Raccontare il lavoro, cantare la tecnica
Primo Levi, in un breve intervento raccolto in L’altrui mestiere (1985), rispondeva alla domanda «perché si scrive?» e lui, da chimico, «Per divertire o divertirsi». Giorgio Calcagno quando nel suo saggio Un alchimista fra le ciminiere (in Primo Levi: la dignità dell’uomo, a cura di R. Brambilla, G. Cacciatore, 1995, pp. 31-45) riprendeva il tema dello scrittore, e soprattutto dello scrittore della società industriale, riferendosi all’opera di Primo Levi affermava che:
l’epopea di Libertino Faussone in La chiave a stella è, in realtà, la sua epopea. Il mestiere dello scrittore lo porta a cambiare soltanto lo strumento, la penna anziché la chiave; non il dovere di usarlo perché sia utile a tutti. Non è un caso che l’opera di Primo Levi cominci con la poesia, cioè il tipo di scrittura che chiede il massimo dell’attenzione formale. Le parole devono trovare tutte le loro giunture, come i ferri che il montatore di tralicci salda con il suo apparecchio.
La scrittura, in tutte le sue declinazioni, è anche tecnica e per questo quando l’argomento della narrazione è il lavoro, il ‘fare’, due specifiche attività dell’homo faber, che oltre a essere sapiens è anche ludens, si incontrano e si arricchiscono.
Un sapere tacito
La tecnica è stata almeno per il passato una «cultura tacita», un insieme di saperi tramandati dall’esperienza e, anche nel caso più recente della società industriale, spesso l’innovazione stessa ha cancellato la propria memoria, convinta che il paradigma della scienza, che si rinnova superando le vecchie teorie e sostituendone altre, autorizzi l’oblio dell’obsolescenza. Non bisogna però dimenticare che proprio nel Système figuré des connoissances humaines dell’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, le arti, la tecnica, sono inserite all’interno della mémoire, perché la loro dimensione storica è essenziale alla loro comprensione, ed evoluzione.
Se la dimensione della scienza è argomentativa e quella della tecnologia è progettuale, non deve sfuggire, da un punto di vista più generale, una prospettiva narrativa e lirica che trascende la specificità delle esperienze e delle professionalità e proprio per questo riesce a rivolgersi a un pubblico di non addetti ai lavori, entrando così in una dimensione che, se pure appare fantastica, riesce a completare una conoscenza altrimenti incomunicabile.
L’antropologia della tecnica si arricchisce in questo modo, in maniera quasi inconsapevole, ogni giorno di nuove mitologie, che non sminuiscono certamente il rigore assoluto della scienza, ma la rendono più umana.
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa:
tal, non per foco ma per divin’ arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
Quando Dante per narrare il ribollire della pece nella quinta bolgia dell’Inferno (canto XXI, 7-18) introduce il paragone con l’operosità dell’Arsenale di Venezia, ne sortisce un quadro di alta liricità che, in poche righe, delinea una cultura del fare dove la divisione del lavoro anticipa di quasi cinquecento anni le considerazioni fatte da Adam Smith (1723-1790) nelle prime pagine del suo famoso trattato An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776). Di questo arsenale i capimastri, i «proti», saranno guardati con attenzione da Galileo Galilei (1564-1642) che di ciò farà menzione nei suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638):
Sagredo: V. S. non s’inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa preminenza che tengono sopra ’l resto della maestranza, domandiamo proti; la conferenza de i quali mi ha più volte aiutato nell’investigazione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili. È vero che tal volta anco mi ha messo in confusione ed in disperazione di poter penetrare come possa seguire quello che, lontano da ogni mio concetto, mi dimostra il senso esser vero. E pur quello che poco fa ci diceva quel buon vecchio è un dettato ed una proposizione ben assai vulgata; ma però io la reputava in tutto vana, come molte altre che sono in bocca de i poco intelligenti, credo da loro introdotte per mostrar di saper dir qualche cosa intorno a quello di che non son capaci.
Ma la disamina della letteratura italiana che qui viene affrontata più direttamente si concentra sui tempi dell’industrializzazione, perché proprio in questa dimensione la narrazione assume un ruolo di collegamento tra due culture che sempre più si allontanano.
Una scienza per tutti
A differenza di quanto accade in Inghilterra, dove emblematico è il reportage (anche industriale) del Tour through the whole island of Great Britain (3 voll., 1724-1726) di Daniel Defoe, nel Settecento è piuttosto la scienza, e la sua volgarizzazione, a sedurre la letteratura perché ancora in Italia di fabbriche e opifici non si parla. Gli scritti di Francesco Algarotti (Newtonianismo per le dame, 1737) e di molti altri minori come il gesuita Gregorio Landi Vittorj, che nel 1766-1767 pubblica a Roma le Institutiones philosophicae carminibus explicatae, sono eloquenti nei confronti di una scienza osservata e raccontata con meraviglia. Diverso sarà il clima letterario di un’Italia che, nel secolo successivo, se pure in piena Restaurazione e di fronte ai fermenti risorgimentali, recepirà le nuove idee, di cui «Il Politecnico» di Carlo Cattaneo sarà il portavoce.
[Renzo] era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente (I promessi sposi, cap. II).
Le cose cambiano e lo stesso Alessandro Manzoni nei suoi Promessi sposi (ed. definitiva 1842), seppure ambientato due secoli prima della sua stesura, non dimentica di inquadrare il lavoro in un contesto di tecnologie certamente innovative per il tempo quando «chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte» perché
a Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l’inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza (cap. XXVI).
