Raccontare l'altro: dal poema astrologico al mito di Alessandro
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo la morte di Augusto viene meno il mecenatismo che aveva caratterizzato gran parte della produzione letteraria latina e durante i regni degli imperatori successivi si sviluppano nuovi generi letterari che non seguono più una sola direzione, ma si muovono in diversi campi affrontando generi e tematiche differenti.
Se la letteratura dell’età augustea appare solidamente ancorata ad un centro, rappresentato dalla figura del principe e dall’articolata politica culturale che questi seppe mettere in campo, non altrettanto si può dire per i decenni successivi, sotto gli imperatori Tiberio, Caligola e Claudio: gli autori attivi in questo arco cronologico sembrano muoversi in direzioni diverse e non coordinate, anche per via del brusco venir meno del mecenatismo insieme con la scomparsa di Augusto. In campo scientifico, gli Astronomica di Manilio costituiscono una risposta (polemica) a Lucrezio e all’idea epicurea di un universo senza provvidenza e di una divinità senza relazione con gli uomini, sulla base di una impostazione stoica assai più coerente con gli orientamenti culturali dell’ultima età augustea. Sotto Tiberio appaiono la raccolta di aneddoti di Valerio Massimo e la screditata storia romana di Velleio Patercolo, isolato panegirista del nuovo principe; al polo opposto si colloca la coeva fioritura di un genere nuovo, la fiaba, voce di chi non ha voce contro i soprusi dei potenti. In direzione ancora diversa va la ricostruzione della vicenda di Alessandro da parte dell’oscuro Curzio Rufo (ma Alessandro, non va dimenticato, resta un modello per tutti i principi successivi); infine, il libro di ricette che ci giunge sotto il nome del raffinato gaudente Apicio) offre il quadro di una realtà che, dietro la maschera della moralizzazione e del ritorno al costume degli avi, rivela senza infingimenti la sua propensione al piacere raffinato e dispendioso.
L’interesse per l’astrologia, che la cultura della Grecia classica – almeno parzialmente segnata da un orientamento razionalista – aveva messo in secondo piano, conosce, già a partire dall’ellenismo, una nuova fioritura: non solo grazie alla fusione di elementi babilonesi ed egiziani con gli strumenti matematici e astronomici elaborati dagli scienziati greci almeno a partire dal III secolo a.C., ma anche grazie al quadro teorico di giustificazione della disciplina che aveva offerto la filosofia stoica aveva offerto con la sua concezione del mondo visto come un unico organismo vivente regolato dal Logos.
A Roma, in particolare, l’astrologia diviene molto popolare sotto il principato di Augusto, che grande importanza dà al proprio oroscopo: cioè a quella configurazione degli astri che “guardavano” l’ora della sua nascita (il significato del termine oroscopo è proprio “che guarda l’ora”). Da aggiungere, inoltre, che la linea di demarcazione che separa oggi astronomia e astrologia non era così netta in antico, per cui non ci stupisce di incontrare, nella storia della letteratura latina, un’opera intitolata Astronomica nella quale elementi di natura scientifica coesistono con parti più strettamente astrologiche, che si fondano sul riconoscimento della presenza, nella volta celeste, di una articolata organizzazione simbolica. Ne è autore un certo Manilio, di cui non si ha alcuna notizia se non quella, ipotetica, di un’origine orientale.
Gli Astronomica sono un poema didascalico fortemente ispirato al modello lucreziano: in cinque libri (ma è molto probabile che proprio in omaggio al De Rerum Natura, ce ne fosse anche un sesto), il testo analizza dapprima le teorie filosofiche sull’origine dell’universo e descrive la sfera celeste, con le costellazioni, i pianeti, le comete e perfino le meteore. Nel secondo libro vengono invece presentati i 12 segni zodiacali, mentre nel terzo vengono impartite istruzioni per la compilazione dell’oroscopo e il calcolo dell’ascendente; il quarto e il quinto libro, infine, descrivono l’influsso dei pianeti e delle costellazioni sul carattere di individui e di popoli. Tali teorie si fondano sul presupposto – ancora di matrice stoica – che esista una corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, cioè che tra il movimento degli astri e l’esistenza umana (realtà in apparenza lontanissime tra loro) esista un rapporto di stretta causalità, la cui trama può essere indagata e svelata anche attraverso la poesia.
