notifiche, 413 patrizi (= 45,9%) sono titolari di beni nella Terraferma, e possiedono l'84,4% dei campi. Troviamo un ente laico (= 0,1) e 3 ecclesiastici (= 0,3%): sparuta presenza, che detiene l'1,7% della proprietà fondiaria; quanto ai borghesi, sono 238 (= 26,4%), con il 13,9% dei campi.
Rispetto al totale delle polizze, 53 patrizi maschi (= 5,9%) e 40 femmine (= 4,4%) possiedono beni solo nella capitale, mentre i borghesi che si trovano in questa situazione sono 153, pari al 17% delle 900 dichiarazioni.
Pertanto il totale dei patrizi somma a 505 (= 56,2%), il che pone questo sestiere, rispetto a quelli di S. Marco e di S. Croce, come il più segnato dalla presenza
nobiliare, che concentra inoltre nelle sue mani la quasi totalità dei beni posti in Terraferma, mentre la borghesia appare economicamente debole (v. tabb. 11-14).
Questo, naturalmente, non significa che in tale ambito, tra gli "ignoti" della storia, non fossero presenti patrimoni di un certo rilievo. Ho provato ad individuare (secondo
una procedura che verrà più estesamente riproposta con la redecima del 1661) i laici privati non patrizi titolari di almeno 10 immobili (Venezia o nella Terraferma, non cumulativamente) e/o 50 campi. Eccoli qui di seguito elencati:
Il Padavin è di famiglia cittadina, tradizionalmente inserita nella cancelleria ducale; altri, come l'Agugie, l'Alemanti, il Bernardino di Giacomo, il Corbelli, il de Vico, il Malombra, il Tommasini, appartengono al mondo della mercatura (16).
La carità del natìo loco (mettiamola giù così) mi ha pure indotto a soffermarmi un pochino di più su questo sestiere. S'è visto che i patrizi vi detenevano 1'84,4% di tutta la proprietà fondiaria dichiarata, pari a 40.546 campi, sia pure di diverse misure (ma ai fini fiscali ritenuti di pari produttività, tranne il Friuli ed il Veronese); ora, per 36.766 (= 90,7%) di questi campi le polizze precisano la conduzione: le unità affittate risultano 19.125 (= 52%), quelle livellate o gestite direttamente o lavorate alla parte (in sostanza, mezzadria, e si tratta della stragrande maggioranza dei casi) sono 17.641 (= 48%).
Scomponendo ulteriormente queste cifre, nelle tre province più prossime alla capitale (Dogado, Padovano, Trevigiano), i Veneziani possiedono 26.930 campi (= 73,2%); nelle rimanenti i campi sono 9.836 (= 26,8%), come appare dalla seguente tabella, dove sono riportati anche gli edifici:
Siccome nelle loro dichiarazioni tutti presentano la conduzione alla parte o a boaria come una dolorosa necessità, un forzato ripiego causato dalla penuria di affittuari riluttanti a lavorare terre sterilissime o troppo esposte alle acque in una congiuntura climatica quale mai s'era data, mi pare si possa concludere che nei territori più prossimi alla laguna, dove verosimilmente la penetrazione economica dei Veneziani era più antica e la presenza padronale più assidua, l'affittanza prevaleva, ossia i campi fornivano al proprietario un canone fisso e sicuro, mentre la situazione si rovesciava altrove, tranne che per le case o gli edifici destinati ai settori secondario e terziario, che possiamo facilmente immaginare costruiti dai Veneziani, e comunque indispensabili o più remunerativi, e quindi da essi disposti con maggior forza contrattuale.
Passiamo ai "borghesi". Dei loro 6.659 campi, precisano la conduzione di 6.495 (= 97,5%), di cui 4.476 (= 68,9%) sono affittati, e 2.019 (= 31, 1 %) livellati o condotti a boaria, cioè in gestione diretta, o dati alla parte.
Analizzando ulteriormente questi dati, nel Dogado, Padovano, Trevigiano i non patrizi risultano aver precisato la conduzione di 5.957 (= 91,7%) unità, e nelle rimanenti province di soli 538 campi (= 8,3%). Ecco la loro tabella:
Si nota un rafforzamento dell'affittanza rispetto alle cifre fornite dal patriziato: probabilmente i "borghesi" erano in ciò favoriti dalla minor estensione delle proprietà e dalla loro fortissima concentrazione nei territori finitimi alla capitale. Quanto all'edilizia, l'esiguità dei dati a disposizione inficia la validità di ogni possibile conclusione, alla quale pertanto rinuncio. Ci sarebbe invece qualcosa da dire a proposito delle ville, ossia delle abitazioni residenziali non rivolte esclusivamente all'attività agricola e non situate nei capoluoghi come Padova, Treviso, Verona e così via; ecco dunque l'ennesima tabella, con l'avvertenza che talora più ditte possono riferirsi ad un unico bene di cui sono comproprietarie, ancorché non sempre lo precisino.
Com'era prevedibile, una massiccia presenza nobiliare, ma percentualmente inferiore alla quantità della superficie fondiaria posseduta rispetto alla borghesia; non vorrei operare forzature, pure azzardo l'ipotesi che questo potrebbe significare una penetrazione economica più qualificata da parte degli esponenti del "terzo stato": costoro insomma, quando investono capitali nella terra, lo fanno abbastanza spesso non per godere di rendite diverse da quelle derivanti dalla loro abituale professione, ma per disporre di un, luogo di villeggiatura. L'ubicazione delle ville potrebbe suonare, in qualche modo, conferma di questa ipotesi, come appare da quest'altra tabella:
Ecco dunque che, mentre la presenza nobiliare è accertata in sei province, quella "borghese" si limita a tre, anzi quasi esclusivamente al Trevigiano ed al Padovano (97% contro l'89% del patriziato), con prevalenza del primo territorio sul secondo, contrariamente alla tendenza dei nobili. Ma su questo punto avrò modo di ritornare più avanti.
