MEZZOGIORNO, Questione del (XXIII, p. 149)
Premessa. - Dimenticata e negata nel ventennio fascista, la questione meridionale è tornata a porsi fin dall'immediato dopoguerra come questione fondamentale del paese. L'analisi dei vecchi "meridionalisti" (G. Fortunato, L. Franchetti, S. Sonnino, F. S. Nitti, A. De Viti De Marco, G. Salvemini, G. Dorso) fu rivalutata e ripresa, ma l'impostazione ne risultò subito notevolmente diversa. I meridionalisti avevano dato della questione un'impostazione sostanzialmente liberistica. La loro analisi aveva messo in luce come ragioni fondamentali dell'inferiorità del Mezzogiorno la povertà delle risorse naturali, il carattere prevalentemente agricolo dell'economia, la malaria, l'eccesso della popolazione; e aveva, d'altro lato, particolarmente sottolineato gli effetti dannosi della politica dello stato dopo l'unità: il protezionismo industriale, la sperequazione tributaria, lo scarso sviluppo dei servizî civili e delle opere pubbliche, la politica di avventure coloniali con il conseguente eccessivo peso delle spese milïtari. Implicito nel loro pensiero era stato, cionondimeno, il convincimento che il libero gioco delle forze economiche e sociali, aiutato da una politica di raccoglimento e di pace oltre che di liberismo economico, sarebbe stato in grado di ridurre gradualmente il distacco tra le "due Italie" e di avviare anche nel Mezzogiorno un più equilibrato sviluppo economico e civile.
Ciò non avvenne. Le due guerre mondiali, con la conseguente chiusura delle frontiere alle merci e agli uomini, con l'esasperato protezionismo industriale, con l'accumulo in patria delle eccedenze demografiche, confermando la validità delle analisi dei meridionalisti, aggravarono la situazione nel Mezzogiorno e il distacco dal resto del paese.
Quando la questione meridionale poté di nuovo essere liberamente esaminata e studiata, si vide, tuttavia, che l'inferiorità del Mezzogiorno in termini di sviluppo economico e civile non era solo il risultato di una dannosa politica passata e di un'avversa situazione interna e internazionale, bensì anche il portato d'una serie di difetti strutturali dell'economia e della società meridionale. La nuova diagnosi si è, così, gradualmente avvicinata a quella che contemporaneamente maturava nei riguardi degli altri paesi sottosviluppati del mondo.
Le ragioni di questa graduale evoluzione della questione meridionale risultano evidenti se, dopo aver riassunto i dati della più recente analisi strutturale, si esaminano i termini e i risultati della politica iniziata nel 1950 e le più recenti vicende e prospettive dello sviluppo economico e civile nel Mezzogiorno.
Struttura economica e sociale. - Il dato comunemente assunto per misurare sinteticamente la depressione del Mezzogiorno è il reddito netto pro-capite. Per il 1951 - quando la ricostruzione post-bellica poteva considerarsi ultimata e la nuova politica di sviluppo appena avviata - esso era valutato in 110.000 lire, pari al 47,7% di quello corrispondente per il Centro-Nord. All'origine di tale dislivello stavano e stanno: 1) il diverso peso e carattere delle attività industriali e terziarie; 2) la minore produttività, il più lento progresso e altre caratteristiche dell'agricoltura; 3) l'eccesso di popolazione e la conseguente disoccupazione e sottoccupazione.
Sempre con riferimento al 1951, il Mezzogiorno - che pur rappresentava il 37% della popolazione italiana - contava appena il 17% degli addetti alle industrie e il 25% degli addetti alle attività terziarie. Più grave, ancora, appariva lo squilibrio in termini di reddito, spettando al Sud meno del 15% del prodotto netto dell'industria e meno del 23% di quello delle attività terziarie.
Solo una piccola parte delle industrie meridionali (26% per numero di addetti rispetto al 63% nel Centro-Nord) era, infatti, rappresentata dalle tipiche industrie manifatturiere moderne (tessili, meccaniche, chimiche e affini) e solo una piccola parte (21% per numero di addetti rispetto al 54% nel Centro-Nord) da stabilimenti con più di 100 addetti. Analogamente per le attività terziarie e in particolare per quelle commerciali i segni del mancato sviluppo si riscontravano nella povertà dei mercati all'ingrosso, nella prevalenza del commercio degli alimentari, nel minimo numero di addetti per esercizio e così via.
Le debolezze dell'agricoltura - ossia dell'attività economica prevalente - apparivano altrettanto evidenti. Pur disponendo del 42% della superficie utile dell'intero paese, il Mezzogiorno partecipava con il 30% alla produzione agricola, il cui valore risultava per ettaro pari al 50% e per addetto agricolo al 70% di quello medio del Centro-Nord.
