ORAZIO Flacco, Quinto (Q. Horatius Flaccus)
I termini della sua vita vanno dall'8 dicembre del 65 al 27 novembre dell'8 a. C. Sono 57 anni dei più agitati e decisivi della storia romana: violenze estreme dapprima, che travolgono la vecchia repubblica; poi una nuova era d'ordine e di pace con Ottaviano Augusto. Pensosa, di conseguenza, e travagliosa la giovinezza del poeta, come di tutta la generazione che fu sua: la maturità, per virtù intrinseche e col favore delle circostanze, levata a serenità d'armonia e di luce. Cogliere l'essere e il divenire di questa ricca e complessa natura ci è dato, come per pochissimi altri del mondo antico, perché di O. si può ripetere quello ch'egli diceva di Lucilio: nei canti apre intero il suo cuore come si farebbe a fidi amici. Fra i pagani, all'infuori di Cicerone, non v'è certamente un altro che noi conosciamo così, nei tratti esteriori e interiori, nei pensieri, negli amori, negli odî, nelle contingenze del giorno, nelle mosse medesime, dalla fanciullezza alla morte. Egli narra sempre sé stesso, in antitesi o in consonanza del mondo che gli sta d'intorno; di fronte ai ricchi documenti spirituali che sono le sue opere, sbiadito e secondario è ciò che ci tramanda il biografo Svetonio. E non è che, leggendo lui nelle sue pagine, s'ingeneri sazietà o disgusto; perché non vanità o vanagloria lo fa parlare di sé - nulla anzi gli disdice più che l'abito del grand'uomo - ma esuberanza di sentimento personale. Nacque a Venosa, una colonia militare romana, ai confini della Lucania e dell'Apulia: nacque in terra di chiarità solare, che non conosce le penombre e dà alle cose quella nitidezza di contorni onde è mirabile l'arte sua. Alle vivide impressioni avute dalla natura nei luoghi dell'infanzia ritorna volentieri la memore fantasia di lui; tratti e caratteri di quel paese si riflettono nei suoi canti. Specialmente l'Aufido fragoroso rimane presente al suo cuore, gli rimormora i dolci ricordi della prima età: è l'eterna poesia umana del fiume nativo, che dallo Scamandro dell'Iliade omerica e dall'Arno dantesco riecheggia nel verso di tutti i tempi. Costì ha le sue radici il gusto della campagna e della libertà dei campi, che in O. è una nota delle più caratteristiche: il ricordo lontano della puerizia lo riconduce, in un'ode, a vagare animoso su per il monte patrio, il Vulture, attraverso i boschi, finché stanco si addormenta, e dalle vipere e dagli orsi vengono a proteggerlo le colombe delle favole divine ricoprendolo di lauri e di mirti; vicenda dipinta a colori mitici, presentata come un prodigio per i campagnoli e i montanari delle adiacenze; trasfigurazione ideale della propria terra e del proprio primo rivelarsi agli uomini.
Umile la condizione che O. sortì, e alla mediocrità dei natali egli si mantenne sempre fedele idealmente e praticamente: qui è radicato il sogno suo dell'aurea mediocritas. Il Padre era uno schiavo pubblico di Venosa, poi affrancato; donde il nome gentilicio, in quanto la città apparteneva alla tribù Orazia. Non discendeva, costui, dai coloni romani di Venosa; era lucano o apulo, stirpi bellicose da cui O. con l'umorismo della sua satira riconosce l'impulso che lo portò a poetare secondo gli spiriti di Lucilio. Il padre tiene tutti gli affetti del poeta nelle reminiscenze giovanili di Venosa e di Roma; della madre è silenzio assoluto, forse perché troppo presto scomparsa. Possessore d'un magro campicello, il padre non ha cura maggiore che l'istruzione del figlio, e non si accontenta per lui della scuola di Flavio, un maestro di Venosa da cui pure andavano "magni pueri magnis e centurionibus orti", ma a costo di sacrifizî lo conduce presto a Roma, lo affida a ottimi maestri, gli fa compagni i figli dei cavalieri e dei senatori, gli sta a fianco vigile e geloso custode, gli fa conoscere la realtà della vita perché sull'esempio di questo e di quello impari ad apprezzare il bene e a fuggire il male, gl'infonde e gli coltiva quel senso squisito della realtà che di lui è caratteristico. In O. è vividamente espressa l'ansia con cui il padre ne accompagna via via la formazione spirituale, e si riascolta insieme l'orgoglio con cui il figlio ricambia l'amore paterno, il vanto che egli, già celebre e amico dei grandi, mena d'un genitore uscito dall'infima plebe, che aveva campato la vita come riscotitore di gabelle, forse pure come salsamentario. Di tale padre egli è tanto lungi dal vergognarsi, da dichiarare che, se si potessero scegliere i proprî genitori, per conto suo non avrebbe voluto averne altri: oltre tutto la bassa origine toccatagli in sorte gli consentiva di seguire liberamente i proprî gusti, d'essere indisturbato dal peso e dalle seccature d'una nobile casata, d'andarsene a suo agio dove il genio lo conduceva, tra le semplici cose di tutti i giorni. E questo è tutto O.
