Questione del Mezzogiorno
Le categorie storiche del 'pensiero meridionalista', della 'questione meridionale' e del 'Mezzogiorno', a metà degli anni Ottanta del 20° sec. venivano sottoposte a una radicale revisione critica. Negli stessi anni si chiudeva la stagione dell'intervento straordinario e venivano pertanto liquidati gli istituti che di quella politica avevano rappresentato gli strumenti fondamentali ed emblematici: la Cassa per il Mezzogiorno, istituita nel 1950, veniva soppressa con la l. 1° marzo 1986 nr. 64; l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, istituita nel 1986, veniva soppressa con il d. legisl. 3 aprile 1993. Dopo circa quarant'anni, classi dirigenti e opinione pubblica nazionale avevano maturato, rispetto all'intervento straordinario, alla politica meridionalista nel suo insieme e alla stessa questione meridionale, un atteggiamento di sostanziale insofferenza e, in molte parti della società, di vero e proprio rigetto. Nel 1993 il referendum abrogativo degli organi e delle procedure preposti agli interventi di natura infrastrutturale fu percepito dall'opinione pubblica nazionale come un referendum sull'intervento straordinario nel suo complesso e fu evitato in extremis solo grazie all'adozione del provvedimento legislativo appena ricordato.
I motivi di questo mutato orientamento erano più d'uno. A partire dagli anni Settanta, per una serie di ragioni di ordine interno e internazionale (alta conflittualità sindacale, aumenti del costo del lavoro superiori agli incrementi della produttività, vincoli alla flessibilità dell'impiego dei fattori produttivi, crisi petrolifere e aumento dei costi energetici, crescita della competitività dei Paesi asiatici), l'economia nazionale nel suo insieme era entrata in una crisi profonda, dalla quale sarebbe uscita solamente nel corso degli anni Ottanta.
Ciò aveva aumentato la resistenza a trasferire risorse a favore delle aree depresse e acuito le perplessità riguardo alle politiche di intervento straordinario. La gestione di quest'ultimo, principalmente a opera della Cassa per il Mezzogiorno e del Ministero delle Partecipazioni statali, nei dieci-quindici anni precedenti la soppressione della Cassa medesima, era venuta sempre più allontanandosi dal virtuoso modello iniziale di azione pubblica mirata alla trasformazione ambientale di una vasta area arretrata, per divenire strumento costoso e inefficiente di spesa, utilizzato per finalità meramente assistenziali o, peggio, clientelari, da un ceto politico che aveva preso nettamente il sopravvento sulla dirigenza tecnico-amministrativa della Cassa. Tutto ciò aveva finito per oscurare agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica gli incontestabili progressi realizzati nel Mezzogiorno tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, progressi che, se non erano stati tali da colmare il divario tra Nord e Sud, avevano comunque segnato una trasformazione economica e sociale dell'Italia meridionale senza precedenti.
Il mancato superamento del divario tendeva sempre più a essere ricondotto alle degenerazioni clientelari e all'inadeguatezza in sé dell'intervento straordinario come strategia di recupero delle aree depresse, mentre passavano in secondo piano fattori ben più decisivi: l'insufficienza delle risorse impegnate in un intervento divenuto in buona parte sostitutivo e non aggiuntivo di quello ordinario, come avrebbe dovuto essere ed era effettivamente stato all'inizio; l'erroneità strategica di alcune scelte di intervento sia nei singoli settori produttivi sia nella vita civile; l'assenza di una programmazione generale dell'economia nazionale e di una politica dei redditi, reclamate a gran voce da U. La Malfa sin dagli anni Sessanta. Nel contempo l'istituzione delle Regioni e il largo decentramento amministrativo che l'aveva accompagnata, avevano creato la necessità di definire le rispettive sfere di competenza tra i nuovi enti dell'amministrazione ordinaria e quelli di gestione dell'intervento straordinario, che continuavano a operare.
