quando (categoria temporale)
Avverbio di tempo che ricorre con valore sostantivato in Pd XXI 46, XXIII 16, XXIX 46 e 12; in quest'ultimo luogo è in forma latina, come suggerisce la correlazione con ubi, secondo un uso corrente del linguaggio scolastico.
Nella terminologia filosofica medievale, il latino quando è un calco del greco ποτέ, presente nelle opere aristoteliche dove, in uso tecnico, designa la categoria del tempo. Ogni categoria, per Aristotele, costituisce una determinazione dell'essere in sé, in quanto individua una delle condizioni fondamentali del suo esistere. Pertanto, tutto ciò che in un enunciato si predica dell'ente è riconducibile a una delle categorie, o modi di essere, che di conseguenza fungono anche da classi supreme dei predicati. In Cat. 4, 1b 25 ss., Aristotele enumera così le dieci categorie: " Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur singulum aut substantiam significat aut quantitatem aut qualitatem aut ad aliquid aut ubi aut quando [ποτέ] aut situm aut habitum aut facere aut pati... ubi vero ut in Lycio, quando autem ut heri " (v. anche Anal. post. 22, 83a 21 ss., 83b 16 ss.; Top. I 9, 103b 20 ss.; Phys. V 1, 225b 5 ss.; Metaph. V 7, 1017a 23 ss., VII 4, 1029b 23 ss.; Eth. Nic. I 4,1096a 23 ss.).
Alla definizione della categoria del q. - di cui manca in Aristotele un'articolata trattazione - dedica un' accurata analisi un manuale ben conosciuto nelle scuole del XIII secolo e citato dallo stesso D.: il Liber sex principiorum (v. MAGISTER SEX PRINCIPIORUM). In esso (cfr. l'ediz. L. Minio-Paluello, in Aristoteles latinus, I 6-7, Bruges-Parigi 1966, 42-45, IV §§ 33-47) il q. viene anzitutto distinto dal tempo (" tempus autem quando non est ") e, partitamente, dal presente o istante (" instans quoque quando non est "), dal passato (" tempus quidem praeteritum quando non est ") e dal futuro (" futurum similiter tempus quando non est "). Il q. dunque non s'identifica né col tempo né con la sequenza di eventi passati, presenti e futuri (" Est igitur quando aliud quidem ex eo quod abiit, aliud vero ab eo quod instat, aliud vero ex eo quod contingere necesse est "). Ciò che contraddistingue il tempo, infatti, è di essere misura della durata (" Distat autem tempus ab eo quod quando est, quoniam secundum tempus aliquid mensurabile est, ut annus dicitur tempore diuturnus, et motus multus dicitur eo quod multo tempore permaneat "), mentre il q. non è misura di alcunché, bensì enuncia l'esistenza, reale o possibile, di un ente in una certa porzione di tempo (" at secundum quando nihil mensuratur, sed aliquando dicetur esse, et secundum idem temporale et variabile pronunciabitur ").
Il q. pertanto costituisce la determinazione di un ente ‛ rispetto ' al tempo, in quanto ubica il suo esistere nella durata temporale. In tal senso il q. sarà ciò che rimane della contiguità del tempo ' con un certo ente (" Quando vero est quod ex temporis adiacentia relinquitur "). E ‛ ciò che rimane ' - di qui la nozione sostanzialistica e non meramente categoriale del q. - è una proprietà, affezione o effetto prodotto dal tempo nella sostanza, per cui essa può dirsi esistente (o esistita) nel tempo (cfr. Abelardo Dialettica III De Quando: " Est autem quando: in tempore esse, quaedam scilicet proprietas quae ex adiacentia temporis ad substantiam ipsi innascitur personae, tam a tempore ipso quam a subiecta substantia diversa "; specifica Alberto Magno [Liber de sex principiis IV 5] " Et hoc est quod proprium est eius quod est quando, relinqui ex adiacentia temporis, et non esse in tempore, sed in re temporali secundum comparationem quam habet ad tempus... quando... non est tempus, sed infectio quaedam vel impressio relicta in eo quod temporale est, secundum quam ad tempus... habet referri. Et ideo coniunctae habent rationes tempus et quando "). Dunque quando e tempus hanno pur sempre rationes coniunctae in quanto il primo è in diretta ragione del secondo (dice ancora il Liber sex principiorum § 41: " quemadmodum et temporis partes sibi sine mora succedunt, similiter et quando ").