L'agricoltura meridionale risulta dalla coesistenza di due realtà molto diverse: quella estensiva (nell'interno montano e collinare ove i terreni sono più poveri e il clima più difficile), basata prevalentemente sulla coltura dei cereali, e quella intensiva (lungo le coste e sulle terre migliori), basata in massima parte sulle colture ortof utticole o viti-olivicole. La prima, che interessa i tre quarti della superficie e una metà della popolazione agricola, contribuisce con poco più di un terzo alla produzione agricola e presenta, quindi, gli aspetti più gravi della miseria contadina; la seconda - pur essendo ovviamente molto meno povera - presenta tali variazioni di produzione, di prezzi e di impieghi di manodopera da dar luogo ad un'organizzazione della produzione e dei mercati e a una distribuzione dei redditi particolarmente instabili e sperequate.
Comuni ad entrambe le realtà risultano, poi, alcuni difetti del regime fondiario e dei rapporti di classe, le conseguenze della sovrappopolazione e la relativa lentezza del più recente sviluppo.
Quando nel 1947 si addivenne al primo sistematico rilevamento della dìstribuzione della proprietà fondiaria e dei tipi d'impresa, la superficie coltivata del Mezzogiorno risultò ancora così suddivisa: imprese capitalistiche a salariati 12%; imprese familiari di coltivatori non proprietarî 49% (delle quali oltre la metà rette dal contratto di affitto); imprese familiari di coltivatori proprietarî 39%. Malgrado la lunga evoluzione, che aveva notevolmente aumentato il peso della proprietà coltivatrice, l'agricoltura meridionale risultava, pertanto, ancora dominata da una borghesia terriera assenteista e redditiera e da imprese coltivatrici instabili ed economicamente deboli. Essa era, inoltre, caratterizzata da una generale eccessiva frammentazione della proprietà in contrasto con alcuni localizzati ma considerevoli fenomeni di latifondismo. Tale struttura - favorevole forse nel secolo scorso allo sviluppo agricolo, che le debolissime classi contadine non avrebbero potuto da sole realizzare - ha costituito e costituisce oggi ostacolo al progresso, rendendo più difficili la formazione e l'investimento dei capitali, il miglioramento tecnologico nonché l'instaurazione nelle imprese e sui mercati di rapporti corrispondenti alle necessità di una più efficiente agricoltura.
Il continuo aumento della popolazione, producendosi prevalentemente in seno alle classi agricole, ne ha aggravato la depressione. Nello spazio di un secolo la popolazione nel Mezzogiorno si è all'incirca raddoppiata, malgrado che l'emigrazione abbia portato fuori dei suoi confini circa cinque milioni di persone. A questa crescente pressione demografica l'agricoltura ha risposto mettendo a coltura più terre e aumentando la produzione; tuttavia per far questo è stata costretta a ridurre le dimensioni delle imprese, a limitare la sostituzione del lavoro umano coi mezzi tecnici, a spingere i contadini sino ai più bassi impieghi marginali della loro forza di lavoro. La disoccupazione cronica palese o nascosta (in aggiunta a quella stagionale propria di un'agricoltura ad ordinamenti produttivi specializzati) ha costituito, pertanto, uno dei fenomeni centrali della società meridionale, già gravata dal peso di una popolazione giovanile inattiva più numerosa che nel Centro-Nord (la popolazione in età inferiore ai 19 anni rappresenta, infatti, nel Sud il 40,5% della popolazione totale, di contro al 31,3% nel Centro-Nord).
Per effetto della congiunta azione di questi fattori strutturali e di una prolungata politica economica sfavorevole alle sue tipiche produzioni, l'agricoltura meridionale ha ristagnato negli ultimi decennî, mentre quella del Centro-Nord continuava a progredire. Fatta uguale a 100 la produzione agraria lorda nel periodo 1911-14, essa è risultata, infatti, (rispettivamente per il 1922-25,1936-39 e 1950-53) pari a 106,122 e 138 nel Centro-Nord e a 104, 103, 113 nel Sud.
Caratteri e deficienze della vita civile. - I caratteri e i difetti della società meridionale e della sua vita civile risultano meglio comprensibili dopo questa analisi della sua struttura economica. Con riferimento alla società meridionale, Antonio Gramsci ha parlato di "una grande disgregazione sociale". Il termine ben si adatta a descrivere, da un lato, la struttura di quella società, dall'altro, i caratteri salienti della vita associata.
