Quegli sherpa travolti da una valanga di dollari
Alle popolazioni del Nepal l’arrivo degli occidentali ha portato un relativo benessere. Ma dopo la tragedia sull’Everest della primavera 2014, quando 16 sherpa sono rimasti sepolti da una slavina, occorre riflettere su quanto sia lecito esporre guide e portatori a pericoli così estremi, in nome del business.
Se nel corso di una vita uno scalatore americano fosse arrivato per 21 volte sulla cima dell’Everest, si sarebbe guadagnato, come ovvia conseguenza, la ribalta internazionale e un buon gruzzolo di dollari. Salotti televisivi se lo sarebbero conteso, aziende dei più svariati settori commerciali avrebbero fatto a gara per accaparrarselo come uomo-immagine.
Ma se ad aver il primato di scalate al Tetto del mondo (con, appunto, 21 successi) è Apa Sherpa, piccola guida nepalese abituato fin da bambino a camminare in salita, la cosa passa quasi inosservata.
Questa è una delle amare riflessioni che vengono spontanee osservando da vicino la vita nell’ombra delle ‘tigri delle nevi’, cioè i rappresentanti dell’etnia himalayana al servizio delle cosiddette spedizioni commerciali.
Ora, però, dopo i tragici fatti della scorsa stagione premonsonica, alle riflessioni su guadagni e riconoscimenti si impone un altro tipo di interrogativo: è lecito esporre guide e portatori a condizioni di lavoro e a pericoli così estremi? Nella primavera del 2014, sul versante nepalese dell’Everest sono rimasti sepolti da una valanga 16 sherpa. Un computo di vittime in realtà non imprevedibile, che si inserisce in statistiche già molto eloquenti: uno sherpa al lavoro per attrezzare la via di salita agli alpinisti occidentali – con corde fisse e scale in metallo da posizionare tra seraccate instabili – ha 3,5 probabilità in più di morire rispetto a quanto aveva un soldato americano impegnato nella guerra in Iraq.
Il mestiere del climbing-sherpa è dunque il più pericoloso che si possa immaginare. Scariche di ghiaccio, crolli di ponti sospesi sui crepacci, edemi polmonari, infarti, congelamenti e sfinimenti sono i nemici di tutti gli himalaysti, ma lo sono soprattutto per gli sherpa che si schierano in prima linea ad attrezzare la salita dei danarosi clienti occidentali. Solo quando tutto è pronto, solo quando i campi avanzati sono sistemati, solo quando le corde fisse sono posate in sicurezza e i computer collegati via satellite con i centri di previsione meteo annunciano tempo stabile – solo allora – gli alpinisti delle spedizioni commerciali in cerca di gloria iniziano la salita. Sono circa 300 a stagione diretti all’Everest, tutti disposti a pagare parecchie decine di migliaia di dollari (fino a 100.000) per il servizio completo, dall’aeroporto alla cima. Una montagna di denaro che se ne va per lo più all’agenzia, e soltanto in minima parte arriva nelle case dei portatori (che tirano avanti con qualche decina di dollari al giorno).
Quella delle spedizioni commerciali sull’Everest è ormai una vera industria milionaria che durante l’anno ha 2 momenti caldi: la primavera e l’autunno, subito dopo e subito prima la stagione dei monsoni. È una marea di dollari che ha introdotto cambiamenti profondi e, va detto, anche benefici insperati per la popolazione sherpa insediata nel Khumbu.
Il Khumbu, regione nepalese dove non esistono strade e ogni cosa va portata sulle spalle, si trova ai confini con il Tibet ed è coronata dalle montagne più spettacolari della Terra (il 69% del territorio si trova sopra i 5000 metri). Qui, il primo bianco è giunto all’inizio degli anni Cinquanta, dopo il tramonto del British Raj e il conseguente riequilibrio geopolitico dell’area con l’apertura del Regno del Nepal agli occidentali. «Come fummo nel Khumbu», scrisse l’esploratore britannico Eric Shipton (1907-1977), tra i primissimi ad arrivare, «la nostra marcia cominciò ad assomigliare a un corteo trionfale. Mai avevo ricevuto un’accoglienza simile. In tutti i villaggi lungo la strada, uomini donne e bambini uscivano in massa a salutarci, invitandoci, e a volte addirittura trascinandoci di peso, nell’una o nell’altra abitazione per offrirci una tazza di chang».
