RADICATI di Passerano e Cocconato, Ignazio Adalberto Martino
RADICATI di Passerano e Cocconato, Ignazio Adalberto Martino. – Nacque a Torino l’11 novembre 1698, unico figlio del conte Giovan Francesco (1633-1717) e di Maria Maddalena Biandrate di Foglizzo (1657-1714).
Il padre Giovan Francesco era stato cooptato da Vittorio Amedeo II fra i decurioni di 1a classe nel Consiglio di Torino: attivo nel governo municipale, era diventato sindaco nel 1701 e nel 1709, ricoprendo cariche pubbliche ancora in età avanzata (fu ragioniere nel 1714 e chiavario nel 1717). Il suo ruolo eminente nelle politiche di governo urbano è attestato anche dalla presenza nella Compagnia di San Paolo, di cui fu rettore nel 1691. In prime nozze sposò, intorno al 1665, Angela Camilla Novarina di San Sebastiano (1647-1670), da cui ebbe solo una figlia, Leonora (1669-dopo il 1728), che si fece monaca. Si risposò con Margherita Calleri, figlia di un senatore, da cui ebbe un figlio maschio: Carlo Leone (m. 1714). Si risposò, infine, in terze nozze con la Biandrate, rimasta vedova del marchese Guido Biandrate di San Giorgio (m. 1694) da cui aveva avuto almeno nove figli, alcuni dei quali avrebbero giocato un ruolo importante nella vita di Radicati.
Fu battezzato il 12 novembre 1698 nella parrocchia di S. Paolo (poi Basilica mauriziana): suoi padrini furono il marchese Tomaso Adalberto Pallavicino delle Frabose (1647-1717) e sua cognata Violante Novarina di San Sebastiano. I nomi impostigli rimandavano alle relazioni della sua famiglia: con i Pallavicino (Adalberto) e i Biandrate (Ignazio); Martino era il santo del giorno.
Per quello che sarà il prosieguo della vita di Radicati, può essere utile notare che la sua madrina, Violante Novarina-Turinetti, e suo marito, Giuseppe Novarina di S. Sebastiano (1653-1720), erano i genitori di Francesco Ignazio Novarina (m. 1725), la cui moglie, Carlotta Canalis di Cumiana, si sarebbe unita in nozze morganatiche con Vittorio Amedeo II, protagonista di una delle opere più celebri di Radicati. Il conte di Passerano e il marchese di S. Giorgio abitavano nello stesso palazzo Cacherano, nel cantone S. Bernardo, vicino alla basilica della Consolata, verso cui il conte ebbe particolare devozione e che poi Radicati ricordò nei suoi scritti.
Come cadetto, Radicati fu destinato alla vita di corte: nel 1707 prese servizio in quella dei Savoia-Carignano come paggio del principe Tomaso (1696-1715). Accanto a lui restò otto anni, durante i quali probabilmente studiò con i suoi stessi precettori all’Accademia Reale. Fra il 1713 e il 1714 lo seguì in Sicilia, ova accompagnò Vittorio Amedeo II e Anna d’Orléans. Nell’ingresso di Radicati alla corte dei Carignano fu probabilmente importante il ruolo della madre: almeno due suoi figli di primo letto, infatti, erano al servizio della principessa Caterina di Carignano (madre del principe Tomaso).
Sino al 1714 la vita di Radicati fu quella, non sempre agevole, di un cadetto. Nel 1712, il padre, nel suo testamento del 12 luglio, aveva diviso i beni fra i figli: Carlo Leone avrebbe ereditato i feudi di Cocconato e Passerano; Radicati, invece, quello di Casalborgone (Archivio di Stato di Torino, Sez. Riun., Insinuazione di Torino, 1712, l. 7, cc. 297r-300v). Dopo la morte della madre, alla fine del 1714, però, Giovan Francesco cambiò le proprie decisioni e, con un nuovo testamento del 21 novembre, decise di lasciare tutto a Carlo Leone, riservando a Radicati solo una pensione di 240 lire annue (ibid., 1714, l. 11, t. II, cc. 605r-608v). A mutare nuovamente la sorte di Radicati giunse, quasi un colpo di scena, la morte pochi giorni dopo del fratello maggiore. Poiché questi dal matrimonio con Teresa S. Martino d’Agliè non aveva avuto figli, al padre non restò che nominare Radicati erede universale con un terzo testamento, il 18 dicembre 1714 (ibid., 1715, l. 1, cc. 49r-52r). Il padre, inoltre, ne organizzò prontamente il matrimonio, nel marzo del 1715, con Maria Teodora Cecilia Provana di Bussolino, figlia di Nicolò e di Cecilia Gentile di Buttigliera (m. 1723). L’improvvisa morte, nel settembre dello stesso anno, del principe Tomaso se liberò Radicati del suo ruolo a corte, non interruppe il legame con i Carignano, dove sua moglie entrò come «sottogovernante» dei figli del principe Amedeo (fratello maggiore dello scomparso).