Malgrado la più complessa recente evoluzione, la società meridionale ha conservato sino a pochi anni or sono pressoché intatta la struttura d'una società dominata dal contrasto tra la borghesia terriera e la massa dei contadini con poca o senza terra. Sia l'una sia l'altra di queste due grandi categorie sociali è rimasta priva di quella compattezza e unità d'interessi che sono stati altrove all'origine dei processi di organizzazione sociale, civile e politica. La borghesia terriera, resa incoerente dal frazionamento della proprietà e dal crescente suo carattere di proprietà redditiera, ha cercato compenso al suo indebolimento nel pubblico impiego e nelle libere professioni. Ciò ha portato, da un lato, all'emigrazione verso Roma e il Nord dei più abili e qualificati e, dall'altro, all'esasperazione della concorrenza e dei contrasti interni nella conquista dei posti e nel gioco della politica locale. I contadini, a loro volta - per l'instabilità generale della loro posizione e per la possibilità sempre aperta di mutare sia pur di poco la loro sorte a spese degli altri - hanno accentuato il loro carattere individualistico, solo eccezionalmente accettando di battere le vie della cooperazione e della lotta in comune.
La vita associata porta i segni di questa disgregazione. L'individualismo esasperato ha dominato, infatti, tutti i rapporti. I conflitti sociali solo eccezionalmente sono stati mediati e hanno sboccato in un rafforzamento delle organizzazioni. Le istituzioni proprie di una società moderna - i cosiddetti "corpi intermedî" - o non esistono o hanno avuto e hanno vita grama. La partecipazione nell'amministrazione della cosa pubblica è stata ed è povera, saltuaria, circondata dalla diffidenza e dalla maldicenza.
Tale "disgregazione" - appesantendo la pubblica amministrazione, riducendo l'efficienza dei servizî civili, rendendo più difficile la vita di relazione - ha costituito, a sua volta, un nuovo fattore di aggravamento della depressione economica. Essa, infatti, ha reso più difficili le iniziative economiche, scoraggiato lo spirito d'intrapresa, ridotto l'efficienza di quelle che gli economici chiamano le "economie esterne", ostacolato in una certa misura lo stesso allargamento e una moderna organizzazione dei mercati.
Essa, d'altra parte, ha fatto perdere gran parte dell'efficacia rinnovatrice all'istruzione pubblica e alle istituzioni democratiche.
Il problema scolastico del Mezzogiorno è rimasto grave attraverso i decennî, sia per la deficienza degli sforzi ad esso dedicati dallo stato, non sorretto dall'iniziativa privata, sia per le resistenze che una società agricola primitiva sempre oppone alla diffusione dell'istruzione. La persistente penuria di edifici e di aule, il sovraffollamento di queste, le alte aliquote di analfabetismo (sia primario che "di ritorno") e di regressione scolastica ne sono testimonianza. L'aspetto più grave della situazione, tuttavia, è rappresentato dalla povertà intrinseca della vita della scuola, che ha trovato scarsa rispondenza in altre istituzioni e nella vita civile, e dall'insoddisfacente rapporto tra l'istruzione elementare e la secondaria e superiore, le quali, anziché prolungamento e integrazione della prima, sono rimaste per così dire isolate, dominate dai peggiori difetti della tradizione classica e dalla tendenza al formalismo e alla semplice ricerca del titolo.
Per quanto riguarda le istituzioni liberali e democratiche, nella vecchia letteratura meridionalista prima del fascismo insistente era stata la denuncia della loro debolezza e povertà. Analogo motivo è ritornato nelle valutazioni dell'ultimo quindicennio. Si sono, così, messi di nuovo in risalto la scarsa partecipazione alla cosa pubblica, il trasformismo politico della classe dirigente, il clientelismo e la piccola corruzione nell'amministrazione locale, l'eccessiva interferenza del potere centrale e dei prefetti, la mancanza di autonome istituzioni e così via.
L'evolazione nel dopoguerra e la politica del 1950. - La coraggiosa analisi delle deficienze economiche e civili del Mezzogiorno - i cui termini sono stati ora sinteticamente esposti - ha rappresentato forse la conquista più preziosa dell'ultimo quindicennio. A differenza di quella dei vecchi meridionalisti - respinta dal paese ufficiale e rimasta patrimonio esclusivo di una minoranza colta - quest'analisi è ormai da tutti accettata e riconosciuta come premessa a qualsiasi azione di rinnovamento. Essa, tuttavia, è valida con riferimento più al passato che al presente. Non tiene conto, infatti, né dei mutamenti recenti della società meridionale né degli effetti della politica d'intervento iniziata con il 1950.