E anche lo stesso ufficiale garibaldino Ippolito Nievo si cimenta in una Storia filosofica dei secoli futuri (1860) dove l’esperimento descritto mescola la chimica alla letteratura, il dagherrotipo ai caratteri mobili:
Su per su gli uomini somigliano alle piante, e le piante agli uomini. Tutti siamo parenti nell’atto creativo universale e nella materia del lavoro. Perché non si potranno ottenere anche nel processo del pensiero umano delle fioriture anticipate? Che la filosofia e la chimica siano venute al mondo proprio per nulla? Io non ho mai creduto una tale bestialità. Mi consultai con Liebig, con Schelling, con Cagliostro e col professor Gorini: indi intrapresi quel fortunato esperimento che m’accingo a descrivervi.
Presi mezz’oncia di fosforo e una dramma di plutonio, i due elementi di cui si compone l’intima semenza umana; li mescolai ben bene e tolsi dalla dose quella particella infinitesima che forma probabilmente lo strumento passivo dell’intelligenza. Diluito in seguito quest’atomo arcano in una bottiglietta di buon inchiostro nero inalterabile, e versato l’inchiostro sopra una carta convenientemente satura per mezzo del magnetismo animale di volontà e di pensiero, ne ricavai due grandi pagine d’un nero lucente e perfettissimo. Qui cominciava la parte meccanica e delicata del grande esperimento.
Assoggettai quella carta alla temperatura media condensata e avvicendata di trecentosessantatré inverni e di trecentosessantatré estati. Il miracolo si operò appuntino; la fioritura pensante di tre secoli avvenire fu ottenuta con tal precisione, che sfido un critico tedesco a trovarci di che ridire. Come su un negativo fotografico alle lavature di nitrato d’argento, comparvero dapprima su quella carta apparentemente carbonata alcuni segni bianchi; poi si profilarono alcune lettere, massime le iniziali; indi si disegnarono le intiere parole; da ultimo vi si stese elegantemente calligrafata la storia che ora trascrivo (Storia filosofica dei secoli futuri, a cura di M. Santiloni, Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo, 2012, ebook).
Il trionfo del progresso
Il mondo va avanti vorticosamente, e lo sviluppo tecnologico e industriale è visto da molti con terrore. Composto nel settembre 1863 e pubblicato nel novembre 1865, l’Inno a Satana di Giosue Carducci è invece l’esaltazione del progresso materializzato nella locomotiva, «Un bello e orribile Mostro si sferra, Corre gli oceani, Corre la terra: Corusco e fumido Come i vulcani, I monti supera, Divora i piani» (vv. 169-176). L’Italia si sta rinnovando, ma presto arrivano gli anni dell’emigrazione verso le Americhe e Giovanni Pascoli nel 1904 scrive il poemetto Italy inserendolo nella raccolta Primi poemetti. Il confronto tra un’Italia ancora contadina che fila con fuso e rocca e un’America ormai meccanizzata segna la distanza epocale tra i due mondi.
Ghita diceva: «Mamma, a che filate?
Nessuna fila in Mèrica. Son usi
d’una volta, del tempo delle fate.
Oh yes! filare! Assai mi ci confusi
da bimba. Or c’è la macchina che scocca
d’un frullo solo centomila fusi.
Oh yes! Ben altro che la vostra rócca! […]»
(vv. 157-163).
Dopo essere stato pubblicato a partire dal 5 febbraio 1909 sulla «Gazzetta dell’Emilia» e su altri quotidiani italiani, il 20 febbraio appare su «Le Figaro» il Manifesto del Futurismo dove si può leggere:
[…] Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo [...] un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. – Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita […].
Anticipando Filippo Tommaso Marinetti, Mario Morasso (1871-1938) già nel 1902 aveva pubblicato L’estetica della velocità (su «Il Marzocco» del 14 settembre). La velocità è il primo prodotto della macchina e appunto La nuova arma (la macchina) sarà il titolo di un saggio in cui Morasso raccoglierà due anni dopo tutti gli argomenti da lui dedicati alla tecnica, allo sviluppo della società industriale e ai suoi nuovi attori.
E con la supremazia del motore elettrico possa instaurarsi la supremazia d’Italia dalle limpide e copiose acque sui paesi del carbone! Si rinnova un’altra volta il mito. Il Poeta nella sua grande recente canzone ha illuminato l’Olimpo con una nuova Musa – l’Energia. – L’industria, siccome nelle remote albe l’eroismo, ha apprestato la materia per i futuri miti, per la nuova epopea (La nuova arma (la macchina), 1904).
Il mito dell’America
Tutto sembra avere inizio nella capitale subalpina. Torino è come Detroit, afferma in un suo saggio Giancarlo Amari (Torino come Detroit: capitale dell’automobile, 1895-1940, 1980), e Pierre Gabert nel suo Turin ville industrielle (1964) osserva che questa città con la sua matrice industriale sconvolge lo stesso impianto urbano barocco. Nicola Diulgheroff dipinge l’Uomo razionale (1928), dove i veri protagonisti sono molle e sfere metalliche, rulli e cremagliere, e Fortunato Depero (1892-1960) si prepara a narrare un mondo geometricamente meccanico. In questi anni gli ingegneri e i tecnici compiono viaggi «di istruzione» negli Stati Uniti d’America per copiare i successi del fordismo. In Fiat si leggono le relazioni dell’ingegner Bernardino Maraini, e Francesco Mauro (1887-1952), laureatosi in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1909, compie numerosi viaggi in America, e per diffondere la filosofia taylorista fonderà nel 1926 l’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS), mentre nel 1928 pubblicherà Le osservazioni di un ingegnere negli Stati Uniti d’America.
