RADELCHI I
– Radelchi nacque probabilmente nel 791, come può desumersi dal suo epitaffio (Poetae Latini Medii Aevi, a cura di E. Dümmler, II, 1884, pp. 657 s.), che pone la sua morte (851) dopo il compimento del sessantesimo anno d’età.
Non ne conosciamo le ascendenze familiari, ma le fonti permettono di seguire il suo percorso negli anni immediatamente precedenti la sua ascesa al principato di Benevento. Sotto il suo predecessore, Sicardo, Radelchi ricoprì la carica di tesoriere, come sappiamo da Erchemperto e da tre diplomi principeschi degli anni 830, dove figura come rogator (le Cronicae S. Benedicti Casinensis, II, 1, lo definiscono zetarius palatii, con un termine aulico, non altrimenti testimoniato nelle fonti meridionali dell’alto Medioevo). Radelchi fu anche titolare di una iudiciaria, da intendere in questo caso non come ambito di governo territoriale, ma come dotazione fondiaria connessa al suo ufficio, in altri casi definita anche actus o maripahissatum.
In età ducale tali dotazioni erano consuete, nella pur ristretta cerchia degli ufficiali, ma nella prima metà del IX secolo ne troviamo solo pochissime, riservate ai personaggi più eminenti dell’aristocrazia di palazzo.
Insieme con la prestigiosa carica di tesoriere e l’assiduità nei diplomi, la titolarità di una iudiciaria è dunque il segno di una particolare vicinanza di Radelchi al principe.
Sicardo morì assassinato nel luglio-agosto dell’839 e Radelchi fu eletto in agosto, dopo aver ucciso un altro aspirante al trono, Adelchi, figlio del referendario Rofrid, il principale alleato di Sicardo. Non pare che Radelchi abbia avuto un ruolo nella fine di Sicardo, ma certamente la sua elezione provocò una spaccatura nella nobiltà beneventana e una fibrillazione di tutte le forze in campo.
Una fazione ostile a Radelchi si organizzò attorno a Dauferio, detto il Muto, uno dei personaggi più eminenti della nobiltà beneventana fra l’VIII e il IX secolo. Dauferio riparò a Salerno subito dopo l’elezione di Radelchi e guadagnò l’alleanza preziosa del potente gastaldo di Capua, Landolfo. La fazione di Dauferio, radicatasi a Salerno, individuò un candidato alternativo al principato in Siconolfo, il fratello che Sicardo stesso aveva costretto alla prigionia, per prevenire l’ascesa di un potenziale concorrente al trono. Alla fine dell’839 Siconolfo fu liberato dalla sua residenza forzata a Taranto e si rifugiò nel territorio di Salerno, a Conza. Successivamente si ricongiunse a Salerno con i suoi seguaci e fu da loro proclamato principe (così secondo la versione di Chronicon Salernitanum, 79; secondo le Cronicae Sancti Benedicti casinensis, II, 1, questa proclamazione avvenne invece già a Taranto, al momento della liberazione di Siconolfo, ma ciò pare poco probabile).
Come Radelchi, Siconolfo si titolava princeps gentis Langobardorum, rivendicando implicitamente il dominio su tutto il Mezzogiorno longobardo. La compresenza di due principi, con sedi diverse ma uguali ambizioni, è il segno di un inaudito salto di qualità nel conflitto che scuoteva la nobiltà beneventana almeno dal regno di Grimoaldo IV; la percezione di questa discontinuità nel quadro politico fu ben chiara ai testimoni contemporanei, a partire da Erchemperto.
Dei dodici diplomi superstiti di Radelchi, nove risalgono a una primissima fase del suo regno, fra l’ottobre dell’839 e il settembre dell’842. Radelchi vi appare quasi interamente assorbito dalla necessità di rafforzare i rapporti con i suoi alleati nella città di Benevento, anche a costo di concessioni cospicue: in due occasioni, fra l’839 e l’840, il tesoriere Totone ricevette infatti da Radelchi grandi estensioni di beni pubblici, nella Puglia settentrionale e nell’attuale Molise. Le altre concessioni, fra cui una in favore del monastero beneventano di S. Sofia, sono tutte di rilievo minore, ma confermano l’orizzonte beneventano di Radelchi, più ristretto rispetto a quello del suo predecessore, Sicardo.
Almeno in parte questo orientamento fu probabilmente conseguenza del conflitto con Siconolfo, che tolse molto presto a Radelchi il controllo di gran parte del principato, ma appare anche il segno di un radicamento forte del principe nella capitale: non si spiegherebbe altrimenti il successo della discendenza di Radelchi, capace di conservare la carica principesca per un cinquantennio, pur fra continui contrasti intrafamiliari. Radelchi fu probabilmente un politico accorto, capace di individuare una strategia adatta alla difficile contingenza, sia sul piano delle alleanze, sia su quello della legittimazione, come possiamo vedere anche dalle emissioni monetarie: i suoi denari d’argento recuperarono una tipologia già introdotta da Grimoaldo IV e poi abbandonata. Ciò permetteva di evocare «continuità con le emissioni del principato – scelta necessaria nel corso di una lotta che aveva tutti i caratteri di una guerra civile – ma anche differenziarsi dal gruppo parentale che lo aveva preceduto e che continuava a Salerno con Siconolfo» (Rovelli, 2013, p. 73).
