Radiazione
Si parla di radiazione quando si è in presenza di trasferimento di energia nello spazio senza che a essa sia associato un trasferimento macroscopico di massa. In tal senso la radiazione può essere corpuscolare od ondulatoria: nel primo caso l'energia è associata al moto di particelle microscopiche, quali elettroni, protoni, neutroni ecc.; nel secondo caso l'energia viaggia sotto forma di onda, come nelle onde meccaniche e in quelle elettromagnetiche. Le grandezze caratteristiche di un'onda sono la lunghezza e la frequenza, il cui prodotto è pari alla velocità di propagazione. Lo spettro della radiazione elettromagnetica è molto ampio: la luce visibile occupa una regione estremamente limitata di esso, compresa nell'intervallo di lunghezze d'onda (3,8-7,2)× 10‒7 m. La radiazione, quando attraversa un mezzo, può cedere parte o tutta la sua energia interagendo con atomi e molecole del mezzo stesso, secondo diversi meccanismi. Nell'interazione delle onde elettromagnetiche con il mezzo attraversato non si può prescindere da considerazioni di natura quantistica: l'energia trasportata dalla radiazione non è distribuita uniformemente, ma deve essere pensata concentrata in unità elementari che prendono il nome di quanti o fotoni; il fotone può essere rappresentato come una particella di massa nulla, che si muove con la velocità della luce e cui è associata un'energia pari a hf = hc/λ, dove h è la costante di Planck che vale circa 6,626 x10‒34 J.s.
l. Sorgenti di radiazione
Il decadimento radioattivo è un tipico fenomeno nucleare nel quale un nucleo atomico (che viene chiamato in questo caso radionuclide) si trasforma in un nucleo diverso emettendo radiazione: tale radiazione può essere costituita da elettroni positivi o negativi (radiazione β) o da nuclei di elio 4 (radiazione α), cui è frequentemente associata radiazione elettromagnetica (radiazione γ); il nucleo formatosi per decadimento radioattivo può, a sua volta, essere instabile e dare quindi luogo a un successivo decadimento. A ogni particolare radionuclide è associato un tempo di dimezzamento fisico, ossia il tempo necessario perché una popolazione omogenea di radionuclidi si riduca alla metà (e cioè ne decada la metà); il numero di decadimenti nell'unità di tempo prende il nome di attività: alla corrispondente unità di misura (s‒1), è assegnato il nome di becquerel (simbolo Bq). I tempi di dimezzamento dei diversi radionuclidi variano da frazioni di secondo a miliardi di anni; in ogni successivo tempo di dimezzamento la residua popolazione di nuclei instabili si riduce alla metà come conseguenza del fatto che la probabilità di un nucleo atomico di decadere nell'unità di tempo è la stessa in qualunque istante della sua vita (a differenza degli esseri umani, in cui la probabilità di morte cresce mediamente con l'età). Quando un radionuclide viene incorporato in un organismo vivente, accanto al tempo di dimezzamento fisico compare anche un tempo di dimezzamento biologico, legato alla capacità dell'organismo di eliminare un po' alla volta i radionuclidi attraverso gli escreti: si giunge, così, a definire il tempo di dimezzamento efficace, che tiene conto di entrambi i processi descritti e che è la grandezza rilevante da un punto di vista sanitario. Le applicazioni pratiche della radioattività sono oggi numerose. In particolare, in campo medico (v. vol. 1°, IV, cap. 6: La medicina nucleare) la possibilità di rivelare la radiazione emessa nel decadimento radioattivo può essere sfruttata in diagnostica, mentre l'energia associata a tale radiazione in terapia. In un tubo a raggi X gli elettroni prodotti per riscaldamento del catodo (effetto termoionico) vengono accelerati sotto vuoto attraverso un'opportuna differenza di potenziale verso l'anodo: qui gli elettroni perdono l'energia acquisita per collisioni e per irraggiamento. L'energia ceduta per collisioni si traduce nello sviluppo di calore e, quindi, in un innalzamento della temperatura dell'anodo; la frazione di energia irraggiata costituisce, invece, la radiazione elettromagnetica (di Bremsstrahlung, ovvero di frenamento) nota come raggi X, di impiego corrente in radiodiagnostica e in radioterapia. I raggi X così prodotti non sono monoenergetici, ma presentano uno spettro continuo, con energia minima dell'ordine di ~10 keV ed energia massima pari a quella degli elettroni che li hanno prodotti. Diverse sono le sorgenti della radiazione con cui conviviamo, naturali o artificiali. Il fondo naturale di radiazione è costituito dalla radiazione cosmica, di origine extraterrestre, dalla radioattività del terreno e dalla radioattività presente comunque nel corpo umano (per es. 40K): esso è molto variabile da zona a zona, soprattutto per la diversa radioattività del terreno e raggiunge valori più elevati nelle regioni vulcaniche, ricche di uranio e di torio e dei loro discendenti, fra cui i gas radon e toron. Sorgenti radioattive naturali, impiegate per es. nella ricerca, nell'industria e in medicina, sono un'altra fonte di radiazione naturale; lo sviluppo della fisica nucleare ha portato anche alla produzione di sorgenti radioattive artificiali, che insieme alle macchine radiogene (come, per es., tubi a raggi X, acceleratori di particelle, generatori di onde elettromagnetiche e ultrasonore) costituiscono le sorgenti artificiali di radiazione.
