Orazio Flacco, Quinto
Poeta latino (Venosa 65 a.C. - Roma 8 d.C.). La fortuna nel Medioevo feudale di O. satiro (autore dei Sermones e delle Epistulae) e teorizzatore di poetica (Ars) fa contrasto alla dimenticanza quasi generale di O. ‛ lirico ' (Carmina, Epodoe). L'ideologia estetica dominante delle società feudali dell'alto Medioevo escluse, com'è noto, l'arte in quanto rappresentazione del reale e si limitò a sfruttare gli autori classici per i sensus ideali (allegorico, morale, anagogico: così da Boezio in poi, in tutti gli accessus, come pure in Cv II I 2-7 e nell'accessus di Ep XIII 20-22) che volle ricavarne a servizio della persuasione culturale e religiosa.
I lirici latini (e non solo O., ma anche Catullo, Tibullo e Properzio) sono di conseguenza noti soltanto per il tramite dei Florilegi del Tardo-Antico che li avevano raccolti, e sempre comunque come dicta morali e flores retorici. Il culto dei satirici O., Persio e Giovenale si rinnova invece, specialmente a partire dalla sistemazione culturale carolingia e poi nell'aetas che Traube volle chiamare Horatiana, con interesse sempre crescente per i ‛ caratteri ' morali ampiamenti delineati in tutta la letteratura satirica romana; ma anche e soprattutto per le possibilità di utilizzazione che offrivano i miti epicurei, cinici e stoici che vi erano trattati, quali il mito del disinteresse per la vita sociale, il mito della superiorità del saggio sul ricco o quello della rinuncia alle voluptates. Maestro e autore di questa morale, che è la morale di contenimento del sistema agrario feudale, fu considerato anche O. satiro, mistificandone ovviamente il significato reale. O. satiro è quindi classificato fra le letture d'obbligo della scuola medievale, insieme con Giovenale e Persio, nel sec. X da Gerberto d'Aurillac e nell'XI nell'Ars lectoria di Aimeric di Gastinaux. " Etico " e " satirico " lo presenta nel Registrum multorum auctorum Ugo di Trimberg che pure non dà importanza, come tutti gli altri, all'O. lirico (Reg. 66-73 " sequitur Horatius prudens et discretus, / viciorum emulus, firmus et mansuetus; / qui tres libros eciam fecit principales / duosque dictaverat minus usuales, / Epodon videlicet et librum Odarum, / quos nostris temporibus credo valere parum. / Hinc Poetriae veteris titulum ponamus, / Sermones cum Epistolis dehinc adiciamus "). I tentativi d'imitazione da O. lirico sono, ancora in questa età, scarsissimi e, quando ci sono, come nei Quirinalia di Metell di Tegernsee, risultano di estrema rozzezza. La lettura e la fortuna di O. lirico sarà infatti successiva e trarrà sostegno dall'assestamento ideologico rappresentato dalle culture preumanistiche, quando il predominio delle forme economiche precapitalistiche di tipo bancario e mercantile avrà ormai imposto l'ideologia dell'individualismo e dell'autonomia della vita sentimentale, assicurando la credibilità dell'effusione lirica.
La conoscenza di O. da parte di D. è largamente deficitaria. Oltre alle Odi e agli Epodi (per tutti " minus usuales "), non pare che D. abbia letto neppure le Satire e le Epistole. Del resto fra le probabili letture moderne di D. conoscono le Odi soltanto Sigeberto di Gembloux, le Satire Sigeberto e Andrea Cappellano, le Epistole Bernardo di Chiaravalle, Andrea Cappellano e Sigeberto; le Poetriae novae note a D. (almeno l'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme) danno ampio spazio all'Ars e assai poco alle Satire e alle Epistole e ancor meno alle Odi; gli Accessus contemporanei svalutano O. lirico, come gli Accessus pubblicati da Huygens che l'ignorano e Konrad di Hirschau che si limita a parlare dell'Ars.
L'Ars poetica è l'unico testo di O. per cui sia possibile dire che fu noto direttamente a D., e in ogni caso l'unico che D. citi esplicitamente, come Poetria di O., sicuramente in almeno tre luoghi (Ars 38-40 = VE II IV 4; vv. 70-71 = Cv II XIII 10; vv. 141-142 = Vn XXV 9) e, fra le opere di dubbia attribuzione, ancora in Ep XIII 30. Numerose altre citazioni e riferimenti non espliciti all'Ars potrebbero concorrere a convincerci della conoscenza diretta e di lungo studio e grande amore di questo testo da parte di Dante. Ma sorge il dubbio che almeno alcuni emprunts oraziani siano stati ricevuti invece indirettamente, attraverso la letteratura grammaticale e scoliastica, senza nessun controllo diretto sul testo che pure D. conosceva. Soltanto postulando una scarsa familiarità col testo oraziano si possono infatti spiegare alcuni grossi errori e fraintendimenti di D. e l'ignoranza quasi continua della glossa esplicativa.
Questi dubbi sulla conoscenza diretta di alcuni passi dell'Ars e sulla disinvoltura e superficialità con cui D. trattò il testo di O. diventano sicurezza per quel che riguarda la conoscenza delle altre opere di Orazio. Sarà utile produrre la documentazione completa di questa tesi che va ancora oltre lo scetticismo del Moore (Studies, I 197-206) ereditato dal Toynbee (Dictionary, sub v.).
1. VE II IV 4 Ante omnia ergo dicimus unumquenque debere materiae pondus propriis humeris coaequare, ne forte humerorum nimio gravata virtute, in caenum caespitare necesse sit. Hoc est quod magister noster Oratius praecipit, cum in principio poetriae ‛ Sumite materiam... ' dicit. E citazione di Hor. Ars poet. 38-40 " sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam / viribus, et versate diu, quid ferre recusent, / quid valeant umeri ". D. se ne ricordò probabilmente anche in Pd XXIII 64-65 Ma chi pensasse il ponderoso tema / e l'omero mortal che se ne carca (Monteverdi, p. 177).
2. Pg XXII 97-98 dimmi dov'è Terrenzio nostro antico, / Cecilio e Plauto e Vario, se lo sai, deriva da Hor. Ars poet. 53-55 " quid... / Caecilio Plautoque dabit Romanus ademptum / Vergilio Varioque? ". D. sostituisce a Virgilio, che trovava in O. - ma che è qui interlocutore con Stazio della scena - Terenzio, in modo da ricostituire la quaterna oraziana come quaterna ‛ regulata ' a prosieguo del canone di If IV. L'importanza della ripresa va appuntata sul nome di Vario, la cui amicizia con Virgilio presente (largamente nota a D. dalle Vitae Vergilianae, per cui s'impone qui, contro Petrocchi e altri, la lezione Vario - o tutt'al più Varo, com'è in parte della tradizione di Orazio e delle Vitae - di fronte a Varro) è sfruttata drammaticamente da D. in struttura con Virgilio; per la questione v. VARIO, Lucio, ma anche VARRONE, M. TERENZIO.
