raddoppiamento sintattico
Il raddoppiamento sintattico è un fenomeno di ➔ sandhi esterno (o di ➔ fonetica sintattica), di natura assimilatoria (almeno in origine: cfr. § 3; ➔ assimilazione), che si verifica nell’➔italiano standard a base toscana e in molte varietà centro-meridionali di italiano (sia pure con modalità almeno in parte differenti: cfr. § 5).
Consiste nell’allungamento (o geminazione) della consonante iniziale di una parola che sia preceduta da una parola tronca o da alcuni morfemi capaci di indurre il raddoppiamento: ad es., parlò [bː]ene, città [pː]ulita, a [kː]asa, come [nː]oi, sto [mː]ale. La bibliografia sull’argomento è assai ampia; si vedano per un primo inquadramento Camilli (19653), Serianni (1989: 25 segg.), Loporcaro (1997b), Mioni (2001).
Nell’italiano contemporaneo, il raddoppiamento sintattico si verifica essenzialmente in due contesti:
(a) dopo una parola accentata sull’ultima sillaba (ivi inclusi i ➔ monosillabi tonici): ad es., andrò [pː]iano, farà [tː]utto, mangerò [tː]utto, va [fː]orte, re [lː]atino, tre [kː]ani;
(b) dopo una serie di morfemi monosillabici (per es., e, o, ho, è, se) o bisillabici (come, dove, sopra, qualche): ad es., io e [tː]e, ho [fː]ame.
Il primo tipo di raddoppiamento sintattico è detto anche prosodico (➔ prosodia), perché avviene in base a uno specifico condizionamento di tipo accentuale; il secondo è considerato di tipo morfologico, dal momento che è innescato da una lista chiusa di elementi morfologici, perlopiù preposizioni, forme ausiliari, congiunzioni. Inoltre, il primo tipo di raddoppiamento è regolare, cioè si applica a tutte le parole che rispecchiano il vincolo prosodico dell’➔accento finale di parola, mentre il secondo può dirsi irregolare, perché non si applica sulla semplice base di una regola fonologica contestuale (cfr. Loporcaro 1997b). Dei due tipi considerati, solo il primo (cioè il raddoppiamento prosodico) può dirsi produttivo, nel senso che si applica a tutte le parole, anche di prestito, purché venga rispettato il vincolo prosodico che lo innesca: così, ad es., caffè [fː]orte, paltò [kː]aldo, comò [kː]aro.
Il raddoppiamento sintattico non viene di norma indicato dalla grafia italiana (➔ ortografia), tranne che nei casi di ➔ univerbazione, vale a dire quando le due parole sono scritte unite: ad es., cosiddetto, eccome, sennò, sopracciglio, soprattutto, sopralluogo, contrattempo, contraddire, ecc. (cfr. Serianni 1989: 26-27). Nell’italiano standard scritto, è inoltre indicata la doppia consonante (➔ doppie, lettere) dei ➔ clitici saldati a forme verbali monosillabiche forti (tipicamente la seconda persona singolare dell’imperativo): ad es., fallo, dillo, dammi, vacci, ecc.
Il raddoppiamento sintattico è un fenomeno fonologico di natura coarticolatoria (➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di), che trae origine dall’➔assimilazione regressiva tra una consonante finale di parola e la consonante iniziale della parola seguente. Per molti aspetti, il raddoppiamento sintattico è pertanto simile agli analoghi processi assimilativi che sono avvenuti a confine di morfema nell’ambito della parola nell’evoluzione dal latino all’italiano (➔ latino e italiano): ad es., a [kː]asa < lat. ad casam, come accorrere < lat. ad + currere, fatto < lat. fac+tus, come fa [tː]utto < lat. fac totum.
Va tuttavia osservato che nei documenti latini non sono rinvenibili testimonianze, né dirette (come le epigrafi) né indirette (per es., nelle opere dei grammatici latini), sulla presenza del raddoppiamento sintattico su base prosodica; in particolare, non abbiamo attestazioni di pronunce geminate dopo monosillabi tonici, per es. *qui ddicit per quis dicit.