2. Radiazioni ionizzanti
La radiazione si dice ionizzante se l'energia da essa ceduta in un'interazione è sufficiente a produrre la ionizzazione di un atomo o di una molecola del mezzo attraversato, altrimenti si parla di radiazione non ionizzante: l'energia di ionizzazione è di 13,6 eV (1 eV circa 1,602 x10‒19 J) per l'idrogeno ed è dello stesso ordine di grandezza per gli altri atomi: nel caso della radiazione elettromagnetica a un fotone di 13,6 eV corrisponde una lunghezza d'onda dell'ordine di 90 nm. Convenzionalmente viene assunta la lunghezza d'onda di 100 nm come valore di riferimento: al di sotto di tale lunghezza d'onda la radiazione elettromagnetica viene considerata ionizzante, al di sopra non ionizzante. La radiazione ionizzante può essere direttamente o indirettamente ionizzante: nel primo caso l'energia della radiazione viene ceduta al mezzo in una sequenza di successive ionizzazioni (è il caso delle particelle cariche); nel secondo caso, invece, la radiazione primaria cede la sua energia in una o poche interazioni, dando luogo a radiazioni secondarie che sono responsabili della maggior parte delle successive ionizzazioni (è il caso della radiazione elettromagnetica e dei neutroni). La perdita di energia di una radiazione per unità di percorso dipende dal tipo di radiazione e dalla sua energia (qualità della radiazione) oltre che, naturalmente, dal mezzo attraversato. L'effetto ultimo delle radiazioni ionizzanti è, comunque, quello di liberare e mettere in moto elettroni nella materia. Per valutare gli effetti delle radiazioni che attraversano un mezzo è indispensabile introdurre il concetto di dose assorbita. Detta ΔE l'energia rilasciata dalla radiazione in un volumetto di massa Δm del mezzo attraversato, si definisce dose assorbita D la quantità D = ΔE/Δm. L'unità di misura della dose assorbita nel Sistema internazionale è il joule/chilogrammo e a questa unità è attribuito il nome speciale di gray (simbolo Gy). La misura delle radiazioni si basa sui diversi effetti che la radiazione produce attraversando un mezzo. Rivelatori della radiazione sono le camere a ionizzazione, i contatori proporzionali, i contatori di Geiger, i rivelatori a stato solido e a scintillazione, le emulsioni nucleari. Per determinare la dose assorbita si utilizzano i dosimetri; di uso comune sono le penne dosimetriche, i dosimetri chimici, fotografici, a termoluminescenza, ottici, a tracce e i calorimetri. Come si è già osservato, l'effetto ultimo della radiazione, quando attraversa un mezzo, è di mettere in moto elettroni del mezzo. In particolare, la radiazione può strappare agli atomi e alle molecole di una struttura biologica gli elettroni meno legati, che sono anche quelli responsabili dei legami chimici, danneggiando così la struttura fino, eventualmente, a impedirne il funzionamento. Gli effetti biologici della radiazione possono essere diretti sulle strutture, ovvero indiretti: questi ultimi sono quelli in cui la radiazione, interagendo per es. con gli ioni OH⁻, sempre presenti nei tessuti biologici ricchi di acqua, li riduce a radicali liberi OH i quali, fortemente ossidanti, a loro volta sottraggono elettroni alle strutture biologiche, danneggiandole. Lo studio in vitro e in vivo su cellule e su organismi elementari dei danni biologici prodotti dalle radiazioni porta a concludere che, a parità di dose assorbita, gli effetti dipendono anche da altri fattori, in particolare dalla qualità (cioè tipo ed energia) della radiazione. Si introduce così il concetto di EBR (efficacia biologica relativa), definita per una determinata radiazione come il rapporto fra la dose assorbita di raggi X e la dose assorbita di questa radiazione che produce lo stesso effetto biologico. Naturalmente si deve stabilire a priori l'effetto biologico cui si fa riferimento: per es. per una cultura cellulare la sopravvivenza (al 50%, al 90% ecc.). L'EBR è una grandezza di particolare utilità nella ricerca radiobiologica. Anche in alcune applicazioni come nella radioterapia si fa riferimento all'EBR: scopo della radioterapia (per es. dei tumori) è quello di rendere inattive cellule maligne, sfruttando il potere di danneggiamento della radiazione che, come si è detto in precedenza, è strettamente legato all'EBR. Il danno biologico prodotto dalle radiazioni ionizzanti si riflette a livello di un organismo complesso