Unico suo maestro a noi noto del periodo romano è L. Orbilio Pupillo, filologo illustre, forse, se il "grammaticorum equitum doctissimus" dei versi che precedono la 10a satira del I libro d'O. è lui, cultore ed editore di Lucilio, forse anche satirico egli stesso, comunque una natura aspra e biliosa, amareggiata per di più dalle dure esperienze dei suoi casi. Egli è rimasto nella memoria degli uomini come il "plagosus Orbilius", quale O., più scherzoso che iroso, lo rievoca negli anni delle Epistole a dettargli a suon di nerbo la vecchia Odissea di Livio Andronico, la quale naturalmente, come tutta l'arte antica, non andava più a genio, una volta invalse le eleganze dei neoterici. Ben differente l'impressione che il poeta ebbe dalle letture romane dell'Iliade; nei Greci, più che nei Latini usi ad essere studiati nella scuola d'allora, egli trovò manifestamente il suo pascolo intellettuale. E Omero gli restò poi sempre nell'anima maestro non solo di poesia, ma di quella sapienza e scienza umana che fu il gusto di O. acuto osservatore di cose e di uomini per istinto non meno che per avviamento paterno, donde anche la commovente gratitudine per il padre. A Roma dominavano in quel tempo i poeti neoterici, massimi esponenti Catullo e Calvo; né poteva essere che spiriti e forme di questa fresca ondata di poesia innovatrice rimanessero senza effetto sopra un giovane che schiudeva il cuore ai canti: ardenti sfoghi d'amore e virulenza feroce di giambi sono le note più significative dei poetae novi. La nascente musa oraziana, quella che noi troviamo negli Epodi e nelle Satire più antiche, ha costì le sue scaturigini: è un O. che va cercando sé stesso. Di capitale importanza per l'evoluzione spirituale di lui è il soggiorno d'Atene, all'età di vent'anni. In quel sacrario di tradizioni d'ogni cosa bella si recava già da tempo a coronare i proprî studî la gioventù migliore di Roma: Cicerone era tornato di là e dalla Grecia "prope mutatus", aveva scoperto insomma, per sempre, il suo destino di oratore e le vie maestre dell'eloquenza. La saggezza, l'intelligente affetto del padre compirono quest'ultimo sacrificio che O. andasse, solo ormai e affidato a sé stesso, nella terra dell'arte incontro al proprio avvenire. In Atene si rivelò certamente a lui, nella sua pienezza, la lirica e la poesia ellenica in genere; può essere che gli si rivelasse anche per la prima volta la sua vocazione poetica attraverso tentativi di versificazione che fece in lingua greca, sebbene poi giudicasse questo uno sterile giuoco. Ripensando ad Atene, egli insiste piuttosto sugli studî filosofici, e non sarà stata sola la sapienza d'Accademo che avrà appresa, se pur di essa solo discorre. L'esperienza filosofica, con la quale O. arrivò alla conquista completa della sua personalità attraverso coscienti rinunzie, ha le sue basi particolarmente nelle ancora fiorenti scuole ateniesi. Un ragionatore e un pensatore sistematico egli non fu mai, ma la meditazione fu quella che lo condusse a una sempre più profonda affermazione di sé, a straniarsi dall'oggi per assurgere alla contemplazione serena delle cose. Tra giovani assetati del bene e del bello, abituati a discutere su principî per i quali Catone poco innanzi aveva fatto getto dell'esistenza, fra O. e altri Italici con lui soggiornanti ad Atene, quali Messalla Corvino, M. Cicerone figlio dell'oratore, Domizio Enobarbo, Calpurnio Bibulo, giunse improvvisamente Bruto, fresco del sangue di Cesare, ad agitare le idee della libertà repubblicana, a far balenare il miraggio delle vecchie gloriose tradizioni di Roma, di cui il fascino era rimasto potente nei municipî; e il figlio di chi aveva provato le durezze della schiavitù, e il municipale si sentì attratto verso Bruto, ebbe il comando di tribuno, combatté a Filippi. Fu la sconfitta, la fuga, il nulla. Ricondotto dall'amnistia a Roma, trovò morto il padre, e quel poco che aveva del padre, perduto. Dallo sconforto di questo momento ha inizio una crisi; tragedia e dolore lo avviano su verso più alte mete verso l'equilibrio dell'anima; dalle tempeste alla calma, alla pace, nel dominio di sé stesso. Sgomento di vicende storiche e personali, tristezza di guerre civili, orrori di rovine e di lutti, voci insinuanti di scuole filosofiche: tutto questo portava a volgere l'occhio verso il didentro, a ritrovare e ad afferrare l'essenza del proprio io nella aspirazione verso il distacco dai bisogni e dagl'interessi della realtà circostante, verso un mondo superiore di libertà spirituale. Da questi moti nascono i primi schietti accenti del poeta, quelle visioni e meditazioni che poi formeranno il fulcro del suo canto. Non poca efficacia esercita, in questo atteggiarsi dello spirito oraziano, la filosofia epicurea; ed è possibile che l'iniziazione ad essa da parte di O. sia anteriore alla sua andata in Atene, cioè al 44 a. C. Se nei frammenti dei papiri ercolanesi di Filodemo sia da integrare il nome di O. o di Plozio Tucca, è bensì dubbio; ma Filodemo, che fu maestro d'epicureismo agli amici di O. e rappresentò con Sirone l'epicureismo a Roma e a Napoli in questo giro di tempo, difficilmente sarà rimasto estraneo al giovane. Comunque, epicureismo sì ma anche insegnamenti di altre scuole filosofiche, e indipendenza da ogni sistema: saggezza di vita personalmente vissuta, che oscilla fra dottrine di varia provenienza, più volte a mala pena identificabili; saggezza che, più assai che cultura filosofica, è un portato dell'istinto e del temperamento.