Il dato più singolare della storia della q. del M. negli anni Ottanta e Novanta risulta, tuttavia, l'atteggiamento assunto da una parte non secondaria della cultura meridionale, la quale, mentre a Nord cresceva la polemica leghista, sottoponeva a una radicale revisione le analisi e il giudizio storico del meridionalismo otto e novecentesco, che considerava fuorviante per la comprensione della realtà storica del Mezzogiorno. Secondo questa corrente culturale, che si ispirava a valori definiti 'meridiani', il meridionalismo classico aveva dato una valutazione nettamente e costantemente inferiore delle potenzialità del Mezzogiorno e del reale livello di sviluppo da esso raggiunto prima e dopo l'unità d'Italia; alcuni interpreti giunsero addirittura a parlare di 'invenzione' della questione meridionale. La storia del Mezzogiorno andava riscritta al di fuori dell'ottica meridionalista e questa riscrittura si traduceva, contro l'evidenza di tutti gli indicatori statistici, in una negazione della consistenza, se non addirittura dell'esistenza, del divario tra le due Italie. La stessa nozione di Mezzogiorno, intesa come realtà economicamente e socialmente omogenea e unitaria, veniva dichiarata inadatta a rappresentare e interpretare un insieme di situazioni regionali e subregionali estremamente diversificate, tra le quali era possibile persino ravvisare, sin dall, realtà più avanzate e dinamiche più sostenute di quelle esistenti in molte aree settentrionali.
Indubbiamente, per i suoi livelli di produzione, reddito e consumi, il Mezzogiorno degli anni Ottanta non poteva più essere definito area povera, e neppure sottosviluppata, come era invece per molti importanti aspetti all'inizio degli anni Cinquanta. Consumi e stili di vita della sua popolazione si erano avvicinati vistosamente a quelli medi europei. Erano pressoché azzerati tutti gli indicatori di disagio materiale presenti all'inizio del 20° sec. (analfabetismo, precarietà igienico-sanitaria, latifondo, assoluta insufficienza dei sistemi di comunicazione e trasporto ecc.). Nel 1986 il prodotto pro capite del Mezzogiorno risultava più che triplicato rispetto agli anni Cinquanta. Economia e società meridionali non erano più in prevalenza agricola l'una e rurale l'altra, bensì terziaria la prima e urbanizzata la seconda. L'agricoltura, che nel 1950 era il settore di attività cui era addetto oltre il 56% della forza lavoro occupata e che forniva oltre il 31% del prodotto lordo del Mezzogiorno, nel 1985 vedeva ridotto il suo peso a meno del 20% dell'occupazione e a meno del 10% del prodotto. Si era formato un significativo nucleo di moderna industria, grazie anche alla crescita impressionante degli investimenti fissi, che, dopo avere raggiunto nella prima metà degli anni Settanta un valore pari a cinque volte quello medio degli anni Cinquanta, nel 1985, dopo dieci anni di crisi, erano ancora di importo quadruplo rispetto agli anni Cinquanta.
Tuttavia, il discorso cambiava molto se si passava al confronto con l'Italia settentrionale e se, invece che i consumi e gli stili di vita, peraltro persistentemente inferiori quantitativamente e qualitativamente a quelli del Centro-Nord, si consideravano le strutture produttive e sociali. Allora si era costretti a rilevare che l'economia meridionale, anche se ormai prevalentemente terziarizzata come quella del Nord, era enormemente più fragile di essa, soprattutto per non essere mai stata, come quella settentrionale, in prevalenza industriale.
Il prodotto dell'industria manifatturiera meridionale aveva delineato nel 1980-1988 una dinamica abbastanza simile a quella del Centro-Nord, ma ciò era stato del tutto insufficiente ad avviare un processo di sviluppo industriale autopropulsivo e a far divenire prevalentemente industriale la struttura economica e sociale del Mezzogiorno; ancor meno a ridurre il ritardo storico rispetto all'apparato industriale del Nord. Nella composizione dell'occupazione meridionale, l'industria in senso stretto, che copriva poco più del 15% del totale nel 1981, nel 1991 era del 12,3%. Quella dell'industria delle costruzioni era passata dal 12% del 1974 al 9,1% del 1988. Nell'insieme l'occupazione industriale meridionale era diminuita dal 27% del totale nel 1974 al 19,6% nel 1991. Nel frattempo l'agricoltura perdeva circa 8 punti percentuali, per cui nel 1991 quella meridionale era ormai diventata una società in prevalenza terziaria, nella quale i servizi assorbivano circa il 63% degli occupati, grosso modo come nel Centro-Nord, il cui terziario occupava nello stesso anno il 61% del totale degli occupati. Permaneva però una differenza fondamentale