Numeri e basta, insomma, in queste polizze? Ma no; a temperare un poco l'afflizione di chi ha da farne la conta, ogni tanto capita di imbattersi in qualche curiosità, magari in digressioni, sempre volte a sollecitare la benevolenza del magistrato.
È il caso, ad esempio, di Andrea Valier, che lamenta le eccessive spese dei suoi pascoli a Cavarzere, "et venendo li animali, ogni anno mi bisogna far uno coperto per il star de li vachari, qual stanno mesi doi al pascolo cum li animali, il qual coperto mi costa da d. sie in sete, et dapoi partiti li vachari disfarlo"; di Marcantonio Venier, il quale si dichiara certissimo che i suoi 994 campi di Sanguinetto siano esenti dal pagamento della decima, pure li denuncia ugualmente per mera urbanità, "senza periuditio deli diti miei privilegij ", di Nicolò Priuli di Giacomo, che trova modo di accusare ad un tempo la miseria dei contadini di Roncagliette, presso Piove di Sacco, la malizia di certi suoi mugnai e la politica fiscale attuata dallo Stato (17); non meno sventurato ci appare Zaccaria Priuli di Alvise, da diciott'anni proprietario di due possessioni alla Frassinella, nel Polesine: son 212 campi perennemente sott'acqua, e nulla rendono, sì e no 62 lire di piccoli, vale a dire neppure sei soldi al campo; un sospirato "Dio volesse che non le avesse mai comprate" conclude il disperante calcolo (18).
Bene avevan fatto, dunque, i concittadini che non avevano acquistato beni nella Terraferma? Neanche per sogno, anche qui è un pianto greco, tanto più che la guerra in corso con i Turchi blocca l'emporio realtino, come lamenta Giovan Battista Baseggio, fresco proprietario di quattro "volte", dalle quali purtroppo non ricava "cossa alguna de fito, ritrovandosi la terra interdita per conto de mercadantie, che essendo serado el mar et non venendo nave né galie né altri navilj qui in la terra con mercadantie, ditte volte me stanno vode, et piacesse a Dio che [...] ne fusse a dezun et me trovasse in scrigno lj contadj qualli spixi in le volte predite" (19). In tali circostanze nessuna rendita è sicura, neppur quelle dovute dallo Stato: Giacomo Gradenigo da San Marcuola era solito ricavare "quando va le galìe alli viazi [...] ducati i o per il zuogo di borbardieri tien lo Ill.mo Consiglio di X sul nostro teren, che è di gran danno al nostro stabele per li strepiti che fanno tremar la casa cum vastar de vini [...]; et za dui anni che non vanno li viazi non havemo habuto cosa alcuna di utilità"; occorre pertanto ingegnarsi, come fa Cecilia Pianella, la quale candidamente confessa di esser riuscita a portare da 10 a 22 ducati la pigione di una sua "caxetta" a San Marcilian ospitandovi una meretrice, "et iudicho che quando la volesse affittar ad altre persone cha cortesane, non troveria piui di quello la era alle decime per avanti".
Ma per fortuna non tutti dispongono con tanta parassitaria disinvoltura dei propri beni: il futuro doge Francesco Donà dalle Rose nella sua tenuta di Asolo produce "oio, che fazo far a mie spexe", mentre il povero Giacomo Giustinian si rammarica di non poter descrivere le sue "onoranze" di Montagnana "per non aver cortivo, ma a Dio piazendo presto se farà et anche quele se darà in nota": sempre meglio dei commissari dell'ospedale di S. Giobbe, i quali con disarmante candore scrivono di non conoscere il patrimonio di cui sono responsabili, per esser stati eletti da poco.
In realtà, la casistica offerta da queste polizze è quanto mai varia: per il sensale Antonio di Giovanni la rovina è data da una chiesa contigua alla sua casa di Sarcedo, nel Vicentino, cui i fedeli - a quanto pare tanto assidui quanto intemperanti recano danni d'ogni sorta, mentre Girolamo Albaregno ha trovato rifugio, con le sorelle, ai bordi della laguna "per non poder star in Venetia, sì per mancamento del viver, come per non haver drapi da comparir ale mostre come se richiede a cadaun bon citadin" (20); sed de hoc satis, e fermiamoci qui.
Esaminiamo ora, ripercorrendo il criterio sin qui seguito, il complesso dei dati offerti dai tre sestieri, rammentando che si tratta di 2.113 notifiche, pari al 50,8% del totale cittadino, che è di 4.158 (v. tabb. 20-23).
Sul complesso delle 2.113 notifiche, 883 (= 41,8%) appartengono a patrizi che denunciano beni in Terraferma; gli enti laici sono 3 (= 0,1%), mentre gli ecclesiastici sono 15 (= 0,7%), i "borghesi" sono 634 (= 30%). Inoltre, 151 patrizi maschi (= 7,1%) non possiedono beni fuori di Venezia, mentre le nobildonne sono 78 (= 3,7%) e i borghesi complessivamente 349 (= 16,6%).
Ma per maggior chiarezza, affidiamoci alla tabella 24.
Qualche considerazione: pressoché inesistenti gli enti laici, il cui patrimonio doveva dunque essere costituito da immobili situati in Venezia, e/o da titoli del debito pubblico e capitali di livello concessi a privati; e possiamo immaginare una realtà non molto diversa per la proprietà iscritta alla decima laica.
Quanto alla dislocazione dei beni, ben 87.579 campi (= 73,6%), sia pure di diversa misura, erano posti nel Padovano-Trevigiano, con una spiccata predilezione per il primo, specie da parte del patriziato, mentre la borghesia sembra essersi volta meno infrequentemente ai grandi campi della Marca, cioè ad un territorio entrato a far parte della Repubblica sin dal XIV secolo, quando il divario socio-economico tra cittadini e patrizi era più sfumato: in altri termini, la presenza borghese nel Trevigiano era forse maggiormente datata rispetto agli investimenti nel Padovano, egemonizzati dalla nobiltà.
