CURZIO Rufo, Quinto (Q. Cutius Rufus)
Autore di una storia delle imprese di Alessandro Magno in dieci libri pervenuta all'epoca di Carlo Magno in un solo esemplare mancante dei primi quaderni e di altri fogli che contenevano la fine del quinto libro, il principio del sesto e parti del decimo (fine del capitolo primo e capitolo quarto delle edizioni moderne): mutilazioni, che dimostrano apertamente come quest'opera si sia conservata per un semplice caso, interamente trascurata dai letterati dell'alto Medioevo, che alla storia di Alessandro preferirono il romanzo, a loro trasmesso da adeguate fonti. Nel rinnovato fervore di studî dell'era carolingia l'opera. di C., incompleta sì, ma non povera di materia e gradita per forma, destò interesse e da due copie immediate dell'archetipo discesero parecchie altre in parte conservate: un codice del sec. IX (cod. Parigino 5716), quattro fra il sec. X e l'XI e gli avanzi di altri tre codici del sec. X. Dopo un periodo di sosta, a partire dal sec. XIV, le trascrizioni dell'opera diventano frequentissime: senza valore per la costituzione del testo, sono un indice culturale importante e denotano l'intensificato interesse per tutte le produzioni artistiche dell'antichità; l'informe romanzo di Alessandro cede il passo alla più raffinata esposizione, che ha un fondo, sia pure più appariscente che reale, di narrazione storica, che ha certo tutte le forme esteriori della storiografia artistica.
La personalità dello scrittore è, fra tutte le cose che riguardano quest'opera, una delle meno importanti; certamente è la questione più a lungo, più tediosamente e inutilmente dibattuta. Notizie indirette mancano: l'identificazione col C. R. di cui parlano Tacito (Ann., 11, 21) e Plinio (Ep., 7, 27, 2), da tenui natali salito al consolato, all'onore delle insegne trionfali, al governo dell'Africa, uomo acri ingenio, che a Tiberio pareva ex se natus, cioè figlio della propria capacità, è identificazione che fortunatamente ha trovato pochi sostenitori.; quella invece col C. R., retore menzionato da Svetonio, ha goduto e gode di largo credito: essa può valere in quanto collimi con altri indizî. Questi non possono ricavarsi da altro luogo se non dall'opera stessa e sono, data la natura di essa, indizî indiretti e di assai incerta interpretazione. L'autore non può, in argomento così lontano, parlare di sé. L'occasione di alludere al presente gli viene narrando il sorgere delle discordie fra i successori di Alessandro e, poiché questa era eccellente per i suoi gusti di retore raffinato, non se la lascia sfuggire (10, 9, 2): l'impero di Alessandro, che retto da un solo poteva durare, precipita, poi che molti si offrono a sostenerlo; fortunato il popolo romano che poté avere un imperatore, che nella notte, che quasi parve l'ultima, brillò come nuovo, astro; questo, non il sorger del sole, ridiede la luce al mondo avvolto nella caligine, mentre, prive del capo, s'agitavano le discordi membra; quante faci egli spense, quante spade fece rientrare nel fodero, quanta tempesta stornò con improvvisa serenità! non dunque rinverdisce soltanto, ma anche fiorisce l'impero e la discendenza sarà duratura. Tenebre fosche e discordie crudeli l'impero di Roma ne ebbe molte e però ogni interprete ha creduto di avere buon giuoco e l'età di C. venne fatta coincidere con quella dei più svariati imperatori da Augusto a Costantino e sin anche a Teodosio. La massima parte di queste ipotesi pecca già in quanto non ha riguardo al problema letterario, all'indole cioè dello scritto di C., alla sua lingua e al suo stile. Si può avere in qualche conto la supposizione di chi pone quest'autore sotto Adriano o Settimio Severo (193-211), almeno in quanto si son fatti valere a suo favore dati storici e filologici; ma le soluzioni più probabili rimangono sempre quelle che determinano come epoca della composizione dell'opera le età di Claudio o di Vespasiano. La prima di queste soleva ormai considerarsi come definitiva, scorgendosi nelle parole caliganti mundo di 10, 9, 2 un'allusione a Caligola e nella notte fatale quella dell'uccisione di lui con l'improvvisa elevazione di Claudio all'impero. L'opinione di I. Stroux (in Philologus, 1928, p. 233 segg.), che con serî argomenti è entrato nella discussione a favore dell'epoca di Vespasiano, è stata validamente combattuta da L. Herrmann, in Revue des études anciennes, XXXI (1929), p. 217 segg.; e cfr. anche R. Zimmermann, in Rhein. Museum, 1930.
