QUEER.
– Gli studi e la politica queer. Bibliografia. Il cinema queer. Bibliografia. Lo spazio queer
Gli studi e la politica queer di Laura Schettini
Il termine queer è stato introdotto nel dibattito pubblico e nelle scienze sociali, nel campo degli studi sulla sessualità, all’inizio degli anni Novanta. Generalmente la sua prima apparizione in ambito accademico è fatta risalire al numero speciale della rivista «differences» curato da Teresa De Lauretis, Queer theory. Gay and lesbian sexualities (1991, 3), che a sua volta raccoglieva gli atti dell’omonimo convegno che si era svolto nel febbraio dell’anno prima presso l’Università della California, a Santa Cruz. Contestualmente, sulla scena dell’attivismo gay e lesbico nordamericano fece la sua fugace, ma importante apparizione l’organizzazione Queer nation che, in modo provocatorio, e usando lo strumento delle azioni-spettacolo, contestava i pregiudizi e le rappresentazioni dell’omosessualità nei media.
I due eventi esemplificano efficacemente la doppia vita che l’esperienza queer avrebbe avuto nei decenni a seguire: da una parte, la dimensione teorica e accademica, che ne riconosceva le origini nella stagione del poststrutturalismo e la collocava pienamente sull’onda degli studi culturali; dall’altra, la presenza nell’agorà politica, nei movimenti per i diritti civili, nei luoghi di socialità, produzione e sperimentazione culturale.
Usato in senso spregiativo nei confronti degli omosessuali nel corso del 19° sec., queer è termine anglosassone che sta per «strano», «bizzarro», e a sua volta deriverebbe dal tedesco quer, «diagonale», «di traverso». Nella sua introduzione al numero speciale di «differences» De Lauretis spiegava di usare il termine con almeno tre intenzioni, corrispondenti ad altrettanti programmi di critica: rifiutare il riferimento all’eterosessualità come termine di paragone per tutte le forme di sessualità; farla finita con la rappresentazione della sessualità gay e lesbica come un’unica forma di sessualità per considerarle, invece, nella loro diversa condizione di esistenza storica, materiale, sociosimbolica; infine, dare rilievo ai molteplici modi in cui la razza influenza in modo decisivo le soggettività sessuali (Turner 2000, p. 108). De Lauretis immaginava che questa triplice critica, che secondo lei poteva essere raccolta sotto l’espressione teoria queer, rendeva possibile «rielaborare o reinventare i termini della nostra sessualità, di costruire un altro orizzonte discorsivo, un altro modo di pensare il sessuale» (T. De Lauretis, in «differences», 1991, p. IV). In altre parole, e ciò rappresenta uno dei temi di fondo del queer ampiamente approfondito e variamente articolato negli anni successivi, il termine fa la sua comparsa nelle scienze sociali – come altre istanze culturali di quello stesso periodo, cui si lega fortemente, come la critica postcoloniale – per mettere in questione l’universalità delle categorie identitarie, anche delle più convenienti. Secondo molti autori, gli studi queer sarebbero in questo senso un’evoluzione della critica femminista all’essenzialismo, all’idea che maschile e femminile siano solo fatti naturali, espressione di una innata e immutabile differenza tra i generi e non, piuttosto, il risultato storico e culturale di un determinato ordine sociale e simbolico. Nel femminismo a essere oggetto privilegiato di studio e di critica erano il genere e la dimensione patriarcale del potere, negli studi queer l’attenzione si concentra sulla sessualità e sul suo orizzonte normativo di riferimento, «l’eteronormatività» (Canone inverso, 2012, p. 17). In entrambe le istanze, la proposta risiede nella valorizzazione delle differenze. A partire dagli anni Novanta queer è infatti usato come termine inclusivo, che permette di indagare e nominare tutti quei «soggetti sessuali presi in mezzo dalle categorie binarie [...]: transessuali, transgender, travestiti e travestite, ermafroditi e androgini» (Pustianaz 2004, p. 444), fino ad allora esclusi o offuscati dalle narrazioni storiche e sociali.