Tornato dunque O. a Roma "con le ali mozze", si procura il suo sostentamento al servizio d'un questore nell'amministrazione fiscale, e comincia a dare sfogo all'anima con i canti e a farsi conoscere poeta. nei circoli degli amici, fra cui è Virgilio, allora intento a scrivere le Bucoliche, ed è Vario, che con un canto epico dedicato alla memoria di Cesare si era già assicurata l'amicizia di Ottaviano. Da Virgilio e da Vario è presentato a Mecenate, il confidente di Ottaviano, l'uomo il cui nome è rimasto a significare nei secoli una istituzione, la protezione munifica e generosa delle arti e degli artisti. L'incontro fra O. e Mecenate avvenne nella primavera del 38: dopo nove mesi si ripeté, e segnò una svolta definitiva per la fortuna del poeta. La dura prova di Filippi e l'amicizia di Mecenate sono i due fatti fondamentali nella trama di cui quella fortuna è intessuta. Mecenate non era uno che giudicasse gli uomini secondo la condizione sociale, né si scelse in O. un cliente, ma il compagno carissimo. C'era un'intima consonanza sostanziale fra i due: incuranti entrambi e disdegnosi delle vane parvenze e degli onori, amanti del quieto vivere e pur tormentati dai problemi dello spirito, entrambi d'uno scetticismo elegante. Fu un'amicizia a tutta prova, che durò fino alla morte, nutrita di abbandoni, ma fatta anche di franchezza e di dignità. Mecenate ne ebbe il dono e la dedica di quasi intera la produzione poetica di O.; questi il beneficio inestimabile d'essere sottratto alle preoccupazioni del pane quotidiano e nel 32 a. C. il tesoro della villa sabina, ombroso e solitario rifugio dalle noie, dalle petulanze e dalle invidie cittadine, cinto di verde, di silenzio e di frescure, adagiato sopra una balza del Lucretile nella vallata della Licenza. Il sogno di O. era appagato: vivo et regno sarà la voce nuova di questa ulteriore fase della sua esistenza, nella quale cade la pubblicazione degli Epodi e del secondo libro delle Satire e la composizione dei primi tre libri delle Odi, del primo libro delle Epistole, del Carme secolare, delle Epistole letterarie, del quarto libro delle Odi: il primo libro delle Satire era già uscito verso il 35, a due anni da quando si erano stretti i rapporti con Mecenate e col fiorente circolo dei poeti che intorno a Mecenate vivevano nel culto appassionato e nella severa disciplina delle lettere. D'ora in poi avvenimenti notevoli nella biografia di O. non ci sono più: c'è in compenso il chiudersi di lui, con un crescendo di raccoglimento, dentro sé medesimo; c'è un ricco intreccio di fatti interiori. Significativo è il contegno che egli tenne con Augusto. Al restitutore della pace diede schiettamente l'appoggio della sua musa; ma, natura insofferente com'era di soggezioni e aliena da ogni schiavitù, si tenne lontano dalla corte e rifiutò l'ufficio onorifico di segretario particolare offertogli dall'imperatore, senza perdere per questo le sue simpatie e la sua benevolenza, e al sovrano dedicò, ma solo dietro i suoi amichevoli rimproveri, di tutta la sua produzione una sola epistola, quella importantissima sulle proprie idee letterarie ed estetiche. "Voglio esser libero io" è un grido che, diretto a Mecenate, all'amico che dal ristoro della campagna impazientemente lo richiamava a sé, potrebbe essere il motto da porre come epigrafe a un profilo di O. Gli ultimi anni della sua vita soffrì non poco di salute; poi la morte venne rapida, da non dargli tempo di scrivere il testamento. Scomparve seguendo alla distanza di qualche mese il suo Mecenate con cui in età più giovane si era augurato di morire insieme, e accanto a Mecenate fu sepolto sull'Esquilino.
L'arte per O. fu vita, non oziosaggine o trastullo di esteta. Entrò in essa con un senso di rivolta contro l'amara e nauseante realtà d'un tempo di terribili rivolgimenti, di profonde metamorfosi, di grave corruzione morale. Il mondo romano vacillava; paure dell'avvenire tormentavano; urtanti contrasti erano nelle cose e negli uomini. Così la prima voce di O. poeta suona imprecazione e derisione. E sorgono i Giambi e le Satire della fase incipiente. Con i Giambi, come Orazio li chiama, o Epodi, come li dicono i grammatici antichi, egli continua la maniera dei poeti della rivoluzione, Catullo, Calvo e gli altri; si riallaccia a loro manifestamente in spunti e mosse, ma li scavalca anche per risalire direttamente, oltre i giambografi romani e gli ellenisti, al grande maestro del genere, ad Archiloco di Paro. Spiriti e ritmi egli si vanta di avere trapiantati in Roma da Archiloco. E quanto ai ritmi, sua è la naturalizzazione delle forme epodiche, strofe di versi di differente lunghezza, trimetri e dimetri giambici, dattilici e giambo-trocaici; cosicché, se il giambo, come verso e come espressione violenta dell'anima, non era più da tempo una novità nella letteratura romana, un'innovazione assoluta era la forma letteraria giambica, come tale, nella creazione archilochea, a meno che sia virgiliano il numero 13 del Catalepton, il che appare pur sempre molto dubbio. Il cenacolo neoterico aveva usato per l'ira e l'invettiva solo scazonti ed endecasillabi stichici, ed è un bell'ardimento questo con cui il giovane Orazio saggia il suo potere per lanciare poi più alto e più largo il volo in ritmi e forme meglio confacenti al suo temperamento. L'irruenza archilochea c'è nel verso oraziano, ma o è un prodotto di umori momentanei, e fiamma più che fuoco, o sa di tradizione e di scuola. La ridondanza, l'eccesso, la sproporzione sono indici rivelatori, né meno eloquente è il fatto che egli nelle satire coetanee agli epodi, o con questi intrecciantisi nel tempo, ha in genere un accento più suo, di calma riflessiva. "Irasci celerem tamen ut placabilis essem", si