La guerra, la caduta del fascismo, l'inflazione, la ripresa dei liberi movimenti sociali e politici, e ancor più il recente sviluppo economico hanno profondamente cambiato i rapporti interni e i modi d'essere della società meridionale. L'immobilismo che ne aveva caratterizzato le manifestazioni passate è scomparso e la situazione è oggi dominata da una mobilità sociale particolarmente intensa. Trattandosi, tuttavia, di fenomeni tuttora in corso, solo nel prossimo decennio se ne potranno avere e riconoscere gli effetti che per ora restano incerti e confusi con quelli delle passate situazioni.
La politica iniziata nel 1950 si presta, invece, già ad una valutazione critica abbastanza sicura. Le prime manifestazioni di una nuova politica per il Mezzogiorno si sono avute negli anni della ricostruzione post-bellica, del Piano Marschall, delle più intense agitazioni contadine. Al 1950, tuttavia, risale l'inizio di un'organica politica per il Mezzogiorno, intesa come politica di sviluppo economico. Tale politica risultò dall'applicazione convergente di tre ordini di provvedimenti: la liberalizzazione del commercio estero; l'istituzione della Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia Meridionale (Cassa per il Mezzogiorno); l'emanazione dei provvedimenti di riforma fondiaria (legge Sila del maggio e legge stralcio dell'ottobre 1950).
Riprendendo i motivi dei vecchi meridionalisti (che questa volta coincidevano con gli interessi di una parte almeno dell'industria settentrionale), il governo fin dal 1948 ha perseguito una politica di scambî con l'estero improntata a una maggiore libertà commerciale, applicando prontamente gli accordi OECE per la graduale abolizione delle restrizioni quantitative, adottando quote di liberalizzazione superiori a quelle degli altri paesi, aderendo a ogni iniziativa diretta a rendere più liberi gli scambî internazionali e facendosi, da ultimo, promotore del Mercato Comune Europeo. Sebbene tale politica non possa essere esclusivamente interpretata in termini meridionalistici, è certo che essa ha corrisposto agli interessi permanenti del Mezzogiorno.
Con la creazione della Cassa per il Mezzogiorno (legge 10 agosto 1950, n. 646) sono stati destinati ad opere esclusivamente localizzate nel Mezzogiorno considerevoli fondi (v. cassa per il mezzogiorno, in questa App.). Oltre che per l'imponenza dei fondi a disposizione, la Cassa ha rappresentato l'inizio di una politica nuova anche per l'organizzazione e i criterî di spesa. I fondi sono stati, infatti, considerati aggiuntivi rispetto alla spesa ordinaria nel Sud delle singole amministrazioni (criterio in realtà solo in parte applicato); la loro amministrazione è stata affidata a un ente unitario a carattere territoriale, in deroga al tradizionale criterio di ripartizione delle competenze fra le singole amministrazioni; la loro erogazione, infine, per la prima volta è stata fatta in base a programmi pluriannuali delle opere e degli interventi.
La Cassa con la sua politica ha fino ad oggi contemporaneamente perseguito tre obiettivi: il potenziamento dell'agricoltura; la creazione di un complesso d'infrastrutture come premessa all'industrializzazione; e il diretto e indiretto incoraggiamento dell'industrializzazione stessa. I primi due obiettivi hanno costituito l'essenza dell'azione dei primi anni; il terzo è al centro dell'azione più recente.
Oltre la metà dei fondi della Cassa sono stati destinati ad opere direttamente interessanti l'agricoltura, la quale è stata anche la indiretta beneficiaria di altre opere pubbliche (strade, acquedotti). Oltre alle sistemazioni montane e alla riforma fondiaria il programma ha principalmente interessato le bonifiche e le irrigazioni. La concentrazione della spesa nei comprensorî di pianura, ex-malarici, suscettibili di trasformazione irrigua ha assicurato all'agricoltura meridionale una delle maggiori possibilità di sviluppo. La superficie sulla quale l'irrigazione sarà resa possibile dalle opere avviate è di oltre 400.000 ettari, di contro ai meno di 300.000 ettari irrigui anteriormente esistenti.
L'importante complesso di opere, iniziato dopo il 1950, è attualmente a buon punto per quanto riguarda l'esecuzione delle opere pubbliche, sebbene sia lenta la trasformazione agraria da parte dei privati e lontana appaia ancora una piena e razionale utilizzazione dell'acqua d'irrigazione.
Sebbene la riforma agraria (v. agraria, riforma, in questa App.) non abbia avuto esclusiva applicazione nel Mezzogiorno, le due leggi del 1950 (legge Sila e legge stralcio) sono state emesse con principale riferimento alle condizioni quivi esistenti. Degli 800 mila ettari circa espropriati o altrimenti acquisiti grazie a quelle leggi, i due terzi circa (ossia oltre 500 mila ettari) ricadono nelle regioni meridionali e nelle isole. Dei 600 miliardi di lire circa destinati alla riforma oltre il 60% è stato assegnato agli enti operanti nel Sud e in massima parte incluso nel bilancio della Cassa per il Mezzogiorno.