Il quando temporis così definito - e distinto dal quando aeternitatis e dal quando aeviternitatis, perché l'uno riferito alla durata ab aeterno di Dio, l'altro a quella in aeternum delle sostanze separate (cfr. Alb. Magno Liber de sex princ. IV 2) - è proprio di ogni ente che incipit esse per naturam, cioè di ogni ente generabile, alterabile e corruttibile del mondo sublunare (Alb. Magno ibid. 6 " quando quod ex tempore relinquitur, proprie est in omni eo quod incipit esse. Dico autem incipere esse per naturam sicut incipiunt esse quae generantur vel fiunt... universalia enim suae habent principia inceptionis, sicut privationem et materiam... generabilia et corruptibilia secundum suas substantias et secundum suas actiones et opera quando temporis suscipiunt, eo quod tempore variantur "). Se tutto ciò che varia col tempo è soggetto a quest'ultimo q., anche l'anima e la mente, di per sé perenni, saranno perciò soggette al quando temporis finché rimarranno congiunte col corpo e condizionate dalla sua complessione (Liber sex princ. § 46 " Est autem quando in omni quod cepit esse, ut corpus quidem universum aliquando est et in tempore, suscipit enim temporum alterationes... Similiter autem et anima, acutius enim quidam in hieme, quidam in aestate, quidam in vere speculantur secundum instrumenti complexiones; anima enim coniuncta complex.iones comitatur... Erit igitur in tempore quid-quid, temporìs suscipiens variationes, alteratur secundum corpus ").
Il q. esprime dunque una condizione tipica delle creature contingenti. La nozione interrogativo-ipotetica che q. possiede sul piano grammaticale e linguistico si traduce, sul piano ontologico, nella possibilità reale o ipotetica, che un ente e un accadimento hanno di esistere nel tempo. Di fronte a questo carattere di potenzialità o ipoteticità rispetto al tempo (per cui quando è sentito e trattato come un aliquando: cfr. Albi Magno Phys. IV III 11), D. assume un atteggiamento fortemente riduttivo: egli sembra più che mai vicino alla dibattuta enunciazione aristotelica (Periherm. 9, 19a 23 ss.) " Igitur esse quod est, quando est, et non esse quod non est, quando non est, necesse est "; e ciò non in forza di una concezione deterministica del reale (" Sed non quod est omne necesse est esse, nec quod non est necesse est non esse "), ma di una nozione decisamente impersonale e oggettiva del tempo, e dell'essere temporale. Il q., di conseguenza, è sempre trattato da D. come una determinazione reale, che fissa la condizione dell'evento, non in quanto possibile, ma in quanto già attuata, una volta per sempre, nel tempo e dal tempo, come processo inarrestabile della vicenda naturale.
Il tempo, come D. ricorda, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica [IV 11, 219b 1-2], è " numero di movimento, secondo prima e poi "; e " numero di movimento celestiale " [14, 223b 21-22], lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione (Cv IV II 6). E il movimento celestiale di cui il tempo è misura, altro non è che quello determinato dal Primo Mobile, con cui Dio diede inizio al moto universale (Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, Cv III XV 15) e in cui è la radice stessa del tempo: il moto del Primo Mobile (contenuto e derivato dall'Empireo, ‛ luogo ' dell'universo e Mente divina) non è... per altro distinto, / ma li altri son mensurati da questo, / sì come diece da mezzo e da quinto; / e come il tempo tegna in cotal testo / le sue radici e ne li altri le fronde, / omai a te può esser manifesto (Pd XXVII 115-120).