L'inserzione del nome di Terenzio sarà invece dovuta al ricordo generico della sua popolarità e forse anche (v. CECILIO) all'accostamento Plauto-Cecilio-Terenzio che D. poteva ritrovare in Hor. Epist. II I 58-59 " Plautus ad exemplar Siculi properare Epicharmi, / vincere Caecilius gravitate, Terentius arte ", e in Agost. Civ. II XII 9, dove sono citati come pagani (" vestri ") Plauto, Nevio, Cecilio e Terenzio per le loro iniquità. Più probabile, diremmo, il ricordo di Agostino, anche per il significato del nostro che D. attribuisce a Terenzio (in Agostino " Terentius vester "), che verrebbe così arricchito sopra il senso di nostro = " di noi poeti " (R. Mercuri, Terenzio nostro antico, in " Cultura Neolatina " XXIX [1969] 84-116), del senso ulteriore di nostro = " di noi pagani ", formula cortese che Stazio ‛ non pagano ' usa nei riguardi di Virgilio. Meno probabile consideriamo invece (ma v. altrimenti in CECILIO) la contaminazione del luogo dell'Ars con il passo dell'Epistola, per l'insufficiente documentazione della conoscenza delle Epistole da parte di D. (Renucci, p. 115), anche se dobbiamo ammettere che si può sempre pensare che l'Epistola II I ad Augusto sia stata poi un'eccezionale lettura di D., data la sua riconosciuta importanza letteraria.
3. Cv II XIII 10 E queste due proprietadi hae la Gramatica: ché, per la sua infinitade, li raggi de la ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli; e luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio de la Poetria quando dice: " Molti vocabuli rinasceranno che già caddero ". È citazione di Ars poet. 70-71 " multa renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus ".
Una ripresa dello stesso tema, ma allargato ad Ars poet. 60-62 " ut silvae foliis pronos mutantur in annos, / prima cadunt: ita verborum vetus interit aetas, / et iuvenum ritu florent modo nata vigentque ", peraltro largamente testimoniato indirettamente, è in Pd XXVI 137-138 l'uso d'i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene.
4. In Ars poet. 73-98 O. passa in rassegna metri e generi poetici, partendo da Omero: l'elegia (vi distingue due elementi, la " querimonia " e la " voti sententia "), la poesia giambica (archilochea, comica e tragica), la lirica. In VE II IV 5 D. ricava dai vv. 86-98 dell'Ars, peraltro citata al § 4 (v. n. 1), la teoria dei tre stili poetici, il tragico (superior stilus), il comico (inferior stilus), l'elegiaco (miserorum stilus): così il Marigo (" l'Arte poetica di Orazio, anche se non è citata, è sempre la fonte prima "). Certo è che D. elabora la sua dottrina dei tre stili adeguandosi alla dottrina delle tre figurae stilistiche della precettistica scolastica, da Rhet. Her. IV VIII 11 alle Artes. Nell'epistola a Cangrande, esplicitamente sulla stessa citazione di O., i genera narrationum poeticarum diventano invece inaspettatamente sei, cioè oltre la tragedia e la commedia, il carmen bucolicum, l'elegia, la satira e la sententia votiva.
È chiaro che O. non è sfruttato allo stesso modo, o forse non c'entra affatto, nel De vulg. Eloquentia. L'interpretazione che se ne dà in Ep XIII è inoltre aliena non soltanto dal pensiero di D. ma esula dalla temperanza dell'ambiente culturale che D. recepisce abitualmente, sì da costituire una prova di non autenticità. I " genera carminum " sono otto per Diomede (l'epos, l'elegia, i giambi, gli epodi, la satira, la bucolica, la tragedia, la commedia). Matteo di Vendôme e in genere le Artes versificatoriae ne distinguono quattro: la tragedia, la commedia, la satira, l'elegia, di chiara derivazione da Diomede e che corrispondono ai tre stili di Dante. Il comportamento dell'autore dell'epistola a Cangrande travalica questa che era la consuetudine scolastica. Ai quattro genera delle Artes egli aggiunge il carmen bucolicum che deriva autonomamente da Diomede e che non identifica, con le Artes e D., con l'elegia. Come sesto genus introduce quindi la sententia votiva. Questo sesto genus del tutto inaudito non può avere avuto origine se non da una bizzarra interpretazione di Ars poet. 75-76 " versibus impariter iunctis querimonia primum, / post etiam inclusa est voti sententia compos ", dove s'intendeva invece sottolineare i due tipi elegiaci prevalenti, l'elegia funebre e quella anatematica. È assai probabile che la citazione oraziana nell'epistola a Cangrande (Sunt et alia genera narrationum poeticarum, scilicet carmen bucolicum, elegia, satira, et sententia votiva, ut etiam per Oratium patere potest in sua Poetria) riguardi soltanto la sententia votiva e non gli altri genera e che quindi la lettura degli editori vada corretta togliendo la virgola dopo votiva. Non è infatti dato pensare che la citazione oraziana serva a indicare la fonte della teoria dei genera, quando poi l'autore dell'epistola non elenca gli stessi genera che trovava in O., ricavandone soltanto e unicamente la sententia votiva. Che egli abbia poi creduto che l'indicazione oraziana fosse da riferire a un genus ben preciso è un errore in cui può essere caduto sulla traccia di Mario Plozio Sacerdote che elencava appunto due tipi di elegia, i " fletus mortuis " e gli " epigrammata consecrationum ", cioè l'elegia funebre e l'elegia anatematica, identificando con quest'ultima il " voti sententia " di O.; o ancora di Venanzio Fortunato che identificava invece il " voti sententia ", sulla base della letteratura scoliastica (" post etiam coeperunt laeta describi "), con la poesia d'occasione (Venanzio Fortunato III VI 5 " versibus exiguis mandamus vota salutis ") e leggera. L'autore dell'epistola svela così, oltre a un'ingenua e rozza ambizione filologica, la propria struttura schematica che lo obbliga in questo caso a postulare a ogni costo sei e non quattro genera narrationum poeticarum, cioè quanti erano i sex inquirenda che si era proposti nel § 18. Una grettezza del genere e anche tanta temerarietà sono comuni per altri casi all'autore dell'epistola, ma non corrispondono affatto alle normali operazioni letterarie di Dante. Come del resto D. non poté certo avere prima del 1317 (termine ante quem per la datazione dell'epistola e la sua attribuzione a D. proposto persuasivamente dal Mazzoni) coscienza che il genere bucolico e quello elegiaco fossero due genera sostanzialmente diversi. Queste osservazioni devono servire a confermare i dubbi sulla correttezza dell'altra citazione della Poetria (Hor. Ars. poet. 93-96) che leggiamo al § 30 dell'epistola. Il luogo è addotto (sicut vult Oratius in sua Poetria) senza alcun rapporto con la lettera del testo oraziano, a suffragio delle definizioni precedentemente date dei limiti precisi dello stile tragico di fronte al comico, ‛ elatus et sublimis ' il primo, ‛ remissus et humilis ' il secondo, mentre O. voleva dire tutt'altro, e cioè far notare che quei limiti non sono affatto precisi perché " interdum... vocem comoedia tollit " e " tragicus plerumque dolet sermone pedestri ". Si è tentato di giustificare il comportamento dell'autore dell'epistola o ammettendo che si tratta di una citazione " ex contrario " (Marconi: v. CREMETE), o sostenendo che D., autore dell'epistola, abbia voluto citare il passo dell'Ars come giustificazione delle " licentiae " dei poeti e sue nei confronti del " genus " (Auerbach), ma ha più margine di persuasione il D'Ovidio (Studi, pp. 258-259) che giudicava la citazione " inopportuna, allegando l'eccezionale scambio di tono fra commedia e tragedia, dove occorreva insistere sul tono normalmente proprio di ciascuna, e mentre nella Volgare Eloquenza lo scambio non è ammesso ".