Come è noto, la riforma non si è limitata a espropriare e ridistribuire nelle zone estensivamente coltivate le terre ricadenti nelle maggiori proprietà, ma - attuata da speciali enti - ha curato anche l'insediamento dei nuovi piccoli proprietarî, aiutandoli nella trasformazione degli ordinamenti produttivi, nell'acquisto dei capitali di esercizio, nell'insediamento in nuove case in campagna, nell'avvio delle organizzazioni cooperative, oltre che con il procurar loro servizî civili e assistenza tecnica.
Malgrado questa razionale impostazione, alla riforma non sono mancate le critiche. I settantamila assegnatarî del Sud sono apparsi ben poca cosa rispetto alle 600 mila famiglie bisognose delle zone estensive meridionali. Il peso della riforma è apparso anche minore tenendo conto del fatto che appena per una metà gli assegnatarî hanno avuto terra sufficiente ad una modesta azienda familiare e meno di 20 mila hanno avuto una casa in campagna. I dubbî sono apparsi particolarmente gravi per le zone nelle quali la natura dei terreni e del clima non consente ordinamenti produttivi molto diversi da quelli passati o per quelle ove gli enti sono stati costretti ad assegnare quote troppo piccole. L'alto costo della riforma ha fatto apparire ad alcuni particolarmente gravi questi difetti.
Pur essendo valide queste osservazioni, la riforma è apparsa, tuttavia, ai più sostanzialmente benefica non solo per i positivi risultati sulla produzione e sul reddito conseguiti su di una notevole parte dei terreni espropriati, ma ancor più per i generali effetti da essa esercitati sul regime fondiario nel Mezzogiorno. Le posizioni monopolistiche (anche politiche) della grande proprietà sono state liquidate; alcune situazioni sociali particolarmente retrive e immobili sono state eliminate; e infine, per effetto indiretto di quelle leggi, si è formata molta più proprietà coltivatrice di quanta le sole assegnazioni non indichino e si è di conseguenza accelerato l'intero processo di trasformazione dell'agricoltura meridionale.
I problemi dell'industrializzazione e le attuali prospettive. - L'istituzione della Cassa e la politica del 1950 portano i segni della congiuntura economica del momento, quando - completata la ricostruzione - la prospettiva era quella di un moderato sviluppo economico e di una lunga persistenza della disoccupazione (fenomeno così grave in quegli anni da formare oggetto di un'apposita inchiesta parlamentare). In queste condizioni apparìva evidente la necessità di stimolare, da un lato, lo sviluppo economico con un programma di pubblici investimenti e di trattenere, dall'altro, nelle campagne la più alta aliquota possibile di forze di lavoro, mentre un reale sviluppo industriale appariva prematuro.
La congiuntura economica e la rimeditazione dei problemi mutarono, tuttavia, così rapidamente le prospettive che alla fine del 1954 - nello "Schema di sviluppo dell'occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64", il cosiddetto "Piano Vanoni", - si poteva proporre per il Mezzogiorno una politica notevolmente diversa da quella sopra descritta. Pur continuando, infatti, a prevedere considerevoli investimenti in agricoltura, il "Piano" non faceva più affidamento su di essa per un aumento nell'impiego delle forze di lavoro; e prevedeva, invece, come possibile e necessario, anche nel Mezzogiorno, un immediato sviluppo industriale, considerato come il solo capace di assorbire le forze di lavoro in eccesso (non trasferite al Nord o all'estero) e di ridurre il distacco economico tra il Nord e il Sud. Il "piano Vanoni"; sotto questo riguardo, non ha rappresentato soltanto uno sviluppo, ma una critica della politica del 1950, in quanto esplicitamente ha riconosciuto che il semplice investimento nei cosiddetti settori propulsivi non consente uno stabile incremento di redditi e di consumi e lo ha dichiarato incapace di dar vita a un sistema economico autopropulsivo, che solo l'industria può creare.
La politica della diretta industrializzazione - per la quale si erano fin dal 1947 messi a punto alcuni strumenti (esenzioni doganali nell'importazione di macchinarî, esenzioni fiscali varie e facilitazioni creditizie) - fu, perciò, dopo il 1954 ripresa con maggiore intensità. La creazione degli istituti speciali per il finanziamento industriale nel Sud (ISVEIMER per il Mezzogiorno continentale, IRFIS per la Sicilia e CIS per la Sardegna) nel 1953, ma principalmente le nuove facilitazioni per i finanziamenti industriali previste dalla legge 29 luglio 1957, n. 634, e il contemporaneo obbligo fatto alle aziende a partecipazione statale di localizzare nel Sud il 40% degli investimenti totali e il 60% di quelli nuovi, hanno rappresentato le tappe di questo che è stato chiamato "il secondo ciclo dello sviluppo del Mezzogiorno".