Dio quindi è il principio fontale da cui, cori atto eterno, promanò il Primo Mobile da cui ebbe inizio il moto e con esso il ‛ prima ' e il ‛ poi ' di cui il tempo è misura e il q. determinazione reale. È in questa dimensione emanatistica che trova piena ragione quanto dice Beatrice (Pd XXIX 12): " Io dico, e non dimando, / quel che tu vuoli udir, perch'io l'ho visto / là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando... ". Beatrice, giunta nel Primo Mobile, riguardando / fiso nel punto che... avëa vinto D. (vv. 8-9) vede attuata in Dio, senza domandare, la questione sorta nell'anima di D. e ancora non espressa.
Il v. 12 non è semplice perifrasi per designare la prescienza di Dio onnipresente ed eterno, ma - con inversione logica - costituisce un corollario esplicativo dato in anticipo sulla dimostrazione dei vv. 13-45: da Dio, punto o monade eterna, procedettero per libera ‛ esplicazione ' (s'aperse, v. 18) della sua essenza tutte le sostanze create e, tra queste, il tempo (v. 16) e il luogo (comprender, v. 17, inteso come locus circumscribens) che dell'ente naturale rappresentano le determinazioni prime. Dio, appunto perché illimitato ed eterno, rimase fuori di essi (vv. 16 e 17): il ‛ prima ' e il ‛ poi ' non lo precedettero, ma da lui trassero l'esistenza con la creazione del cielo cristallino (vv. 19-20). Pertanto, se nella dimensione naturale e terrena il tempo è un ininterrotto succedersi di prima e poi, e il q. una determinazione del ‛ dove ' un ente trova esistenza nel tempo, visti nella dimensione eterna di Dio il tempo, da successione di prima e di poi, si risolverà in un ‛ ora ' indifferenziato e perenne, e ogni q., da determinazione di un prima e un poi, convergerà a determinare questo unico ora. Ciò che appartiene al modello intelligibile del mondo creato non è il tempo suddiviso e numerato ma l'eternità della presenza.
Di qui l'enunciato di Beatrice là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando; non dunque, come si è soliti commentare, dove si accentra ‛ ogni luogo e. ogni tempo ', ma piuttosto ‛ dove ogni determinazione di luogo e di tempo ' dalla sua disposizione lineare e successiva (nello spazio e nel tempo) ‛ converge come in un punto ', nell'unità indifferenziata di Dio, sua ‛ ragione ' prima (cfr. Liber sex principiorum § 33 " tempus... quando non est ", e dello Ps.-Agostino De Categoriis Aristotelis [ediz. L. Minio-Paluello, § 145]: " Ubi et quando videntur locus et tempus esse cum non sint; sed sunt in loco et in tempore... Haec ut diximus, in loco sunt et in tempore, non locus et tempus "; per l'immagine del punto cfr. Alessandro di Hales Quaest. disput. X 88 " Cum ergo oculus divinus se ipso sciat omnia, a mutabilitate rerum nullam trahit mutationem; immo eadem scientia cognoscit me sedere cum sedeo, et cum sto stare. Temporis enim diversitas comparatur ad aeternitatem sicut linea ad punctum: si punctus sit invariabilis, non trahit mutationem propter mutationem linearum ").
La pregnanza dottrinaria del verso, oltre la prescienza divina, investe e giustifica la condizione stessa di D. personaggio. Beatrice, nel punto da cui depende il cielo e tutta la natura (Pd XXVIII 41-42; cfr. anche vv. 16-18), legge in atto quel dubbio che nella mente di D. era ancora in potenza. Se ogni evento naturale, misurato secondo il tempo, è soggetto a un processo che lo riduce dalla potenza all'atto, ne deriva che " a parte hominis " la domanda di D. non è ancora venuta in atto e quindi non ha ancora una sua ubicazione nel tempo (non ha ancora un suo quando) mentre " a parte Dei ", la cui conoscenza è eternamente attuata, la sua esistenza è sempre stata in atto e il suo q. è coinciso ab aeterno con la presenza di ogni essere in Dio.