caratterizza egli medesimo: uomo che sapeva le passioni, ma sapeva anche esserne padrone. In questo sforzo di autosorveglianza e di elevazione, in questo protendersi dal mondo dell'istinto verso una sua interiorità più riflessiva è il segreto della vita di Orazio e della sua poesia. Le invettive degli epodi son fuori da questa linea. Meglio riuscite quelle che rispecchiano l'inquietudine e il turbamento per le condizioni politiche: qui è commozione, indignazione, insofferenza, sconforto, smarrimento; ci sono motivi e visioni che scuotono; c'è un disegno costruttivo che supera assai di dimensioni e di respiro quello dei brevi endecasillabi o giambi dell'età neoterica. Epodi di questo genere, salvo il 3, sono indubbiamente tra i più antichi. Il sentimento vi è sincero e serba il suo slancio dal principio alla fine; in strutture ardite, in versi di forza espressiva, in certe immagini si sente il giovane che lotta già con fortuna per una forma sua propria; ma c'è troppo cumulo di interrogazioni e di esclamazioni; c'è rumore d'impeto oratorio, ci sono reminiscenze e artifici letterarî, come nel procedimento artistico, che deriva da Archiloco e dall'antica elegia, del poeta che parla al popolo o a cittadini lanciatisi alla zuffa, ovvero nel motivo mitico di Chirone e di Achille che ammonisce sulla fugacità della vita. L'epodo 13, che invettiva non è, ci richiama più che tutti quelli d'argomento patriottico alla ispirazione prettamente oraziana, la preannuncia col motivo lirico di pacata rassegnazione: . "via le rughe dalla fronte! A noi siano ristoro il vino e il canto". Il 9, che sa ancora il sarcasmo politico ed è degli ultimi, si apre e si chiude con un anelito a uscire finalmente dalle tenebre. Di lirismo è imbevuta la giambica d'Orazio; la puntura via via si ottunde, il sopracciglio sdegnoso o iroso si distende, fino allo sgorgare d'un mondo assai più personale, fino all'idillio del "Beatus ille qui procul negotiis" e alla canzonatura di Alfio usuraio, fino alla nitida contemplazione classica del "Nox erat et caelo fulgebat luna sereno", fino agli scherzi e alla tenerezza affettuosa degli epodi diretti a Mecenate. Il rancore, l'odio, che pur di rado aveva mirato alle persone, si spegne: il giambo immette nella lirica e finisce. La raccolta dei 17 epodi, fatta da Orazio stesso per insistenza di Mecenate, abbraccia da 10 a 11 anni, dal 41 al 30 a. C.
Di pari passo vanno i due libri delle Satire, di cui il primo è compiuto certamente verso il 35, il secondo verso il 30: frutto dunque anch'esse di quell'estremo decennio di scosse e di sovvertimenti politici e sociali, dopo di che è l'assestamento e la pace augustea. Nelle Satire, meglio ancora che nei Giambi, si segue il poeta rinnovantesi con i tempi, nel mentre lascia cadere le soprastrutture venutegli dalla scuola, dalla tradizione letteraria, dalle circostanze della realtà, e scava sempre più addentro nel proprio essere. Egli qui muove da Lucilio e dai caratteri personalmente aggressivi della satira luciliana, da lui perciò ricollegata con la commedia di Aristofane. Siamo su vie parallele ai giambi di tipo archilocheo: passione ancora incomposta. Se nei Giambi è la trafittura, qui è il riso, non ancora il sorriso. La satira 2, la 7, l'8, anche la 5, ricordano variamente Lucilio, pure nel soggetto, ma già il volto d'Orazio uomo e poeta si discopre attraverso il laborioso travaglio di questo suo correre dietro a sé stesso, nel quale aiuti svariati lo soccorrono, oltre Lucilio: quelli anzitutto che gli fornisce l'abito derivatogli dalla pratica e accorta educazione paterna e l'educazione letteraria greca. Nella satira 7, nel "Viaggio brindisino", il riso ha deposto ogni acerbità, è uno scoppio d'amenità esilarante, è più amore che odio, e s'intreccia poi con quella sostanza sentimentale e lirica ch'è connaturata con la migliore satira oraziana. Dove è grande, essa non dice odio né insulto, perché piena di comprensione per ognuno e per ogni cosa. L'umanità eterna di Orazio è questa. Spirito meditativo, egli ha, senza essere filosofo, un sistema suo ben chiaro di vita, il quale tuttavia non esclude punto l'intelligenza, e la conseguente amabile indulgenza, per tutto ciò che si chiama vivere. Così realtà e sogno non si urtano. La satira d'Orazio è la satira della sapienza umana che si adagia in una regione intermedia fra ogni estremo; più che espressione e rappresentazione del difuori, lo è dell'anima del poeta, che si affranca dai lacci della passione, e al disopra degli egoismi e delle follie terrene si acquieta bonaria nell'aurea mediocritas. Essa conosce tutti i toni, dall'umile al sublime, e tutti li fonde in uno solo, che è il tono inconfondibile di O. e, che stando a eguale distanza dai termini ultimi, coglie il punto dove questi fra loro si toccano e s'intersecano. Ricchezza sostanziale di vita, dunque, cose viste e vissute, o meglio rivissute alla luce e al calore d'un proprio ideale, e segnate dell'impronta d' un placido contemplatore: rara attitudine a cogliere gli atteggiamenti semplici. I capolavori del genere sono le satire 6 e 9 del I libro e la 6 del II: qui ogni asprezza è vanita, e meglio che altrove si compone in purità di linee quella maniera discorsiva che va di cosa in cosa, dalla quale Orazio chiamò Sermones questi componimenti. Quanto su essa abbia influito Lucilio, quanto la filosofia o piuttosto la diatriba cinico-stoica, e particolarmente Bione, con la vivacità del conversare propria della diatriba, è difficile mettere in chiaro. L'essenziale è questo, che O. ha scritto, dapprima, per amici e per circoli di amici, ha riprodotto il fare con cui ivi nella conversazione ci si muoveva, lo scherzo, il motteggio, l'arguzia d'una favola, la sapidezza d'un racconto, il tono d'urbanità, l'umorismo, tutti elementi di cui è fatto lo stile drammatico della sua satira, dove il pensiero sembra incedere deliziosamente capriccioso, per conto suo, ed è pur così serratamente contenuto e guidato al proprio fine. La sua musa satirica Orazio la dice "pedestris", una musa che va a piedi: il verso ne è l'esametro, quello in cui a poco a poco si era fissato Lucilio, ma dalla durezza un po' informe di lui, assurto alla levigatezza e alla docile pieghevolezza di un' arte superiore, a un'elaborazione meno rigida di quella peculiare alla scuola neoterica, più libera della naturale all'esametro eroico di Virgilio e dei classici augustei.