5. L'attacco iniziale di If XXX 13-16 E quando la fortuna volse in basso / l'altezza de' Troian che tutto ardiva, / sì che 'nsieme col regno il re fu casso, / Ecuba trista, misera e cattiva, è certamente ispirato a Hor. Ars poet. 137 " fortunam Priami cantabo et nobile bellum " (citato del resto da Matteo di Vendôme Ars vers. I 32 e da Goffredo di Vinsauf Docum. II III 136-137), almeno per l'iniziale la fortuna.
Di tutto il resto dell'episodio di Ecuba è fonte Ovidio Met. XIII 404-575 (cfr. G. Brugnoli, Dante Inf. 30, 13 sgg, in " L'Alighieri " VII [1966] 98-99). Si potrà aggiungere che per il casso vale certamente Virg. Aen. II 85 (" cassum lumìne ") e XI 104 (" aethere cassis ") oltre alle sue imitazioni in Stazio (Theb. II 15 " lumine cassis ") e in Ausonio (p. 139, 5 " cassos luce "; p. 144, 2 " cassis lumine "), ma è pure da considerarsi che D. usa il casso " absolute ", senza cioè la limitazione d'obbligo del " lumine " o del " luce " (l'unico caso di un'ellissi del complemento di limitazione in Valerio Flacco VI 561 " iam cassus in auras respicit ", peraltro inaccessibile a Dante). Ma penseremmo che sul casso, come anche sul cattiva (per cui rimane in ogni caso determinante il " captivarum " di Ovidio Met. XIII 560) pesino alcune strutture fonetiche delle ‛ auctoritates ' e cioè, oltre a " cadunt " di Ovidio Met XIII 404 " Troia simul [" insieme "i Priamusque cadunt ", anche Hor. Ars. poet. 141 (" captae post tempora Troiae ") ben noto a Dante (cfr. n. 6). Anche la " fortuna " di O. è contaminata con Ovidio (Met. XIII 435 " ut cecidit fortuna Phrygum ") per la costruzione dell'autorevole initium dantesco; e forse anche con Alano di Lilla Anticlaudianus I 165-166 " Illic famoso plebescit carmine noster / Ennius et Priami fortunas intonat ".
6. Vn XXV 9 Per Orazio parla l'uomo a la scienzia medesima sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poetria: Dic michi, Musa, virum. È citazione di Hor. Ars poet. 140-142 " quanto rectius hic, qui nil molitur inepte: / ‛ dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae / qui mores hominum multorum vidit et urbes ' ". I versi iniziali dell'Odissea nella traduzione riportata da O. e, con scarsa probabilità, la versione più ampia di questa traduzione che è in Hor. Epist. I II 19-22 hanno probabilmente determinato le parole di Ulisse in If XXVI 97-99 l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore: li vizi umani e il valore corrispondono infatti esattamente al " mores " di O. che è a sua volta specifica traduzione di un νόμον dell'edizione zenodotea (la nostra vulgata ha invece νόον), anche se è probabile che D. cristianizzi il segno con Ecli. 39, 5 " in terram alienigenarum gentium pertransiet; / bona enim et mala in hominibus tentabit ".
Per l'identificazione del " qui nil molitur inepte " con Omero - non desumibile da O. - si può postulare " la consultazione degli scoli a.l. (pseudo-Acrone ‛ Hic idest Homerus, qui nihil incipit inepte ') o la lettura della periocha dell'Odissea di Ausonio (p. 392; per Ausonio in D. cfr. G. Brugnoli, Tre note dantesche, in " Riv. di Cult. Class. e Mediev. " VIII [1966] 270-271) che riportava, nella stessa traduzione raccolta da Orazio, i versi del proemio dell'Odissea, ma attribuendoli, naturalmente e chiaramente, a Omero " (G. Brugnoli, Omero Sire, in " Cultura Neolatina " XXVII [1967] 122, 124 ss.). L'Omero con la spada in mano, sire e sovrano (If IV 86-88), deriva sicuramente dall'accostamento di questo luogo di O. ad Ars. poet. 73-74 (" res gestae regumque ducumque et tristia bella / quo scribi possent numero, monstravit Homerus "), ma forse, in parte, anche da una rara tradizione scoliastica che, in ipotesi, poteva riferire l'" Homerus / sceptra potitus " di Lucrezio III 1037-1038, onde la spada potrebbe superare il " generico riferimento alla poesia epica come tale " (Martellotti: v. OMERO), diventando indizio di regalità e sovranità effettive (cfr. Pg XVI 109-110 ed è giunta la spada / col pasturale).
Omero è sire soltanto in Lucrezio e Dante. Ma certamente l'Alighieri non ne conosce che il nome (v. LUCREZIO). Il confronto più importante è quello fra Lucrezio II 116-117 " multa minuta modis multis per inane videbis / corpora misceri radiorum lumine in ipso " con Pd XIV 114-115 le minuzie de' corpi, lunghe e corte, / moversi per lo raggio, dove si postulano, dal Martina e altri, i tramiti di Lattanzio, Servio e Isidoro. In realtà il solo Lucrezio ha il " corpora " equivalente al corpi di D., sì che la tradizione indiretta non può essere giudicata tramite sicuro e si deve pensare che D. abbia avuto a disposizione un testo che riproduceva Lucrezio più da vicino che Lattanzio, Servio e Isidoro: probabilmente la fonte di costoro. È forse più probabile (G. Brugnoli, Omero Sire, cit., p. 126 ss.) che Lucrezio III 1037 (" adde Heliconiadum comites; quorum unus Homerus / sceptra potitus eadem aliis sopitu' quietest ") sia pervenuto a D. per un tramite sconosciuto di questo tipo da identificare in un ricostruibile scolio a Pers. prol. 4 (" Heliconidasque ").