Assente la zona montuosa, ancora limitato l'interesse per il Polesine non ancora bonificato; da notare la maggior consistenza degli acquisti nel più lontano Veronese-Colognese rispetto al Vicentino, ma la spiegazione del fenomeno può essere ricondotta alla dissoluzione della "fattoria scaligera" successa all'annessione della provincia nei primi anni del '400, e all'ingresso nel patriziato lagunare di alcune famiglie nobili locali, come per esempio i Cavalli (21).
I giochini sulle percentuali e le statistiche potrebbero continuare all'infinito, magari anche con costrutto: ma siccome ambirei a ritenermi attico piuttosto che asiatico, affido l'opzione all'eventuale paziente lettore, e restringo il discorso.
Da questi dati potrebbe uscire intanto un'acquisizione: e cioè che, se il 50,8% dei dichiaranti aveva notificato il possesso, nel 1537, di 119.116 campi, è verosimile che l'intera città ne detenesse una cifra prossima ai 235.000; senonché da questo totale è assente il clero, eccettuata beninteso quella piccola frangia che
aveva lasciato i propri beni alla condizione laica. Ora, per quanto concerne appunto la proprietà ecclesiastica, specifiche rilevazioni vennero effettuate nel 1463, 1564 e 1773: ai fini della presente indagine, dunque, è utilizzabile solo quella cinquecentesca.
Le notifiche che ci interessano sono raggruppate in due buste, comprendenti Venezia ed il Dogado (22): si tratta di un complesso di 213 polizze, 48 delle quali riguardano le isole della laguna. Ho conservato il criterio sin qui adottato, per cui le ho escluse, non senza interiore travaglio, giacché è noto ai più semplici (e quindi anche a chi scrive) che le pingui proprietà dei monasteri di S. Giovanni Evangelista di Torcello, o di S. Caterina di Mazzorbo, S. Mattia di Murano, S. Giorgio in Alga, per esempio, erano tutte in mano dei Veneziani. Ma se è per questo, anche tutti i vescovati e le principali abbazie della Terraferma lo erano, e allora come fare il calcolo? E anche se lo si facesse, molto spesso le polizze descrivono le rendite, non i beni, essendo documenti indirizzati ai collettori apostolici. Infine, questo il criterio adottato come minor male: delle 213 polizze conservateci, 48, come si è detto, riguardano le isole (beninteso la Giudecca e S. Giorgio Maggiore le ho considerate parte integrante della città), 23 sono integrazioni o aggiunte, 54 (= 25,4%) non dichiarano beni nella Terraferma. Restano dunque 88 unità, così ripartite: 43 monasteri, 33 chiese, 5 priorati (per solito in mano a laici), 4 confraternite, 3 benefici patriarcali. Di fronte ad una mera indicazione della rendita, ho provveduto ad una approssimativa quantificazione del bene, sulla scorta dell'analogia con documenti meno imprecisi.
Ne conseguono conclusioni necessariamente approssimative per difetto: si tenga conto, peraltro, che questi documenti presentano una sfasatura di 27 anni rispetto ai dati "laici" sin qui esaminati, riferiti al 1537; la qual cosa rappresenta forse un parziale aggiustamento, una sorta di compensazione tra dati non omogenei.
Su tutto ciò si veda la tabella 25.
Allora: 22.639 campi (= 92,4%) erano ubicati nel Trevigiano-Padovano, con prevalenza nella prima delle due province; il che fa pensare ad una presenza risalente a tempi precedenti alle conquiste quattrocentesche, come potrebbe confermare la totale assenza riscontrabile nel Veronese e nel Polesine.
Si è visto che per il sestiere di Cannaregio il 52% delle terre possedute dai laici erano date in affitto, mentre per il clero risulta che queste ultime giungevano al 66,2%, pari a 16.217 campi. Insomma, i beni degli ecclesiastici risultano più simili a quelli della borghesia che del patriziato: terre maggiormente prossime alla capitale, conduzione basata sulla riscossione di un canone sicuro.
Un avvertimento: il rapporto case-campi per gli abitanti dei tre sestieri considerati risulta di 1:68, quello del clero di 1:90; non ne trarrei conclusioni, dal momento che dallo spoglio delle polizze ho ricavato la netta sensazione di una maggior riluttanza, da parte ecclesiastica, nel denunciare gli edifici posseduti.
Come chiudere dunque questo paragrafo? Se le proiezioni hanno un senso, sullo scorcio degli anni '30 del XVI secolo i Veneziani, tanto laici quanto ecclesiastici, dovevano possedere nella Terraferma non meno di 260.000 campi, di cui all'incirca la metà nel Padovano. Fanno 130.000 campi; può essere, se nel catastico del 1588 - cui si è accennato in apertura di lavoro Pietro Badoer li fissava in 226.345 (23)? Un incremento di quasi centomila unità, sia pure in mezzo secolo e in una congiuntura tanto favorevole agli investimenti fondiari, è difficilmente accettabile nell'ambito di una sola provincia. Non resta allora che ritenere poco affidabile la fonte utilizzata, per essere in sostanza una dichiarazione dei redditi, e/o tener conto dei beni esenti dal pagamento della decima, e pertanto non dati in nota, ed infine dell'eccessiva approssimazione con cui s'è calcolata la proprietà ecclesiastica. Prendiamo dunque questi dati come mera indicazione di massima peccante per difetto, e probabilmente meglio utilizzabile quale documento per verificare i rapporti interni alla società veneziana, ossia le aliquote di beni rispettivamente toccanti nei sestieri alle diverse classi sociali, e la loro ubicazione e conduzione, oltre che come momento di paragone con la successiva redecima del 1661, certamente più precisa, ma con la quale però tutti i dati sono legittimamente confrontabili.