Spogliatosi della veste negativa dell'odio, nuove voci di simpatia e d'amore aveva versato O. nelle satire più belle, non altrimenti che negli epodi di più intima ispirazione, e acquistando di forza, di concentrazione di spontaneità era asceso alle cime, là dove aveva dipinto sé stesso e la guadagnata sua felicità. "O rus, hoc erat in votis"; questi e simili sono i suoi gridi dell'anima: voci liriche. Ed ecco che sorgono le Odi. Comunque piaccia giudicare dai troppo deboli indizî sulla cronologia delle odi più antiche, fra le pubblicate da Orazio, una cosa è certa: esse appartengono al trapasso dalla giovinezza e sono fatte per chi sa già la vita, meno assai per gli ardori giovanili. I dati sicuri conducono dal 30 al 23 a. C. per la raccolta dei primi tre libri: dai 35 dunque ai 42 anni dell'età del poeta. Lirica della maturità, e già per ciò smorzata di toni, velata di passioni, soffusa di pensose malinconie nella sua letizia. Lo slancio del canto amoroso non bisogna cercarlo nei Carmina (tale è il titolo oraziano delle Odi): le donne di essi sono parecchie, ma nessuna vale lontanamente la Lesbia di Catullo. L'amore, per O., non è ferita: è balsamo e oblio momentaneo. La lirica sua non è tristezza d'elegia, o pianto, o spasimo, o nostalgia, o estasi o entusiasmo: è un espandersi del sentimento in vibrazioni pacate, composte, virili, dominate da un pensiero, da una morale, da un carattere, disciplinate dalla ragione. L'emozione non è che manchi, è latente, e signoreggiata da una forte personalità. I motivi del canto sono così elementari che possono sembrare fin troppo comuni. Sono l'eterna favola della vita; rapido fuggire degli anni, inesorabile incalzare della vecchiaia e della morte: tutto passa e presto non è più. Lirica greca e lirica d'ogni tempo si nutrono di questo meditare sulla nostra sorte umana. Ma O. trae di là il suo ammaestramento per costruirsi un'esistenza il più possibile senza nuvole: nel bene ci vuol misura, nel male rassegnazione; l'arte sta non nel contentarsi soltanto di ciò che ci tocca, ma nel gioire di quanto la fortuna ci concede, senza preoccuparsi di che sarà domani. Questa la corda centrale, effondentesi in mille toni, sempre nuovi. C'entra l'epicureismo, c'entra anche lo stoicismo; più che ogni precetto teorico, però, conta il genio del poeta, il quale per genuino impulso è così sbocciato e coscientemente così si è maturato. Analisi e contemplazione del proprio mondo dell'anima è questa lirica, e s'intende che O. mirasse in modo speciale agli eolici e ad Alceo, volesse essere il loro continuatore. Dei lirici greci, gli eolici sono appunto i più spirituali e individuali: in O. c'è assai maggiore ricchezza psicologica. I raccostamenti ch'egli fa tra sé e Alceo, quelli che la critica ha fatto fra lui e il cantore eolico, fra lui e i poeti ellenistici non devono trarre in errore sul problema dell'originalità. Il letterario, il freddo, il convenzionale c'è in qualsiasi produzione poetica di siffatta estensione: Alceo, Anacreonte, anche Pindaro e Bacchilide, e poi i più tardi prestano ad Orazio mosse e colori; e ciò nonostante egli resta poeta di altra tempra, di altra vena introspettiva. Rinnovando e dilatando la lirica romana, molteplici forme ritmiche egli ha dedotto dai Greci, ma le ha riadattate ai suoi gusti e all'indole del suo strumento linguistico: gl'insegnamenti dei metrici qui hanno valso, se hanno valso, molto meno del suo personale istinto. Le forme più usate, perché a lui più congeniali, sono le più robuste, l'alcaica e la saffica, in cui prende colore e suono la raggiunta calma visione sua delle cose; meno rilevanti in genere i metri asclepiadei con variazioni di gliconei e di ferecratei, sebbene dei gioielli ci siano anche in queste forme, come il contrasto d'amore (III, 9), una schietta confessione di due cuori, che dopo le gelosie e le bizze incontrandosi attraverso i puntigli si riamano. Obliare: questo l'urgente lirismo primigenio delle odi di maggior lena, delle alcaiche e delle saffiche. Alcaiche sono anche le cosiddette odi romane del III libro, di cui i giudizî sono disparatissimi. E sarà che qui ci compaia un O. alquanto diverso dal solito, né si può dire che tutte le voci siano di metallo puro, ma certe immagini, e certi detti suonano come scolpiti nel bronzo, hanno il linguaggio delle forze naturali. Gli è che, in esse, parecchio consuona con l'intuizione del mondo propria del poeta o spazia, comunque, nella visione di quella Roma che per via di travaglio ha ridato la pace a lui e alla terra; il tempestoso poeta civile degli anni giovanili rinasce ora più docile a esaltare quello che di sacro e di santo c'è nell'umanità e in Roma. Così Augusto nel 17 a. C. gli darà l'incarico di scrivere il Carme secolare: un inno di classica compostezza, nobile, solenne, in qualche tocco sublime. Da allora s'inaugura un altro periodo lirico, da cui esce la raccolta del IV libro: 15 canti d'argomento vario, ma prevalentemente politico e cesareo, dove impone più l'arte aristocratica che il vigore della ispirazione.
