UNIVERSALI, Questione degli
La questione intorno al valore conoscitivo degli universali, dibattuta nella scolastica dal sec. IX in poi ed entrata nella fase acuta alla fine del sec. XI e nella prima metà del XII, sorse dalla lettura, che si faceva nelle scuole di dialettica, del libretto De quinque vocibus o Isagoge di Porfirio alle Categorie d'Aristotele. Le "cinque voci" sono i cosiddetti praedicabilia, cioè il genere, la specie, la differenza specifica, il proprio, l'accidente.
In principio del suo trattatello, Porfirio aveva dichiarato di voler lasciare insoluto il problema, se "i generi e le specie" che si predicano di molti individui, siano realtà sussistenti oppure soltanto concetti della mente, e, nel primo caso, se siano realtà corporali o spirituali, e infine se siano o no separati dalle cose sensibili. Il libretto di Porfirio era stato tradotto in latino da Mario Vittorino e da Boezio, e da questo commentato ben due volte. Boezio appunto aveva segnalato l'importanza e la difficoltà del problema, e, specialmente nel secondo commento, aveva esposto la soluzione che n'aveva dato Aristotele: i generi e le specie sono effettivamente negl'individui sensibili, ma grazie al potere d'astrazione, che è proprio della mente, "intelliguntur praeter sensibilia"; e perciò essi "sunt quidem in singularibus, cogitantur vero universalia; nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali similitudine". Ma Boezio informava altresì: "Sed Plato genera et species ceteraque non modo intelligi universalia, verum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat"; e dichiarava d'avere esposta la soluzione aristotelica del problema, solo perché l'opera presa a commentare era un'introduzione alle Categorie d'Aristotele, non perché egli l'approvasse a preferenza di quella platonica, "non quod eam maxime probaremus". Perciò il problema in sé stesso lasciava adito a nuove discussioni che, prima o poi, si sarebbero dovute riaccendere. Ed era lo stesso problema posto in principio del Parmenide platonico (capitoli V e VI, 131 segg.); sì che le dispute del Medioevo intorno agli universali si possono considerare una tarda eco delle discussioni intorno al rapporto da stabilire fra l'idea platonica e la realtà sensibile.
E difatti la più antica soluzione del problema, tra gli scolastici, è appunto quella realistica, la quale attribuisce all'idea un'esistenza oggettiva, indipendente dalla mente umana. Essa deriva direttamente dall'influenza che il pensiero platonico esercitò su tutto il Medioevo (v. platone: Il platonismo nel medioevo e nell'età moderna). Ma del realismo si conoscono due forme: l'una poneva il mondo platonico delle idee in Dio, e si contentava d'affermare l'esistenza di una verità trascendente, della quale la mente umana è partecipe per illuminazione diretta (agostinianismo) o indiretta (tomismo); l'altra poneva gli universali in quanto tali nelle cose singole. Quest'ultima forma di realismo è quella che i neoplatonici avevano tratto dal Parmenide: l'idea è trascendente (χωριστόν) e immanente insieme (ἐνοῦσα). Realtà spirituale e intelligibile, vivente in sé, fuori dello spazio e del tempo, l'idea, come la luce del sole, ha la proprietà di diffondersi e di comunicarsi alle cose particolari che sono in essa, senza perdere la sua unità extraspaziale ed extratemporale. In tal modo, il neoplatonismo aveva finito con l'attribuire realtà metafisica a tutti i gradi dell'astrazione logica. Di questa forma di realismo neoplatonico, panteistico o no, sono documento, fra i latini, il De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena, fra gli arabi il libro Delle cinque sostanze dello pseudo Empedocle, la cosiddetta Teologia d'Aristotele e il Liber de causis, fra gli ebrei il Fons vitae di Salomon ben Gebirol, detto comunemente Avicebron.