L'estimo del 1661 fu rinnovato perché dopo ottant'anni non si poteva più farne a meno, anche in considerazione delle gravosissime esigenze finanziarie causate da un guerra che sembrava non aver fine. Troppo esiguo sollievo era derivato all'erario, verso la fine del '500, dal tentativo di sottoporre i feudatari all'obbligo di corrispondere i contributi dovuti al principe; inoltre, dopo l'impresa delle bonifiche e lo sviluppo della "civiltà delle ville", la campagna era in grado di fornire ben altre rendite, oltretutto in linea con un processo inflativo certamente meno acuto rispetto alla seconda metà del XVI secolo, ma tuttavia sensibile; infine, a causa del conflitto con il Turco, dal 1646 numerose famiglie della nobiltà di Terraferma erano entrate a far parte, come è risaputo, del patriziato lagunare, con conseguente iscrizione dei loro possedimenti ai fuochi veneti.
Queste le principali ragioni per cui lo spoglio, pur parziale, delle notifiche presentate in occasione della redecima di metà '600 farà registrare un forte aumento della proprietà fondiaria detenuta dai Veneziani.
Esaminiamo allora queste nuove tabelle, naturalmente elaborate secondo i criteri sinora adottati, ricordando che esse riguardano 3.264 polizze su un complesso cittadino di 5.922 (esclusa Murano dal sestiere di S. Croce), ossia il 55,1% (24).
Su un complesso di 1.270 polizze (+ 59% rispetto alle 800 del 1537, di fronte ad una contrazione demografica del sestiere quantificabile attorno al 25%: sintomo di più onestà da parte dei dichiaranti, come dire di maggior timore del controllo finanziario statale, oppure di accrescimento della ricchezza reale?), 263 patrizi (= 20,7%) denunciano proprietà nella Terraferma (appartiene loro il 74,3% dei campi, con una flessione percentuale di quasi il 4% rispetto al 1537); gli enti laici sono 16 (= 1,3%) e altrettanti gli ecclesiastici: assieme raggiungono il 2,8% della proprietà fondiaria, all'incirca l'aliquota rilevata nel 1537; gli altri, ovvero i borghesi ed i nobili forestieri, sono 511 (= 40,2%), con il 22,9% del totale delle unità rurali. In rapporto a 125 anni prima, si potrebbe ipotizzare una flessione demografica ed economica del patriziato a vantaggio della classe borghese. Da notare come, nell'ambito delle 1.270 notifiche, solo dieci patrizi maschi (= 0,8%) ed altrettante femmine non denuncino beni nella Terraferma, ma solo nella capitale, mentre i borghesi che si trovano in questa situazione sono 444 (= 35%).
Per quanto concerne i campi, rispetto al 1537 l'intero sestiere ha fatto registrare un incremento di 69.563 unità (+ 236%), così ripartiti: patrizi: + 49.749 (= + 225%); enti laici ed ecclesiastici: + 1.818 (= + 219%); altri: + 17.996 (= + 287%) (v. tabb. 26-29).
Nella tabella 30 è l'elenco di tutti i "piccoli capitalisti" del sestiere, sulla scorta di quanto si è fatto per il solo Cannaregio, in occasione dell'estimo del 1537.
Passiamo ora al sestiere di S. Croce, esclusa - beninteso - Murano.
Su complessive 579 polizze (+ 40,2% rispetto alle 413 del 1537, di fronte ad una popolazione diminuita del 6%), 131 patrizi (= 22,6%) dichiarano di possedere beni in Terraferma, tra cui il 75,6% di tutti i campi spettanti ai residenti nel sestiere; un solo ente laico e ventotto ecclesiastici rappresentano insieme il 5°A delle notifiche, con il 3% dei campi, la qual cosa costituisce un lieve rafforzamento riguardo a centoventiquattro anni prima; tutti gli altri sono 314 (= 54,2%), con il 21,4% delle unità rurali: rispetto al 1537 Si registra dunque un aumento numerico dei titolari di beni, ma una contrazione relativa del loro patrimonio fondiario.
I patrizi maschi che non denunciano alcunché fuori di Venezia sono 8 (= 1,4%) e le femmine 9 (= 1,6%): nel 1537 erano stati rispettivamente 25 e 12; quanto ai borghesi, sono 88 (= 15,2%), contro i 62 della precedente rilevazione.
In rapporto ai campi, rispetto al 1537 l'intero sestiere presenta un aumento di 38.783 unità (+ 193%), così ripartito: patrizi + 238%; enti laici ed ecclesiastici + 348%; altri + 93% (v. tabb. 31-34)
Nella tabella 35 Si elencano i principali possidenti "borghesi", dai quali ho escluso Giovan Maria Raspi di Pasquale (b. 225/595), mercante bergamasco divenuto patrizio il 7 giugno 1662, con l'usuale esborso di 100.000 ducati.
Quanto ai proprietari di ville, si tratta di 100 ditte (delle quali 77 patrizie) con un complesso di 186 edifici, l'80,1% dei quali spettanti a patrizi.
Vediamo infine Cannaregio.
Su 1.415 polizze (+ 57,2% rispetto al 1537), di fronte ad un progresso demografico di circa il 17%, riconducibile in parte all'ampliamento del Ghetto, in parte alle nuove aree edificabili conseguenti alla costruzione delle Fondamenta nuove, agli inizi del XVII secolo (25), 296 patrizi (= 20,9%) denunciano proprietà nella Terraferma
(detengono il 72,3% dei campi), con una contrazione percentuale del 12,1 % in confronto a centoventiquattr'anni prima; gli enti laici sono 11 (= 0,8%) e gli ecclesiastici 18 (= 1,3%), ed assieme superano di poco il 2% della proprietà fondiaria, facendo registrare in tal modo un debolissimo incremento sui dati del 1537;
quanto ai borghesi, sono 486 (= 34,3%), con il 25,6% dei campi, quasi un raddoppio delle ditte e della percentuale delle unità fondiarie, sempre rispetto al '37.