tra le due macroaree che riguardava la consistenza dell'apparato industriale in senso stretto: quello centro-settentrionale, anch'esso in forte difficoltà, era pur sempre detentore nel 1991 del 26% degli occupati e del 30,9% del valore aggiunto del Centro-Nord, mentre quello meridionale era fermo al 12,3% degli occupati e al 18,2% del valore aggiunto del Sud. Il valore aggiunto dell'industria meridionale nel 1991 era pari al 19% di quello dell'industria centro-settentrionale. Era questo un elemento di inferiorità strutturale grave e indiscutibile che avrebbe dovuto costituire un monito severo per i sostenitori dell'avvenuta o imminente soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
La mancata industrializzazione costituisce l'evento di gran lunga più importante e significativo della storia economico-sociale del Mezzogiorno e delle politiche meridionalistiche del dopoguerra. Essa resta il fattore più rilevante dell'inferiorità meridionale, anche se il passaggio all'economia postindustriale del Centro-Nord sembrerebbe ridurne il peso rispetto al passato. Le serie statistiche relative al rapporto percentuale del PIL per abitante dimostrano che, nel 20° sec., il divario tra il Sud e il Centro-Nord si è ridotto in misura sensibile solo quando è cresciuto il tasso di industrializzazione del Mezzogiorno. Nel 1986, se da un lato la percentuale dei consumi per abitante del Mezzogiorno rispetto al Nord toccava con il 75,1% uno dei suoi massimi storici, quella degli investimenti per abitante, con il 73,8%, era in discesa verticale rispetto al 91,3% del 1971 e all'80,3% del 1984 e, a fronte del nuovo allargarsi della forbice in campo industriale, quella del PIL per abitante tornava al 57,7%.
L'andamento dell'economia e l'entità delle trasformazioni sociali registrate nel Mezzogiorno nel corso degli anni Novanta e nei primi del nuovo secolo hanno da un lato smentito le analisi trionfalistiche e le prospettive della cultura dei valori meridiani e, dall'altro, dimostrato che le cause determinanti della mancata soluzione del problema meridionale non erano solo le insufficienze congenite dell'intervento straordinario e le degenerazioni clientelari della sua gestione. Dopo tredici anni dalla definitiva soppressione di qualunque forma di intervento straordinario, pur non essendo mancata in termini assoluti nel Sud un'ulteriore, per quanto modesta, crescita economica, il divario rispetto al Nord nel livello dello sviluppo economico, nella differente configurazione dell'apparato produttivo e della struttura sociale, nella dotazione e qualità di infrastrutture e servizi, non solo sussisteva ancora, ma era tornato vicino alle dimensioni della fine degli anni Cinquanta.
In termini assoluti il PIL del Mezzogiorno, dopo essere rimasto praticamente stagnante tra il 1991 e il 1995 (+0,9% a prezzi costanti), è tornato nuovamente a crescere e, tra il 1995 e il 2004, ha fatto segnare un +15,9%. Tranne che nel 2000 e 2003-04, la variazione rispetto all'anno precedente è stata anche superiore a quella del Centro-Nord. Si è trattato comunque di una superiorità dinamica non continua, anzi episodica, e dovuta più al rallentamento del Centro-Nord che alla crescita del Sud. Nel rapporto del PIL per abitante del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, il livello massimo di avvicinamento era stato toccato nel 1973, quando il PIL per abitante del Mezzogiorno aveva raggiunto la misura del 70% di quello nazionale e del 60,6% di quello del Centro-Nord. Poi la forbice era tornata ad allargarsi. Nel 1986 il PIL per abitante del Mezzogiorno era sceso al 57,7% di quello del Centro-Nord. Dopo la lieve risalita al 58,6% nel 1991, nel 1996 è sceso al 55,6% di quello del Centro-Nord, tornando a un rapporto più negativo di quello del 1957 (tab. 1). Ciò è avvenuto nel quadro di un marcato affievolimento dell'economia internazionale e nazionale, nel quale il Mezzogiorno è stato molto più vulnerabile del Centro-Nord. Anche la ripresa è stata più lenta. Solo a partire dal 1997 si è delineata una timida inversione di tendenza che ha portato il PIL per abitante meridionale a sfiorare nel 2003 il 60% di quello del Centro-Nord, quasi come negli anni Settanta; ma già i dati del 2004 segnalano un significativo assestamento al ribasso. Il riavvicinamento, quando si è verificato, è sembrato più ascrivibile al rallentamento dell'economia settentrionale che alla crescita di quella meridionale. Il dato di lungo periodo più significativo resta quello di un divario che non si allontana molto dai livelli degli anni Cinquanta e che, in oltre cinquant'anni, ha superato quota 60% solo episodicamente.