Fra i due cicli lirici, fra i 40 e i 45 anni di O., stanno le Epistole del I libro, un monumento di urbanità e di schiettezza, non un sermoneggiare, come lo si trova nei ricantatori del nostro poeta, sulla filosofia del ne quid nimis e del nil admirari, ma un ripiegarsi in sé, un riguardare alla luce d'una idea la propria personalità nelle concretezze del tempo, nel modesto tenore del vivere, nella beatitudine del podere sabino, nei viaggi, nei rapporti con gli amici e con gente sua pari, col principe, con gli schiavi, un amabile rivolgersi a questo e a quello, per individuarlo, per individuare soprattutto sé stesso nel continuo perfezionamento del proprio essere, con qualche atteggiamento di malizia, con sovrana indulgenza, tra la serietà e la giocondità, tra la gaiezza e la facezia, tra un aneddoto, un dialogo e una favola. Un autoritratto da collocarsi nella storia dell'evoluzione del sentimento individuale, accanto alle lettere di Cicerone; una delle creazioni più originali e più geniali della letteratura latina, di forza e di grazia, di ragionante acutezza, di verità. È la realtà fatta arte, un'armonia fra intelletto e sentimento che si traduce in canto. Come la satira, anche l'epistola è sermo, ma di uomo ch'è divenuto più solitario, che parla ormai non agli amici in società, sì confidenzialmente a un amico. Negli spiriti c'è della satira e c'è della lirica; il verso è l'esametro della satira, ma più fluido, più limpido, di stile più sostenuto. Le epistole morali sono, sotto altra forma, una ripresa e una continuazione della satira e della lirica, il prodotto in cui culmina la capacità poetica di Orazio. Nell'autunno del 20 a. C. sono compiute.
Fra il 18 e il 14, negli anni dell'estrema attività lirica, cadono le tre epistole a Floro, ai Pisoni e ad Augusto. Quella a Floro, del 18, è nella materia un anello di congiunzione fra le epistole del primo libro e le altre due, posteriori di composizione, che costituiscono il testamento letterario d'Orazio, l'affermazione insomma e la definizione dell'arte classica. Esperienze personali e precetti peripatetici sono ivi in opera: Neottolemo di Pario dà il fondamento della trattazione sulla poesia e sulla poetica. Non l'arte per l'arte, che è la teoria dell'epicureo Filodemo - né è agevole pensare che O. la ignorasse - ma l'utile unito al dilettevole; e l'arte non è soltanto frutto d'ingegno, ma di lungo studio e di operosa fatica. Così la figura di questo aristocratico dell'arte e della poesia si compendia e si sintetizza nelle parole: ascesa perenne.