I patrizi maschi privi di beni fuori della capitale sono 18 (1,3%), le femmine 14 (1%) ; nel 1537 erano stati rispettivamente 53 e 40 ; i borghesi sono invece ben
più numerosi: 843 (59,6%), contro i 153 della precedente rilevazione; questa cifra così elevata può essere in parte spiegata col fatto che nella b. 221 vi sono 231 polizze (806-988, 990-1037) intestate ad Ebrei, 225 dei quali nulla possiedono in Terraferma, mentre soltanto sei risultano proprietari di alcuni pochi
immobili nei Ghetti di Padova, Rovigo, Verona. Quanto ai campi, rispetto al 1537 il sestiere fa registrare un aumento di 69.851 unità (+ 145%), così ripartite: patrizi + 110%; enti laici ed ecclesiastici + 205%; borghesi + 353% (v. tabb. 36-39).
Nella tabella 40 ecco infine i principali possidenti non patrizi né ecclesiastici, dai quali ho escluso Girolamo Flangini di Vincenzo e Bartolomeo Raspi di Marcantonio, aggregati al maggior consiglio rispettivamente nel 1664 e nel 1662.
Notevoli i patrimoni di Laura Cecchini, dei nobili vicentini Ferramosca e del mercante di seta Alberto Gozzi, il quale ha beni un po' dappertutto e se li gode nella sua villa di Sant'Erasmo, in laguna, circondato da 160 campi di vigneti, che presumo gli fornissero il non mai lodato abbastanza Raboso. Qualche perplessità desta invece la polizza di Vittoria de Boni che, pur vedova e con sei figli, "senza altro esercitio che de applicatione nell'allevarsi al servicio delle caritatevole persone", finisce poi per dichiarare 129 campi a Bannia, in Friuli. Infine, ma soprattutto, c'è da dire che Cannaregio stupisce per la gran quantità di questi "ignoti" capitalisti rispetto ai precedenti sestieri fatti oggetto d'indagine.
Questi i dati: a S. Marco su 955 proprietari sia a Venezia che nella Terraferma, non patrizi né ecclesiastici, 29 sono rientrati nella categoria di chi aveva almeno 10 immobili e/o 50 campi, dunque con un rapporto (arrotondato) di 1:33; a S. Croce, su 402 "borghesi" si è registrato un elenco di 30 ditte, col rapporto di 1:13; a Cannaregio, su 1.329 "borghesi" i ricchi sono 119, con un rapporto ancor più basso: 1:11, che potrebbe risultare ancor più significativo se vi si sottrassero le 225 polizze degli Ebrei "poveri".
Cannaregio dunque sembra fornire l'immagine di uno spazio urbano interessato da una borghesia più numerosa e agiata rispetto ad altri sestieri, mentre appare evidente che S. Marco risulta pesantemente condizionato, sotto il profilo residenziale, dalla sua vocazione politico-finanziaria.
Abbiamo visto come su un totale di 117.882 campi, i patrizi ne possedessero 85.221, pari al 72,3%; di essi è precisata la conduzione in questi termini: le unità affittate sommano a 60.090 (= 70,5%), quelle livellate o condotte alla parte o lavorate in casa risultano 25.131 (= 29,5%).
Procedendo con l'analisi, nelle tre province più prossime alla capitale (Dogado, Padovano, Trevigiano) i patrizi possiedono 56.451 campi (= 66,2%); nelle rimanenti i campi sono 28.770 (= 33,8%), come risulta dalla tabella 41, ove sono riportati anche gli edifici.
Rispetto al 1537, Si registra ovunque un deciso aumento dell'affittanza a scapito delle altre conduzioni, il che significa un rapporto di forza contrattuale favorevole ai proprietari, e/o la presenza del fittanziere.
Vediamo ora il comportamento della borghesia. Dei 30.143 campi detenuti dai suoi esponenti, 21.293 (= 70,6%) risultano affittati, gli altri 8.850 (= 29,4%), dati alla parte: suppergiù la stessa situazione del 1537. Nelle tre province limitrofe alla Dominante, i campi posseduti erano 21.782 (= 72,3%), nelle rimanenti, 8.361 (= 27,7%), come indica la tabella 42.
In confronto a centoventiquattro anni avanti, si può notare un sostanziale adeguamento della conduzione "borghese" a quella nobiliare, anche per i terreni più lontani dalla laguna.
Quanto alle ville, si veda la tabella riassuntiva 43.
Rispetto al 1537, le ditte aumentano del 128%, con abbondante raddoppio causato soprattutto dal forte incremento numerico della borghesia, ed anche la quantità di ville detenuta dal patriziato tende percentualmente ad avvicinarsi a quella dell'altro ceto.
Vediamo ora, nella tabella 44, dov'erano situate.
Se la presenza nobiliare è accertata un po' dovunque nel Veneto, con buona consistenza, eccezion fatta per il Bellunese ed il Colognese, quella borghese è incentrata soprattutto nel Padovano e nel prediletto Trevigiano, secondo una vecchia tendenza; comunque le due province raggruppano ora l'81% delle ville possedute dai "borghesi", contro il 97% della redecima del 1537, la qual cosa significa una penetrazione economica maggiormente articolata e sicura dei propri mezzi, probabilmente anche in grado di sfruttare le favorevoli occasioni derivanti dalla vendita dei beni comunali.
Naturalmente, al di là delle statistiche, la lettura di tante polizze fornisce anche una quantità di notizie di carattere privato, sulle quali non ardisco di indulgere per non venir meno alle finalità del tema che mi è stato assegnato; pure credo non inutile segnalarne qualcuna tra le più interessanti.