Cesare Pavese (1908-1950) nell’agosto del 1928 scriveva al professor Augusto Monti
Scribacchio, vomito poesie, per avere un terreno, un punto su cui fermarmi e dire “Sono io”. Per provare a me stesso di non essere nulla. Macché! Solo i futuristi creano. Ma io non riesco a capirli: sono troppo sani. [...] E [Leone] Ginzburg mi studia (C. Pavese, Vita attraverso le lettere, a cura di L. Mondo, 2008).
È un giovane che vive quasi da estraneo in una società che crede in un progresso di successi tecnologici, in una città che sta crescendo intorno all’automobile, al cinema e all’aviazione. Torino, la sua città, non è la Langa e dopo un ventennio di preparazione il Politecnico è uno dei fulcri del progresso: una città che sogna, come scrive l’artista Mario Sturani, «le foreste immense dei grattacieli»: l’America. E proprio attorno a questi miti, nella stessa estate Pavese scrive la sua Trilogia delle macchine dove la fine tragica di tre protagonisti ribalta l’idea di un progresso felice e positivo.
La Trilogia delle macchine è composta da tre racconti che troveranno postumi la via delle stampe: L’avventuriero fallito, Il cattivo meccanico e Il pilota malato. La loro silloge porta la data del 21 dicembre 1928, ma i singoli racconti hanno ciascuno la data della propria stesura: i primi due «3-6 Luglio 1928» e «26 Apr. 1928» rispettivamente, mentre il terzo fu scritto tra il 20 novembre e il 6 dicembre dello stesso anno.
Il mito dell’America incombe. L’avventuriero fallito
era partito pieno di febbre e di risolutezza salda, a vent’anni, verso l’America nuova, fanatico di quell’umanità, con una speranza ardente di vivere quella vita, assorbirla e esprimerla nell’arte nuova che doveva vestire la nuova bellezza del mondo. E là, s’era aggirato, aveva fatto di tutto, intorno ai focolari della cinematografia, […] Come tanti squilli di forza aveva veduto sorgergli intorno le costruzioni di quelle metropoli. I torrenti umani che si riversavano ininterrotti su quelle terre.
Ma, deluso, «tornò nella sua città sul morire dell’autunno col corpo e il cervello disfatti. […] Trovò lavoro come aiuto-macchinista in un teatro del centro e non si mosse più». E la fine tragica arriva quando «assorto su se stesso, non vide nella strada. E un’automobile arrangolata e stridente lo spezzò al suolo» (C. Pavese, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di M. Masoero, 1993, p. 96). Aveva appena visto un film d’America, rivide ancora in uno sfondo, tra le nebbie del porto che era stato il suo ultimo scalo, le grandi navi indecise nell’immensità grigia, poi i moli, i fanali sparsi, il brusio enorme e in fine, in uno scatto, l’ammasso vertiginoso dei grattacieli elettrici.
Diversa è la storia del Cattivo meccanico, anch’esso senza nome, «che era stato un giovane sempre teso disperatamente su se stesso, [… e] un giorno volle uscire da quella larva di vita che viveva […] e cercò lavoro in una grande fabbrica». La sua avventura è un percorso di affrancamento. Dalla macchina che doveva curare «in un immenso stanzone dove si arroventava e foggiava il ferro» passa a lavorare ai magli e «nel turbine rosso fu solo una fatica stremante». Quindi «dallo stanzone del ferro passò a una tettoia all’aperto, dove si montavano le automobili. E con quel tanto d’intelligenza che aveva in più sugli operai comuni, riuscì presto a passare alla prova delle macchine. Qui fu a suo agio finalmente». Ma un giorno, mentre era al volante, «s’accorse di annoiarsi», né nella vita familiare lo gratificava una moglie «libidinosa come una puttana». La fine è nota. Mentre collaudava l’ultima vettura sulle strade tortuose della collina «si scaraventò giù per un balzo sulle pietre nude» (C. Pavese, Lotte di giovani, cit., p. 106). Sullo sfondo incombe un paesaggio facilmente riconoscibile «tra le fabbriche [...] accanto a un edificio tutto in cemento armato e cristallo» (p. 96).
L’ultimo della Trilogia racconta la triste fine del Pilota malato Rafter, un «vecchio falco» che «viveva del cielo», ma che è costretto a terra dalla malattia. Il mito della velocità tanto caro ai futuristi è ora un sogno. «Il segreto colle macchine, diceva, sta nel saper fondersi ad esse in rapidità e precisione, come il miglior cavaliere è quello che sa formare un corpo solo col cavallo». Ma il suo amore della vita lo aveva tradito, «e la notte, la notte nella grande città, era, dopo il volo, il suo paradiso [...] Il vento gelido delle campagne e la nebbia notturna gli fecero l’effetto che i dottori temevano dai voli» (C. Pavese, Lotte di giovani, cit., p. 113).
La città industriale
La città per Pavese, inequivocabilmente, è la capitale subalpina, la «ville industrielle» che ritroviamo nella lirica La forza primitiva datata 6 novembre 1928, quasi anticipatrice, se pure con altro registro, di una copertina che Felice Casorati preparerà per la rivista «Civiltà delle macchine» nell’autunno del 1959.
Tutto il cielo è di fumo
grave del fumo-nebbia di novembre
sulla grande città.
Ma non solo novembre
è disceso sul mondo.
Nelle vallate rigide dei viali
gli alberi neri e bruni
s’arruginiscono tra i fili e il fumo.
[…]
E accendono tra i rami irrigiditi
fiori enormi e spettrali,
i freddi fiori elettrici
che sbocciano sul mondo.
Le alte case affiancate
li riscontrano immobili,
anch’esse coi grandi occhi allucinati.
E in questo intrigo di mondo agreste e industriale, in questo contrasto di mondi, solo apparentemente lontani perché non rileggere la lirica Atlantic Oil?