A metà del Novecento, la popolazione sherpa salutava così l’arrivo di questi uomini nuovi, uomini dalla statura di giganti che li guardavano dietro occhi di vetro scuro. Due mondi si incontravano.
Il primo, quello degli sherpa, era arrivato nel Khumbu circa 450 anni prima dal grande Est, dal Tibet, quando ancora costituiva una minuscola comunità nomade (il significato letterale della parola sherpa è infatti «gente dell’Est», non «portatore», come invece oggi per antonomasia gli si attribuisce); il secondo, figlio della cultura espansionistica occidentale, era arrivato per piantare la Union Jack sulla cima della Terra (che venne raggiunta il 29 maggio del 1953).
Fu un incontro fatale, almeno per il primo mondo, che viveva di un’economia di sussistenza e si alimentava con latte di yak. Di lì a qualche anno nuove agenzie occidentali iniziarono a organizzare trekking attraverso il Khumbu, e, più avanti, le spedizioni commerciali avrebbero dato a ciclo continuo l’assalto al Sagarmatha (il toponimo nepalese dell’Everest).
Per gli sherpa l’arrivo degli occidentali ha portato un nuovo, se pur limitato, benessere: la speranza di vita si è allungata, la mortalità infantile è diminuita, la scolarizzazione si è diffusa. Ma oggi a farne le spese sono gli sherpa al servizio degli alpinisti. E a poco servono i corsi professionali organizzati dal Khumbu climbing center, fondato una decina di anni fa da occidentali. La retorica degli alpinisti recita che «oltre una certa quota siamo tutti uguali». Tutti, tranne gli sherpa del Khumbu.
Everest in numeri: dal 1921 al 2014
6871 Ascensioni in vetta
2829 Scalatori con più di una ascensione (la maggior parte sherpa)
248 Morti, di cui 87 sherpa
100.000 $ Costo massimo della scalata per il turista
Da 3000 a 6000 $ Guadagno di una stagione per uno sherpa
Dati aggiornati al febbraio 2014 dall’Himalayan Database
Apa Sherpa
Pseudonimo di Lhakpa Tenzing Sherpa, nato a Thame (Nepal) nel 1960, è l’uomo che ha raggiunto più volte la cima dell’Everest: con le sue 21 imprese ha guadagnato nel 2012 una citazione speciale nel Guinness dei primati. Dopo aver iniziato a 12 anni il mestiere di portatore, al seguito di una spedizione internazionale ha toccato il Tetto del mondo la prima volta il 10 maggio 1990, ripetendo l’impresa quasi ogni anno (nel 1992 per ben 2 volte) fino all’11 maggio 2011, sua ultima scalata. Dopo essersi trasferito con la famiglia a Salt Lake City, nello Utah (USA), ha creato una sua fondazione, incrementando il suo impegno tanto in favore dei bambini poveri nepalesi quanto nei confronti della causa ambientalista.
In coda verso la vetta
Soltanto nel corso del 2013 sono stati 658 gli scalatori a raggiungere la vetta dell’Everest, ovvero una cifra che corrisponde al totale di quanti riuscirono nell'impresa nell’arco di 40 anni, a partire dal 1953, data della prima ascesa, fino al 1994.
1953: la prima volta sull’Everest
La prima ascensione del monte Everest fu compiuta il 29 maggio 1953 dall’esploratore e alpinista neozelandese Edmund P. Hillary (1919-2008) accompagnato dallo sherpa Tenzing Norgay (1914-1986). Dopo aver scalato 11 vette sopra i 6000 metri, dal 1948 Hillary partecipò a diverse spedizioni sull’Himalaya, e quindi fu invitato a prendere parte alla fortunata spedizione britannica del 1953, guidata da John Hunt, conquistando la vetta dal versante tibetano proprio nei giorni in cui a Londra avvenivano le cerimonie di incoronazione della regina Elisabetta II, che lo avrebbe insignito di numerose onorificenze. Dopo aver continuato a scalare l’Himalaya fino al 1965, Hillary ha dedicato gran parte della sua vita ad aiutare il popolo nepalese degli sherpa tramite l’Himalayan Trust da lui fondato, riuscendo a costruire scuole e ospedali e l’American Himalayan foundation, di cui era presidente, l’associazione non-profit che cerca di migliorare l'equilibrio ecologico e le condizioni di vita dei popoli himalayani.