Accanto al pittore ed editore Marco Boschini (219/171: si indicano il numero della busta e il numero d'ordine della notifica), troviamo il siriano Caram d'Affif q. Seftallah (222/1131), che denuncia l'utile dominio di 37 campi a San Michele del Quarto, presso Treviso, e l'atestino Bernardo Bonato q. Taddeo (220/745), il quale preferisce iscrivere i suoi beni ai fuochi veneti, pur non abitando a Venezia; i patrimoni più cospicui sono quelli dei patrizi Francesco Bonfadini (222/1415), Priamo da Lezze (222/1186), Giovan Battista Donà (222/1348), Alvise e Antonio Grimani (222/1333, 1334, 1335), Marin Tiepolo (222/1384), Ludovico Widmann (219/191); l'ebreo più ricco appare Mosè Coen, da Spilimbergo (220/509), che si attribuisce i miglioramenti effettuati nel Ghetto su undici case e tre botteghe; ampiamente documentata la presenza di fittanzieri, come don Giuliano Mazzucco, che a Castelguglielmo, nel Polesine, gestisce 650 campi e numerosi immobili di Nicolò Venier (219/366); attestano l'impianto di nuove risaie (nonostante il silenzio dei provveditori sopra beni inculti) Ferigo Contarini, a Villafranca (222/1258), e Lorenzo Donà, a Campagna (222/1113); miglioramenti con introduzione di viti gli Zaguri a Conselve (222/1310), sfruttamento di boschi e commercio del legname i Tiepolo a S. Donà di Piave (222/1384), esenzioni dalla decima i Battagia a Montecchio (220/793) e i Cavalli a Nogara (222/1204), mentre particolarmente segnato dalla inurbanità di inconditi affittuari appare Giorgio Morosini di Giovan Battista (222/1223), che proprio a Venezia, a S. Giobbe, si ritrova "un pezzo di stalla con un pezzo di terreno, quali affittavo a becheri [...], et mi vien fatti grandissimi pregiudicij et danni col gettar le porte a terra per trar fuora li bue, et gente mi va sopra il colmo, et fracassan li copi"; e la malasorte infierisce anche su Valerio Michiel q. Marcantonio (220/762), cui i provvedimenti governativi sfociati nel taglio del Gorzone, a Marize, causarono l'impaludamento di oltre mille campi; si rallegra invece della sua buona ventura Faustina Contarini, poiché si ritrova a Concordia "una braiduza buonissima di campi due", e intanto precisa che la possessione di Summaga è di soli ventun campi, "se bene per le condizioni vecchie parrìa di campi vintiotto", così come quella di Villastorta di Portogruaro, "data in nota per error per campi trenta" (222/1108).
Nelle tabelle 45-48 si vede il complesso dei dati relativo ai tre sestieri, analogamente a quanto si è fatto per il 1537; come si ricorderà, si tratta di 3.264 polizze, pari al 55,10/o di quelle presentate nell'ambito di questa redecima.
Su 3.264 notifiche, 690 (= 21,1%) appartengono a patrizi che denunciano proprietà nella Terraferma; gli enti laici sono 28 (= 0,9%) e gli ecclesiastici 62 (= 1,9%); i "borghesi" sono 1.311 (= 40,2%). Vi sono poi 36 patrizi maschi (= 1,1 %) e 33 femmine (= 1%) i quali non possiedono alcunché fuori di Venezia, mentre i borghesi che si trovano in siffatta condizione sono 1.104 (= 33,7%).
Esaminiamo dunque la tabella 49.
Rispetto al 1537 non è intervenuto alcun significativo mutamento riguardo alla situazione degli enti, tanto laici quanto ecclesiastici; si può notare invece una leggera contrazione dell'aliquota detenuta dal patriziato a vantaggio della borghesia.
Per quanto concerne invece l'ubicazione dei beni, sempre in relazione alla precedente redecima considerata, i patrizi mantengono lo stesso atteggiamento nei confronti del Trevigiano, mentre sembra diminuire il loro interesse per il Padovano a vantaggio del Friuli, del Polesine e del Vicentino; anche la borghesia, sostanzialmente, segue questa tendenza, ma con percentuali diverse: si noti, ad esempio, come dal 48,7% dei campi posseduti nel Padovano secondo l'estimo del 1537, si passi nel 1661 al 31,2%, a favore di un incremento nel Trevigiano, nel Friuli e nel Vicentino.
Riguardo infine ai dati complessivi, nel 1661 quest'ultimo territorio interessa assai più i Veneziani del Veronese, rovesciando le posizioni riscontrate oltre un secolo prima; inoltre si può notare una più articolata presenza in ogni provincia del Veneto (eccezion fatta, beninteso, per la defilata zona prealpina), ovviamente a detrimento delle più antiche zone di penetrazione economica, ossia del Padovano-Trevigiano, dove la percentuale di campi posseduti dai Veneziani passa dal 73,6% del 1537 al 60,8% del 1661. Un cenno merita forse anche il rapporto campi-immobili (= case + botteghe), che è di 1:58 nel '37, e di 1:31 nel '61, indice di una maggior valorizzazione della terra, nonostante la guerra, la deflazione ed i devastanti effetti delle pestilenze del 1575-76 e del 1629-30.
Purtroppo - come si è detto - non è possibile quantificare la proprietà ecclesiastica iscritta a quelle decime attorno alla metà del '600; nonostante le leggi restrittive rinnovate dalla Repubblica agli inizi del secolo, sappiamo però che talune congregazioni soppresse dal papa Alessandro VII tra il 1656 ed il '57, per aiutare la Serenissima nel conflitto di Candia, risultarono assai ricche: la sola vendita dei beni alienati ai Crociferi (2.897 campi, quasi tutti situati nel Padovano e Trevigiano, ed un centinaio di immobili) fruttò all'erario 287.306 ducati; una cifra che, per la particolare congiuntura e le modalità con le quali venne riscossa, risulta senza dubbio inferiore al valore di mercato normalmente attribuibile a tali beni (26).