Il titolo, riportato dal codice che lo contiene, di Libro delle Favole di Fedro, liberto di Augusto ci dà un’indicazione molto importante sulla cronologia e la condizione sociale dell’autore di cinque libri di favole che, giunti a noi con molte lacune, costituiscono comunque l’esempio di un genere letterario nuovo a Roma, ma che può contare sul significativo precedente della tradizione esopica. Figura leggendaria della letteratura greca arcaica, Esopo avrebbe raccolto in forma scritta una serie di favole attinte da un’ampia tradizione orale. Ma di fatto la prima notizia certa di una raccolta di favole esopiche risale al IV secolo a.C.: l’autore sarebbe stato Demetrio di Falero, filosofo peripatetico che avrebbe sviluppato l’interesse aristotelico per la psicologia animale.
Fedro (vissuto presumibilmente tra il 20 a.C. e il 50 d.C.) raccoglie questa tradizione e ci tramanda un corpus di favole in versi (l’opera di Esopo era invece in prosa), costituito – come si è detto – da cinque libri, alcuni dei quali molto lacunosi. Le prime favole vengono pubblicate sotto il principato di Tiberio, ma come lo stesso autore ricorda (nel proemio al libro III, vv. 40 ss.) la scelta di alcuni argomenti si dimostra particolarmente infelice, se il potente ministro dell’imperatore, Seiano, gli intenta un processo in cui sostiene contemporaneamente il ruolo dell’accusatore, del testimone e del giudice. Solo quando Seiano cade in disgrazia (viene condannato a morte nel 31), Fedro riesce ad ottenere una certa protezione da parte del potere, ma ciò non gli impedisce di maturare un rassegnato pessimismo e un senso malinconico della immutabilità del reale, che costituiscono il “filo rosso” della sua produzione. Questi toni, uniti al proposito moraleggiante, sono infatti i tratti caratteristici del genere della favola che Fedro introduce a Roma.
Il racconto che vede protagonisti gli animali ruota intorno a un tema folklorico molto diffuso non solo nella tradizione greco-romana: soprattutto in società contadine e pastorali gli animali finiscono per costituire lo specchio attraverso cui l’uomo vede se stesso. Infatti, a motivo di un comportamento istintivo legato alla specie, l’animale ben si presta a fissare la tipologia psicologica dei caratteri umani: la volpe incarna la furbizia, il leone la prepotenza. Accade così che le diverse specie animali vengano usate come un sistema di classificazione, una sorta di tipologia naturale della cultura. Creando una rete di analogie tra sfera animale e sfera umana, la favola parla dunque di persone descrivendo qualcosa di profondamente altro e insieme di profondamente accostabile ad esse. In questo modo l’opera di Fedro, che ha come intento quello di ipsam vitam et mores hominum ostendere (“mostrare la vita stessa e il carattere degli uomini”), non rinuncia mai al piacere del racconto, che è tratto tipico di ogni mythos degno di questo nome.
Il lettore moderno potrebbe incuriosirsi, apprendendo che a Marco Velleio Patercolo era stato intitolato dal Codacons qualche anno fa un “Premio di giornalismo a chi durante l’anno si è distinto in modo eccellente per servilismo al potere governativo o economico fornendo notizie false ai lettori”. Se è vero che gli autori antichi interagiscono ancora attivamente nel nostro modo di rapportarci con il mondo, funzionando come modelli paradigmatici, certo appare un po’ singolare l’“eccellenza” che si sarebbe guadagnata questo storico, vissuto tra il 19 a.C. e il 31 d.C. circa, assurgendo a simbolo dell’informazione asservita al potere.
All’origine della scelta provocatoria del Codacons sta il giudizio poco edificante che a lungo è pesato, anche in età moderna, su Velleio, unica voce tra quelle della storiografia latina a tessere le lodi dell’imperatore Tiberio, in controcanto, per esempio, con la voce di uno storico ben più autorevole come Cornelio Tacito. Nato probabilmente a Capua, da una famiglia di origine sannita che si era distinta per fedeltà a Roma, il giovane Velleio intraprende la carriera militare come ufficiale della cavalleria di Tiberio, tra il 4 e il 6, e al fianco di Tiberio rimane anche negli anni successivi, in varie campagne in Pannonia (Europa centrale) e in Dalmazia. Il 30 è un anno chiave: Velleio pubblica la sua Storia romana in due libri e dopo quell’anno, malgrado abbia raggiunto la notorietà di personaggio pubblico, di lui non si hanno più notizie. Nessun altro storico antico lo nomina. Dopo la fama, l’oblio.