Il successo non arrise a lui senza contrasti o freddezze: è troppo comprensibile. O. è in arte un rivoluzionario, e da giovane tratta la sferza del riso e del sarcasmo. Gl'imitatori del vecchio, i sensibili alla sua aspra maniera sono contro di lui. Egli risponde e va per le sue vie. E vengono gli ammiratori, i discepoli, i contraffattori. Nella lirica non abbiamo che vuoti nomi; nella satira, procedono sulle sue orme Persio e Giovenale. Autore di scuola diventa presto; lo è certameme al tempo di Quintiliano e di Giovenale, e ad uso della scuola sorgono le indicazioni rimaste nei manoscritti in testa ai singoli carmi sulla persona del destinatario, sul metro, sul contenuto. I segni della sua lettura sono vasti, da Ovidio a Seneca, a Frontone, da Lattanzio a Prudenzio, a Sidonio Apollinare. I dotti lo studiano e lo interpretano fin dal sec. I d. C.; Modesto e Clarano, i primi esegeti di che si ha memoria, saranno i due celebri filologi degli epigrammi di Marziale. Certo si è, e questo più importa, che Valerio Probo nella seconda metà del secolo curò un' edizione d' Orazio: se di Orazio intero o no, si può dubitare. Non è inverosimile che a lui risalgano le famose ottime varianti delle Satire, I, 3, 131 segg., 6, 126, che il Cruquius lesse nel perduto codice di Blandigny, il Blandinius vetustissimus. Questo non esclude che l'unitarietà sostanziale della tradizione manoscritta d' Orazio possa derivare in ultima analisi dalla sua autorità, giacché la Probiana era un'edizione critica con notae al modo di Aristarco, né lezioni varianti erano estranee a simile genere di lavori: così da Probo può essere scaturita insieme e la volgata, le cui vestigia si perseguono fino al secolo II-III, e la tradizione, per comunanza di corruttele ad essa variamente congiunta, che il Blandinio ci rappresenta. Svetonio verso il 111-113 scrive la biografia oraziana. L' esegesi fiorisce sotto Adriano con Q. Terenzio Scauro, fra il sec. II e III con Elenio Acrone (v. acrone), nel sec. III con Pomponio Porfirione, dal quale in massima dipende la congerie scoliastica che va sotto il nome dello Pseudo-Acrone. Porfirione e lo Pseudo-Acrone si accordano nel testo con la volgata, la quale ebbe poi la sanzione definitiva, almeno per la lirica, nella recensione di Mavorzio console nel 527. Elementi disparati per il testo e per l'interpretazione, parzialmente di valore, adduce il Commentator Cruquiamus, una compilazione dovuta a Giacomo van Cruuche (anno 1565), che utilizzò fra l'altro quattro codici poi scomparsi del monastero benedettino di Blandigny presso Gand. Numerose le citazioni di versi oraziani nei grammatici editi dal Keil, nei commentatori di Virgilio, di Terenzio ecc., nei trattati di metrica, presso i cristiani. Col sec. VI Orazio si eclissa dalla cultura, resta in florilegi tra i dotti, o nella leggenda di Venosa e di Palestrina fra il popolo. Lo riportano alla luce in Francia i monaci irlandesi.
Manoscritti. - Assommano a circa 250; i più antichi sono il Bernense 363 in scrittura irlandese (sec. VIII-IX), il Vaticano Reginense 1703 (sec. IX), l'Harleiano 2725 (sec. IX-X), alcuni Parigini e l'Ambrosiano O 136 sup. (sec. X). La classificazione dei manoscritti presenta ancora parecchie oscurità, malgrado le acute indagini dei filologi.
Ediz.: Editio princeps, in Italia verso il 1470. Seguono il Landino (Firenze 1482, Venezia 1483), H. Estienne (Parigi 1549), il Fabricius (Basilea 1555), il Mureto (Venezia 1555). Quindi le tappe principali sono il 1561 col Lambino (Lione), il 1579 col Cruquius (Anversa), il 1711 col Bentley (Cambridge), ristampato dallo Zangemeister (Berlino 1869); opera la Bentleyana di Capitale importanza, iniziatrice però di quella critica radicale che poi si sbizzarrirà per due secoli e troverà uno dei più notevoli esponenti nell'olandese P. Hofman Peerlkamp (Harlem 1834). Col Keller e Holder (Lipsia 1864-1870) si apre l'ultimo periodo, in cui sono da ricordare il Vollmer (Lipsia 1907 e 1912), il Wickham-Garrod (Oxford 1912), il Villeneuve (Parigi 1927). Edizioni commentate moltissime e valevoli, in varie lingue, che si trovano registrate nelle maggiori storie letterarie. Rileveremo Orelli-Hirschfelder-Meves, Kiessling-Heinze, Plessis-Lejay, e in Italia, squisito per intelligenza d'arte, il Pascoli (Odi ed Epodi); da ricordare anche il Rasi e il Giri (Odi); scientificamente rilevabile il Giarratano (Epodi). (V. tavola a colori).
Bibl.: Un ottimo orientamento dà E. Stemplinger, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 2336 segg., da completarsi con J. Marouzeau, L'année philologique, Parigi 1924 segg., e con la Bibliotheca scriptorum classicorum di Engelmann-Preuss-Klussmann, Lipsia 1882 segg., 1912 segg. Tra la ricca letteratura più recente giova ricordare: per la villa di O., G. Lugli, Monumenti antichi d. Accad. Lincei, XXXI, Milano 1926. Per gli studi filologici, A. Rostagni, Arte poetica di Orazio, Torino 1930, p. xxvii segg.; id., in Rivista di filologia, n. s., XI (1933), p. 445 segg. Per tutta l'opera, A. Y. Campbell, Horace a new interpretation, Londra 1924; A. Dupony, Horace, Parigi 1928; R. Reitzenstein, Das Römische in Cicero und Horaz, Lipsia 1925 e 1929; N. Terzaghi, O., Roma 1930; E. Turolla, O., Firenze 1931. Per gli Epodi e le Odi, F. Olivier, Les épodes d'Horace, Losanna-Parigi 1917; G. Pasquali, O. lirico, Firenze 1920; R. Heinze, Neue Jahrbücher, 1923, p. 145 segg.; Th. Birt, Horaz' Lieder, Lipsia 1925; A. Kappelmacher, Weiener Studien, XLIII (1920-23), p. 44 segg.; T. Frank, Catullus and Horace, New York 1928; F. Klingner, in Die Antike, V (1929), p. 23 segg.; VI (1930), p. 65 segg. Per la metrica lirica, R. Heinze, in Sitzungsberichte d. sächsischen Akademie, 1918, p. 4. Per la satira, G. C. Fiske, Lucilius and Horace, Madison 1920; E. Fraenkel, Festschrift R. Reitzenstein, Lipsia 1931, p. 119 segg.; N. Terzaghi, Per la storia della satira, Torino 1932; A. Oltremare, Les origines de la Diatribe Romaine, Losanna 1926. Per le Epistole; E. Courbaud, Horace, Parigi 1914; R. Heinze, Neue Jahrbücher, 1919, p. 305 segg.; A. Rostagni, Arte poetica di Orazio, Torino 1930; O. Immisch, Horazens Epistel über die Dichtkunst, in Philologus, suppl. XXIV (1932). Per la critica testuale, G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934; A. Rostagni, in Rivista di filologia, n. s., XII (1934), p. 1 segg.