La vitalità dei processi assimilativi è invece ampiamente documentata, sia all’interno di parola (per es. tra preposizione e verbo: sufficio < sub + ficio, attineo < ad + tineo; cfr. Giannini & Marotta 1989) che a confine di parola. Parimenti, nelle epigrafi di varie zone dell’impero latino è possibile rinvenire grafie che testimoniano l’avvenuta assimilazione consonantica a confine di parola, tra parole comunque morfosintatticamente coese: per es., suc cura per sub cura, at tuos per ad tuos, ecc. Assimilazioni fonosintattiche, cioè a confine di parola, sono inoltre testimoniate anche da scrittori latini e dagli stessi grammatici: ad es., cu [nː]obis per cum nobis, cu [nː]os per cum nos (per i dettagli, Loporcaro 1997b: 42 segg.).
Passando a considerare l’epoca volgare, accanto a sporadiche testimonianze in area mediana (➔ Italia mediana), le prime attestazioni del raddoppiamento sintattico prosodicamente condizionato nei testi toscani risalgono al XIII secolo (➔ fonetica storica; ➔ Duecento e Trecento, lingua del); ad es., sì mmi grava, né mi fosse, tu ssé spietato (Contini 1960, II; Castellani 1982; Formentin 1995 e 1996).
Nonostante la chiara natura assimilatoria del processo in diacronia, sul piano sincronico il raddoppiamento sintattico non è più interpretabile come tale, nel senso che per il parlante medio italiano, che non abbia competenze specifiche di storia della lingua, la geminazione di una consonante iniziale di parola non viene ricondotta all’antica presenza di una consonante finale di parola che si è nel tempo assimilata alla consonante iniziale della parola seguente. La natura assimilatoria del processo è tuttavia ancor oggi riconoscibile nell’analogo processo di geminazione per assimilazione che si verifica in molti dialetti italiani, come pure nelle varietà più basse e colloquiali della lingua, dopo alcuni morfemi (prevalentemente monosillabici) terminanti in consonante: per es., tosc. pe[tː]e invece di per te, co[lː]ui, invece di con lui, roman. co[mː]e, invece di con me.
In sincronia, il raddoppiamento sintattico di tipo fonologico (cfr. la classificazione in § 2) può essere facilmente interpretato come un processo di sandhi esterno dipendente da uno specifico vincolo prosodico, vale a dire l’accento finale sulla prima parola della sequenza. Tale vincolo agisce in maniera regolare, e pertanto del tutto prevedibile: date due parole contigue all’interno di un enunciato, la geminazione della consonante iniziale di una parola si produce dopo una parola tronca.
L’interpretazione sincronica di questa regola può essere individuata in rapporto agli altri vincoli prosodici che vigono sulla struttura sillabica in italiano; tra questi, quello più rilevante ai fini del raddoppiamento sintattico è la restrizione sulla rima ‘pesante’ in sillaba tonica (o meglio accentata). Questo vincolo prevede che una sillaba accentata debba avere in rima (➔ sillaba) un peso adeguato all’espressione dell’accento, dunque una vocale lunga oppure una consonante in coda sillabica (cfr. Vogel 1982; Chierchia 1986; Vincent 1988; Sluyters 1990; Agostiniani 1992; Marotta 1983-1986 e 1995a; Loporcaro 1997b); vengono pertanto considerate mal formate, e dunque escluse dalla posizione tonica, le sillabe ‘leggere’ (cioè con vocale breve e prive di coda consonantica).
In questa prospettiva, il medesimo vincolo spiega l’allungamento vocalico, che si produce in italiano nelle sillabe accentate aperte non finali di parola; per es., m[aː]re, d[iː]to, sap[eː]re, ecc. Nelle sillabe finali accentate, invece dell’allungamento vocalico, si verifica il raddoppiamento sintattico, che consente di rendere adeguato il peso della rima sillabica tonica precedente: parlò bène, con sillaba tronca leggera, diventa pertanto parlò b.bène, con sillaba finale tronca resa pesante dall’allungamento della consonante iniziale della parola seguente. Va comunque sottolineato che l’interpretazione fonologica del raddoppiamento sintattico sopra presentata andrà riferita al funzionamento del processo in sincronia, dal momento che la sua origine diacronica è piuttosto da riportarsi a un fenomeno assimilativo, come abbiamo visto (cfr. § 3).