[...] È l’estremo silenzio.
Tra poco al tepore del sole
passeranno le macchine senza riposo,
svegliando la polvere.
Improvvise alla cima del colle, rallentano un poco
poi si buttano giù dalla curva.
Qualcuna si ferma nella polvere
avanti al garage che la imbeve di litri.
I meccanici un poco intontiti
saranno al mattino sui bidoni
seduti, aspettando un lavoro.
Fa piacere passare il mattino
seduto nell’ombra.
Qui la puzza degli oli
si mesce all’odore di verde, tabacco e di vino
e il lavoro li viene a trovare
sulla porta di casa. [...]
Anche la pubblicità può raggiungere ottimi livelli artistici e quella commissionata da Fiat per la vettura 522 portò nel 1931 alla realizzazione di un cortometraggio con la partecipazione di Isa Pola, su soggetto del giornalista Gino Pestelli. Sotto i nostri occhi, sotto gli occhi della protagonista, si segue l’intera catena di montaggio della vettura nello stabilimento del Lingotto.
522 è però anche il titolo del Racconto di una giornata (1932) di Massimo Bontempelli (1878-1960), un’idea nata nel giovane Ufficio stampa e pubblicità della Fiat che nel 1929 Giovanni Agnelli aveva affidato a Pestelli, con l’idea di dare vita a una «letteratura Fiat». E così la 522 diventa la protagonista del racconto: «La prima volta che 522 uscì dal chiuso e andò per il mondo, era una mattina di maggio. Molte volte i suoi creatori nell’officina ov’era nata – anche prima d’acconciarla con le belle lame che vibrano, onde avea provato tanto orgoglio – molte volte le avevano fatto cantare il motore». Una giornata, ventiquattr’ore in cui
va, corre, frena, riprende, pensa ad accelerare o rallentare, ad aumentare o diminuire il numero di giri al motore secondo lo sforzo, piegare a destra o a sinistra, dar strada alle macchine più veloci e oltrepassare le più deboli; e poi a evitare i sassi taglienti, le buche, le galline, i pedoni, e tutti gli altri accidenti della strada.
Ma la macchina ha anche bisogno di un «servo», colui che «provvede a mettere olio, benzina, acqua, accomodare i freni, gonfiare e, occorrendo, cambiare le gomme […]» ed «è utilissimo che questo servo sia portatile […]» (522. Racconto di una giornata, 1995, p. 36). Così la 522 affronta il mondo e gode della libertà e della potenza, «di respiri infiniti tra l’aria bellissima d’Italia» (p. 111). Poco importerà se arriverà a casa con un vetro rotto o con un parafango pesto, perché il mito dell’automobile deve trascendere la realtà, perché è un «mito d’oggi» come affermerà Roland Barthes.
Ma la «macchina» presto diventa strumento di emancipazione e il viaggio in Italia di Filiberto, coprotagonista del lungo racconto di Pietro Maria Bardi (1900-1999), La strada e il volante (1936), ha le caratteristiche di un percorso di iniziazione «antiborghese» dove si combatte il conformismo di un borghesismo intollerante. Ciò nonostante l’ultimo capitolo slitta in una serie di raccomandazioni che sembrano uscite da un libretto di istruzioni dell’autovettura o da un Manuale Hoepli. E quando Filiberto decide di consegnare la «1500» all’officina per una messa a punto «questa fu anche una piccola galanteria verso la fedele […]» perché «l’interruzione fa bene anche per ristorare la mente di ricordi, per ricapitolare le proprie esperienze» (La strada e il volante, 1994, p. 133).
Il potere delle immagini
Il cinema è una delle tecnologie che maggiormente incide sulla vita sociale e ne cambia le abitudini proiettandola in un mondo artificiale. In questo contesto il romanzo Si gira!, pubblicato da Luigi Pirandello nel 1915 e ristampato nel 1925 con il titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore, rappresenta l’opera in cui il drammaturgo meglio si confronta con le innovazioni tecnologiche del suo tempo:
Qui si compie misteriosamente l’opera delle macchine. […] La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii dico nelle pellicole già avvolte nei telaj. […] Avete inventato le macchine? E ora godetevi questa e con simili sensazioni di leggiadra vertigine (Si gira!, 1915).
Nel 1933 esce il film Acciaio, per la regia di Walther Ruttmann, basato su un soggetto tratto dal racconto Giuoca, Pietro! di Pirandello, con musiche di Gian Francesco Malipiero e sceneggiatura di Emilio Cecchi, Stefano Landi, Walther Ruttmann e Mario Soldati. La storia, che vede protagonisti Mario e Pietro entrambi innamorati di Gina, si svolge a Terni e le acciaierie dell’Ilva ne sono più che lo sfondo, dal momento che il film deve costituirne la celebrazione per espresso volere di Benito Mussolini.
L’anno successivo viene invece pubblicato il romanzo Tre operai, ambientato a Napoli durante le lotte sindacali del primo Novecento, in cui Carlo Bernari (1909-1992) narra le vicende di una classe operaia che cerca di affrancarsi dalla propria condizione di sottoproletariato per arrivare a una vita dignitosa. Senza indulgere in uno scontato populismo, ma mantenendo sempre un forte spirito critico verso la classe politica del tempo, l’opera si attirerà la censura fascista.