quale il corpo umano in un detrimento fisico, per quantificare il quale vengono introdotte nuove grandezze che, da una parte, tengono conto del differente peso che radiazioni di qualità diversa hanno nel danneggiare singoli organi, dall'altra prendono in considerazione la differente rilevanza che il danneggiamento di organi diversi ha nel procurare un detrimento al corpo intero. L'esposizione alle radiazioni può essere esterna o interna (prevalentemente per inalazione o ingestione di sostanze radioattive); le radiazioni α e β, avendo un limitato percorso, sono rilevanti dal punto di vista del detrimento fisico soprattutto per quanto riguarda l'irradiazione interna. L'efficacia che una certa radiazione ha nel produrre un effetto su di un determinato organo (o tessuto) è legata alla cessione di energia per unità di percorso, cioè al trasferimento lineare di energia (LET, Linear energy transfer) di tale radiazione nel tessuto stesso; è stato così introdotto un fattore di peso wR che, legato al LET, dipende dalla qualità della radiazione.
In tab. 1 sono riportati i valori di wR adottati internazionalmente. Di conseguenza viene definita la grandezza dose equivalente, HR,T, per una determinata radiazione R, in un tessuto T, come: HR,T =wR DR,T, in cui DR,T è la dose assorbita nel tessuto T in corrispondenza della radiazione R. Se più radiazioni (diverse per qualità) contribuiscono alla dose assorbita, la dose equivalente complessiva HT è valutata sommando i diversi contributi: HT =ΣR HR,T =ΣR wR DR,T. Poiché i pesi wR sono grandezze adimensionate, l'unità di misura della dose equivalente è ancora il joule/chilogrammo, cui però si dà in questo caso il nome speciale di sievert (simbolo Sv). Se più organi subiscono l'irradiazione, per valutare il detrimento sanitario del corpo intero occorre tenere conto di tutti gli organi coinvolti, pesando ciascuno per la diversa rilevanza che esso ha nei riguardi del detrimento complessivo. Viene così definita la grandezza dose efficace, E : E = ΣT wT HT in cui wT è il peso dell'organo T.
La tab. 2 mostra i valori di wT suggeriti a livello internazionale. Per irradiazione uniforme del corpo intero, in cui la dose equivalente HT è cioè la stessa per tutti gli organi, la dose efficace coincide con il valore comune di HT e si ha, ΣTwT = 1. Essendo i pesi wT grandezze adimensionate, l'unità di misura della dose efficace coincide con quella della dose equivalente (sievert). Dall'analisi di una grande quantità di dati, ottenuti sia con studi su organismi elementari o su animali sia dall'esposizione avvenuta per motivi accidentali di individui e di intere popolazioni, è possibile affermare che l'effetto delle radiazioni può aversi sia a livello dell'individuo irraggiato (effetti somatici) sia nei riguardi della sua discendenza (effetti genetici). Inoltre, gli effetti si possono presentare secondo due ben diverse modalità: deterministica e stocastica. Per alcuni tipi di effetti, anche a livello di singolo organo, è possibile affermare che, se la dose equivalente è inferiore a una certa soglia, l'irradiazione non produce alcun danno; al di sopra della soglia, invece, pur in presenza della variabilità individuale, tutti gli individui irradiati subiscono un danno. In ogni caso si tratta di effetti somatici, quali l'opacizzazione del cristallino, lo sviluppo di un eritema, o addirittura, per alte dosi, la morte dell'individuo ecc. Il tipico andamento (sigmoide) della curva di frequenza di un determinato effetto in funzione della dose assorbita è riportato in fig. 3A. Tutti gli effetti somatici non deterministici e gli effetti genetici rientrano nella categoria degli effetti stocastici. Non vi è certezza, ma soltanto la probabilità, che un individuo irradiato (e la sua discendenza) subisca un danno (per es., sviluppo di leucemie, di tumori ecc.). Un tipico andamento della curva di probabilità di danno in funzione della dose efficace è quello di fig. 3B. Le informazioni sperimentali che si hanno sugli effetti stocastici per irraggiamento dell'uomo derivano, soprattutto, dall'analisi degli eventi conseguenti alle esplosioni nucleari della Seconda guerra mondiale; occorre anche ricordare che l'evidenza di tumori e di leucemie presenta un periodo di latenza dal momento dell'irradiazione di decine di anni e successivamente i tumori e le leucemie si sviluppano nel