Ma Erico o Enrico d'Auxerre, posteriore forse d'una generazione all'Eriugena, attribuiva agli universali un valore puramente mnemonico o, come si suole dire oggi, economico: essi servono a farci abbracciare e ricordare, con un sol nome e con un solo atto della mente, gl'innumerevoli nomi che spettano alle cose particolari. Invece il suo discepolo Remigio d'Auxerre mostra d'aver subito l'influsso del realismo dell'Eriugena. E fin che la quistione rimaneva nell'ambito delle scuole di dialettica, non era tale da scaldare soverchiamente gli animi. Ma la dialettica non era studiata per sé stessa, sibbene come preparazione allo studio della teologia; e la disputa sorta fra i glossatori dell'Isagoge porfiriana, interessò ben presto i teologi, per l'uso che si faceva in essa dei termini di sostanza e natura. Già è stato notato che il problema degli universali era più volte affiorato nel corso delle controversie trinitarie. E fu appunto sulla fine del sec. XI che un tal maestro Odone o Odoardo, scholasticus della cattedrale di Tournai e poi vescovo di Cambrai, si servì della dottrina realista per spiegare come il peccato d'Adamo, infettando tutta la natura umana, s'è propagato ai suoi discendenti (Migne, Patr. Lat., vol. 160, col. 1079). Lo stesso Odone insegnava (ibid., col. 1090) che ogni individuo che viene alla luce non è una nuova sostanza, ma un nuovo modo d'essere della sostanza delle specie: "non nova substantia, sed nova... proprietas". A quest'insegnamento s'oppose Raimberto, "qui eodem tempore in oppido Insulensi dialecticam clericis suis in voce legebat (Mon. Germ. Hist., Script., XIV, pp. 274-75). Sapeva Raimberto di quel tal Giovanni che si vuol maestro di Roscellino, e aveva egli avuto notizia della grave controversia suscitata dalla dottrina di Roscellino stesso? Certo è che anche il nominalismo di quest'ultimo, come un tempo il nominalismo attribuito a Giovanni Filopono, mise in apprensione i teologi, perché pareva sboccare nel triteismo (v. roscellino). E S. Anselmo (De fide trin., c. 2) denunciava quei dialettici "immo dialectices haeretici, qui non nisi flatum vocis putant esse universales substantias". E aggiungeva: "Qui enim nondum intelligit quomodo plures homines in specie sint unus homo, qualiter in illa secretissima et altissima natura comprehendet quomodo plures personae, quarum singula quaeque est perfectus Deus, sint unus Deus?". Col qual modo d'argomentare il vescovo di Canterbury correva il rischio d'andare ben oltre il suo realismo agostiniano, e di mettersi sulla via del realismo neoplatonico, come aveva pure accennato a fare con le prove dell'esistenza di Dio, nei primi capitoli del suo Monologium. Ma egli non approfondì questo motivo, sicché il vero antagonista di Roscellino fu Guglielmo di Champeaux (v.).
Questi, nella prima fase del suo insegnamento, a quanto riferisce Abelardo, riteneva che una stessa sostanza fosse essentialiter inerente ai singoli, e che questi differissero tra loro "sola multitudine accidentium" (Abelardo, Hist. cal., c. 2), ossia "formarum tantum diversitate" (Beitr. Gesch. Philos. Mitt., XXI, p. 10); le quali espressioni obbligano a pensare a quel luogo del De divisione naturae dell'Eriugena (Migne, Patr. Lat., vol. 122), dov'è detto appunto che le cose del mondo sensibile procedono dalle cause primordiali e dalle sostanze eterne "per compactas in materiam qualitates, addita forma".
Se dobbiamo credere ad Abelardo, pare che, costretto dalle obiezioni di lui, Guglielmo s'inducesse a correggere la dottrina dell'identità essenziale del genere e della specie, sostituendo ad essa un'identità concettuale fondata sull'indifferenza (cioè sulla mancanza di differenza specifica) o somiglianza dei caratteri comuni agl'individui della stessa specie mentre altri chiamavano il genere e la specie semplici status, che non sono altro che momenti logici. Nemmeno così corretto e attenuato il realismo dello Champeaux piacque ad Abelardo. Questi dapprima riteneva l'universale non semplice vox, ma sermo, cioè vox significativa di concetti della mente ottenuti per via d'astrazione. Più tardi, per altro, non si mostrò alieno dall'accogliere egli stesso, con qualche lieve modificazione la teoria dell'indifferentia e degli status. A tale dottrina è strettamente affine, se non identica, quella attribuita a Gosleno di Soissons (cfr. Giov. di Salisbury, Metal., II, 17) e professata anche da Gilberto della Porrée, secondo la quale l'universale è concepito come una collectio d'individui aventi un'essenza consimile. Un anonimo sostenitore di questa dottrina (Cousin, Ouvr. inéd. d'Abel., Parigi 1836, p. 525) si richiama espressamente al passo sopra citato di Boezio. E in verità, in tutti questi ultimi tentativi di soluzione del delicato problema, s'avverte lo sforzo per arrivare a comprendere la dottrina aristotelica prospettata da Boezio. Abelardo, senza dubbio, s'è avvicinato più d'ogni altro al segno. Ma intendere appieno il pensiero d'Aristotele, non era facile, prima che fossero tradotti in latino la Metafisica e i libri De anima. Sennonché, mentre la soluzione aristotelica del problema s'apriva faticosamente la strada, un certo tendenziale realismo neoplatonico continuò a persistere qua e là, sia negli scritti d'alcuni maestri della scuola di Chartres, sia in quelli di Domenico Gundisalvi, propagato dall'opera maggiore dell'Eriugena, o dalle recenti traduzioni del Fons vitae di Avicebron e del Liber de causis; anzi, con Amalrico di Benes e con David da Dinant, sboccò nel più schietto panteismo.