Dei risultati di questo sforzo per l'industrializzazione poco si può dire per la brevità del periodo intercorso dall'emanazione dei più efficaci provvedimenti e ancor più dalla loro effettiva applicazione. Il confronto, tuttavia, tra le cifre di previsione del Piano Vanoni e i dati reali cinque anni dopo (rapporto Saraceno 1959 e relazione al Parlamento 1960) dimostra come fossero state ottimistiche le previsioni e quanto resistenti allo sviluppo (non solo industriale) siano le condizioni prevalenti nel Mezzogiorno. Mentre, infatti, il Piano Vanoni aveva posto come obiettivo la concentrazione nel Sud del 50% degli investimenti industriali, questi nel triennio 1956-59 sono stati soltanto pari al 16,6%.
Malgrado questo e altri dati, che hanno deluso le aspettative, lo sviluppo economico del Sud è risultato cospicuo nell'ultimo decennio. Il reddito annuo complessivo è cresciuto del 67%, la produzione agricola lorda vendibile del 56% il prodotto netto dell'industria del 54%. Il reddito netto per abitante è cresciuto di conseguenza del 56%, passando dalle 110 mila lire del 1951 alle attuali 170 mila. Questo cospicuo progresso economico, tuttavia, non ha ridotto la distanza tra Nord e Sud. Il più rapido progresso realizzato nello stesso periodo nel Nord, particolarmente in conseguenza dell'imponente sviluppo industriale, ha determinato, infatti, un'accentuazione dell'antico distacco, sinteticamente espressa dal diverso aumento del reddito netto per abitante, ehe è oggi nel Sud, a prezzi costanti, pari al 44,7% di quello del Nord di contro al 51,5% che era nel 1951 (a prezzi correnti, tuttavia, la diminuzione risulta minore: 46,6% nel 1959 di contro a 47,7% nel 1951).
Sulla base di questi e di altri dati di recente pubblicati (particolarmente nella prima relazione al Parlamento - 1960 - del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, nella quale, tra l'altro, è presentato per la prima volta il bilancio economico del Mezzogiorno distinto da quello nazionale) si è riaccesa la discussione sulle prospettive e gli indirizzi della politica di sviluppo.
Alcuni ne hanno tratto motivo per formulare una critica radicale alla politica finora seguita e per additare l'opportunità di un ritorno a una politica alternativa di apparente carattere liberistico. A bassa voce essi suggeriscono di rinunciare alla forzata industrializzazione del Sud; di concentrare ulteriormente le industrie nel Nord, ove trovano più favorevoli condizioni; di migliorare le condizioni del Mezzogiorno puntando, quindi, prevalentemente, sull'emigrazione (già in atto con ottime prospettive) e sull'incremento e il miglioramento delle tipiche produzioni agricole meridionali, dei loro mercati e delle industrie trasformatrici.
Tale alternativa è, tuttavia, presentata dagli stessi sostenitori con scarsa convinzione. L'esperienza e i primi dati che la illustrano sembrano aver maturato in generale, e specialmente nell'opinione pubblica più colta e responsabile, un diverso, più meditato giudizio sulle prospettive e gli indirizzi del futuro sviluppo che, nelle linee generali, può essere riassunto nei seguenti punti:
1) Una volta avviato lo sviluppo economico, l'economia agricola tradizionale del Mezzogiorno è entrata nella fase più acuta della sua crisi. Essa, infatti, non può più sostenere i bassi livelli di reddito di un tempo e per raggiungerne di più elevati ha bisogno di passare attraverso una profonda fase di riorganizzazione, caratterizzata da un imponente esodo rurale, dal ritorno alle utilizzazioni estensive sulle terre povere e dal potenziamento produttivo e commerciale dell'agricoltura delle terre ricche. Bisogna, pertanto, guardarsi dal confondere i segni di questa inevitabile crisi dell'economia tradizionale con quelli di un mancato o ritardato sviluppo economico.
2) La crisi dell'economia agricola tradizionale rende ancora più necessario e urgente lo sviluppo industriale del Sud. La politica del 1950 e dell'ultimo decennio, malgrado i ritardi e gli errori, è stata giusta e va continuata e perfezionata. Se i risultati dell'industrializzazione appaiono ancora modesti e incerti, ciò in gran parte è dovuto alla brevità del tempo e al fatto che molti degl'investímenti sono per loro natura a lenta maturazione. Migliori rendimenti si potranno avere conseguendo un migliore coordinamento degl'interventi pubblici, aiutando lo sviluppo di più efficienti economie esterne, concentrando gli sforzi in ben delimitate zone industriali, curando la selezione delle iniziative e i sistemi di credito e così via.