tempo con un periodo di incidenza che può essere anche più lungo. Inoltre, i tumori radioindotti non si presentano diversi dai tumori spontanei, ovvero prodotti da altre cause pur sempre presenti, cosicché è praticamente impossibile stabilire una relazione di causa-effetto, soprattutto per piccole dosi efficaci. Tuttavia, dallo studio dei dati oggi noti, soprattutto per esposizioni a dosi efficaci elevate, integrati con informazioni di laboratorio su organismi cellulari e su animali, è possibile suggerire che, a dosi non troppo elevate come quelle di interesse della radioprotezione, la probabilità di induzione di un tumore letale in funzione della dose efficace sia del tipo riportato in fig. 3C: si tratta, cioè, di un andamento lineare, senza soglia, che comporta per una dose efficace di 1 Sv una probabilità dell'ordine di 0,05 (su 1000 individui esposti a una dose efficace di 1 Sv ci si attendono, cioè, circa 50 casi di cancro letale). La ICRP (International commission on radiological protection), per ridurre l'impatto sanitario conseguente all'impiego delle radiazioni ionizzanti, ha formulato tre principi che riassumono la cosiddetta filosofia della radioprotezione: principio di giustificazione; principio di ottimizzazione; principio del rispetto dei limiti. Ricadono sotto questi principi tutte le esposizioni a radiazioni, escluse quelle dovute al fondo naturale in quanto comunque presenti e variabili da luogo a luogo e, dunque, non eliminabili: la ICRP, però, formula delle raccomandazioni per il cosiddetto fondo aumentato a seguito di azioni umane (per es., nel caso di edifici costruiti in località che presentano un elevato fondo naturale per la radioattività del terreno ed edificati con materiali locali, quali il tufo, di per sé particolarmente radioattivo). Inoltre, alle esposizioni mediche si applicano solo i primi due principi. Per il principio di giustificazione, l'introduzione nell'ambiente e l'impiego di sorgenti di radiazione sono consentiti solo se una valutazione rischio/beneficio li giustifichi: per es., in campo medico, qualora esistano tecniche alternative che consentano di ottenere gli stessi risultati con minore rischio per il paziente rispetto a tecniche con radiazioni, queste ultime vanno sostituite con le altre (per es., ecografia invece di radiografia). Il secondo principio afferma che, una volta giustificato l'impiego di una sorgente di radiazione, occorre porre in atto tutti gli artifici possibili per ottimizzare la tecnica, per ridurre la conseguente esposizione degli individui: tale principio viene sovente richiamato con l'acronimo ALARA (As low as reasonably achievable, "a un livello tanto basso quanto è ragionevolmente conseguibile"); per es., nell'impiego diagnostico dei raggi X tale principio impone l'impiego di collimatori per limitare il fascio alla sole zone che devono essere indagate, o anche l'obbligo di utilizzare intensificatori di brillanza qualora debbano essere effettuati esami in scopia. Una volta soddisfatti i primi due principi, per limitare gli eventuali danni conseguenti all'esposizione alle radiazioni occorre che vengano rispettati dei limiti di dose. Diversa è la situazione nel caso di danni deterministici e nel caso di danni stocastici: per i primi è possibile fissare limiti di dose equivalente che escludano l'insorgenza di tali danni; per i secondi, invece, i limiti di dose efficace sono stabiliti in modo da ridurre la probabilità del danno stocastico a un livello ritenuto accettabile in virtù dei benefici che l'uso della radiazione comporta. Inoltre, si distingue fra lavoratori esposti e individui della popolazione: per i primi sono consentiti limiti maggiori, in quanto ogni attività lavorativa, anche in assenza di radiazioni, comporta un rischio e, comunque, la categoria dei lavoratori esposti è numericamente esigua rispetto agli altri individui. Come già detto, non vengono fissati limiti per le procedure mediche: infatti non è possibile stabilire a priori quali dosi possano essere impartite nel caso di esami diagnostici o di procedure terapeutiche, ma è soltanto il medico specialista che potrà di volta in volta valutare le necessità, nel rispetto dei principi di giustificazione e di ottimizzazione. In tab. 3 sono riportati i limiti raccomandati dall'ICRP per esposizioni professionali e per individui della popolazione (pubblico).