Il raddoppiamento sintattico sarebbe dunque una sorta di allungamento compensativo: l’elemento di peso prosodico richiesto dall’accento lessicale si ancorerebbe alla consonante piuttosto che alla vocale precedente. L’elemento prosodico in gioco può essere inteso nei termini della nozione di mora, come ha proposto in particolare Repetti (1991) per interpretare formalmente il raddoppiamento sintattico: la fonologia moraica si basa infatti sul riconoscimento del valore distintivo della quantità vocalica per la definizione delle rappresentazioni fonologiche (cfr. Hayes 1989).
Il raddoppiamento sintattico è stato interpretato anche quale processo fonologico di riparazione per evitare lo scontro di accenti lessicali (ingl. stress clash): in caso di sequenze costituite da parola tronca seguita da parola accentata sulla prima sillaba, data la contiguità tra i due accenti lessicali, si crea infatti una configurazione ritmica marcata, dal momento che principi universali di eufonia ritmica prevedono piuttosto l’alternanza di sillabe toniche e atone (cfr., tra gli altri, Goldsmith 1990).
Il raddoppiamento sintattico potrebbe pertanto essere interpretato alla luce della tendenza prosodica che mira a evitare lo scontro accentuale nelle lingue naturali (Nespor & Vogel 1979). Tuttavia, se l’unica ragione del raddoppiamento sintattico fosse da individuarsi nella tendenza a evitare configurazioni ritmiche marcate, esso non dovrebbe applicarsi in assenza di scontro accentuale, cioè quando la parola tronca sia seguita da una o più sillabe atone, il che è empiricamente falso, come dimostrano gli esempi seguenti: città [pː]ulìta, città [pː]ulitìssima, come città [bː]ella, caffè [fː]reddissimo, come caffè [fː]reddo, mangiò [tː]antissimo, come mangiò [tː]anto (Marotta 1985).
Tuttavia, un certo condizionamento ritmico sul raddoppiamento sintattico andrà riconosciuto: l’analisi sperimentale ha infatti dimostrato che, ceteris paribus, la sua forza, intesa come lunghezza del segmento consonantico bersaglio del processo, è inversamente proporzionale alla distanza interaccentuale: minore la distanza tra i due accenti lessicali, maggiore la lunghezza della consonante geminata; maggiore la distanza, minore la lunghezza (cfr. Marotta 1985).
Si è talora sostenuto che sul raddoppiamento sintattico vigano anche vincoli di natura sintattica (cfr. Nespor & Vogel 1986; Nespor 1993), per cui si realizzerebbe solo all’interno di uno stesso costituente prosodico e sintattico. In realtà, il processo appare impermeabile alla sintassi, poiché si verifica indipendentemente dalla presenza o meno di un confine sintattico, anche in relazione ai costituenti maggiori, come ➔ sintagma nominale soggetto e ➔ sintagma verbale seguente: per es., la città [kː]resce lentamente.
L’unico vincolo negativo, cioè che blocca la produzione del raddoppiamento sintattico nelle condizioni che lo prevedono, sia che si tratti del tipo fonologico che del tipo morfologico, è di natura prosodica e riguarda la presenza di una pausa tra la fine della parola che innesca il processo e l’inizio della parola seguente che lo subisce.
Il raddoppiamento sintattico si applica a tutte le consonanti che possono occupare una posizione di attacco sillabico: ad es., provò [pː]aura, ho [vː]isto, a [kː]cavallo. Nel caso in cui la seconda parola inizi con un nesso consonantico, lo statuto sillabico della sequenza determina l’applicazione o il blocco del processo di geminazione: se il nesso costituisce un attacco sillabico complesso permesso in italiano (vale a dire, essenzialmente, le sequenze costituite da ostruente non sibilante + liquida), il processo di geminazione si verifica analogamente a quanto accade con un attacco semplice: per cui, ad es., parlò [bː]ene, come sembrò [bː]rutto, mangiò [tː]utto come mangiò [tː]roppo, da [gː]rande, è [fː]resco.