Questo approccio teorico che enfatizza la mutabilità, l’instabilità, la provvisorietà delle identità si è materializzato in esperienze politiche e culturali che hanno provocato profonde discontinuità con i movimenti del passato. In primo luogo gli spazi dell’attivismo e della socialità queer sono fortemente promiscui: a differenza di gran parte del femminismo e di altre esperienze politiche del secolo scorso non si basano, infatti, sul separatismo, né sul principio di identificazione comune. In secondo luogo, differenziandosi anche dai movimenti per i diritti di gay e lesbiche di fine Novecento cui verrebbe spontaneo associarla, la politica queer ha abbandonato il terreno delle rivendicazioni identitarie, così come quello della ricerca della visibilità e rispettabilità gay e lesbica, a favore di pratiche performative e, spesso, del ‘politicamente scorretto’. Tra le novità certamente più suggestive di questa esperienza vi sono infatti proprio l’analisi e la pratica della performatività del genere, in gran parte mutuata dall’opera di Judith Butler (1990). Con questa espressione la filosofa intendeva porre l’accento sul fatto che il genere, il modo in cui il nostro sesso si rappresenta nella società, è di fatto una ripetizione e interpretazione di norme, un rituale che siamo chiamati costantemente a compiere, credendo invece che sia un fatto ‘naturale’. Secondo Butler tutte le identità di genere sono quindi delle performance. Tra queste, tuttavia, ce ne sono alcune, consapevoli, da lei chiamate «atti corporei sovversivi» che hanno il potere proprio di svelare la natura inautentica del genere, il suo carattere imitativo. Il drag, termine con cui la pratica del travestimento parodistico è generalmente descritto in questi ambienti, svolge tale funzione: ciò che il travestito o la travestita mostrano è che il genere ‘si fa’, nel senso che dipende da una messa in scena che è a un tempo sociale e individuale. La diffusione che la pratica del drag ha guadagnato negli ambienti queer, ampiamente testimoniata nelle parate annuali (i prides) che si svolgono a fine giugno in ogni Paese, nelle feste, nei locali e nei club, si spiega non solo, tuttavia, con il valore politico e culturale che gli è riconosciuto, ma anche perché, nella forma di workshops collettivi di travestimento, è praticato come mezzo di sperimentazione e «di esplorazione di altri lati di sé», compresa la dimensione erotica (Il re nudo, 2014, p. 10).
In Italia il termine anglofono queer, con tutto il suo corredo politico e culturale, ha avuto sviluppi per certi aspetti diversi da quelli registrati negli Stati Uniti o in altri Paesi dell’Europa del Nord. In primo luogo la ricezione accademica è stata minore e più tardiva. Inizialmente accolti, non sorprendentemente, soprattutto tra gli studiosi di letteratura e teatro angloamericani (tra cui Marco Pustianaz e Liana Borghi) e di cinema, gli studi queer negli ultimi anni hanno cominciato a suscitare interesse anche nell’ambito delle scienze umane. Il termine è usato in Italia con più reticenza anche dai singoli e dalle organizzazioni, che continuano a rappresentarsi soprattutto con termini quali omosessuale, gay, lesbica, transessuale (Malici 2011, p. 114). La parola queer è spesso usata semplicemente come sinonimo di LGBT (acronimo di Lesbica Gay Bisessuale e Transessuale, cui talvolta sono aggiunti la Q di Queer e la I di Intersessuale) e comunque il suo significato non è largamente conosciuto. A differenza dei Paesi anglofoni, dove la valenza politica del termine è più chiara anche in virtù della sua storia, in Italia sarebbe percepito invece in maggior misura come troppo ricercato e autoreferenziale. Infine, non è da sottovalutare il fatto che le ragioni della minore fortuna del termine e della cultura queer in Italia, a oggi recepiti e fatti propri soprattutto negli ambienti della cultura indipendente urbana, risiedano proprio nella prevalenza nel nostro Paese di culture politiche di matrice identitaria e rivendicativa.
Bibliografia
J. Butler, Gender trouble. Feminism and the subversion of the identity, New York-London 1990 (trad. it. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano 2004); «differences. A Journal of feminist cultural studies», 1991, 3, nr. speciale: Queer theory. Gay and lesbian sexualities, a cura di T. De Lauretis; J. Butler, Bodies that matter. On the discursive limits of ‘sex’, New York-London 1993 (trad. it. Milano 1996); W.B. Turner, A genealogy of queer theory, Philadelphia 2000; M. Pustianaz, Studi queer, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore, F. Mazzara, Roma 2004, pp. 441-48; L. Malici, Queer in Italy, in Queer in Europe. Contemporary case studies, ed. L. Downing, R. Gillet, Farnham 2011, pp. 113-28; Queer in Italia. Differenze in movimento, a cura di M. Pustianaz, Pisa 2011; Canone inverso. Antologia di teoria queer, a cura di E.A.G. Arfini, C. Lo Iacono, Pisa 2012; L. Bernini, Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale, Pisa 2013; Il re nudo. Per un archivio drag king in Italia, a cura di M. Baldo, R. Borghi, O. Fiorilli, Pisa 2014.