Fortuna nella letteratura moderna. - Il Medioevo ebbe scarsa notizia della poesia di O.: e più che delle odi, su citazioni frammentarie dei grammatici, serbò memoria delle epistole e delle satire, tanto che l'Alighieri, nell'evocazione dei grandi poeti classici, fece seguire a Omero Orazio satiro" (Inf., IV, 89). Di tutta l'opera d'O. ebbe notizia il Petrarca, che ne trasse anche qualche spunto nelle sue liriche; fra i primi umanisti, Coluccio Salutati, Vittorino da Feltre, Gregorio Correr, il Panormita, lessero O. e lo compresero nel loro insegnamento; Cristoforo Landino ne scrisse un commento, a cui altri seguirono; il Poliziano studiò O. da filologo e poeta; e come poeta latino imitava le odi d'O. l'Ariosto, che in verso italiano ne rammentò le satire. Il Sannazzaro, il Bembo, il Navagero, Giovanni Cotta, Marc'Antonio Flaminio contribuirono allo sviluppo umanistico della lirica, ch'ebbe un evidente riflesso nei saggi metrici di Claudio Tolomei e nelle rime di Bartolomeo Del Bene, di Bernardo Tasso, del Chiabrera (autore anche di sermoni oraziani). Nel Seicento, Fulvio Testi, il Menzini, il Guidi; nel Settecento, il Frugoni, la scuola emiliana del Savioli, Paradisi, Cerretti, Cassoli, il Parini stesso ebbero presenti i tipi oraziani dell'ode, che Giovanni Fantoni tentò di riprodurre più fedelmente nella struttura metrica. Il garbo e la saviezza leggiera dei Sermoni furono colti assai bene da G. Gozzi.
In Francia, il Ronsard, il Du Bellay, il Baïf iniziarono la fortuna della lirica oraziana, che si protrasse fino a Jean-Baptiste Rousseau nel Settecento, ai poeti neoclassici dell'Ottocento; le satire e le epistole ebbero un vivo influsso sulla poesia del Boileau, che diede pure la più famosa "Arte poetica" dei tempi moderni, movendo dall'esempio di O. (numerose versioni e imitazioni s'ebbero anche nelle altre letterature, e fra esse notevoli quella di Ben Jonson in Inghilterra, e del Metastasio in Italia).
I poeti spagnoli dimostrarono una costante predilezione per O.: dal marchese di Santillana a Garcilaso de la Vega e Luis de León, da Vicente Espinel ai fratelli Argensola, e giù giù fino ai moderni, si susseguono, soprattutto delle Odi, le traduzioni e le imitazioni. L'appellativo di "Orazio portoghese" fu attribuito a Pedro Antonio Correa Garção (in Arcadia, Corydon), che scrisse alla fine del sec. XVIII.
In Inghilterra, la poesia di O., nota e ammirata fino dal periodo elisabettiano, esercitò (nel Seicento) un profondo influsso sull'Hesperides del Herrick, la Sylva del Cowley, le liriche del Marvell e del Dryden e specialmente sui poeti della corte di Carlo II: Rochester, Sedley, Buckhurst, Roscommon, ecc., che miravano alla perfezione formale dell'arte e insieme con un equilibrio di concezioni morali. Nella prima metà del Settecento, le Imitations of Horace del Pope.
La Germania, che diede la prevalenza agli studî critici su O. (e due momenti hanno la maggiore importanza, al principio e alla fine del Settecento, con la "Poetica critica" del Gottsched e le idee estetiche rinnovatrici del Herder), ebbe nell'Opitz un assertore piuttosto formale e nel Hagedorn un sereno cultore della lirica oraziana; da O. trassero più di un ricordo nelle loro odi il Lessing e il Wieland. Da segnalare fra i pochi polacchi del sec. XVI Jan Kochanowski, seguace esperto e felice della lirica oraziana.
La poesia romantica, scostandosi dagli esemplari antichi, e propugnando una concezione appassionata e tumultuosa della vita, non contribuì alla fortuna di O.; ma più d'una volta, quando il Romanticismo rappresentò semplicemente un impulso dell'anima moderna, ancora invaghita dell'antica bellezza, come accadde nella scuola francese del "Parnasse", le immagini di O. riapparvero velate di nostalgia, separate dalla visione morale, commista di stoicismo e di scetticismo, ch'è propria del poeta latino. L'ultimo dei grandi epigoni di O., fu il Carducci: oltre i modi formali, la sua poesia è ravvolta dagli spiriti e dal sentimento oraziani.
Bibl.: M. E. Stemplinger, Das Fortleben der horazischen Lyrik seit der Renaissance, Lipsia 1906; G. Curcio, Q. Orazio Flacco studiato in Italia dal sec. XIII al XVIII, Catania 1913; Menéndez y Pelayo, Horacio en España, Madrid 1885, voll. 2.