3. Radiazioni non ionizzanti
Come si è osservato in precedenza, per lunghezze d'onda superiori a 100 nm la radiazione elettromagnetica non è in grado di ionizzare la materia e si parla di conseguenza di radiazione elettromagnetica non ionizzante. La regione di lunghezze d'onda superiori a 100 nm viene tradizionalmente divisa in bande: 1) ottica, da circa 100 nm a circa 1 mm; 2) radiofrequenze (RF), da circa 1 mm a circa 1000 km, suddivisa a sua volta nella regione delle microonde (MO), da 1 mm a 1 m, e delle onde radio, da 1 m a 1000 km; 3) ELF (Extremely low frequencies, frequenze estremamente basse), con lunghezze d'onda oltre 1000 km. Inoltre, poiché nella banda di lunghezze d'onda compresa fra 100 nm e circa 190 nm (ultravioletto da vuoto) la radiazione è completamente assorbita in aria, almeno dal punto di vista degli effetti biologici la lunghezza d'onda minima presa in considerazione per lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti è pari a 190 nm. Gli ultrasuoni, pur essendo onde meccaniche, producono nell'organismo umano effetti in parte analoghi a quelli che si verificano per le radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti: è, quindi, consuetudine considerare anche gli ultrasuoni nell'ambito più generale delle radiazioni non ionizzanti, contraddistinguendo l'insieme delle radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti e degli ultrasuoni con l'acronimo NIR (Non ionizing radiation). L'interazione delle NIR con il mezzo biologico è differente da quella descritta per le radiazioni ionizzanti e non è altrettanto conosciuta: in particolare, le metodologie di studio e di ricerca sperimentale statistiche ed epidemiologiche, sulla base delle quali si sono potuti enunciare i principi di protezione dalle radiazioni ionizzanti, non sono allo stesso livello né cognitivo né di certezze acquisite. Cominciano però ora a chiarirsi alcuni meccanismi d'azione delle NIR ed è possibile affermare che anche per le radiazioni non ionizzanti gli effetti sulla salute possono essere di tipo stocastico, ovvero di tipo deterministico. Le incertezze epidemiologiche non permettono a tutt'oggi di stabilire limiti, associabili a probabilità definita di eventi di tipo stocastico, soprattutto per gli individui della popolazione; diversa è la situazione per gli effetti deterministici, sia perché si tratta di effetti acuti, sia perché i tempi di latenza sono brevi o brevissimi. Comune a tutte le NIR, indipendentemente dalla loro natura ed energia, è il cosiddetto effetto termico che, seppure con meccanismi fisici differenti, provoca aumenti di temperatura del mezzo biologico irradiato con possibili danni sia deterministici sia stocastici. Se il sistema di termoregolazione proprio del corpo umano non è in grado di fornire un adeguato controllo della temperatura, nel caso in cui gli organi interni (privi di termorecettori) siano interessati a consistenti aumenti di temperatura, può verificarsi ipertermia. Nell'uomo viene considerata ipertermia una temperatura uguale o superiore a 40 °C: una temperatura interna di 42 °C è poco compatibile con la vita, a 43 °C vi è un elevato rischio di morte per shock termico e comunque il limite superiore per la sopravvivenza, nella maggior parte degli organismi, è di circa 45 °C.
Gli studi condotti in vitro sugli effetti dannosi dell'ipertermia hanno messo in evidenza che la sensibilità delle cellule all'aumento di temperatura è correlata con il rateo di proliferazione cellulare, cosicché: 1) cellule differenziate postmitotiche sono relativamente resistenti al calore; 2) tessuti embrionali, e alcuni tessuti dell'adulto, quali per es. midollo osseo e testicoli, che hanno un'elevata attività proliferativa, sono a maggiore rischio di danno. Anche le cellule del sistema nervoso centrale, pur essendo cellule specializzate e non più in replicazione, possono subire danni a causa di ipertermia, dato che esse non hanno sistemi di dissipazione del calore. Dallo studio degli effetti teratogeni e delle malformazioni fetali nei Mammiferi si è evidenziato che tali effetti si producono per aumenti della temperatura fetale anche di soli 2-3 °C: in particolare sono state riscontrate morte dell'embrione, microcefalia e altre malformazioni