rabbia
Il vocabolo, caratteristico dell'Inferno (infatti, oltre a quelle della prima cantica, non se ne ha che un'occorrenza nel Purgatorio), nel senso specifico della malattia non ricorre mai in D. (ma questa connotazione è presente in ‛ rabbioso ', v.); si registra in senso generico, invece, come espressione dell'ira che si ritorce su sé stessa: ira determinata, nel caso di Pluto, dall'impotenza che si manifesta in un'esplosione di parole prive di senso (e Virgilio gliela rinfaccia: Taci, maladetto lupo ! / consuma dentro te con la tua rabbia, If VII 9); nel caso di Minosse - che per gran rabbia si morde la coda dopo aver espresso la sua condanna a Guido da Montefeltro: cfr. XXVII 126 - " dalla gravità del peccato di Guido; benché Minosse col suo ringhiare normale (Inf. V, 4) appaia iracondo per natura " (Scartazzini-Vandelli, come già il Tommaseo: " si morde la coda irato anch'egli di tale reità ").
Non mancano altre interpretazioni. Il Porena ricorda che " Minosse in Dante conserva molto del Minosse pagano, simbolo di giustizia... egli è un giudice giustissimo... [che] nell'atto di dover condannare Guido, sente che questo summum ius è doloroso, e si adira col vero colpevole, che è Bonifazio. Il mordere se stesso mostra che la sua ira non è diretta a Guido ". Anche Casini-Barbi parlano di " esacerbata coscienza di giudice " e di un'ira rivolta contro il papa; non diversamente il Sapegno e il Chimenz. Fra gl'interpreti meno recenti, l'Andreoli spiega il gesto col fatto che " giudizio senza ombra di passione è troppo nobil cosa, e se rara in terra, pensate in Inferno ! ", mentre il Landino, seguito dal Vellutello, prescinde da considerazioni di questo tipo, e vede nella r. una punizione per lo stesso Minosse: " questo è el fine di quegli che dalla lor propria conscienza sono dannati: che per disperazione diventano furiosi contro di sé medesimi ".
Con la qualifica di pien di rabbia D. introduce, nella bolgia dei ladri, il centauro Caco (lf XXV 17), in un certo senso accostandolo agli altri centauri (cui tale qualifica si converrebbe, essendo essi custodi dei violenti: di Folo, per es., D. dice che fu pien d'ira: cfr. XII 72); ma nella tradizione classica Caco (v.) non è centauro. Per spiegare la rabbia converrà dunque accogliere il suggerimento del Tommaseo, che rimanda alla fonte virgiliana (" furis Caci mens effera ", Aen. VIII 205), o intendere, con il Grabher, che " perfino un essere semibestiale come Caco, che per giunta è anche lui uno scellerato peccatore punito dalle serpi, è pien di rabbia contro Vanni Fucci ". Anche se manca la parola, la r. è connotazione essenziale nello stesso Vanni Fucci (cfr. XXIV 121-fine, XXV 1-18).
Come i commentatori hanno già rilevato, alla r. di Pluto si può accostare quella di Capaneo, anche per la somiglianza del tono con cui Virgilio si scaglia contro l'uno e contro l'altro: il nullo martiro fuor che la tua rabbia / sarebbe al tuo furor dolor compito (XIV 65) richiama il consuma dentro te con la tua rabbia dell'apostrofe contro Pluto (e infatti il Boccaccio: " fuor che la tua rabbia, con la quale, oltre al fuoco che t'affligge, tu ti rodi te medesimo "). Anche la r. di Capaneo deriva essenzialmente dall'impotenza, ma la più complessa personalità di lui ne fa un più complesso sentimento, legato alla superbia che lo spinge a inveire contro Giove (cfr. U. Bosco, in Nuove lett. II 56-57). Vedi pure RABBIOSO.
Nei canti dei falsari la r. è la punizione specifica dei falsatori di persone (v. RABBIOSO), mentre il termine ricorre a proposito dei falsatori di metalli, ma senza nessuna implicazione di carattere morale, nell'espressione la gran rabbia / del pizzicor (XXIX 80), cioè la " smania quasi furiosa " (Porena) di grattarsi, provocata dalle schianze di cui sono coperti i corpi dei dannati.
Un'ultima occorrenza, con valore concreto, nell'accenno alla battaglia di Montaperti, in cui fu distrutta / la rabbia fiorentina (Pg XI 113), cioè la " plebs furiosa Florentiae ", come traduce Benvenuto. Va notato che anche in questo caso il concetto di r. si lega a quello di superbia (la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com'ora è putta); e si veda la chiara eco di questi versi nelle parole con cui il Villani conclude la narrazione del fatto: " E così s'adunò la rabbia dell'ingrato e superbo popolo di Firenze... E allora fu rotto e annullato il popolo vecchio di Firenze, ch'era durato in tante vittorie e grande signoria e stato per dieci anni " (VI 78).