Ritornando ora alla famosa rivista dell’IRI, a quel rapporto virtuoso che negli anni dell’Italia della ricostruzione e dei miracoli economici univa l’industria alla cultura, le scienze umane alle scienze dure, così scriveva Giuseppe Ungaretti a Leonardo Sinisgalli nel primo numero:
Caro Sinisgalli,
mi chiedi quali riflessioni mi vengono suggerite dal progresso moderno, irrefrenabile, della macchina. Tocca esso l’arte del poeta? È implicita in esso un’ispirazione poetica? Ho detto una volta, e già sono passati molti anni, che ritenevo la civiltà meccanica come la maggiore impresa sorta dalla memoria, e come essa fosse insieme impresa in antinomia con la memoria. La macchina richiamava la mia attenzione perché racchiude in sé un ritmo: cioè lo sviluppo d’una misura che l’uomo ha tratto dal mistero […].
La rivista che inizia con questo numero le sue pubblicazioni, e che tu dirigi, si propone di richiamare l’attenzione dei lettori anche sulle facoltà strabilianti d’innovamento estetico della macchina. Vorrei anche che essa richiamasse l’attenzione su un altro ordine di problemi: i problemi legati all’aspirazione umana di giustizia e di libertà. Come farà l’uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso? («Civiltà delle macchine», 1953, 1, p. 7).
Nella rivista di Sinisgalli si consolidò il rapporto tra industria e arti figurative, e ben presto la direzione incaricherà importanti artisti contemporanei di comporre opere per illustrare le copertine. Così le arti visive assumeranno un ruolo guida, immediato, nel dipingere un mondo non solo industriale, ma umano, che dai colori e dalle forme delle cose e degli oggetti getta un ponte ideale tra la fabbrica e la vita quotidiana.
Pietro Consagra, Afro, Alberto Burri, Franz Kline, Franco Garelli, Emilio Vedova, Mario Mafai, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Giuseppe Migneco, Pablo Picasso, Corrado Cagli, Gianni Dova, Hans Hartung, Giuseppe Santomaso, Marcelino Vespeira, Umberto Mastroianni, Ellsworth Kelly, Alvar Aalto, Renzo Vespignani, Giuseppe Capogrossi, Antonio Corpora, Mirko, Piero Dorazio, Emilio Greco, Bruno Cassinari, Domenico Cantatore, Aligi Sassu, Ennio Morlotti sono solo alcuni nomi di questa ‘galleria’.
Le passioni meccaniche
Quando il 10 agosto 1955 Carlo Emilio Gadda scriveva all’amico Silvio Guarnieri della sua decisione di abbandonare l’impiego alla RAI, le sue «rabbie» erano davvero fondate, i suoi «anni» (5 al Politecnico a 10 ore al giorno, 11 come ingegnere a 11 ore al giorno) erano davvero «bruciati»?
Se il Gaddus non si fosse formato (o forgiato) in un contesto di meccaniche e di macchine, se non fosse stato l’ingegner Gadda, di certo non avrebbe prodotto quel «pasticciaccio» che è la sua scrittura, intraducibile e rigorosa, unica prova che le «due culture» sono solo l’invenzione di chi non conoscendo né l’una né l’altra pensa che unendole potrebbe risolvere qualcosa. E giustamente egli riesce a congiungere il teorema dell’impulso con l’odore del gorgonzola: perché il naso sta vicino al cervello.
La meccanica (1928-29, ma pubblicata postuma nel 1970), La meditazione milanese (1928-29, ma pubblicata postuma nel 1974), ma anche La cognizione del dolore (1963) e L’Adalgisa (1944) sono il teatro dove le passioni della vita trovano nelle categorie «politecniche» la loro metafora, come, per es., quando l’ingegnere deve spiegare le applicazioni del teorema dell’impulso ecco che il gatto diventa paradigma, e il suo salto nel vuoto diventa sperimento, anche se l’oltraggio, se pure supportato dalle matematiche, può trasformarsi in morte.
Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte (La cognizione del dolore, 1963).
Ancor di più, negli anni della ricostruzione e dei miracoli economici, la chimica si carica di importanti messaggi di innovazione e di rivoluzione. Primo Levi ne sarà un eccellente narratore.
La bellezza della materia
Nel Laboratorio situazionista di Alba, nell’agosto 1959, l’artista Giuseppe Pinot Gallizio proclama il manifesto Per un’arte unitaria applicabile:
Le macromolecole dei colloidi hanno già fatto la loro apparizione nel campo dell’arte, ed anche se il poeta
non è ancora stato trovato, migliaia di artisti si affannano a dominarle. La grande era delle resine è cominciata ed è con essa incominciato l’uso della materia in movimento; la macromolecola colloidale inciderà profondamente sul concetto di relatività e le costanti della materia subiranno un definitivo tracollo; si sgretoleranno i concetti di eternità e di immortalità e gli affanni di eternizzazione della materia si ridurranno sempre più al nulla lasciando agli artisti del caos la gioia infinita del sempre nuovo. [...] Soltanto una creazione e distruzione continua ed implacabile costituirà una ansiosa ed inutile ricerca di oggetti-cose di uso momentaneo, minando le basi dell’Economia, distruggendone i valori od impedendo la loro formazione; il sempre nuovo distruggerà la noia e l’angoscia creata dalla schiavitù della macchina infernale, regina del tutto-eguale; la nuova possibilità creerà un mondo nuovo del tutto diverso. […] Il mondo sarà la scena e la controscena di una rappresentazione continua; la terra si trasformerà in un immenso Luna Park, creando nuove emozioni e nuove passioni (http://library.nothingness.org/articles/ SI/it/display/98, 3 ottobre 2013).
Giulio Natta (1903-1979) ottiene nel 1963, assieme al chimico tedesco Karl Waldemar Ziegler, il premio Nobel per la sua invenzione del polipropilene isotattico. La polimerica macromolecola prodotta in Italia dalla Montecatini Edison entrerà in tutte le case con il nome di Moplen®. È la rivoluzione inarrestabile della plastica: igienica, funzionale, leggera, colorata, infrangibile.