Attraverso questa duplice struttura percettiva, D. dissocia e giustappone una duplice condizione di esistenza. Di fronte alla beatitudine di Beatrice e a tutto ciò che di sovrumano essa comporta, D. reca con sé la propria condizione terrena, di essere immerso nel tempo e soggetto al suo fatale processo di successione lineare (cfr. Boezio Cons. phil. V VI 3 " quidquid vivit in tempore, id praesens a praeteritis in futura procedit; nihilque est in tempore constitutum quod totum vitae suae spatium pariter possit amplecti "). Il processo temporale coinvolge il pensiero e la mente di D. proprio perché radicati in una condizione ancora tutta fisica e naturale: altrimenti è disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé la informazione de l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno... e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti è disposto un tempo e altrimenti un altro (Cv IV II 7).
Non a caso su tale duplicità di condizioni D. torna, e negli stessi termini, per giustificare - attraverso la distinzione di tempo ed eternità - la prescienza dei beati. In Pd XVII 16-18 D. dice a Cacciaguida: così vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti; se è proprio delle cose create, non aventi ragione di necessità (contingenti) di cadere nel tempo e di sortire in un certo q. la propria esistenza (‛ essere in sé '), è solo guardando nel punto rispetto a cui tutti li tempi son presenti (e qui tempi varrà per quando temporis) che l'attuazione di ogni contingenza può conoscersi ancor prima che sia condotta, secondo il tempo, dall'essere possibile all'essere reale (anzi che sieno in sé; cfr. anche vv. 37-42, e CONTINGENTE; contingenza; prescienza). Già in Pd XV 55-56 e 61-63 Cacciaguida aveva esposto a D. la ragione del suo prevedere: Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch'è primo [Dio]... / Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi / di questa vita [le varie gerarchie dei beati] miran ne lo speglio / in che, prima [rispetto al tempo] che pensi, il pensier pandi.
In Pd XXI 46 il giuoco si fa più sottile e la situazione s'inverte: non è più Beatrice a prevenire D., ma D. stesso ad attendere da lei, che legge nel cospetto eterno, in quale q. di tempo il suo parlare è destinato a cadere: ‛ ... Ma quella ond'io aspetto il come e 'l quando / del dire e del tacer, si sta; ond'io, / contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando '. / Per ch'ella, che vedëa il tacer mio / nel veder di colui che tutto vede, / mi disse: " Solvi il tuo caldo disio "; qui la correlazione come-q., oltre la determinazione di tempo, indica il ‛ modo ' (come = " quomodo ") del discorso e del silenzio (sull'importanza del q. tacere e q. parlare cfr. ancora Cv IV II 5-10, dove sono esaminati in rapporto alla nozione di tempo come ritmo celeste dell'accadere naturale, secondo cui ogni cosa è predisposta alla sua attuazione in determinate contingenze di tempo).
Ancora in correlazione con come e dove, q. ricorre in Pd XXIX 46 Or sai tu dove e quando questi amori / furon creati e come, con riferimento alla creazione degli angeli (amori) da parte di Dio. Anche qui l'uso è tecnico e indica la determinazione nel tempo (quando) della loro esistenza e l'ubicazione (dove) nella scala degli esseri, come risultato del processo (come) della creazione.
Un raffinato uso di q. troviamo infine in Pd XXIII 16 Ma poco fu tra uno e altro quando, / del mio attender, dico, e del vedere / lo ciel venir più e più rischiarando. Tutto l'episodio è costruito sul contrasto tra la tensione affettiva che anticipa il tempo (cfr. la metafora dei vv. 7-8 sull'augello che previene il tempo... / e con ardente affetto il sole aspetta, e vv. 10-12) e, ancora una volta, la successione oggettiva e insollecitabile di esso. Con impeccabile rigore logico D. correla la durata soggettiva dell'attender e quella oggettiva del vedere, distinguendole come due q., cioè come due ‛ determinazioni ' o ‛ sequenze di tempo ', omogenee quanto alla successione, ma qualitativamente diverse. L'uno e l'altro quando qui davvero designano due diverse ‛ affezioni ' o ‛ proprietà ' che il tempo ha prodotto e lasciato nei due eventi realizzatisi durante il suo corso. Da notare, inoltre, come tutto l'episodio è scandito dal mutamento della volta celeste e come sulla percezione di tale cangiamento (lo ciel venir più e più rischiarando) poggia quella del tempo come rappresentazione di istanti successivi.