7. Cv III XIV 8 Onde Democrito, de la propria persona non curando, né barba né capelli né unghie si togliea. Dipende da Hor. Ars poet. 295-298 " ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat, / non barbam, secreta petit loca, balnea vitat ".
Si tratta in D. di un grosso fraintendimento del testo oraziano, perché " Democritus " non è affatto il soggetto del " curat " e del " vitat ". È il caso di pensare a un errore vero e proprio e postulare che il luogo oraziano sia stato ripreso indirettamente ad es. dai Florilegi, dov'è testimoniato, e non c'è bisogno di supporre che alla base dell'errore ci fosse " un texte altéré d'Horace " (Renucci, p. 158 n. 399) peraltro non documentabile. È notevole comunque che Platone, citato nel Convivio subito appresso a Democrito, sia accostato a Democrito anche dagli scoli oraziani, anche se non certo per l'episodio riferito da D., ma soltanto per la comune idea del furor poetico.
8. Pd I 119 quest'arco saetta. È vicino a Hor. Ars poet. 350 " feriet.. arcus ". E va bene che il verso è attestato dai Florilegi, dai grammatici e dalle Artes (Matteo di Vendôme Ars vers I 46), ma il saetta può essere stato suggerito dagli scoli oraziani (pseudo-Acrone " nec semper sagittarius destinata iaculatur ").
9. Vn XXV 9 e non solamente sono parole d'Orazio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Omero. Il buono Omero è certamente ripresa di Hor. Ars poet. 359 " bonus... Homerus " (citato anche da Matteo di Vendôme Ars vers. I 46).
10. If XXXII 10-11 Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe. Deriva da Hor. Ars poet. 394-396 " dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis, / saxa movere sono testudinis et prece blanda / ducere quo vellet ".
11. Pg V 118-119 sì che 'l pregno aere in acqua si converse; / la pioggia cadde. È stato accostato (Scartazzini-Vandelli) a Hor. Epod. XIII 1-2 " Horrida tempestas caelum contraxit et imbres / nivesque deducunt Iovem " (tradito del resto da Mario Vittorino, Atilio Fortunaziano e Terenziano Mauro), ma l'accostamento è certamente insignificante (Renucci, p. 184 n. 655).
Metteremmo a confronto, meglio, Virg. Georg. II 325-326 " tum pater omnipotens fecundis imbribus Aether / coniugis in gremium laetae descendit " per le evidenti riprese, in struttura di fecondità (si veda " pater "-" fecundis "-" coniugis "-" in gremium " = pregno) e per il testuale richiamo ad " aether " (= aere): e si noti che il luogo virgiliano (senza stare a discutere sulle possibilità di conoscenza delle Georgiche da parte di D.) è proposto come " figmentum philosophicum " da Agost. Civ. IV X.
12. Pd XXIII 25-27 Quale ne' plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni. L'accostamento a Hor. Epod. XV 1-2 " Nox erat et caelo fulgebat luna sereno / inter minora sidera ", proposto dal Monteverdi (p. 177), è veramente significativo (impressionante il confronto " sereno "-" inter " = sereni-tra) e fa male il Renucci (p. 126) a rifiutarlo senza discussione. La difficoltà di attribuire a D. la conoscenza degli Epodi va superata qui, come al n. 11 e altrove, assicurando la presenza della tradizione indiretta (in questo caso Agostino, Terenziano Mauro, Vittorino e Diomede).
13. If XXV 58-59 Ellera abbarbicata mai non fue / ad alber sì. È stato accostato (Scartazzini-Vandelli) a Hor. Epod. XV 5 " artius atque hedera procera adstringitur ilex ". L'accostamento sarebbe possibile perché il luogo è testimoniato dalla tradizione indiretta (Prisciano). Ma vale meglio Ovid. Met. IV 365 " utve solent hederae longos intexere truncos " (Scartazzini-Vandelli; Paratore, p. 271) o forse addirittura, naturalmente attraverso florilegi peraltro non attestati, Catullo LXI 34 " ut tenax hedera huc et huc arborem implicat errans ".
14. If XXIV 4-9 quando la brina in su la terra assempra / l'imagine di sua sorella bianca, / ma poco dura a la sua penna tempra, / lo villanello a cui la roba manca, / si leva, e guarda, e vede la campagna / biancheggiar tutta, è certamente vicino a Hor. Carm. I IV 4 " nec prata canis albicant pruinis " (Scartazzini-Vandelli), il cui tramite è però assicurato dai grammatici (Eutiche, Prisciano) e da Marziano Capella.
Non è quindi necessario sostituirvi Seneca Hercules furens 139-140 " Pastor gelida cana pruina / grege dimisso pabula carpit " (Proto), dove del resto mancano i " prata " che " albicant " necessari per la campagna che ‛ biancheggia '. Qui, come in altri luoghi, il rapporto con Seneca è soltanto illusorio. Il Proto che vi credette doveva pur pensare che Seneca è un vero e proprio centonizzatore di O. (come in questo caso) e di altri (per D. e Seneca tragico cfr. G. Brugnoli, Ut patet per Senecam in suis tragediis, in " Riv. Cult. Class. e Mediev. " V [1963] 146-163).
A Hor. Carm. I VII 25-32 è riferito il discorso di Teucer ai compagni che dovranno partire con lui. Il rapporto è in qualche modo anche con l'analogo discorso di Ulisse in If XXVI 112-120 (Marchiafava, p. 511; Monteverdi, p. 177).
Almeno gli esordi dei due discorsi sono in realtà assai simili, almeno nell'allocutio: If XXVI 112-113 O frati... che per cento milia / perigli siete giunti a l'occidente = Hor. Carm. I VII 26 " o socii comitesque ", e 30-31 " o fortes peioraque passi / mecum saepe viri ". Non sembra fondata la negativa del Renucci (p. 181 n. 606). Devono convincere specialmente due osservazioni: 1) il discorso di Ulisse dev'essere sentenzioso, com'è nella precettistica delle Artes. Esso finisce con una preziosa auctoritas sallustiana (If XXVI 118-120 = Sallustio Iug. II 1) ed è quindi credibile che debba iniziare con la citazione di un'altra auctoritas; 2) il frati e il perigli di D. sembrano subire il peso fonetico di " fortes " e " peiora " di O. (anche se per perigli vale sempre il confronto con Virg. Aen. I 199 " passi graviora "). S'intende che, com'è accertabile per la fonte dell'auctoritas sallustiana (If XXVI 118-120 = Sallustio Iug. II 1 attraverso Alberico di Montecassino Flores rhetorici III 1 " Adducatur in medium auctoritas Sallustii: Quid enim humanum studium a brutis animalibus seponit, quod bona tam animi quam corporis dividendo seiungit ": G. Bugnoli, Il latino di D., in D. e Roma, Firenze 1965, 67), anche questo ricordo oraziano potrebbe essere pervenuto a D. attraverso florilegi peraltro non identificabili.