Il cinema queer di Andrea Inzerillo
Il concetto di queer applicato al cinema è relativamente nuovo, e sulla possibilità di una sua identificazione univoca esiste oggi un dibattito vivace. Rifacendosi all’omonima teoria si è soliti identificare il cinema queer con un cinema che mette esplicitamente in questione l’eteronormatività della cultura e della società contemporanea. Esso affronta sovente le tematiche gay, lesbo, bisex, transgender e intersex e sarebbe pertanto considerato, ancorché impropriamente, come un sinonimo di cinema omosessuale. Questa definizione manifesta infatti tutti i suoi limiti se è vero che occorre operare una distinzione tra il concetto di omosessualità e il concetto di queer, laddove quest’ultimo intende precisamente scardinare i limiti imposti da qualunque categoria – e dunque in primis quella legata all’identità sessuale o all’orientamento di genere – e assume un significato più marcatamente politico, di contestazione delle norme sociali, politiche, identitarie o persino estetiche che caratterizzano le società contemporanee. Da questo punto di vista il queer come strumento politico è stato spesso avvicinato al punk, come cultura, filosofia e pratica. Il cinema queer avrebbe dunque non soltanto caratteristiche tematiche, ma anche peculiarità stilistiche comuni, ravvisabili, per es., in una certa insofferenza nei confronti dell’omologazione linguistica tipica del cosiddetto cinema mainstream, rispetto alla quale viene prediletto un uso trasgressivo del plot, della colonna sonora, degli attori o del montaggio volti a mostrare l’irriducibile pluralità dei desideri, non incasellabile in rappresentazioni consolatorie o riconducibili a cliché.
Alcuni studiosi dividono la storia del cinema queer in tre fasi: quella corrispondente al cinema queer classico, quella del New queer cinema e quella del cinema queer contemporaneo.
Al cinema queer classico, che si sviluppa dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del Novecento, appartengono i film di cineasti che anche grazie a una forte connotazione autoriale sono diventati in tutto il mondo punti di riferimento di uno sguardo non conforme: da Kenneth Anger a Jean Genet, da Rainer Werner Fassbinder a Werner Schroeter, da Chantal Akerman a John Waters fino a Derek Jarman. Molte di più sono tuttavia le opere che possono essere oggetto di uno sguardo queer anche se la tematica non è trattata in modo esplicito: basti pensare al modo in cui un film come The celluloid closet (1995; Lo schermo velato) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman ripercorre la storia del cinema sin dai suoi albori alla luce di una realtà nascosta come quella della rappresentazione delle diversità del mondo non eterosessuale.
Risale agli anni Novanta, ossia all’indomani della crisi dell’AIDS, l’ondata di autori che secondo B. Ruby Rich costituiscono un New queer cinema: registi come Gus Van Sant, Todd Haynes, Gregg Araki, Tom Kalin negli Stati Uniti, o Bruce LaBruce in Canada, sviluppano in modo spregiudicato e autonomo una tendenza che caratterizzava più largamente il cinema indipendente nordamericano, rinfrancato dall’invenzione di mezzi di ripresa più agili ed economici come le videocamere. È il mondo GLBT a rispecchiarsi in questo nuovo cinema, quasi fosse una sponda cinematografica delle rivendicazioni portate avanti da organizzazioni come ACT UP o Queer Nation: una reazione alla politica reaganiana, una contestazione gioiosa di ogni visione pacificata delle sessualità non omologate e una problematizzazione delle risposte date allo scoppio dell’HIV che sembravano dividere i comportamenti sociali in accettabili e inaccettabili.
L’affermazione di una teoria queer, le mutazioni in atto soprattutto nelle società occidentali e una diffusione sempre maggiore di premi e festival queer in tutto il mondo determinano l’espansione di un cinema a tematica LGBTIQ e per alcuni anche una sua omologazione, che non consentirebbe di identificare qualsiasi film che tratti queste tematiche come queer: uno per tutti, Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee. Se esistono registi che portano avanti un discorso che si muove in modo indiscutibile all’interno dei canoni del genere, come il portoghese João Pedro Rodrigues o il tedesco Rosa von Praunheim (nome d’arte di Holger Mischwitzky), altri che pure esplorano tematiche e linguaggi potenzialmente definibili come queer rifiutano esplicitamente tale etichetta considerandola limitativa (è il caso del canadese Xavier Dolan, in opere come Laurence anyways del 2012). Ma le maglie di questo cinema sono molto larghe se è vero che esso si misura con questioni che hanno a che fare con il disvelamento di corpi, pulsioni e desideri cui corrispondono modi altrettanto diversi di avvicinarsi al mezzo cinematografico: lavorando su materiali sporchi, come Jonathan Caouette in Tarnation (2003) con i suoi home movies, o muovendosi su un confine tra spazi distinti che consente di riflettere sulle relazioni tra luoghi della storia e luoghi dell’anima, e cioè in fondo sul rapporto tra reale e fantastico e su una loro possibile compresenza, come avviene rispetto al panorama thailandese in alcuni film di Apichatpong Weerasethakul come Sud Pralad (2004, noto con il titolo Tropical malady) o Loong Boonmee raleuk chat (2010; Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti).