Né si può tacere che buoni elementi di prova si possono ancora addurre per collocare l'opera di C. R. nei primi anni dell'impero di Claudio. Essa rientra infatti in una tradizione storica d'interesse universale, che ha il suo esponente in Trogo Pompeo di pochi decennî anteriore a quest'epoca; rientra anche in una tradizione retorica, di cui seguiamo le tracce dal periodo dei retori augustei sino a quello di Seneca. Scarsa infatti è la percezione che C. R. ha del valore storico dell'impresa di Alessandro, scarsissima quella dei disegni ben meditati, ai quali si uniformò l'attività di lui: Alessandro è il beniamino della fortuna, l'uomo insuperbito dai suoi successi, l'avventuroso per amore dell'avventura; tale, quale dalla tradizione a fondo romantico lo trassero i retori e i filosofi con inclinazione retorica. Anche gli atteggiamenti formali di talune descrizioni avvicinano Trogo e C. R. e hanno in Tacito la loro compiutezza. L'influsso stesso di Livio sulla dizione curziana e nell'architettare talune situazioni (ad es. il processo di Filota 6,9 mostra, in qualche particolare, cognizione di Liv., 40, 12) non rendono probabile troppa distanza di tempo fra i due.
Nella struttura dell'opera dominano i noti principî, che dal più al meno fanno legge nella storiografia ellenistica: ricerca del colore e del patetico, sviluppo delle grandi scene, senza riguardo alla loro reale importanza, spesso minima; preoccupazione di tradurre il nudo dato storico in qualche cosa di vivo ed evidente, arricchendo talora il particolare in confronto dell'elemento stesso principale (ad es. i momenti precedenti alla battaglia di Isso) nel ripartire le sezioni maggiori e minori dell'opera, la cura ch'esse coincidano con qualche cosa di atto a destar pietà, terrore, riflessione sulla mutevolezza o fragilità delle cose umane o valgano a tener sospeso il lettore nell'aspettazione di ciò che avverrà. Gli avvenimenti si concatenano come in una serie di grandi quadri e, mentre permangono, ridotti all'indispensabile, i dati, talvolta anche di buona fonte, che devono imprimere al racconto il carattere peculiare di storia vera, ogni precisione è sacrificata a vantaggio di ciò che è pittorico. Le descrizioni degli ammassamenti e allineamenti militari e tattici hanno, con lo scopo secondario di dare al lettore un senso di precisione e veridicità, quello più immediato di suscitare l'impressione della moltitudine e del cozzo formidabile di forze armate. L'interesse geografico ed etnografico è di gran lunga inferiore a quello relativo alle persone e ai fatti; lo scetticismo verso il meraviglioso, secondo lo spirito fondamentalmente razionalistico della tradizione pseudostorica. Assai largo è il campo per l'eloquenza, nella quale il retore, ben dotato, ha buon giuoco: accanto ai discorsi dei duci, quelli giudiziarî e quelli simbuleutici nelle loro più varie espressioni e con gli adattamenti di stile scolasticamente tradizionali. Per cio che riguarda la storiografia romana, considerata dal lato puramente tecnico, a parte le sue caratteristiche personali, C. R. è un anello della catena nello sviluppo da Sallustio a Tacito e talune sue descrizioni, non meno delle sentenze e considerazioni generali, qua e là intercalate, comodamente potrebbero illustrare metodo e tecnica di Tacito stesso. Influssi diretti difficilmente si possono determinare; si tratta piuttosto d'identità di metodo e di procedimenti d'arte. Quanto vi è di retorico nel conformare la materia, tanto vi è di sforzo nel tenere lo stile in giusto mezzo, nel non volere studiatamente abbandonare le orme della maniera liviana; talché chi giudicasse C. R. semplice retore o autore di un'opera a puro scopo di diletto, non sarebbe sulla giusta via, come giudizio oggettivo, e sarebbe certo in una visuale diametralmente opposta a quella voluta dallo scrittore.