16. In Pg XXIV 121-123 il primo esempio di golosità è dei centauri, i maladetti / nei nuvoli formati, che, satolli, / Tesëo combatter co' doppi petti, e potrebbe ricordare (Scartazzini-Vandelli) Hor. Carm. I XVIII 8 " Centaurea monet cum Lapithis rixa super mero ". Ma è certamente sufficiente Ovid. Met. XII 210 ss. (Scartazzini-Vandelli, Renucci), magari accostato a Giovanni di Salisbury Policr. VIII VIII 2, 273. Per Ovidio si confronti: v. 211 " nubigenasque feros " = maladetti / nei nuvoli formati; " positis ex ordine mensis " = satolli; v. 240 " bimembres " = co' doppi petti.
17. Hor. Carm. II X 9-13 " saepius ventis agitatur ingens / pinus et celsae graviore casu / decidunt turres feriuntque summos / fulgura montis " ha certamente suggestionato Pg V 14-15 sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti; Pd XVII 133-134 Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote.
Si tratta però di una ripresa per via indiretta il cui tramite è assicurato da Isid. Synon. II 89 (v. ISIDORO) oltre che dagli scoli a Lucano e dai florilegi. Aggiungiamo che le più alte cime deriva poi sicuramente da Ovid. Rem. am. 369 " perflant altissima venti ".
18. Hor. Carm. III III 49-52 " aurum inrepertum et sic melius situm, / cum terra celat, spernere fortior / quam cogere humanos in usus / omne sacrum rapiente dextra ", con gli scoli (pseudo - Acrone " minus enim causas avaritiae praestat "; Porfirione " causam praestat avaritiae ac sceleribus "), e forse anche Hor. Carm. II II 1-4 " Nullus argento color est avaris / abdito terris ... / nisi temperato / splendeat usu ", sono alle fonti di Cv I IX 6 nulla cosa è utile, se non in quanto è usata, né è la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì come l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati [e dico solo de' sotterrati è integrazione del Barbi, accolta dalla Simonelli]; però che quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascosto.
Tuttavia sarà da ipotizzare che la lettura di O. risalga a florilegi (Moore, Renucci) o tutt'al più (se si accetta l'influsso degli scoli) al trattato di casistica che è fonte di questo paragrafo del Convivio. Lo può provare la considerazione che, in caso contrario, questo sarebbe l'unico esempio di una lettura attentissima e addirittura controllata sugli scoli di O. lirico da parte di Dante.
19. If XXXI 95-96 quando i giganti fer paura a' dèi; / le braccia ch'el menò, già mai non move, detto di Fialte, parrebbe vicino a Hor. Carm. III IV 49-50 " magnum illa terrorem intulerat Iovi / fidens iuventus horrida brachiis ", riferito genericamente alla gigantomachia.
Certo non è giustificato il rifiuto da parte dello Scherillo (Alcuni capitoli, p. 425) e del Renucci della proposta di confronto fatta da Scartazzini-Vandelli, con lo specioso pretesto che il nome di Efialte non appare né in O. né negli scoli relativi ed è assurda la controproposta del Renucci di cercare nel Culex (vv. 234-236, dov'è nominato Efialte ma non ci sono né il ‛ terror ' = paura né il ‛ brachia ' = le braccia), sicuramente ignoto a D., la fonte sostitutiva di Orazio. Suggeriamo da parte nostra una ricerca nei repertori mitografici medievali, che potrebbero avere ripreso o sfruttato il testo oraziano; a meno che non si voglia, nonostante il Toynbee, riesumare Claudiano De Bello Gothico 63-65, che reca " timuisse " (così la vulgata di D.) e " brachia centum ", e al v. 75 cita Efialte (v. CLAUDIANO).
20. Eg I 8-13 (il carmen di Giovanni del Virgilio) dipende certamente da O. (Sat. I IX 28-59) che vi viene addirittura citato come " Flaccus ".
Il modo della citazione e la stessa lettura delle Satire non trovano riscontro peraltro in altra parte di D., sì che la presenza di " Flaccus " e delle Satire in Giovanni del Virgilio viene a essere un ulteriore elemento contro l'accusa di falso in cui è coinvolta l'intera corrispondenza. Sarebbe infatti assai strano che il falsario abbia avuto la fortuna o l'oculatezza d'introdurre l'unica citazione oraziana dell'intera corrispondenza proprio in quella parte che era attribuita a Giovanni del Virgilio che era il solo che in realtà poteva disporne, mentre D. no.
21. If XX 40-45 è stato messo in contatto con Hor. Sat. II V soltanto dal Fornaciari (Studi su D., p. 110) e dal Paratore, perché, secondo il Paratore (pp. 45-46), " il fatto che Tiresia, protagonista di Hor. Serm. II, 5, è in Inf. XX 40-45, nella bolgia degli indovini " potrebbe essere un indizio che a D. " doveva essere trapelata attraverso la satira II 5 di Orazio e gli scoli relativi " notizia della Nékyia odissiaca.
Ma è meglio, se si vuole proprio accettare questa suggestione, peraltro non indispensabile, pensare con il Renucci (p. 145 n. 223) che D. possa avere avuto " l'idée de mettre en enfer Tirésias " sulla base di Boezio Cons. phil. V III 25, dove Tiresia era ridicolizzato proprio sulla base di Sat. II v.
22. In If XXVIII 115-117 il ‛ dictum ' che la coscienza... pura è un asbergo è assai vicino ad analoga espressione di Hor. Epist. I I 60, dove la buona coscienza è detta " murus aeneus ". Tuttavia la vicinanza non è certo letterale, per cui fa bene il Renucci (p. 181 n. 617) a rifiutare il confronto che era stato proposto da Scartazzini-Vandelli.
In Hor. Epist. I II 55 ss. l'elenco delle " voluptates " (avarizia, invidia, ira) non ha peso, come pretese l'Elisei e negò giustamente il Renucci (p. 175 n. 552), sulla concezione delle tre bestie allegoriche di If I, il di cui sensus è certo polysemos, ma quello morale non è sicuramente prevalente.
24. Hor. Epist. I III 34 è addotto da Scartazzini-Vandelli per Pg XI 53 che la cervice mia superba doma (in O. " indomita cervice feros "): ma basta richiamare il ricordo del modulo scritturale " dura cervice " (Renucci, p. 184 n. 655).
25. If XXIX 82 e sì traevan giù l'unghie la scabbia sarebbe vicino a Hor. Epist. I XII 14 " cum tu inter scabiem tantam et contagia lucri " (Scartazzini-Vandelli). Ma va certamente rifiutato (Renucci, p. 181 n. 617).