D'altro canto i dati relativi al Mezzogiorno nel suo insieme non sono contraddetti dall'analisi su scala regionale. Nel 2004, pur sussistendo tra le regioni meridionali scarti superiori a quelli del 1951, nessuna di esse ha potuto vantare un reddito pro capite più alto di quello della più debole regione centro-settentrionale, ossia l'Umbria. Parlare del Mezzogiorno come di area omogenea e arretrata rispetto al resto del Paese, per tutta una serie di indicatori economici, sociali e del vivere civile, rimane quindi pienamente legittimo e anzi indispensabile ai fini della comprensione delle sue storiche problematiche.
Negativa per il Mezzogiorno anche la variazione del divario in termini di occupazione. Dal 2003 l'ISTAT ha adottato nuovi metodi e nuovi criteri nella rilevazione dei dati sulle forze di lavoro, con una forte rivalutazione del lavoro atipico rispetto a quello a tempo pieno e indeterminato. Ciò ha ridotto statisticamente il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno rispetto a quello degli anni precedenti. Le unità di lavoro irregolari nel Mezzogiorno sono infatti pari al 22,8% del totale, contro il 10% del Centro-Nord. Ma anche con questi criteri, le statistiche segnalano forti diminuzioni dell'occupazione nel Mezzogiorno nel 1993-1995, quando la disoccupazione totale è passata dal 15,1% al 18,1% e la disoccupazione giovanile dal 39% al 44,8%. Solo con il 2001 la tendenza ha mostrato segni di sia pur timida inversione. Nel 2004 nel Mezzogiorno la disoccupazione totale è stata del 15% e quella giovanile del 37,6%. Tuttavia, se si considera che nel Centro-Nord nel 1993 quella totale era del 7,1% e quella giovanile del 21,3%, mentre nel 2004 è stata rispettivamente del 4,9% e del 15%, se ne deduce che in undici anni la differenza è notevolmente cresciuta, perché quella meridionale è passata da 2,11 volte a 3,05 volte quella del Centro-Nord (tab. 3). Le gravi difficoltà del mercato del lavoro, non attenuate dalla diffusione di forme di impiego flessibile e precario, sono testimoniate anche dalla ripresa del lavoro in nero, in diminuzione invece nel Centro-Nord, e dell'emigrazione. Il saldo migratorio tra Mezzogiorno e Centro-Nord, che aveva toccato il suo massimo negativo nel quinquennio 1960-1964 con 108.800 unità in media all'anno e che era sceso al minimo di 27.900 unità nel 1980-1984, è tornato a crescere fino alle 61.900 unità del 1995-1999 e alle 65.600 del 1998-2002.
Emigrazione, aumento della disoccupazione e deindustrializzazione pesante di alcune aree che erano sorte nel corso degli anni Sessanta e Settanta (catanese, barese, napoletana, tarantina) hanno contribuito a determinare tra il 1990 e il 2004 una crescita statistica della produttività del lavoro nel Mezzogiorno leggermente superiore a quella del Centro-Nord. Il rapporto percentuale tra i due indicatori è passato dall'83,9% all'86,2%. Tuttavia, lo scarto resta ancora di ben 14 punti ed è ben lungi dal poter minimizzare il significato degli altri indicatori.
Il fenomeno più inquietante è però il pesantissimo rallentamento del processo di accumulazione. Gli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno (tab. 2) hanno registrato un autentico crollo nel 1992-1998 e, in definitiva, non si sono più ripresi. Dopo essere variati a un tasso medio annuo dello 0,09% nel 1974-1980 e dell'1,32% nel 1981-1991, hanno fatto segnare un pesante -3,66% nel 1992-1998. Nel Centro-Nord, nel contempo, la dinamica è stata dell'1,72% nel 1974-1980 e dello 0,52% nel 1992-1998. Nel rapporto tra gli investimenti per abitante del Mezzogiorno rispetto a quelli del Centro-Nord gli effetti sono stati devastanti. Dopo aver raggiunto il 91,3% nel 1971 e l'80,3% nel 1984, la percentuale è crollata al 65,4% nel 1991 e al 60,8% del 1998 e non ha più dato segni di recupero significativi, essendo stata nel 2004 del 61,5%. Questo andamento del rapporto Nord-Sud negli investimenti fornisce la più importante delle ragioni del permanere del divario. Come avrebbe potuto l'economia meridionale annullare il ritardo rispetto al Centro-Nord se mai nel dopoguerra gli investimenti fissi per abitante vi hanno superato quelli effettuati nel Centro-Nord?
