QUOTA DI CONCORSO
. La legge piemontese 29 maggio 1855, allo scopo di fornire mezzi alla cassa ecclesiastica, e di attuare una moderata equiparazione nelle condizioni disparatissime dei titolari dei varî enti ecclesiastici, introdusse, ispirandosi a un precedente della legislazione di Giuseppe II, la quota di annuo concorso a favore di detta cassa: distinguendo cinque classi di enti, e stabilendo per ciascuna una parte di reddito esente, e sopra il limite esente una tassazione graduale: il prelevamento saliva al 50% per il reddito dei vescovati superiore alle ventimila lire (alle trentamila per gli arcivescovati), ciò che costituiva di gran lunga la più alta aliquota conosciuta nella legislazione del tempo. La legge 7 luglio 1866, art. 31, rese generale per tutto il regno la quota a favore del fondo per il culto, dividendo gli enti ecclesiastici in quattro classi (benefici parrocchiali, seminarî e fabbricerie, vescovati, canonicati e altri enti) e stabilendo tra l'altro che la quota avrebbe assorbito tutto il reddito dei vescovati eccedente le sessantamila lire: per la liquidazione e la riscossione si dovevano applicare le norme fissate per la tassa di manomorta. Si disputò a lungo in giurisprudenza e in dottrina se la quota fosse un semplice debito ex lege degli enti verso il fondo per il culto, o un cousufrutto di questo sulle rendite dei beni degli enti (G. Arangio Ruiz), o un'imposta personale su enti morali (F. Ruffini); quest'ultima opinione finì per prevalere nei primi anni del secolo. La quota di concorso è stata soppressa con l'art. 29 lett. h del concordato tra l'Italia e la Santa Sede (1929).
Bibl.: F. Ruffini, La quota di concorso, Milano 1904; G. Arangio Ruiz, Sulla natura giuridica della quota di concorso, in Legge, 1910, p. 1488 segg.; G. Corazzini, Sulla natura giuridica della quota di concorso, in Riv. diritto pubblico, II (1911), p. 348 segg.