26. VE II I 9 sed nec bovem epiphyatum, nec balteatum suem dicemus ornatum, immo potius deturpatum ridemus illum = Hor. Epist. I XIV 43 " optat ephippia bos, piger optat arare caballus ".
Ma è, come ammette il Marigo che lo ha proposto, " reminiscenza indiretta del verso oraziano... dove l'esempio è d'incontentabilità e non corrisponde al senso di Dante. Egli prende epiphyatus nella grafia deformata e nella accezione indebita data da Uguccione (‛ epiphya sunt ornamenta equorum, ut frena pectoralia ') di ornamenti di cavallo ". Si aggiunga che evidentemente D. ignora anche la scoliastica oraziana (pseudo-Acrone: " Ephippia: alii sagmata, nonnulli ea quae propter iugum equis currilibus inponuntur, et hoc verius ") che è fonte della glossa uguccionea. Se l'avesse conosciuta, e letto O., avrebbe corretto la ‛ grafia ' e restituito ‛ l'accezione ' e non avrebbe mai pensato che il ‛ dictum ' poteva essere rivolto contro le ambizioni degl'impotenti, quando O. intendeva invece sottolineare l'insofferenza dell'uomo per la propria sorte e l'invidia per quella degli altri. se avesse saputo tutto questo non avrebbe quindi inventato l'assurda variazione del balteatum suem.
27. L'accostamento di Hor. Epist. I XVIII 9 a Pg XXII 34 e Cv IV XVII 7 non ha appiglio in nessuna rispondenza testuale e va quindi rifiutato (Renucci, p. 115).
28. Il rapporto di Hor. Epist. II I 58-59 con Pg XXII 97-98 e le sue scarse possibilità di accettazione è stato già esaminato (cfr. 2.).
O., che non servì mai al senso allegorico, non ha posto fra i poeti ‛ regulati ' (Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio). Così è in VE II VI 7 Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum.
In Vn XXV 9 O. è invece citato fra i poeti che hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, insieme con Virgilio, Lucano e Ovidio. È assai dubbio che D. abbia qui in mente una serie di ‛ regulati ' (Chistoni, p. 56) con O. al posto di Stazio, mentre è invece evidente che O. sostituisce e rappresenta Omero (Per Orazio parla l'uomo a la scienza medesima sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poetria: Dic michi, Musa, virum) e che quindi non è addotto per sé stesso, ma per introdurre la citazione di Omero.
In If IV 88-90 O., nella serie Omero-O.-Ovidio-Lucano (completata in sestina con Virgilio e D.), è invece veramente sostitutivo di Stazio, diadoco di Virgilio nel Purgatorio e quindi assente. Virgilio, in quanto destinato a trasportare valori simbolici primari, sfugge in questo primo canone a una precisa qualificazione (egli rimane altissimo poeta) che otterrà solo in seguito, appunto come agente delle situazioni e in struttura con esse, genericamente per la sua funzione di maestro (dottore, signore) e guida (duca, scorta, compagna) per cui gli toccano gli epiteti scolastici del caso (dolce, dolcissimo, buono, cortese; savio, saggio; antico; nostro); e più particolarmente, a partire dall'incontro con Stazio e in struttura con questi, come cantor de' buccolici carmi (Pg XXII 57: con riferimento a Buc. IV che illuminò Stazio, ma anche dal suo rapporto strutturale di " rappresentante dello stile comico di fronte a Stazio esponente dello stile tragico ": G. Brugnoli, Stazio in D., in " Cultura Neolatina " XXIX [1969] 119-120 n. 3) e amico di Vario (Pg XXII 98: cfr. R. Mercuri, Terenzio nostro antico, cit., pp. 90 ss.) o come padre-madre di Stazio e D. (cfr. R. Mercuri, Conosco i segni dell'antica fiamma, in " Cultura Neolatina " XXXI [1971], in stampa). Omero in questa serie è sostitutivo di Virgilio che torna e completa così la quaterna ‛ regulata ', ma è anche segnale di Virgilio (come Virgilio è signor dell'altissimo canto), suo erede ufficiale nella scolastica medievale (Ugo di Trimberg [Reg. 157-158] dice di Omero che " sequacemque Virgilium Aeneidos habebat, / qui principalis extitit poeta latinorum "). Se Omero è segnale di Virgilio, e dal momento che Ovidio e Lucano fanno parte di diritto del canone dei poeti ‛ regulati ', l'unico elemento allotrio pare proprio O. e ancora più incomprensibile rimane l'epiteto di satiro attribuitogli da D. nonostante la propria scarsa familiarità con le Satire e le Epistole.
Le osservazioni su questo comportamento sono poche e non permettono una decisione: 1) Si potrebbe notare che, come in Vn XXV 9 O. è addotto per dar modo a D. di citare un verso del buono Omero, così in If IV 88-90 O. segue nell'ordine di serie proprio a Omero: se ne potrebbe dedurre che D. abbia operato l'inserzione del nome di O. nel canone infernale sulla suggestione del ricordo dei legami di O. con Omero, quali gli apparivano da diversi luoghi dell'Ars sfruttati, come vedemmo, oltre che in Vn XX 9, in malte altre parti della sua opera; 2) Si potrebbe notare che O. è posto nell'ordine cronologico fra i suoi colleghi (O.-Ovidio-Lucano), sì che D. avrebbe potuto ricavarne nome e collocazione dal Chronicon di Eusebio - s. Girolamo (in Vn XX 9 Stazio è posto erroneamente prima di Lucano perché D. l'identifica col grammatico Stazio Ursulo e, appunto dal Chronicon, sa che è fiorito alcuni anni prima della morte di Lucano) che, oltre tutto, lo definisce " satyricus ". Procedimenti del genere potrebbe essere giustificati dall'ulteriore osservazione che è assai probabile che la serie di auctores di If IV debba essere completata con la serie di auctores di Pg XXII per la cui costruzione D. procede in modo analogo a quello ipotizzato per If IV: in Pg XXII la quaterna Terenzio-Cecilio-Plauto-Vario (completata, colpe in If IV, in sestina con l'inserzione di Giovenale e Persio) deriva sicuramente dalla quaterna Cecilio-Plauto-Virgilio-Vario di Hor. Ars poet. 54-55, con la semplice sostituzione di Terenzio a Virgilio (che è interlocutore della scena e quindi, come in If IV e per gli stessi motivi, impossibilitato a entrare nel canone).
Ma sono osservazioni tutte poco dirimenti della questione generale che è quella della posizione di O. nella serie di If IV e contemporaneamente del significato dell'epiteto satiro.