Italo Calvino, incaricato da Montedison, nel 1985 tradurrà Le chant du styrène che Raymond Queneau nel 1957 aveva composto per un cortometraggio di Alain Resnais. Con la collaborazione di Primo Levi, che svolge qui la funzione di consulente scientifico, ne sortisce La canzone del polistirene.
Tempo, ferma la forma! Canta il tuo carme, plastica!
Chi sei? Di te rivelami Lari, penati, fasti!
Di che sei fatta? Spiegami le rare tue virtù.
Dal prodotto finito risaliamo su su
Ai primordi remoti, rivivendo in un lampo
Le tue gesta gloriose! In principio, lo stampo.
Vi sta racchiusa l’anima; del lor grembo in balia
Nascerà il recipiente, o altro oggetto che sia.
Ma lo stampo a sua volta lo racchiude una pressa
Da cui viene la pasta iniettata e compressa,
Metodo che su ogn’altro ha il vantaggio innegabile
Di produrre l’oggetto finito e commerciabile.
[…]
Comunque è sempre in fumo che la storia finisce.
Finché non viene il chimico, ci pensa su e capisce
Il metodo per rendere solide e malleabili
Le nubi e farne oggetti resistenti e lavabili.
In materiali nuovi quegli oscuri residui
Eccoli trasformati. Non v’è chi non li invidii
Tra le ignote risorse che attendono un destino
Di riciclaggio, impiego e prezzo di listino.
Dentro le fabbriche
Nel 1961 Elio Vittorini (1907-1966) e Calvino dedicavano il numero 4 della rivista «Menabò» al rapporto tra letteratura e industria, e chiedevano al mondo letterario di produrre nuove opere traendo ispirazione dalle nuove istanze che l’industria proponeva a un Paese in pieno boom economico e di fronte a un’espansione industriale che aveva prodotto nella società profonde trasformazioni. Emblematica è la poesia di Vittorio Sereni (1913-1983), Una visita in fabbrica.
[…]
La visita da poco cominciata: s’imbuca in un fragore
Come di sottoterra, che pure ha regola e centro
E qualcuno t’illustra. Che cos’è
Un ciclo di lavorazione? Un cottimo
cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre,
questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente,
rumore che si somma a rumore e presto spavento per me
straniero al grande moto e da questo agganciato.
Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori
qualche momento fa: che sai di loro
che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro …
Chiusi in un ordine, compassati e svelti,
relegati a un filo di benessere
senza perdere un colpo – e su tutto implacabile
e ipnotico il ballo dei pezzi dall’una all’altra sala.
Vittorini, in Industria e letteratura («Il Menabò», 1961, 4, p. 14), scriveva che si doveva aprire
un semplice settore nuovo d’una più vasta realtà già risaputa e non un nuovo grado, un nuovo livello dell’insieme della realtà umana: riducendosi con ciò a darne degli squarci pateticamente (o pittorescamente) descrittivi che risultano di sostanza naturalistica e quindi d’un significato meno attuale di altri testi letterari che magari ignorano tutto della fabbrica, […] ma ne sono profondamente influenzati per riflesso dei loro effetti sulla condizione dell’uomo in generale
e Ottiero Ottieri (1924-2002), nell’articolo intitolato Taccuino industriale («Il Menabò», 1961, 4), ribatteva che:
Il mondo della fabbrica è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono solo darci dei documenti, ma non la loro elaborazione. […] L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più (p. 21).
Ottieri affronta il mondo del lavoro e della fabbrica senza pregiudizi ideologici e per questo la sua indagine è più obiettiva: con l’unica «voluttà di trovarmi finalmente vicino ai temi in carne ed ossa» entra nella modernità milanese, da Rogoredo ad Arese, da Dalmine a Sesto San Giovanni dove l’industria puzza e assorda. «Eppure l’industria concentra i nodi del mondo contemporaneo, guida tutte le risposte concrete alle nostre domande». E ne usciranno i romanzi industriali del dopoguerra Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959).
L’Italia non è un Paese povero
Con scritti e poesie intervennero in quel numero di «Menabò» anche Giansiro Ferrata, Marco Forti, Franco Fortini: la proposta era ricca di speranze, ma sin dal numero seguente la rivista ritornò sui binari della letteratura tradizionale, mentre il rapporto tra la cultura industriale e le scienze dell’uomo continuò a trovare uno spazio di dialogo nella «Civiltà delle macchine» sino alla fine degli anni Settanta.
Negli anni della rinascita, per volere di Enrico Mattei usciva il primo numero della rivista «Il gatto selvatico» diretta da Attilio Bertolucci. Le pagine di questo periodico aziendale univano racconti a rubriche di varia cultura, che videro la firma di prestigiosi autori tra cui Carlo Emilio Gadda, Giuseppe Dessì, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise. Anche se ampio spazio era dedicato alla critica letteraria e cinematografica (quest’ultima condotta da Pietro Bianchi), la rivista si unì al dibattito «materialismo contro idealismo» stimolato dal fascicolo nr. 4 del «Menabò». Enzo Golino nel 1963 scrisse un articolo intitolato Letteratura e industria in cui si sottolineava ancora una volta l’importanza di un congiungimento tra tecnologia e scienze umane, lamentandone i ritardi e le diffidenze da parte del mondo letterario.
Tre anni prima Joris Ivens, sempre su commissione di Mattei, aveva diretto il lungometraggio L’Italia non è un Paese povero sul progresso introdotto nel Paese dalla metanizzazione, e ne era risultato un racconto-intervista sui forti contrasti tra il progresso tecnologico e la cultura arretrata di certe terre.