congenite; non sono state, invece, trovate malformazioni fetali, ma solo ritardi di crescita corporea, a organogenesi completata. Accanto agli effetti termici le NIR ne presentano altri caratteristici della natura e dell'energia delle NIR stesse. La radiazione cosiddetta ottica comprende l'ultravioletto (UV), la parte visibile dello spettro elettromagnetico e l'infrarosso (IR), fino al limite quindi delle microonde. A tale suddivisione fisica, legata soprattutto alla caratterizzazione delle relative sorgenti, può venire affiancata una diversa suddivisione, più propriamente connessa con gli effetti biologici prodotti. La regione dell'ultravioletto viene a sua volta suddivisa in tre bande: la UVC, che comprende radiazioni di lunghezza d'onda inferiore a 280 nm e che viene detta regione germicida; l'UVB, che va da 280 nm a 315 nm, e viene chiamata regione eritemigena; l'UVA, che va fino a 380-400 nm (valori corrispondenti mediamente all'inizio del visibile) e che può produrre fluorescenza in numerose sostanze. Le principali sorgenti artificiali di radiazione UV sono le lampade a scarica gassosa (vapori di mercurio e alogene, lampade a idrogeno e deuterio, archi per saldatura), le lampade a incandescenza (a tungsteno e alogene) e le lampade fluorescenti; lo spettro degli UV emessi varia da una sorgente all'altra. Lo spettro solare ha un'importante componente UV, le cui lunghezze d'onda inferiori a 290 nm, tuttavia, non raggiungono la superficie terrestre grazie al filtro atmosferico e, in particolare, alla fascia di ozono. Gli effetti dannosi di tipo deterministico degli UV possono essere acuti o ritardati. Per i primi esiste una dose (intesa come energia sull'unità di superficie) minima, di soglia, e la gravità aumenta con la dose stessa. Dato lo scarso potere di penetrazione degli UV, gli effetti sull'uomo sono essenzialmente limitati alla pelle e agli occhi. I danni cutanei (prevalentemente eritemi di vario grado) sono di tipo immediato e la dose eritematosa minima (DEM) dipende dalla pigmentazione, dall'età, dallo spessore della pelle e dalla regione corporea del soggetto esposto. La DEM per una pelle non pigmentata e situata nella zona toracica è prossima a 100 J.m‒2 per lunghezze d'onda inferiori a 290 nm, sale a 150 J.m‒2 per lunghezze d'onda fino a 300 nm e aumenta poi rapidamente per lunghezze d'onda maggiori. Effetti di fotosensibilizzazione da sostanze chimiche possono notevolmente diminuire le soglie citate ed essere sfruttati anche per scopi terapeutici. I principali effetti lesivi dell'UV sull'occhio sono costituiti da fotocheratiti e congiuntiviti che si manifestano entro 2-24 ore dall'esposizione. La soglia di dose per produrre una fotocheratite si colloca intorno ai 50 J.m‒2 per lunghezze d'onda di 270 nm, raggiunge 550 J.m‒2 per lunghezze d'onda di 310 nm e aumenta poi molto rapidamente fino a 22.500 J.m‒2 per lunghezze d'onda di 315 nm. I danni deterministici ritardati della radiazione UV, quali l'invecchiamento precoce della pelle e la cheratosi attinica, sono dovuti essenzialmente a esposizioni croniche o prolungate. Gli effetti di tipo stocastico dell'UV sono essenzialmente costituiti da tumori cutanei (epiteliomi basocellulari, melanomi) mentre è meno provato che i tumori oculari (tra cui il melanoma oculare) possano essere prodotti da radiazione UV.
La principale sorgente della radiazione ottica nella regione del visibile e dell'IR è il Sole: solo con l'avvento delle sorgenti artificiali, tuttavia, si è avuta l'evidenza di danni non trascurabili (per es., cataratta dei soffiatori di vetro) dovuti all'IR. Una delle più comuni e potenzialmente dannose sorgenti artificiali di radiazione ottica, con lunghezze d'onda che vanno dall'UV all'IR a seconda del tipo di dispositivo, è costituita dal laser. La maggiore pericolosità della luce laser si deve non tanto a meccanismi di danno e organi critici differenti da quelli descritti per l'UV, quanto all'elevata intensità del fascio emesso (che può raggiungere le decine di megajoule/metro al quadrato). In particolare, la visione diretta della luce laser può produrre danni all'occhio anche irreversibili dovuti prevalentemente a effetti termici (edema, cataratta, ustioni della cornea e della retina) e, in parte, a effetti