Partiremmo da un indizio finora non raccolto: è evidente che i tre massimi poeti satirici, O., Persio e Giovenale, entrano nei rispettivi canoni, O. in If IV e Persio e Giovenale in Pg XXII, in modo estremamente equivoco (O. come satiro in un canone che è apparentemente di tragici; Giovenale come segnale di Stazio; Persio di seguito a una serie comica), tanto equivoco che esso non può non essere deliberato ed escogitato al fine preciso di attirare inevitabilmente l'attenzione sul posto loro assegnato e sulle funzioni specifiche che D. attribuisce a questa collocazione. In altre parole crediamo che l'ambiguità delle funzioni di O., Persio e Giovenale costituisca un segnale con cui D. vuole sottolineare una loro determinata importanza culturale.
D. non conosce di O., come si è visto, se non l'Ars. Certo è però che, almeno per fama, attraverso le citazioni delle Artes, delle Poetriae, degli Accessus, delle enciclopedie e di quegli autori che aveva più familiari, sa che O. era stato anche autore lirico e satirico: nel Chronicon di s. Girolamo (o nei Chronica derivati) poteva leggere di " Horatius Flaccus satyricus et lyricus poeta " (Gir. Chron. ad Ol. 178, 4).
Per D. e per la cultura medievale la satira, come la commedia, è un genere morale. Giovanni di Salisbury nel Policraticus qualifica Persio e Giovenale indifferentemente come " satyrici " e come " ethici "; come " ethicus " O. quando fa riferimento a Satire ed Epistole. E non è un caso che Brunetto Latini concentri le citazioni dai poeti satirici O., Persio e Giovenale, proprio nel secondo libro del Tresor che tratta appunto della " nature de visces et des vertus selonc etique ".
In Cv IV XII 8 O. è citato fra coloro che condannano le ricchezze corruttrici dello spirito, insieme con Seneca, Giovenale, Salomone, le Scritture e Boezio, in una simbiosi di auctoritates classiche e cristiane che sottolinea l'importanza che D. dà a Seneca morale e ai satirici che pone sullo stesso piano di moralità: la figurazione di O. non deriva qui, come si crede (Proto, Mazzucchelli, ma contro bene il Renucci, p. 158 n. 399), da una diretta conoscenza di Odi, Satire, Epistole, ma da s. Girolamo che qualificava O. come colui che " irridet... appetitum ciborum " (Gir. Adv. Iovin. II XII = Patrol. Lat. XXIII 315 B, ripreso in Giovanni di Salisbury Pol. VIII VI 727 A) e come demistificatore degli dei falsi e bugiardi (Gir. In Is. XII 44 = Patrol. Lat. XXIV 453 D: " super quo et Flaccus scribit in satira, deridens simulacra gentium ") e forse anche da Lattanzio Inst. II IV 3 " sed Flaccus ut satirici carminis scriptor derisit hominum vanitatem ". Del resto l'identificazione satiro-morale era passata, attraverso la tradizione scoliastica (Scholia in Iuv I 51), nelle Artes e nelle Poetriae (Eberardo il Tedesco Laborintus 623-624; Matteo di Vendôme Ars vers. I 32) e nelle enciclopedie (Osbern di Glocester Panormia p. 533 Mai).
Non ci si può comunque fermare alla semplice identificazione satiro-morale, che è l'acquisizione del Moore.
Potremmo partire da quanto abbiamo su notato per la presenza eterodossa di O. nel canone e dall'ipotesi che D. abbia voluto così privilegiare all'attenzione la figurazione di Orazio. In questo ambito il termine satiro potrebb'essere un segnale dell'importanza che D. attribuì a Orazio. Satiro è parola che D. usa soltanto due volte (mai satyrus): in If IV per O. e in Cv IV XXIX 4 dice esso poeta satiro per Giovenale. Noi crediamo di aver trovato la fonte dell'espressione Orazio satiro in Vincenzo di Beauvais Spec. hist. VIII CXXXVII " porro de Horatio satyro et dictis eius superius diximus ".
‛ Satyrus ' in luogo di ‛ satyricus ' nel significato di " Satyrarum scriptor " trova riscontro prima di Vincenzo di Beauvais solo negli Scholia Vindobonensia (da un ms. del X-XI secolo) a Hor. Ars poet. 230 (" Debet ergo satyrus in quodam meditillio mediocritatis se continere, ut neque nimis vilia carmina fingat, neque nimis alto sermone comprehendat ") e in Cassiodoro Var., dove Giovenale è detto " satyrus doctor ", ma si tratta di lettura che il Mommsen corresse in " satyricus ". Fonte dell'hapax è probabilmente l'interpretazione che lo pseudo-Acrone dà dei vv. 230-235 dell'Ars, dove si parla del dramma satiresco, e in particolare di Ars poet. 235 " Satyrorum scriptor " che intende come " Satyrographus " (l'espressione vale invece " τῶν σατυρικῶν δραμάτων scriptor "), provocando una falsa esegesi che è rappresentata anche nel Forcellini (" Satyrorum scriptor est qui saturas scribit "). Ma cfr. Osbern di Glocester Panormia p. 533 Mai: " Item a saturo haec satyra, ae, eo quod satura sit reprehensionibus; et inde satyricus, a, um, et satyrice adverbium et hic satyrus, ri, Deus dictus ad alios deridendos paratus ".
La scelta di satiro (D. non usa mai ‛ satyricus '-‛ satirico ') da parte di D. non può non avere, a nostro parere, un significato non casuale. Noi pensiamo invece che la ricezione di un hapax così raffinato dovesse servire nelle intenzioni di D. ad attirare ulteriormente l'attenzione sulla figurazione di O.: in altre parole satiro deve spiegare O. come sovrano Omero (e si noti che O. e Omero sono i due unici personaggi a essere qualificati con epiteto). Ora è innegabile che il sovrano di Omero genera una struttura (vv. 87 sire + 88 sovrano + 95 signor + 96 sovra li altri) che lo spiega. Ebbene, anche il satiro deve far parte di una struttura che serva a spiegarne le reali intenzioni.
Identificheremmo i punti della struttura che gravita sull'O. satiro nei vv. 84 e 98 di If IV. Nei due versi è la descrizione dell'atteggiamento nei riguardi di D. dei poetae regulati che gli si fanno incontro con ‛ sembianza ' né trista né lieta e gli si rivolgono con salutevol cenno. Noi proporremmo l'accostamento a questi versi di Uguccione (Magnae Derivat., sub v. Oda): " Et differunt tragoedia et comoedia, quia comoedia privatorum hominum continet acta, tragoedia regum et magnatum. Item comoedia humili stilo scribitur, tragoedia alto. Item comoedia a tristibus incipit, sed in laetis desinit, tragoedia e contrario; unde in salutacionibus solemus mittere et optare amicis tragicum principium et comicum finem, idest principium bonum et laetum finem ".