Pure, supponendo - sulla base dell'estimo del 1564 cui si è accennato in precedenza che il clero possedesse fra i 30 ed i 40.000 campi (e prendiamo per buono quest'ultimo dato), ne deriva che, se il 55,1% dei laici dichiarò nel 1661 297.313 unità fondiarie, il complesso della superficie detenuta dai Veneziani nella Terraferma,
alla metà del XVII secolo, non dovrebbe discostarsi troppo da quella costituita da 580.000 campi.
Un numero abbastanza congruente con quello di 514.414 fissato da Beltrami sulla scorta del campatico del 1636.
Nei centoventiquattro anni intercorsi tra il 1537 ed il 1661, i Veneziani dei tre sestieri considerati vennero in possesso stando alla loro parola - di 178.197 campi (+ 150%), e 7.460 immobili (+ 360%); in particolare nella tre province più prossime alla capitale, dove più intenso fu il fenomeno, essi fecero registrare questi incrementi: Padovano 51.128 campi (+ 85%), Trevigiano 41.88g (+ 153%), Polesine 19.428 (+ 240%).
Questo relativo "disinteresse" per il Padovano può forse essere spiegato col fatto che ormai le terre fertili della provincia euganea erano saldamente in mano alle famiglie nobili, veneziane o di Terraferma, che col vincolo del fidecommesso le avevano sottratte alla mobilità del mercato: voglio dire che forse non era più tanto facile, anche a chi l'avesse voluto, acquistar terre in quei luoghi, mentre - ad esempio - nel Polesine di più recente conquista e di fresca bonifica l'alienazione di beni fondiari risultava meno costosa e difficoltosa.
Che altro? Dopo tante cifre direi ancor questo: che mi pare escano confermate anche da queste proiezioni le conoscenze sinora acquisite circa la progressiva espansione della proprietà fondiaria nella Terraferma effettuata dai Veneziani tra Noyon e la fine della guerra di Candia, di cui la realizzazione delle bonifiche e la vendita dei beni comunali segnarono i punti salienti; anche i tempi e la consistenza nelle diverse province non ne escono inficiati, pure se ora abbiamo a disposizione qualche ulteriore elemento, in ispecie per il Polesine ed il Vicentino; trascurabile il patrimonio fondiario detenuto dagli enti laici e da quelli ecclesiastici non iscritti alle decime del clero.
Novità gradita fra tanto dejà vu è invece costituita da quella categoria di persone che troppo spesso ho impropriamente definito "borghesi", e che dimostrano una forza economica ed una consistenza numerica quanto mai rispettabili: preferiscono i terreni alti del Trevigiano (che oltretutto forniscono vini migliori) a quelli spesso vallivi del Padovano, acquistano campi e case piuttosto che edifici volti ad uso produttivo o livelli o diritti; come dire che ambiscono per solito ad un piccolo podere con una casa, lasciando ai nobili lo sfruttamento delle attività commerciali e le rendite collegate alle istituzioni feudali ed all'esercizio feneratizio.
Investimenti cautelativi contro i rischi della mercatura e/o dell'inflazione, desiderio di assicurarsi un luogo di villeggiatura, in grado anche di fornire almeno una parte dei generi necessari al consumo domestico? Forse l'una e l'altra cosa, certo le ville che costoro possiedono sono davvero tante. Ma ecco che, in conclusione, si affaccia di nuovo - intatta - la domanda iniziale: quanto costarono, quanto resero questi beni?
La risposta non sono stato davvero in grado di fornirla; potranno forse darci un'idea meno approssimativa della realtà economica dei secoli in esame ulteriori indagini capaci di quantificare i proventi delle decime, dei diritti feudali, dei monopoli, delle rendite ecclesiastiche e del credito agrario; dell'attività di mulini, folli, magli, cartiere, segherie; del commercio del legname, delle derrate agricole, dei prodotti minerari; e poi ancora quelli connessi alla gestione delle opere pubbliche, all'esercizio della politica, della giustizia, del fisco.
Altri dunque completeranno amplieranno correggeranno questo rozzo parto della mia insufficienza, e scarsi talenti - per dirla coi termini di un tempo -, come è giusto e come sempre è stato. Anche perché, insomma: mica dovrò pensare a tutto io?
1. Il fenomeno non fu tuttavia rapido, né completa fu mai la conversione del patriziato dalla mercatura alla terra; mi permetto di rinviare in proposito ad un mio lavoro su I patrizi veneziani e la mercatura negli ultimi tre secoli della Repubblica, in Mercanti e vita economica nella Repubblica Veneta (secoli XIII-XVIII), a cura di Giorgio Borelli, II, Verona 1985, in particolare pp. 403-404, 410-421 (pp. 403-451)
2. Daniele Beltrami, La penetrazione economica dei veneziani in Terraferma. Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma 1961; Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, "Studi Storici", 9, 1968, pp. 674-722.
3. D. Beltrami, La penetrazione economica, pp. 60-61.
4. Per questi dati, cf. rispettivamente: ibid., p. 77; A.S.V., Notarile. Atti, b. 11125, cc. 45r-v, 1 12 r- 114v.
5. D. Beltrami, La penetrazione economica, p. 123.
6. Ibid., pp. 51-52.
7. Per una rapida puntualizzazione del problema rinvio nuovamente a me stesso: I Pisani dal Banco e Moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma 1984, pp. 33-34.
8. Però si vedano anche le sue acute osservazioni in: Aspetti storico-economici della villa veneta, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio", 11, 1969, pp. 67-75. Rammentarlo è superfluo, ma ugualmente lo faccio; e son due begli ottonari.