Radelchi provò subito a ridurre la portata del conflitto con Dauferio il Muto: avviò trattative con i salernitani tramite un suo messo, Adelmario, che passò però alla parte avversa e lo attirò alle porte di Salerno. Attaccato a sorpresa, Radelchi fu duramente sconfitto e riuscì a stento a salvarsi, costretto a una fuga precipitosa.
Su questo punto le versioni contenute nell’opera di Erchemperto, (15), e nel Chronicon Salernitanum, (80b), divergono: secondo Erchemperto la battaglia avvenne prima dell’arrivo a Salerno di Siconolfo, secondo il Chronicon fu invece Siconolfo stesso a comandare le truppe salernitane. La sconfitta ebbe comunque conseguenze pesanti, perché ridusse Radelchi sulla difensiva.
Nel periodo immediatamente successivo, con l’aiuto determinante di Landolfo di Capua, che aveva subito abbandonato Radelchi, Siconolfo riuscì a conquistare spazi ampi, strappando gradualmente a Radelchi il controllo di tutto il settore meridionale del principato beneventano. Una tappa importante del conflitto fu una battaglia combattuta presso le Forche Caudine, da collocare nell’843: Siconolfo riuscì a rovesciare in quell’occasione l’esito del confronto, inizialmente favorevole a Radelchi, avanzando poi fino a Benevento, che fu sottoposta a un duro assedio.
A questa circostanza, e non all’847, va con ogni probabilità datato il primo coinvolgimento nelle vicende del Mezzogiorno longobardo di Guido, duca di Spoleto e cognato di Siconolfo.
Giunto sul campo come alleato di Siconolfo, egli assunse presto un ambiguo ruolo di intermediazione, offrendo la sua alleanza alternativamente a lui e a Radelchi e ottenendo in tal modo ricchi donativi da entrambi (da Radelchi, in particolare, l’equivalente di settantamila pezzi d’oro). L’intervento di Guido fu comunque a suo modo determinante, poiché riuscì a convincere Siconolfo a desistere dall’assedio e a recarsi a Roma, per chiedere l’appoggio di Ludovico II, da poco incoronato re d’Italia.
La situazione di Radelchi rimaneva comunque difficile. Per riuscire a resistere all’offensiva avversaria, che gli tolse velocemente il controllo di buona parte della Puglia, egli si appoggiò a bande di mercenari musulmani già presenti nel Mezzogiorno, ma senza risultati apprezzabili, anzi finendo con l’indebolire ulteriormente la sua posizione. Fra l’846 e l’847 il musulmano Massar, alleato di Radelchi, oltre a rendersi protagonista con i suoi uomini di scorrerie frequenti nel territorio, a suo esclusivo vantaggio, risiedeva stabilmente a Benevento e teneva sotto scacco la popolazione locale. Nello stesso anno, probabilmente nella seconda metà, Radelchi chiese a un suo fedele, il gastaldo di Bari Pandone, di ottenere l’aiuto delle schiere di Agareni stanziatesi presso quella città. Essi approfittarono dell’invito per entrare a Bari, uccidere Pandone e saccheggiare la città, dove rimasero stabilmente fino all’871; Radelchi continuò però a impiegare i musulmani di Bari come mercenari, mentre Siconolfo bilanciava l’equilibrio delle forze con altre truppe musulmane, di provenienza prevalentemente ispanica.
Sulla scia dell’incursione musulmana a Ostia nell’846, probabilmente nell’ottobre dell’847 l’imperatore Lotario emanò un capitolare in vista di una spedizione militare nel Mezzogiorno, sollecitato a intervenire dagli stessi principi longobardi. Guido di Spoleto era uno dei messi che avrebbero dovuto radunare un esercito da inviare a Benevento, sotto il comando di Ludovico II. La spedizione ebbe luogo solo nella primavera dell’848. Ludovico riconquistò Benevento e uccise Massar, forse consegnatogli con l’inganno da Radelchi; prima di tornare verso Roma, patrocinò l’accordo che sancì la divisione del Mezzogiorno longobardo in due principati distinti, con capitali Benevento e Salerno.
L’imperatore aveva tutto l’interesse a dividere la grande area longobarda meridionale, in modo da indebolirla politicamente. Il testo dell’accordo, datato fra il 12 maggio 848 e il dicembre 849, richiama la garanzia dell’autorità imperiale, ma è formalmente una concessione di Radelchi a Siconolfo.
In un quadro sostenuto da una serie di garanzie reciproche, Radelchi cedette a Siconolfo una serie di loca et gastaldata, che disegnano un’area coincidente con la fascia tirrenica e meridionale dell’antico ducato beneventano, da Cosenza, Cassano e Taranto a Sud fino a Sora a Nord. A Radelchi rimanevano dunque il Sannio, il Molise e la Puglia centro-settentrionale, cioè uno spazio apparentemente più ampio di quello da lui controllato nell’ultima fase del conflitto con Siconolfo.
Della moglie di Radelchi conosciamo il nome, ma non l’ascendenza: Garetruda è nota dal suo epitaffio e dalla sua presenza in alcuni diplomi di Radelchi, come rogator e come titolare di una dotazione fondiaria; da lei Radelchi ebbe dodici figli. Conosciamo i nomi di sei fra loro: Orso, Radelgario, Adelchi, Aione, Ladelchi, Arechi.
Morì nell’851, fra maggio e giugno. Gli succedette il figlio Radelgario.
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