Altri registi che provengono da un cinema decisamente autoriale si inseriscono perfettamente in questo contesto lavorando su tematiche legate alla questione dell’identità, per es. operandone una decostruzione – come fa Leos Carax in Holy motors (2012) – o al contrario analizzandone la costruzione, come nel cinema di Céline Sciamma che predilige uno sguardo sui periodi dell’infanzia o dell’adolescenza e sulle loro implicazioni sociali e culturali (Naissance des pieuvres, 2007; Tomboy, 2011). Nel suo posizionarsi a cavallo tra il cinema mainstream e quello underground, tra il lavoro da attore delle major e quello di regista indipendente, anche il cinema di James Franco occupa una posizione di rilievo soprattutto quando si misura direttamente con film della storia del cinema come Cruising (1980) di William Friedkin, provando a immaginarne le scene censurate in Interior. Leather Bar (2013), codiretto insieme a Travis Mathews.
Tra i più giovani esponenti del cinema queer contemporaneo meritano infine di essere citati il tedesco Axel Ranisch, il francese Yann Gonzalez, il portoghese Gabriel Abrantes, lo svedese Ester Martin Bergsmark, lo statunitense Benjamin Crotty e l’argentina Lucía Puenzo, tutti autori di film presentati nei maggiori festival internazionali.
Bibliografia
Queer looks. Perspectives on lesbian and gay film and video, ed. M. Gever, J. Greyson, P. Parmar, New York 1993; Queer cinema. The film reader, ed. H. Benshoff, S. Griffin, London-New York 2004; P.M. Bocchi, Mondo queer. Cinema e militanza gay, Torino 2005; J. García Rodríguez, El celuloide rosa, Barcelona 2008; B. Ruby Rich, New queer cinema. The director’s cut, Durham-London 2013; Cinema e cultura queer, a cura di A.F. Cascais, J. Ferreira, Lisboa 2014.
Lo spazio queer di Silvia Lilli
Espressione con cui ci si riferisce, comunemente, a uno spazio caratterizzato dalla presenza rilevante e chiaramente identificabile di istituzioni, specialmente commerciali, gestite e orientate a servire una comunità di residenti e visitatori LGBT (Lesbian, Gay, Bisex,Transgender). In un’accezione più completa, l’espressione definisce le implicazioni esistenti tra lo spazio geografico e sociologico e le pratiche performative della sessualità. Per identificare uno spazio queer occorre una collettività che si riconosca non tanto nella specificazione della propria identità di genere e dei propri orientamenti sessuali, ma, in negativo, nella contestazione dell’ideologia eteronormativa che produce discriminazione. Le pratiche di contestazione coinvolgono manifestazioni dimostrative pubbliche di protesta, di piacere e divertimento, ma anche una libera espressione della sessualità che mette in discussione la concezione stessa del genere come categoria definita, in quanto prodotto in primo luogo sociale, e sulla quale, perciò, si può socialmente intervenire. Rientrano nella concezione di spazio queer tanto lo spazio geografico determinato stabilmente nel tempo, quanto lo spazio temporaneo creato da singoli eventi.
Nella geografia di genere la riflessione sulla fruizione dello spazio da parte della comunità LGBT è stata introdotta fin dagli anni Settanta del secolo scorso, ma solo negli anni Novanta si è avvertita l’esigenza di orientarne approfonditamente gli studi verso i rapporti tra eteronormatività e differenza. Negli ultimi anni, gli studi si sono concentrati sulla nascita di quartieri residenziali queer nelle maggiori città del mondo (Oxford Street a Sydney, Church Street a Toronto, Castro Street a San Francisco, Hillbrow a Johannesburg, Marais a Parigi, Schöneberg a Berlino ecc.), la cui creazione è sorta dall’appropriazione precedente di spazi del divertimento, e stimolata dalle potenzialità di guadagno economico del mercato LGBT, anche in termini di turismo internazionale.