La questione delle fonti da lui seguite è di facile risoluzione, se si guarda all'insieme dell'opera; è intricata e difficile, se si scende ai particolari. Conviene anzitutto accentuare un fatto, che cioè C. R., inconseguente quanto si vuole nel delineare il carattere di Alessandro, vi ha certamente portato una nota sua o, per dir meglio, ha introdotto elementi che gli venivano dalla tradizione retorico-filosofica. Il fondo della tradizione curziana coincide con quella di Clitarco (e i rapporti dei due, attraverso un accurato confronto con Diodoro, sono rilevati da Ed. Schwartz, in Real-Encyclopädie, IV, 1873 segg.), ma non ne è una semplice riproduzione: vi sono dati giunti per altra via. Le versioni che egli dà dei fatti coincidono generalmente con quelle degli autori che Arriano, in contrasto con i suoi egregi mallevadori, Tolomeo e Aristobulo, comprende con la determinazione di οἱ πλείους, cioè una specie di vulgata. A questa si ricongiunge il nostro autore. Escludere la consultazione diretta di Clitarco e di altre fonti è temerario, ma rimane assai più probabile che egli derivi da fonte seriore, che si fondava su dati, in massima, clitarchei, accogliendo derivazioni di fonti diverse e spesso di tendenza opposta alla principale. La possibilità che C. R., servendosi di un esemplare così congegnato, abbia di sua iniziativa immesso nuovi elementi derivanti principalmente dalla tradizione cosiddetta ufficiale (Tolomeo, Aristobulo), è mera ipotesi: il nuovo per lui era la sua forma, il suo accentuare gli elementi drammatici e oratorî; una paziente opera di combinazione, com'è al difuori dei metodi di questi scrittori, così non rispondeva ad alcuna sua specifica necessità.
Edizione principe di Vindelino da Spira del 1471 (Venezia), a cui seguirono quelle di Bartolomeo Merula (Venezia 1494) e l'Aldina (1510). Moderne, degne di nota, quella di E. Hedicke (Lipsia 1908; importante per la costituzione diplomatica del testo, ma non cosi per la parte propriamente critica), di Th. Stangl (Lipsia 1902), veramente benemerito per il testo. Commento, che ancora si può consultare con frutto, di I. Mützell (Berlino 1841).
Bibl.: Importante soprattutto come analisi delle fonti l'art. di E. Schwartz in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 1871 segg. Diligenti raffronti presso R.B. Steele, in Amer. Journ. of Philol., 1919, p. 37 segg., 153 segg. Uno sguardo d'insieme presso G. Radet, La valeur historique de C. R., in Comptes rendus Acad. inscript. et belles lettres, 1924, p. 356. Libro, sotto certi riguardi, ancor oggi consultabile: S. Dosson, Étude sur Q. Curce, sa vie et son oeuvre, Parigi 1887. Presso Teuffel-Kroll, Geschichte der röm. Literatur, II, 7ª ed., Lipsia 1920, p. 232, e Schanz, Gesch. der römisch. Liter., II, ii, Monaco 1913, p. 275 seg. la minuta bibliografia degli scritti relativi a singole questioni e intorno alle fonti di Curzio.