Le ragioni vanno ricercate forse proprio nel taglio di quella che si propone come un sunto della storia romana, dalle origini mitiche (la caduta di Troia) al presente, ma in cui l’obiettivo scoperto è quello di mostrare come il dominio di Roma sul mondo e la soluzione istituzionale dell’impero siano voluti dal destino. Inoltre, la sincera ammirazione che l’autore nutre per Tiberio innerva la narrazione fino a modificarne talvolta il registro stilistico, virando da quello (auspicabilmente) pacato della storiografia ai toni encomiastici del panegirico. La sincerità dei sentimenti non basta a sostenere un modello di storiografia che sembra inclinare alla propaganda, e anche la lode – è noto – è più che mai soggetta ai tempi. Quando si affaccerà nel panorama storiografico la lettura tacitiana dell’impero, l’opera, letterariamente modesta, di Velleio non potrà che essere relegata sullo sfondo. Resta nella memoria soltanto la sua esposizione della “concezione organica” della storia (I,6,1 e II,11,3): una sorta di teoria evolutiva secondo cui città e forme di governo, imperi e perfino fenomeni letterari attraverserebbero – proprio come avviene in un corpo umano – gli stadi della crescita, della fioritura, dell’invecchiamento, fino alla completa estinzione.
Nei Factorum et dictorum memorabilium libri IX di Valerio Massimo, pubblicati dopo il 31 e dedicati a Tiberio, confluiscono sottogeneri storiografici come la biografia e l’aneddotica. Si tratta di una raccolta di exempla, modelli tratti sia dalla storia romana che degli altri popoli, e catalogati in base a vizi e virtù. L’intento dichiarato di Valerio Massimo è quello di raccogliere in modo organizzato un materiale che sarebbe altrimenti sparso in una pluralità di altre opere, così che i lettori possano facilmente reperire gli exempla che cercano; un repertorio quindi particolarmente utile per fornire materiale alle esercitazioni delle scuole di retorica. Il carattere di fondo è moralistico e la tendenza costante è quella di esaltare i valori del passato che hanno fatto la grandezza di Roma e ai quali l’ideologia del principato afferma di volersi richiamare.
La suddivisione degli exempla in domestica, riferiti alla storia romana, ed externa, riguardanti cioè popoli stranieri, ci permette di comprendere l’atteggiamento del mondo romano nei confronti dell’“altro”: gli exempla externa non sono inseriti nella raccolta con la finalità dell’arricchimento culturale che può derivare dell’apertura verso gli altri popoli; di essi ci si serve piuttosto in una prospettiva etnocentrica, come termine di confronto che porta sempre all’affermazione più o meno esplicita di una superiorità del popolo romano. L’impronta moralistica e paradigmatica dell’opera di Valerio Massimo ha determinato la sua persistente fortuna nei secoli, in particolare nel Medioevo, epoca che nell’idea di exemplum trova un concetto culturale portante.
Strana sorte, quella di Curzio Rufo: quella di aver consegnato alla storia un’opera dedicata alla biografia di un uomo fuori dal comune, Alessandro Magno, senza aver lasciato elementi che permettano a noi di tracciare la sua piccola biografia di uomo e di autore. È infatti uno di quegli scrittori di cui ignoriamo tutto, a parte il nome, e i tentativi fatti per identificarlo con personaggi storici restano soltanto ipotesi. Tuttavia, pur nella sua condizione di “autore fantasma” è per noi tutt’altro che un’ombra: la sua opera lo ha reso eterno, dimostrando ancora una volta quello che gli antichi ben sapevano, che la gloria durevole è legata a ciò che si fa, non a ciò che si ostenta. Dei suoi dieci libri di Storie di Alessandro Magno il Macedone, scritti verosimilmente agli inizi del regno di Claudio (dal 41 a.C.), ci mancano i primi due. Quelli che abbiamo iniziano con le imprese di Alessandro dal 333 a.C. alla morte nel 323 a.C., una parabola breve ma densa di conquiste come un’epopea.