La terza parte della differentia uguccionea (" Item comoedia a tristibus incipit ", ecc.), che è quella che c'interessa, deriva da Diomede Ars p. 488 (" in illa frequenter et paene semper laetis rebus exitus tristes "), che è detto della tragedia, e da Evanzio De Com. IV 2 " in comoedia mediocres fortunae hominum, parvi impetus periculorum laetique sunt exitus actionum ", convogliati nella letteratura scoliastica (pseudo-Acrone a Hor. Serm. I X 16 " temperabant fabulas suas iocoso et tristi ") e nella trattatistica medievale, come ad es. in Osbern di Glocester Panormia p. 593 Mai: " Tragoedia, carmen luctuosum quia incipit a laetitia, et finit in tristitia; cui contrarium est comoedia quia incipit a tristitia et finit in laetitia " (Stazio, tragico, è appunto cantore de le crude armi / de la doppia trestizia di Giocasta, in Pg XXII 55-56: cfr. Diomede loc. cit. " tristitia namque tragoediae proprium ").
In Ep XIII 29 c'è la ripresa della derivatio uguccionea a spiegazione del libri titulus. Noi non crediamo che quella parte dell'epistola sia di D. e giudichiamo che D. non poteva comunque applicare alla Commedia il significato del " lieto fine " (cfr. G. Brugnoli, L'Epistola a Cangrande, in stampa). Adeguatamente proporremmo che in questi versi di If IV i riscontri verbali né trista né lieta = " a tristibus incipit, sed in laetis desinit ", e con salutevol cenno = " unde in salutationibus solemus mittere ", ecc., siano da riportare non alla commedia ma alla satira, sulla base di Isid. Orig. VIII VII 6-7 " Item tragicorum argumenta ex rebus luctuosis sunt: comicorum ex rebus laetis. Duo sunt autem genera comicorum, id est veteres et novi. Veteres, qui et ioco ridiculares extiterunt, ut Plautus, Accius, Terentius. Novi, qui et Satirici, a quibus generaliter vitia carpuntur, ut Flaccus, Persius, Iuvenalis vel alii ".
Le due interpretazioni dominanti di If IV 84 sembianz' avevan né trista né lieta, la prima che ne ricavava l'atteggiamento dei " saggi " (v. 110 savi) e la seconda che vi scorgeva la dimensione metafisico-teologica dei limbicoli sono così superate. Non scordiamo certo che la ‛ sembianza ' né trista né lieta trova pur riscontro nello stato limbico degl'infanti innocenti come lo vedono i padri da Giustino a s. Bonaventura (Seni. II D. 33 q. II Resol. " ut nec proficiant nec deficiant, nec laetentur nec tristentur, sed semper sic uniformiter maneant "); ma teniamo pur presente che s. Bonaventura parla, ovviamente, soltanto della questione dei pargoli non battezzati. D., contro ogni disposizione teologica, è intenzionato a mettere nel Limbo, oltre gl'infanti, i suoi spiriti magni e i suoi poeti. È ragionevole che abbia contaminato l'espressione teologica con quella retorica dello " status mediocritatis ". Questo aveva intuito il Castelvetro quando scriveva: " Queste parole non riguardano alla condizione delle persone, perché sieno prive della gloria del Paradiso e sieno senza pena affittiva, perciò che questo non sarebbe speziale in loro, né riguardano alla condizione della persona del savio, che non dèe essere né tristo né lieto, per ciò che questi quattro non furono stoici; ma riguardano la condizione della persona del Poeta, che suole essere pensoso, ma non tanto, che esca fuori de' termini della piacevolezza cittadinesca ".
Che D. potesse aver presente questo passo d'Isidoro, sarebbe dato provarlo con l'osservazione che in Pg XXII Giovenale e Persio (" Novi, qui et satirici ") entrano solo lateralmente nel canone dei vv. 97-98 che (fatta eccezione per Vario, che è, come dicemmo, in struttura cortese con Virgilio) riferisce invece puntualmente i nomi di Terenzio, Cecilio e Plauto, " comici veteres " e non " satirici " per Isidoro.
L'opus comicum di D. è invece, com'era stato quello di O., " novum et satiricum " e il fine della Commedia eguale a quello della satira, di un impegno politico e di salute pubblica.
Che uno dei fili che collega il canone degli autores sia questo della satira che sfocia nell'O. satiro, come l'altro filo della tragedia sfocia nell'Omero sovrano e nell'altissimo canto, lo può confermare l'osservazione che la descrizione degli spiriti magni segue un eguale cliché. Gli spiriti magni sono autores (non auctores da avieo, ma da ‛ autentin ', che tanto vale in latino quanto ‛ degno di fede e d'obedienza '. E così ‛ autore ', quinci derivato, si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè ‛ autoritade '; per che si può vedere che ‛ autoritade ' vale tanto quanto ‛ atto degno di fede e d'obedienza ', Cv IV VI 4-5, onde Aristotele citato qui e in If IV, Livio che non erra di If XXVIII 12 e Catone di Pg I 32 degno di tanta reverenza sono spiriti magni) di morale contrapposti agli autores di poesia: è per questo che in If IV 113 sono di grande autorità [= magni come autores] ne' lor sembianti. Ma i loro occhi tardi e gravi (v. 112) e il loro parlare rado, con voci soavi (v. 114) sono in pendant perfetto con la ‛ sembianza ' (cfr. lor sembianti) né trista né lieta e il salutevol cenno che contraddistingue l'aspetto degli autores di poesia. Il ritratto psico-fisico degli spiriti magni è certamente elaborato sulla descrizione aristotelico-tomista dei " motus magnanimi " (Tommaso In Eth. exp. IV lect. X); quello degli autores di poesia su s. Bonaventura e la definizione retorica di satira. A noi basta che l'esistenza delle due strutture parallele giustifichi il nostro discorso.
Bibl. - L. Castelvetro, Sposizione a XXIX canti dell'Inferno dantesco, a c. di G. Franciosi, Modena 1888; M. Manitius, Analekten zur Geschichte des Horaz im Mittelalter, Gottinga 1893; T. Bottagisio, Il limbo dantesco. Studi filosofici e letterari, Padova 1898; P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco: periodo degli studi sui classici e filosofi antichi, Livorno 1903; E. Proto, D. e i poeti latini, in " Atene e Roma " XI (1908) 23 ss., 221 ss. XII (1909) 7 ss., 277 ss.; XIII (1910) 79 ss., 149 ss.; E. Stemplinger, Horaz im Urteil der Jahrhunderte, Lipsia 1921; E. Marchiafava, in " Nuova Antol. " 16 ott. 1935, 505-516; A. Monteverdi, O. nel Medioevo, in " Studi Mediev. " n.s., IX (1936) 162-180; C. Marchesi, L'O.. e l'Ulisse dantesco, in Annuario del Liceo G. Galilei, Pisa 1953, 27 ss.; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954; F. Mazzoni, Il canto IV dell'" Inferno ", in " Studi d. " XLII (1965) 29 ss.; E. Auerbach, Studi su D., Milano 1967; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze1968.