fotochimici (cataratta fotochimica). Pure gli effetti nocivi sulla pelle sono soprattutto di tipo termico e fotochimico, ma, contrariamente alla radiazione UV (che può attivare o il DNA o virus intracellulari potenzialmente oncogeni), la radiazione visibile e IR non sembra provocare effetti di tipo stocastico, ma solo di tipo deterministico di minore o maggiore gravità (aumento della pigmentazione, reazioni di fotosensibilizzazione, eritemi, ustioni) in funzione dell'intensità dell'esposizione e della sua durata. Oltre le lunghezze d'onda della radiazione ottica si hanno due regioni distinte dello spettro elettromagnetico (che sono più note in termini di frequenza): la banda delle radiofrequenze (che comprende anche le microonde), nell'intervallo tra 300 Hz e 300 GHz, utilizzata soprattutto nel campo delle telecomunicazioni, e la banda delle ELF, utilizzata (nella regione intorno a 50-60 Hz) per la produzione, il trasporto e il consumo di energia elettrica. L'enorme diffusione e la rapidità di trasformazione delle sorgenti di questo tipo di radiazioni (per le più comuni v. tab. 4) già da qualche decennio ha spinto sia l'opinione pubblica, sia la comunità scientifica a prendere in seria considerazione il problema del cosiddetto inquinamento elettromagnetico e, in particolare, dell'interazione delle onde elettromagnetiche in questo intervallo di frequenze con l'organismo umano. In linea del tutto generale, interagendo con la materia un'onda elettromagnetica può essere riflessa, come accade in un metallo, può attraversare il mezzo senza una perdita significativa di energia, come nel caso del vetro, oppure, come è il caso della materia biologica (in virtù soprattutto dell'elevato contenuto di acqua), può essere assorbita e produrre effetti termici e non termici. L'effetto termico, che consente per es. la cottura con forni a microonde, è a sua volta il risultato di due meccanismi di interazione dell'onda elettromagnetica con il mezzo: 1) dissipazione di calore dovuta alla resistenza che il materiale oppone alla corrente di conduzione delle cariche libere (effetto Joule); 2) dissipazione dovuta alla resistenza che il materiale oppone all'orientazione, nel verso del campo elettrico, delle molecole dipolari. L'entità dell'effetto termico, descritto da una grandezza fisica chiamata SAR (Specific absorption rate), espressa in watt/chilogrammo, dipende dall'intensità I dell'onda incidente (intesa come densità di potenza dell'onda piana equivalente, espressa in watt/metro al quadrato) e dalle caratteristiche elettriche del mezzo attraversato (conducibilità e costante dielettrica, entrambe fortemente dipendenti dalla frequenza dell'onda incidente). Per certi versi sono ancora oscure, invece, le interazioni di tipo non termico. Tra queste si distinguono: l'interazione del campo elettrico esterno con il potenziale di membrana cellulare; l'interazione con i biosegnali elettromagnetici fisiologici (soprattutto, quindi, quelli del sistema nervoso centrale). È oggi generalmente accertato che alcuni effetti dannosi di carattere deterministico sono dovuti all'esposizione a campi elettromagnetici a frequenza elevata e riguardano sostanzialmente i soli lavoratori del settore. A seconda dell'eziologia, possono essere indotte patologie da effetti termici e altre da effetti non termici. Le prime (che si verificano per esposizione a campi di intensità superiore a 100 W.m‒2) comportano disturbi soprattutto a carico di organi con scarsa capacità di dissipare calore (definiti critici) come le gonadi (per es., riduzione degli spermatozoi), il cristallino (opacizzazione) e il sistema nervoso centrale, con possibile conseguente sviluppo di malattie del sistema endocrino-metabolico. Sono invece dovuti a effetti non termici alcuni disturbi soggettivi, che si manifestano per esposizioni a campi d'intensità inferiori a 100 W.m‒2 (per es., disturbi del sonno, cefalea). A livello intermedio (effetti subtermici) sono classificabili certi disturbi uditivi, avvertiti per es. dagli operatori di impianti radar. Nel nostro paese sono stati fissati, come limiti di esposizione della popolazione, i valori di cui alla tab. 5: questi sono ulteriormente ridotti per edifici adibiti a permanenze non inferiori a 4 ore.