Il 1962, nonostante le disattese aspettative di Calvino e Vittorini, è segnato da due eventi assai significativi perché Memoriale di Paolo Volponi (1924-1994) e La vita agra di Luciano Bianciardi (1922-1971) riportano alla ribalta un mondo che, se pure vuole dimenticare un triste passato, non riesce appieno a realizzare le speranze di un futuro migliore. Adriano Olivetti è morto prematuramente da due anni e già nuove nuvole si addensano all’orizzonte:
La fabbrica era invece immobile, come una chiesa o un tribunale, e si sentiva da fuori che dentro, proprio come in una chiesa, in un dentro alto e vuoto, si svolgevano le funzioni di centinaia di lavori. […] C’era dovunque lo stesso odore acre, l’odore dell’olio, e dovunque un rumore schietto, diverso dal rumore che si sentiva fuori dalla fabbrica. Era il rumore dell’aria compressa e quello di centinaia di stantuffi. Dal fondo dell’officina che attraversavamo veniva il rumore
alterno e schiacciante delle presse (P. Volponi, Memoriale, 1962, p. 49).
E la macchina, la nuova protagonista di un nuovo modo di produrre, cambia completamente il ruolo tra la mano e l’utensile, invertendo i ruoli, perché come affermerà Günther Anders ormai è l’uomo a essere diventato protesi della macchina:
Questa è una fresatrice-pialla a ciclo automatico – disse indicando proprio la macchina guasta – viene costruita dalla nostra officina meccanica e si chiama FP3. Serve a lavorare una serie di pezzi di dimensioni medie. Pensate a una pialla comune che il falegname adopera su una tavola e pensate poi allo scalpello che lo stesso falegname debba adoperare per fare qualche taglio o incavo nella stessa tavola. Questa fresatrice-pialla fa le stesse cose sul ferro e sulla ghisa. Invece della mano del falegname le spinge la forza industriale (Memoriale, cit., p. 54).
Homo faber
Diversa e forse ancora legata a un mondo di artefici artigiani è l’analisi che Primo Levi fa del lavoro, dello sperimentare in laboratorio dove ancora è centrale la figura di «chi sa fare». Così, quasi in un proseguimento realistico delle sue Storie naturali, che con piglio fantascientifico aveva pubblicato sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, la sua analisi del «fare» assume le sembianze di un’osservazione scientifica, antropologica intorno all’«animale uomo»:
Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. Compiute le prime fondamentali esperienze del gioco, avevano imparato a scrivere e null’altro. Conoscevano la stretta convulsa intorno ai rami degli alberi, su cui amavamo arrampicarci per voglia naturale ed insieme (Enrico ed io) per confuso omaggio e ritorno all’origine della specie; ma ignoravano il peso solenne e bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente proibite, la tessitura sapiente del legno, la cedevolezza simile e diversa del ferro, del piombo e del rame. Se l’uomo è artefice, non eravamo uomini: lo sapevamo e ne soffrivamo (P. Levi, Idrogeno, in Il sistema periodico, 1975).
Ma ritornando a Memoriale proprio Volponi non può dimenticare che il vero protagonista della rivoluzione industriale, anche nell’Olivetti di cui è responsabile dell’immagine, è l’orologio, la macchina che costruisce artificialmente il tempo, in un sistema che non conosce più i ritmi circadiani, ma vive esclusivamente in funzione del ritmo della assembly line, quella catena di montaggio che nella nostra lingua ancora di più è metafora del legame tra l’operaio e la produzione in serie:
Passavo le ore, che gli orologi nelle officine segnano a migliaia partendo dall’inizio delle diverse lavorazioni. Quando io sono entrato nella fabbrica, l’orologio della nostra officina segnava l’ora 1227. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi (Memoriale, cit., p. 62).
La vita agra di Bianciardi è la storia di un anarchico che, arrivato a Milano dopo una tragica esplosione nella miniera dove lavorava, vuole fare esplodere a sua volta il palazzo della Montecatini. Con un diretto riferimento all’incidente avvenuto nel 1954 nella miniera di Ribolla che costò la vita a 43 persone, è un’acuta analisi sociologica del boom economico, in una metropoli dai forti contrasti.
L’anno seguente esce per Einaudi la raccolta di venti novelle Marcovaldo, ovvero le stagioni in città di Calvino, dove con sottile ironia si narrano le avventure di Marcovaldo e della sua famiglia in una città ispirata a Torino, ma che diventa la città industriale per antonomasia come pure la ditta Sbav è la ‘Ditta’ per eccellenza, simbolo di tutte le ditte. Nel 1964 La vita agra sarà portato sul grande schermo dal regista Carlo Lizzani, protagonista Ugo Tognazzi, mentre Marcovaldo, interpretato da Nanni Loy, arriverà nel 1970 a puntate sul secondo canale TV della RAI.
Macchine
Ben diverso sarà l’atteggiamento di Ennio Flaiano (1910-1972) nei confronti della Makina. Nei vari interventi sul settimanale «L’Espresso», in un Paese che sta affrontando le prime crisi postsessantottine, appare un Dizionario della Makina, preceduto da una breve ‘lirica’.
Abbiamo commesso l’errore di credere
che le macchine un giorno avrebbero vinto
l’uomo con la loro incorruttibile intelligenza.
Noi prestavamo alle macchine
una malizia che è invece nostra: le macchine
un giorno vinceranno per la semplice
forza del numero, per la loro proliferazione
incessante, che l’uomo non può arrestare: poiché
ormai il suo scopo è fare macchine.