3) Il relativo ottimismo con il quale si può considerare la futura industrializzazione del Mezzogiorno non esime dal prevedere - in relazione agl'incrementi demografici e all'esodo rurale - un'ampia e prolungata emigrazione di meridionali verso il Nord, i paesi europei e i paesi d'oltremare. I vecchi argomenti sui danni dell'emigrazione, anche se validi, non tengono di fronte alle forze che hanno riaperto nel Mezzogiorno il processo emigratorio. L'emigrazione va considerata, quindi, come elemento integrante dello sviluppo economico e civile del Sud. I danni che essa potrebbe arrecare possono essere evitati facendone un'emigrazione sempre più qualificata e impedendole di spingersi al di là di certi limiti. Occorre, pertanto, una politica dell'emigrazione, impostata, oltre che sul controllo e l'assistenza degli emigranti, sulla loro preparazione professionale. Questa, a sua volta - se realizzata nelle dovute dimensioni e con rinnovati metodi e se integrata da un'azione di assistenza tecnica e creditizia all'agricoltura - può contribuire, oltre che a una miglior sorte degli emigranti, all'industrializzazione del Sud e ad un più pronto riequilibramento della sua agricoltura.
4) Se queste sono prospettive obiettivamente accettabili, il successo o l'insuccesso degli sforzi, che esse comportano, resteranno prevalentemente dipendenti da fattori imponderabili: la coerenza, energia e tempestività degl'interventi politici; il sorgere d'una classe di operatori economici attivi in gran parte diversi dagli attuali; la correzione senza pietà dei tradizionali difetti strutturali e civili della vecchia società agricola meridionale. Per questa ragione, a distanza di un secolo, la questione meridionale resta, come all'inizio, principalmente un problema politico, il più importante problema politico dell'Italia moderna.
Bibl.: Opere generali. - F. Vöchting, La questione meridionale, Roma 1955 (traduzione dell'opera: Die italienische Südfrage, Berlino 1951); Antologia della questione meridionale, a cura di B. Caizzi, Milano 1950; Svimez, Notizie sull'economia del Mezzogiorno, Roma 1956; id., Statistiche sul Mezzogiorno d'Italia (1861-1953), Roma 1954; id., Legislazione per il Mezzogiorno (1861-1957), 2 voll., Roma 1957. Si vedano inoltre le seguenti riviste specializzate: Informazioni Svimez (Roma); Nord e Sud (Napoli); Prospettive Meridionali (Roma); Cronache Meridionali (Napoli); Civiltà degli Scambî (Bari); Nuovo Mezzogiorno (Roma).
Vecchi meridionalisti. - Oltre all'eccellente introduzione all'Antologia del Caizzi, vedi: S. F. Romano, Storia della questione meridionale, Palermo 1943; E. Tagliacozzo, Voci di realismo politico nel Mezzogiorno, Bari 1934; U. Zanotti-Bianco e altri, Giustino Fortunato, Roma 1932; G. Cingari, Giustino Fortunato e la questione meridionale, Firenze 1954; F. Compagna, Labirinto meridionale, Venezia 1955. Si vedano inoltre le raccolte di scritti, pubblicate in massima parte nella "Collezione Meridionale", diretta da U. Zanotti-Bianco (Firenze), e precisamente: G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, 2 voll., 1926; id., Pagine e ricordi parlamentari, 2 voll., 1920 e 1947; S. Sonnino e L. Franchetti, La Sicilia nel 1876, 2 voll., 1924; L. Franchetti, Mezzogiorno e colonie, 1949; A. De Viti De Marco, Trent'anni di lotte politiche (1894-1922), 1930; G. Carano Donvito, L'economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, 1928. Per il Fortuanto si veda anche l'Antologia dai suoi scritti (a cura di M. Rossi-Doria), Bari 1948. Per F. S. Nitti i primi due volumi delle opere complete contengono gli Scritti sulla questione meridionale, Bari 1958. Per G. Salvemini, vedi Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino 1955. Per G. Dorso, le opere complete a cura di C. Muscetta (Torino 1949) e in particolare, oltre alla seconda edizione di La rivoluzione meridionale (la prima apparve a Torino nel 1924), i volumi Dittatura, classe politica e classe dirigente e L'occasione storica. Per L. Sturzo, gli scritti sulla questione meridionale sono distribuiti in varî volumi delle opere complete (Bologna). Si vedano inoltre: G. Arias, La questione meridionale, Bologna 1919; C. Maranelli, Considerazioni geografiche sulla questione meridionale, Bari 1946; U. Zanotti-Bianco, La Basilicata, Roma 1930; E. Azimonti, Il Mezzogiorno agrario qual'è, Bari 1920.