Se invece la seconda parola inizia con un nesso consonantico costituito da s + C, il raddoppiamento sintattico non si produce, il che conferma l’eterosillabicità della sibilante implicata in italiano; ad es., arrivò [s]tanco, non *[sː]tanco, è [s]tupido, non *[sː]tupido (cfr. Marotta 1995a).
Il raddoppiamento sintattico è assente nelle varietà settentrionali dell’italiano, come pure nei corrispondenti dialetti, in concordanza con la mancanza di geminazione consonantica. Il fenomeno è invece presente tanto al Centro che al Sud d’Italia, anche se alcuni tratti differenziano l’area mediana da quella meridionale.
La Toscana settentrionale e orientale, l’Umbria settentrionale, il Lazio (Roma esclusa) e le Marche mostrano condizioni di raddoppiamento sintattico indotto da una lista chiusa di elementi morfosintattici (cfr. Loporcaro 1997b: 90 segg.), mentre nel Meridione il vincolo accentuale sembra non giocare alcun ruolo nel prodursi del raddoppiamento sintattico. Così, ad es., al sintagma italiano tu dormi [ˈtu ˈdːɔrmi], con tu monosillabo forte, cioè tonico, corrisponde in napoletano [ˈtu ˈrwormə], in barese [ˈtu ˈdːɔrmə], senza raddoppiamento sintattico, mentre dopo e < lat. et, si ha raddoppiamento sintattico, per conservazione dell’antico processo di natura assimilatoria (cfr. § 3). Per ulteriori dati e considerazioni, si vedano Fanciullo (1986 e 1997) e Loporcaro (1988; 1997a; 1997b: 80 segg.).
In condizioni fonologico-prosodiche fondamentalmente affini, romanesco (➔ Roma, italiano di) e toscano (➔ toscani, dialetti) si differenziano nei morfemi che inducono raddoppiamento sintattico: ad es., gli imperativi monosillabici fa’, va’, sta’ sono rafforzanti nel romanesco, ma non nel fiorentino; da non rafforza a Roma, mentre lo fa dove, che invece non induce raddoppiamento a Firenze. Nella stessa Toscana, si osserva del resto una discreta variabilità nella lista dei morfemi raddoppianti; in particolare, il lucchese mostra comportamenti più restrittivi rispetto al fiorentino; il pisano, un tempo più affine al lucchese, e dunque meno prono al prodursi del processo in esame, appare attualmente molto simile al fiorentino (cfr. Agostiniani 1992; Marotta 1983-1986).
Sulla presenza di raddoppiamento sintattico in varietà romanze non italiane il dibattito è ancora aperto. Tenendo conto del fatto che la perdita dell’opposizione di quantità consonantica era andata perduta in buona parte del territorio romanzo già in fase preletteraria, diventa difficile interpretare i casi di geminazione in contesto di potenziale raddoppiamento sintattico documentati sporadicamente nei testi romanzi di antica attestazione.
Ad es., il digramma -ll- che in molti casi si riscontra in morfemi romanzi che continuano ille latino può essere interpretato come conservazione, a livello puramente grafico, della consonante geminata originaria piuttosto che come testimonianza del raddoppiamento sintattico, il che implicherebbe per le varietà romanze che la presentano una pronuncia lunga del segmento.
D’altra parte, è noto che nel processo di degeminazione che ha interessato il consonantismo romanzo, alcuni segmenti hanno mantenuto più a lungo di altri il tratto di lunghezza; in particolare, -ll-, -rr-, -nn- (ma non -mm-) e -ss- (cfr. già Martinet 1955: 251 segg.; Zamboni 1976: 326, quindi Giannini e Marotta 1989; Formentin 1995; Loporcaro 1997b), cui si aggiungerà anche -tt- per l’ibero-romanzo e il sardo (Loporcaro 1997b: 79 segg.). Tuttavia, anche ammettendo che la grafia geminata indichi una pronuncia fonetica, quindi una consonante lunga, restano ambigui, sia per origine che per vincoli prosodici, i rapporti tra la geminazione di alcune consonanti in area romanza occidentale e il processo del raddoppiamento sintattico quale si riscontra nelle varietà italo-romanze. Per ulteriori dati e bibliografia, si rinvia a Loporcaro (1997b: 72 segg.).
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