E le voci di questo breve Dizionario passano da Automobile ad Autostop, a Benzina, a Codice della strada, Contravvenzione, Corna, Cornuto, Curva, Donna, Eleganza, Esodo… sino a Souvenir, Traffico. E così, attento alle più recenti innovazioni tecnologiche, Flaiano, riferendosi al teatro, al cinematografo, ma anche all’automobile, afferma, che
quando il medium non è più il messaggio, il medium entra in crisi. Per McLuhan il teatro è lo spettacolo, il cinematografo è il film […] venne l’automobile a distrarre il pubblico dalla frequentazione del cinema […] poi venne la televisione e lo spettatore scoprì che il messaggio gli veniva recapitato a domicilio. Oggi la televisione è l’unico medium che contenga ‘continuamente’ il messaggio […] («L’Espresso», 27 dicembre 1970).
La prima grande crisi energetica è alle porte e nella letteratura fanno capolino nuove categorie di grande impatto scientifico e sociale. Le previsioni sui Limiti dello sviluppo condotte dal Club di Roma cominciano a diffondersi tra il grande pubblico, anche se saggi come Silent Spring (1962) di Rachel Carson saranno tradotti nel nostro Paese solo nel 1990.
Nel 1976 esce l’album Automobili di Lucio Dalla, contenente la canzone Il motore del Duemila con profezie che ancora una volta dimostrano come l’arte anticipi le più scientifiche previsioni:
Il motore del 2000 sarà bello e lucente
Sarà veloce e silenzioso, sarà un motore delicato
Avrà lo scarico calibrato e un odore che non inquina...
Lo potrà respirare un bambino o una bambina.
Ma seguendo le nostre cognizioni
Nessuno ancora sa dire come sarà, cosa farà
Nella realtà il ragazzo del 2000,
questo perché nessuno lo sa […].
Quale futuro?
La grande industria italiana che si appresta a celebrare i propri centenari entra in crisi di fronte alla globalizzazione. La fantascienza sembra avere ragione.
Figlio di Laura Nasi, nipote del senatore Giovanni Agnelli, Oddone Camerana ha ricoperto importanti incarichi a livello manageriale nella Fiat, ma ha saputo trasferire nella letteratura, con sottile spirito critico, gli splendori e le miserie della grande industria. Nel 1997 ha pubblicato Il Centenario, un romanzo ambientato a Ligonto (inequivocabilmente la sua Torino) dove La Marescialla (una grande fabbrica) è ormai in completo abbandono, ma al suo interno operano ancora i Pattumeros, strani funzionari che continuano a comportarsi come se nulla fosse cambiato dagli anni del successo: uno scenario apocalittico, quasi cyberpunk.
Il lavoro, l’industria, la tecnologia si mescolano sempre più, tra realismo e fantascienza. Pochi attimi prima dell’alba del nuovo millennio, Ernesto Franco, con il suo romanzo Vite senza fine (1999), narra l’epica vita di Gio Magnasco che, dopo avere lavorato nei cantieri genovesi di un grosso transatlantico, dopo essere stato inviato nell’America Meridionale per la costruzione di una linea ferroviaria, ritornato in Italia fonda la più grande ditta di ferramenta dei suoi tempi, «perché mi piace mettere insieme le cose, e che ci restino». Questo è il motto di Gio Magnasco, un homo faber, che porta con sé il mito della razionalità e del progresso:
Il metallo era ovunque, allo stato nascente. Ininterrotte cascate di acciaio e ghisa lucente e luce vischiosa. Torrenti, rapide, estuari di metallo fuso lungo gli argini delle colate e nelle ampolle dei barili, travasato nei tundish, riversato nelle forme dei forni e dei treni.
Sembrerebbe la descrizione di una scena del film di Ruttmann, ma è invece un altro Acciaio, quello di Silvia Avallone che con questo romanzo nel 2010 è stata finalista al premio Strega; ma l’industria non c’è, perché nessuno che sia mai entrato in una acciaieria, o anche solo in una fabbrica, riesce a trovare «milioni di stantuffi nei motori a eccitazione in serie». Ben altro erano le metafore del Gaddus. E forse ancora una volta bisognerebbe riproporre seriamente l’invito di Vittorini e Calvino apparso sul «Menabò».
Strane connessioni si stabiliscono tra gli ingegneri e l’irrazionale: il contrasto tra il rigore delle scienze dure e le lande della fantasia, tra esprit de géometrie ed esprit de finesse, trova sulle frontiere delle ingegnerie germi di innovazione i cui effetti spesso sono strabilianti.
Bibliografia
O. Ottieri, Taccuino industriale, Torino 1961.
Scrittori e industria: dal «Menabò» di Vittorini e Calvino alla ‘letteratura selvaggia’, a cura di E. Chicco Vitzizzai, Torino 1982.
Scritture di fabbrica: dal vocabolario alla società. Documenti inediti dagli archivi: Alfa Romeo, Fiat, Istituto piemontese Antonio Gramsci, Lancia, Vera Nocentini, Massimo Olivetti, a cura di C. Ossola, Torino 1994.
Letteratura e industria, Atti del XV congresso A.I.S.L.L.I., Torino (15-19 maggio 1994), a cura di G. Barberi Squarotti, C. Ossola, 2 voll., Firenze 1997.
U. Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Milano 2001.
Cultura scientifica e cultura umanistica: contrasto o integrazione?, a cura di G. Olcese, Genova 2004.
Leggere e saper leggere. Saggi di critica letteraria per «Il Gatto Selvatico» 1955-1965, Roma 2010.
Lamiere. La letteratura tra fabbrica e città, a cura di G. Pisa, Napoli 2011.
Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli, a cura di S. Martelli, F. Vitelli, 2 voll., Salerno-Stony Brook (NY) 2012.
Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, a cura di G. Bigatti, G. Lupo, Roma-Bari 2013.