Ma come furono tradotti in latino le opere dello Stagirita e il "gran commento" averroistico, la dottrina aristotelica, intraveduta attraverso la succinta esposizione di Boezio, trovava in quelle e in questo la sua piena giustificazione gnoseologica. Averroè diceva (Metaph., XII, comm. 4): Universalia... sunt collecta ex particularibus in intellectu, qui accipit inter ea similitudinem et facit unam intentionem". E a proposito del detto del De anima, I, t. c. 8 (c.1, 402 b. 7): "Vivum autem universale aut nihil est aut postremum", osserva che Aristotele "non opinatur quod definitiones generum et specierum sint definitiones rerum universalium existentium extra animam; sed sunt definitiones rerum particularium extra intellectum; sed intellectus est, qui facit in eius universalitatem". In questa teoria, che fu intesa ora come concettualismo cum fundamento in re, ora come moderato realismo, si può dire che s'acquetassero in generale tutti i grandi scolastici del sec. XIII: l'universale propriamente è un concetto ricavato per via d'astrazione dai particolari; ma esso esprime la reale somiglianza che esiste fra gl'individui della stessa specie e fra le specie d'uno stesso genere. Per questo Aristotele insegna (Metaph., VII, t. c. 44 [c. 13, 1038 b 11]); "Dicitur universale quod pluribus natura aptum est inesse v. Ed anche (ibid., t. c. 57 [c. 16, 1040 b 25]): "Commune simul in pluribus est". La dottrina aristotelico-averroistica trovò il suo maggiore illustratore in Tommaso d'Aquino, per il quale (De ente et essentia, cap. 1 e 2) "unitas generis ex ipsa indeterminatione vel indifferentia procedit".
L'accettazione peraltro di questa soluzione non impedì agli scolastici di continuare ad accogliere anche la dottrina platonico-agostiniana delle idee esistenti nella mente divina e delle rationes aeternae come fondamento dell'oggettività del pensiero umano; onde fu distinto un triplice universale: ante rem (l'esemplare eterno), in re (la forma o essenza immanente alle cose), post rem (il concetto umano). E l'anonimo discepolo di Roberto Grossatesta, che intorno al 1270 scrisse la Summa philosophiae pubblicata dal Baur (Beitr. Gesch. Philos. Mitt., IX), non solo fa un'ampia difesa della teoria platonica delle idee contro le critiche aristoteliche (ibid., pp. 347-361), ma si spinge assai più in là, sostenendo che i generi e le specie "veras aliquas naturas dicunt et non solas intentiones logicales"; ché anzi sono veramente "formae communes multis in actu incompleto... respectu completionis in actu individuali" (ibid., p. 351). Solo la "specie" o "forma specialissima" dà a ciascuna cosa il suo essere completo e particolare (ibid., p. 332 segg.). Perciò, come intentio logica, l'universale in atto, cioè in quanto universale, è soltanto nell'intelletto; ma in quanto indica una forma naturale, esso è in potenza nelle cose (ibid., pp. 334-39). A questo modo di vedere si riferisce espressamente Giovanni di Jandun (In I de anima, qq. 8 e 9; In VII Phys., 9-8), che a principio del sec. XIV sosteneva la tesi della pluralità delle forme nell'individuo, attestando così la stretta connessione di questa tesi con la dottrina realistica. E dallo sforzo compiuto dall'autore della Summa philosophiae per assicurare un fondamento oggettivo all'universale, "cuius esse, circumscripto omni intellectu, apud naturam necessario esset" (ibid., p. 334), deriva altresì la tesi delle realitates o formalitates che fu sostenuta da Giovanni Duns Scoto, e che sì aspre polemiche suscitò fra tomisti e scotisti nella decadenza della scolastica.