Nella dotazione di infrastrutture si è avuto un allargamento del divario, che continua a disincentivare la localizzazione nel Sud di nuove attività produttive e incide negativamente sui livelli e le dinamiche della produttività dei fattori impiegati. Nella dotazione di autostrade per ogni 1000 km2 il rapporto tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2003 era del 67,6%, senza sostanziali miglioramenti nell'ultimo decennio. La rete a tre corsie nel Mezzogiorno rappresenta appena l'8,2% del totale, mentre nel Centro-Nord rappresenta il 29,9%. Minore nel 2004 è divenuto il divario nell'estensione della rete ferroviaria, ma pur sempre di circa il 20%.
Assai più pesante quello della rete elettrificata (56,9% del totale nel Mezzogiorno - 76,2% nel Centro-Nord) e a doppio binario (25,1% contro 47,7%). La superficie aeroportuale del Mezzogiorno per ogni 1000 km2 nel 2003 era pari solo a metà di quella del Centro-Nord, come pure il movimento passeggeri. Il dato più sconcertante e significativo è tuttavia quello della dotazione di strutture portuali. Nel 2000, nella lunghezza degli accosti per ogni 1000 km di lunghezza delle coste, il rapporto tra Mezzogiorno e Centro-Nord risultava del 41,5%, e nella superficie dei piazzali addirittura del 22,2%.
Il divario è cresciuto anche nei consumi. In termini assoluti essi sono aumentati. Tuttavia nel 2004, con un livello dei consumi per abitante pari al 71,3% di quello del Centro-Nord, il Mezzogiorno ha accusato un'inferiorità maggiore di quella manifestata nel 1991, quando il rapporto era del 73,7%.
A questi andamenti dell'economia, si collega l'evoluzione della struttura sociale, secondo linee di tendenza che a partire dagli anni Novanta non hanno portato a sostanziali cambiamenti della situazione dualistica delineatasi a partire dagli anni Settanta-Ottanta. È continuata la terziarizzazione della società oltre che dell'economia meridionale, ma nel contempo il tasso di deruralizzazione è rimasto inferiore a quello del Centro-Nord. L'occupazione in agricoltura è scesa nel Mezzogiorno nel 2004 al 9,4% del totale, contro il 3,7% del Centro-Nord. Anche nella distribuzione del valore aggiunto, la quota dell'agricoltura ha continuato a ridursi. Nel 2004 è risultata del 4,2%, contro l'8% del 1991. Nel Centro-Nord nel frattempo è scesa dal 3,3% al 2%, quindi a meno della metà della quota del Mezzogiorno. Il peso dell'industria nell'economia meridionale, anziché crescere, si è ridotto ulteriormente. L'andamento deficitario del settore nel suo insieme non è smentito dalla diffusione di piccola e piccolissima impresa a bassa dotazione di capitale, che se ha consentito di tenere le posizioni in materia di occupazione, e, in misura leggera nel caso dell'industria in senso stretto, di accrescerla, non è riuscita a evitare, nel frattempo, un'ulteriore flessione in termini di produttività e di valore aggiunto.
La terziarizzazione dell'economia meridionale, il cambiamento più macroscopico della struttura sociale del Mezzogiorno nel dopoguerra, non ha coinciso con l'eliminazione del ritardo rispetto al Centro-Nord.
Cessato l'intervento straordinario, l'intervento cosiddetto ordinario, perseguito nell'ambito delle politiche economiche nazionali e comunitarie da parte degli enti locali, non è stato in grado di evitare al Mezzogiorno la pesante recessione del 1991-1995, né di avviare un recupero deciso e definitivo rispetto al Nord. In un quadro internazionale sempre più difficile per un'economia a tecnologia medio-bassa come quella italiana, il Mezzogiorno appare come area debole di un contesto nazionale in difficoltà. L'economia meridionale è scarsamente integrata nei mercati internazionali. Il divario rispetto al Centro-Nord appare molto forte sia sotto il profilo delle esportazioni sia sotto quello delle attività delle multinazionali. L'incidenza delle esportazioni di merci meridionali sul totale nazionale è stata nel 2004 del 10,6%, quella degli addetti in aziende di proprietà estera è stata del 6% del totale nazionale.
È un quadro che potrà modificarsi se, non soltanto il Mezzogiorno, ma l'intero sistema economico italiano avrà la capacità di attrarre investimenti esteri e di eliminare le inefficienze del suo modello di sviluppo.
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