9. José-Gentil Da Silva, La dépréciation monetaire en Italie du nord au XVIIe siècle: le cas de Venise, "Studi Veneziani", 15, 1973, pp. 328-329 (pp. 297-348); Salvatore Ciriacono, Irrigazione e produttività agraria nella Terraferma veneta tra Cinque e Seicento, "Archivio Veneto", ser. V, 112, 1979, pp. 73-135; Gigi Corazzol, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto del '500, Milano 1979; Id., Sulla diffusione dei livelli a frumento tra il patriziato veneziano nella seconda metà del '500, "Studi Veneziani", n. ser., 6, 1982, pp. 103-128; Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, "Quaderni Storici", 43, 1980, pp. 162-193; Enrico Stumpo, Un mito da sfatare? Immunità ed esenzioni fiscali della proprietà ecclesiastica negli stati italiani fra '500 e '600, in AA.VV., Studi in onore di G. Barbieri. Problemi e metodi di storia economica, III, Pisa 1983, pp. 1431-1438; Giuseppe Del Torre, La politica ecclesiastica della Repubblica di Venezia nell'età moderna: la fiscalità, in Fisco religione Stato nell'età confessionale, a cura di Paolo Prodi - Hermann Kellenbenz, Bologna 1989, in particolare pp. 399-410 (pp. 387-426). Per una visione d'insieme di quest'ultimo problema, cf. Aldo Stella, La proprietà ecclesiastica nella Repubblica di Venezia dal secolo XV al XVII. (Lineamenti di una ricerca economico-politica), "Nuova Rivista Storica", 42, 1958, pp. 50-73.
10. A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1661, b. 222/1379.
11. Al quale si può aggiungere, per le famiglie patrizie che ottennero l'investitura dai provveditori sopra feudi fra il 1587 e la caduta della Repubblica, un altro mio contributo: Nobili di Terraferma e patrizi veneziani di fronte al sistema fiscale della campagna, nell'ultimo secolo della Repubblica, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori. Trieste, 23-24 ottobre 1980, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 214-216 (pp. 203-225).
12. A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1661, b. 222/1186.
13. Ibid., Redecima del 1537, bb. 92-104; ibid., Redecima del 1661, bb. 212-228, 237-238.
14. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, pp. 33-37 (per i dati sui quali è stata compilata la tabella, pp. 38 e 61).
15. A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1537, bb. 92-93, S. Marco; 96-98, Cannaregio; 100, S. Croce.
16. Venezia, Museo Correr, Ms. Donà dalle Rose 453/11: Tanse del 1569 in Venezia, cf. nell'ordine cc. 48r, 5v, 15r, 58r, 25r, 62v, 5v.
17. Deve farlo lavorare alla parte, il mulino, con "grandissima spexa e dano, e massime dal tempo che comenzò queste caristie, e questo dicho perché ditti mulini non masena ad altri cha gente de villa; et Vostre Signorie pol ben saper, et massime quelli che ano possession in terra ferma, che pochi contadinj anzi nissun masena formento, et pur avesei tanto megio et sorgo et fava che li fazesse per tutto l'ano; et tanto pezo ad ora sono, da poi che se a posto a pagar la masena in terra ferma, perché ad ogni posta de molin che sono nelle ville, per quelli che hanno tolto la masena a fitto, ne sono sta posto uno vardian per schuoder le sue maxene sì del formento chome de alttre biave, afermando alle Signorie Vostre che per ogni mozo de formentto che portta a molin per masenar i poveri de la villa, convien pagar s. 48 per mozo, che sono s. 24 per la masena et altretanto per la masenadura; sicché sia zertte le Signorie Vostre che pochi omini da villa è per manzar formentto" (A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1537, b. 98/896; per il Valier ed il Venier, cf. ibid., rispettivamente b. 97/580 e b. 98/889).
18. A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1537, b. 98/890.
19. Ibid., b. 98/660.
20. Ibid., per il Gradenigo, b. 98/759; la Pianella, b. 97/413; il Donà, b. 98/758; il Giustinian, b. 97/561; i commissari di S. Giobbe, b. 98/867; il sensale, b. 98/710; l'Albaregno, b. 97/438. Infine, la polizza 96/122 presenta le interessanti, ma per noi anche godibilissime, traversie patite dai fratelli Natale e Leonardo Contarini di Domenico, nella loro casa ai Santi Apostoli, "il più antiquo stabelle de la contrada", a causa di una perversa congiunzione di fatiscenti strutture e ladri temerari.
21. Gino Sancassani, I beni della "fattoria Scaligera" e la loro liquidazione ad opera della Repubblica Veneta. 1406-1417, "Nova Historia", 12, 1960, pp. 100-157.
22. A.S.V., Sopraintendenti alle decime del clero, bb. 32-33. Sugli esiti della redecima del 1564, ai fini fiscali, G. Del Torre, La politica ecclesiastica, pp. 406-408.
23. D. Beltrami, La penetrazione economica, p. 52.
24. A.S.V., Dieci savi alle decime. Redecima del 1661, bb. 212-215, S. Marco; 219-222, Cannaregio; 224-225, S. Croce.
25. Sulla tardiva urbanizzazione del limite settentrionale di Cannaregio, cf. Ennio Concina, Structure urbaine et fonctions des bâtiments du XVIe au XIXe siècle. Une recherche à Venise, Venise 1981, pp. 71-74; sul sestiere in generale, Giuseppe Cristinelli, Cannaregio. Un sestiere di Venezia. La forma urbana, l'assetto edilizio, le architetture, Roma 1987.
26. A.S.V., Notarile. Atti, b. 11125, cc. 7r-10r, 21r-45v, 59v-92v, 103v-112r, 118r-121r, 140v-151r, 153v-244r, 249r-258r, 259r-266v, 272r-299r, 306v-322v, 326r-346r. Sugli aspetti politico-economici connessi al provvedimento pontificio, si veda Emanuele Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Roma 1971, pp. 118-130.