Contro il realismo formalistico della scuola scotista reagì energicamente il nominalismo terministico di Guglielmo d'Occam, che aveva avuto un precursore in Pietro Aureolo. L'universale dell'Occam è un termine (terminus), cioè un nome che sta a significare un concetto (intentio) della mente, e che ha valore rappresentativo (suppositio) d'un gruppo d'individui dei quali si predica, così come avea insegnato Pietro Ispano (Summulae log., tr. VII). Sviluppando poi il concetto scotistico che l'individuo è direttamente e per sé stesso oggetto di conoscenza intellettuale, l'Occam, senza disconoscere il valore economico della conoscenza astrattiva, contrappone a questa la conoscenza intuitiva del singolo, che sarà il punto di partenza della nuova logica dell'esperienza. Questa appunto è l'importanza e la funzione storica dell'occamismo, d'avere cioè contribuito a sgombrare il campo dell'indagine scientifica dalla ricerca d'astratte essenze (chi non ricorda la virtus dormitiva dell'oppio beffeggiata dal Molière?) e d'avere portato in prima linea l'osservazione dei fenomeni nella loro individuale determinatezza di fatti contingenti.
Una vivace critica del realismo e del formalismo fece pure, nel sec. XVI, nel De veris principiis et vera ratione philosophandi, Mario Nizolio, il quale fu pure un occamista a modo suo, e, non contento d'inveire contro gli aristotelici del suo tempo, si spinse fino a dichiarare lo stesso Aristotele "omnium malorum causa et origo".
Da questo momento fino ai nostri giorni si continuerà pure a discutere intorno al valore di concetti universali, e si parlerà di nominalismo, per caratterizzare talune dottrine moderne, come per es. quelle del Hume, del Condillac, dello Stuart Mill, del Taine, ecc., di concettualismo a proposito delle categorie kantiane, di realismo platonico reincarnatosi nell'ontologismo del Malebranche e del Gioberti; ma la posizione del problema non è più quella medievale. Ché il valore degli universali è ormai indissolubilmente legato alle varie soluzioni del problema della conoscenza; e nominalismo, realismo, concettualismo sembrano dottrine ormai superate, sebbene ciascuna di esse rifletta aspetti e momenti diversi del pensiero, ora tutto rivolto al particolare, ora inteso a ordinare l'infinita varietà delle percezioni per mezzo di schemi astratti, ora sospinto a intendere il particolare nel sistema delle sue relazioni, delle quali è centro l'autocoscienza.
Bibl.: V. Cousin, Ouvrages inédits d'Abélard, Parigi 1836; Prantl, Gesch. d. Logik i. Abendl., II, III e IV; M. De Wulf, Le probl. des univesraux dans son évolution historique du IXme-XIIIme siècle, in Archiv für Gesch. d. Philos., IX, p. 427 segg.; cfr. dello stesso De Wulf, Hist. d. la Philos. med., nelle sue diverse edizioni, a proposito degli argomenti toccati qui sopra, e Hist. de la Philos. en Belgique, Bruxelles-Parigi 1910, p. 24 segg.; Reiners, Der arist. Realismus in der Frühscholastik, Bonn 1907, e Der Nominalismus in der Frühscholastik, in Beitr. Gesch. Philos. Mitt., VIII, p. 5. Sulle diverse correnti del suo tempo dà importanti informazioni Abelardo negli scritti dialettici pubblicati dal Geyer negli stessi Beiträge, XXI. Per una più completa bibliografia, si veda Ueberweg-Geyer, Die patr. u. schol. Philos, Berlino 1928, ai §* 19-24, e ai §* 46, 48-50; A. Masnovo, Da Gugl. d'Auvergne a S. Tomaso d'Aq., I, Milano 1930, cap. 5°.