Tutt'altro problema è verificare l'esistenza di possibili effetti stocastici (patologie di tipo proliferativo maligno come tumori solidi, leucemie ecc.) tradizionalmente correlati con esposizioni prolungate o croniche a basse intensità. Le numerose ricerche effettuate (anche di tipo epidemiologico) hanno fino a oggi fornito risultati non univoci, se non addirittura contrastanti: non è, pertanto, possibile trarre conclusioni certe a questo riguardo. L'interazione delle ELF con i tessuti biologici è ormai abbastanza conosciuta; essa comporta perlopiù l'induzione di correnti interne al corpo umano il cui effetto immediato è, nella maggior parte delle condizioni verificabili nell'ambiente di vita, trascurabile (perfino per valori di campo elettrico dell'ordine di qualche chilovolt/metro, riscontrabili in prossimità delle linee elettriche ad alta tensione). Inoltre, a tutt'oggi, non è stato possibile determinare in maniera soddisfacente una relazione causale quantitativa fra le grandezze di campo e patologie di tipo stocastico, ma alcune indagini epidemiologiche hanno indicato che può esistere un rapporto fra un'esposizione prolungata a questo tipo di radiazioni e un aumento di alcune malattie proliferative maligne (in particolare la leucemia mieloide acuta infantile). Il limite per l'intensità dell'induzione magnetica generalmente raccomandato è pari a 100 μT (basato su osservazioni di effetti di tipo deterministico): detto limite è già stato recepito dalla normativa italiana per quanto riguarda gli elettrodotti. Controverso (anche per le enormi ricadute economiche) è, invece, il valore di 0,2 μT, suggerito quale 'soglia di attenzione epidemiologica' da diversi organismi internazionali e relativo a effetti di tipo stocastico. Gli ultrasuoni (US) sono onde meccaniche che differiscono dai suoni per la maggiore frequenza (oltre 20 kHz). Le principali applicazioni delle apparecchiature a ultrasuoni con le relative intensità e frequenze sono riportate in tab. 6. Il fascio ultrasonico emesso da un determinato trasduttore può essere abbastanza ben caratterizzato in termini di frequenza, di ampiezza e di focalizzazione. Un po' meno facile, invece, è la misura dell'intensità emessa per unità di superficie, intesa come densità di potenza spaziotemporale di picco (espressa in watt/centimetro al quadrato o suoi sottomultipli) e ancora meno facile è determinare la distribuzione dell'energia assorbita all'interno del corpo umano: va ricordato, infatti, che l'assorbimento delle onde ultrasonore da parte dei tessuti corporei è proporzionale alla frequenza, ma dipende anche da alcune caratteristiche (quali, per es., densità ed elasticità) dei tessuti attraversati. Il campo ultrasonico non è uniforme all'interno del corpo umano né spazialmente, per quanto appena detto, né temporalmente, dato che, specie nelle applicazioni diagnostiche (che sono le più comuni), l'emissione degli US non è sempre continua, ma perlopiù pulsata. Inoltre, le caratteristiche costruttive dei vari apparecchi per ultrasonodiagnostica sono assai differenziate e vengono utilizzate frequenze, focalizzazioni, dimensioni del fascio differenti, e soprattutto diverse modalità di emissione.
Gli eventuali effetti lesivi degli US possono essere classificati in due categorie: effetti di tipo termico ed effetti di tipo non termico, dovuti a fenomeni di cavitazione. Per quanto riguarda gli effetti termici, sfruttati in ambito terapeutico (per es. fisioterapia), essi sembrano poter comportare danni all'embrione e al feto per ipertermia quando la madre sia esposta a intensità ultrasonore uniformi di intensità dell'ordine di 300 mW.cm‒2 e di durata dell'ordine dei minuti. Per quanto attiene agli effetti non termici, questi conseguono al fenomeno noto come cavitazione, che può essere anche sinergico con quello termico; a grandi linee, l'onda meccanica può porre in oscillazione piccoli volumi di gas o di vapori disciolti nei liquidi biologici, con formazione successiva di cavità o bolle: tali bolle, se collassano, determinano onde di pressione che possono danneggiare, per es., gli elementi figurati del sangue nel caso in cui gli US incidano su vasi, o, ancora, possono comportare lesioni alle membrane cellulari, soprattutto in quelle fasi mitotiche nelle quali la loro resistenza all'urto meccanico è minore. Un'altra conseguenza della cavitazione può essere la liberazione localizzata nei liquidi di elevate concentrazioni di radicali liberi H e OH: tale effetto, tuttavia, ha minore rilevanza che non nel caso delle radiazioni ionizzanti, essendo ora i radicali prodotti nello stesso istante e in uno spazio estremamente ravvicinato, con probabilità elevata, quindi, di ricombinazione. Pur esistendo ancora molte lacune scientifiche sul fenomeno della cavitazione, se si escludono alcune applicazioni mediche come, per es., la litotrissia extracorporea, le conseguenze sanitarie in ambito diagnostico dovrebbero essere limitate, stanti le basse intensità di campo generalmente utilizzate. Indipendentemente dai problemi dosimetrici esistenti, allo stato attuale delle conoscenze non è comunque possibile definire con certezza se e quali siano i rischi connessi con irradiazioni ultrasonore nell'intervallo di intensità di uso clinico (le applicazioni industriali non comportano, generalmente, problemi di esposizione per gli operatori): per trarre conclusioni sugli effetti nell'uomo di agenti potenzialmente dannosi non si può, infatti, prescindere da studi epidemiologici sistematici (e statisticamente validati), ma nessuna indagine del genere è stata ancora realizzata. In ogni caso, non esiste al momento alcuna prova, neanche da studi in vitro, che l'effetto biologico possa essere di tipo stocastico, contrariamente a ciò che accade per le radiazioni ionizzanti.
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