Tra i primi episodi è, ad esempio, quello – passato in metafora proverbiale – dello scioglimento del “nodo di Gordio”: nodo “fatale”, che secondo la tradizione nella città di Gordio (odierna Turchia) legava inestricabilmente il carro consacrato a Zeus e l’aratro del personaggio mitico che aveva dato il nome alla città, divenuto re in seguito a un segno celeste; un oracolo aveva promesso il dominio dell’Asia a chi fosse riuscito a sciogliere quel nodo e Alessandro, di passaggio, vista la vanità dei tentativi di districare il nodo, lo tagliò con la spada. Fosse per caso o per segno del destino, in seguito egli conquistò per davvero l’Asia. Questo aneddoto, apparentemente legato a un incidente di percorso, porta con sé qualcosa dell’alone di leggenda che al tempo di Curzio ha già dato vita a una cospicua produzione letteraria sul personaggio dai tratti talvolta romanzeschi. E del romanzo ha qualche tratto lo stile della scrittura di Curzio, insolito per uno storico: mentre descrive lo scontro con l’imperatore persiano Dario a Isso, o gli onori divini tributati ad Alessandro in Egitto presso il tempio di Giove Ammone, o nelle altre numerose tappe di una conquista che sembra non avere fine, il racconto indulge a digressioni che nascono dalla curiosità per universi culturali differenti. Manca la dimensione propriamente fantastica dei racconti di meraviglie, e cioè mancano animali o piante dai caratteri straordinari (o mostruosi): ma il senso dell’alterità seducente di quel mondo in cui Alessandro si addentra con la sua conquista forma lo sfondo più adatto per l’eroe che nel ritratto di Curzio associa qualità straordinarie a quella indispensabile miscela di felicitas e fortuna che garantisce il successo. Insomma, alla costituzione di quel mito di Alessandro che nessun grande della storia è mai riuscito nel tempo a riproporre, anche l’opera di Curzio dà un importante contributo.
Nel mare della trattatistica di stampo storico e filosofico che caratterizza la produzione culturale della prima età dell’impero, non si possono passare sotto silenzio i nomi di Tito Labieno, Cassio Severo, Cremuzio Cordo, tutti in varia misura colpiti da censura (sotto Augusto e sotto Tiberio) a motivo delle loro tendenze repubblicane o comunque della forte vena satirica con la quale i loro scritti – per noi perduti – screditavano membri dell’aristocrazia vicini all’imperatore.
Oppositori della tirannide imperiale sotto Nerone sono poi alcuni rappresentanti dello stoicismo, tra i quali Trasea Peto, Musonio Rufo e Lucio Anneo Cornuto, liberto della famiglia di Seneca, di cui ci è giunto solo il Sommario di teologia ellenica, in greco: in questo breve trattato gli antichi racconti mitologici sugli dèi vengono interpretati come un travestimento allegorico dei principi della fisica stoica.
Certamente uno dei trattati più singolari della letteratura latina che è giunto fino a noi è il De re coquinaria (“Sulla gastronomia”) attribuito a Marco Gavio Apicio e conosciuto per la sua ricchezza oltre che per le sue stravaganze gastronomiche. Le circa 500 ricette che compongono questo “Artusi” ante litteram non sono certamente state scritte da lui, al quale invece si può attribuire il nucleo originario del trattato. Il testo del De re coquinaria non soddisfa soltanto una curiosità antiquaria sugli usi alimentari dei Romani, ma aiuta a comprendere alcuni aspetti significativi della storia dei consumi: quello della alimentazione è infatti – allora come oggi – un ambito antropologico di grande rilevanza. Se volessimo disegnare una mappa alimentare del mondo romano, dovremmo considerare che, da originarie caratteristiche di sobrietà (quando, in età arcaica, si consumavano pane, formaggi di capra, e cereali “inferiori” come il farro e l’orzo), la mensa dei Romani si impreziosisce progressivamente: se in età repubblicana, per esempio, si affermano i legumi, da sempre considerati “la carne dei poveri”, il vero salto qualitativo si ha a partire dal III secolo a.C., quando, in seguito alle guerre di conquista, si avvia un processo di importazione dei prodotti, che modifica e diversifica i bisogni alimentari. La cucina diventa un’arte vera e propria anche per influenza delle pratiche greche e orientali, un’arte che si fonda su un presupposto molto lontano dal nostro modo di concepire “la scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”: se a noi oggi piace proprio “sentire i sapori” e riconoscere, in un piatto pur elaborato, gli elementi di cui è composto, i cuochi romani erano maghi nel travestimento dei cibi, nella convinzione che questi ultimi dovessero subire una trasformazione attraverso cui si mimetizzasse la natura del cibo stesso. Dalla natura alla cultura, anche in cucina.