Agricoltura e politica agraria. - Cassa per il Mezzogiorno, Problemi della agricoltura meridionale, Roma 1953; E. Pantanelli, Problemi agronomici del Mezzogiorno, Bologna 1950; M. Rossi-Doria, Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna 1948 (2ª ed., 1958); id., 10 anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari 1958; N. Mazzocchi Alemanni, La riforma agraria, Asti 1955; V. Rivera, Il problema agronomico del Mezzogiorno d'Italia, Roma 1924; id., Oro di Puglia, Firenze 1928; F. Curato, Attività della Cassa per il Mezzogiorno: agricolturea, Roma 1952; G. Dell'Angelo, L'andamento della produzione agricola nel Nord e nel Sud tra il 1911 e il 1953, in Rivista di Economia Agraria, marzo 1956; id., Note sulla sottoccupazione nelle aziende contadine, Roma 1959; R. Grieco, Introduzione alla riforma agraria, Torino 1949; id., Per la riforma agraria e in difesa dei contadini, Roma 1953. Si vedano inoltre le numerose pubblicazioni dell'Istituto Nazionale di Economia Agraria e in particolare: La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia (a cura di G. Medici), Roma 1948; I tipi di impresa nella agricoltura italiana (a cura di G. Medici), Roma 1951; Rapporti fra proprietà, impresa e mano d'opera nell'agricoltura italiana (singoli volumi regionali), Roma 1931-39; InchiesTa sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra (singoli volumi regionali e relazione finale di G. Lorenzoni), Roma 1931-39, nonché: A. Serpieri, La struttura sociale dell'agricoltura italiana, Roma 1947; A. Brizi, L'economia agraria della Campania, Roma 1940; V. Ricchioni, L'economia dell'agricoltura pugliese, Bari 1939; N. Prestianni, L'economia agraria della Sicilia, Palermo 1947; E. Pampaloni, L'economia agraria della Sardegna, Roma 1947. Sono attualmente in corso di pubblicazione le monografie regionali di commento alla nuova Carta di utilizzazione del suolo d'Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (uscite quelle di F. Milone su Calabria e Sicilia, di C. Colamonico sulla Puglia, di M. Rossi-Doria sulla Basilicata).
Condizioni sociali e politiche. - Oltre alle opere citate e alle Note sulla questione meridionale e altri scritti di Antonio Gramsci si vedano: C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino 1945; id., Le parole sono pietre, Torino 1955; R. Scotellaro, Contadini del Sud, Bari 1954; G. Russo, Baroni e contadini; F. Compagna, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra ed il Mezzogiorno, Bari 1949; id., I terroni in città, Bari 1958; R. Musatti, La via del Sud, Milano 1955; i varî libri di D. Dolci sulla Sicilia nonché G. Galasso e altri, Problemi demografici e questione meridionale, Napoli 1960; F. Milone, Sicilia: la natura e l'uomo, Torino 1960; J. Meyriat, La Calabre, Parigi, Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1960. Fondamentali sono, inoltre, gli Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione (16 voll.), Roma 1954 e gli Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (15 voll.), Roma 1958.
Cassa per il Mezzogiorno e politica d'industrializzazione. - Oltre le relazioni annuali della Cassa per il Mezzogiorno, si veda il grosso volume riepilogativo dell'attività nel primo quinquennio 1950-55 (Roma 1955) e ora la fondamentale Relazione al Parlamento del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, Roma 1960. Numerosi sono poi gli Atti di Convegni e congressi nei quali i problemi relativi sono stati trattati. In particolare quelli dei tre "Convegni Tecnici" indetti dalla Cassa (Napoli 1952, Bari 1954, Cosenza 1954) e queli del "Congresso Internazionale di studio sul problema delle aree arretrate" (Milano, Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, 1954, 3 voll.). Sui problemi specifici dell'industrializzazione, oltre le opere citate, si vedano: G. Cenzato e S. Guidotti, Il problema industriale del Mezzogiorno, Milano 1946; C. Rodanò, Mezzogiorno e sviluppo economico, Bari 1954; F. Ventriglia e G. Macera, Il Mezzogiorno oggi, Milano 1959, oltre alle seguenti pubblicazioni della Svimez: Contributi allo studio del problema industriale del Mezzogiorno (1949); Agevolazioni per l'industrializzazione e lo sviluppo economico del Mezzogiorno (1954, con aggiunta del 1960); Effetti moltiplicativi degli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno (F. Pilloton, 1960).