Alla fine di luglio del 1716 Radicati fu improvvisamente arrestato e detenuto prima nelle carceri di Porta di Po a Torino e poi del castello d’Ivrea: si aprì per lui un decennio tormentato, che si sarebbe concluso solo con l’esilio.
Un’interpretazione di quanto accaduto si deve all’anonimo autore (forse il cugino Carlo, erede del patrimonio in caso di morte di Radicati) dei Riflessi politico-morali sopra il manifesto del conte Adalberto Ignazio Radicati (autografo nell’archivio del castello di Passerano ed edito da Filippo Saraceno nel 1874). Secondo i Riflessi, tutto sarebbe nato in seguito a una lite di Radicati con il padre, che ne avrebbe richiesto una breve carcerazione nelle carceri di Porta di Po. Dopo che Radicati vi era stato condotto, il re avrebbe deciso di farlo trasferire al castello di Ivrea. Tale decisione non sarebbe stata, però, condivisa dal padre. Radicati attribuì la causa della decisione del re ai maneggi della moglie e soprattutto della suocera presso il marchese Angelo Maurizio Isnardi di Caraglio, governatore della capitale.
Il 27 gennaio 1717 il padre di Radicati morì. Furono necessari ancora tre mesi perché egli fosse liberato, alla fine di aprile del 1717. Siccome non aveva ancora ventun anni, e non era quindi maggiorenne, gli fu dato come tutore il fratellastro Luigi Ignazio Biandrate di San Giorgio (m. 1744).
Nel frattempo la relazione con la moglie si deteriorò: nella primavera del 1718, Radicati si portò a Genova e da lì scrisse alla moglie di non voler tornare a casa. Convinto dalle condizioni di salute della moglie, incinta, a rientrare a Torino, al suo arrivo, a fine giugno, la trovò assai debilitata e la perse poco dopo il parto della loro terza figlia. In città si diffuse la voce che fosse stato Radicati ad avvelenarla: egli ritenne opportuno, quindi, rifugiarsi nel convento dei padri filippini (legato ai Carignano), ma nessun addebito ufficiale fu mosso verso di lui. Determinante, in ciò, fu l’appoggio dell’abate Ferdinando Dormiglia, un monaco cistercense della Consolata, confessore di Vittorio Amedeo II, che intervenne presso il re in favore di Radicati. Ansioso di libertà, fra l’inizio del 1719 e la metà del 1721 compì un lungo viaggio in Francia.
Le uniche notizie su questo viaggio provengono dai citati Riflessi: da essi si apprende che Radicati era accompagnato da un «fido Acate», quasi sicuramente un non meglio identificato conte Brayda. I due furono a Montpellier e a Parigi. Durante il viaggio ebbero diversi problemi, tanto che solo grazie all’intervento di Vittorio Amedeo II – stando sempre al racconto dei Riflessi – poterono tornare in Piemonte. È probabile che Radicati abbia potuto contare sull’aiuto del principe di Carignano che, negli stessi giorni in cui moriva la moglie di Radicati, era fuggito a Parigi, dove aveva raccolto una corte eterodossa e libertina. Se Radicati l’avesse frequentata si spiegherebbe, in parte, la cultura mostrata al suo rientro in Piemonte.
Mentre rientrava in patria, Radicati si sposò una seconda volta. Postosi sulla via del ritorno, aveva trovato il confine tra il Regno di Francia e gli Stati sabaudi chiuso per il diffondersi di una pestilenza che stava dilagando in Provenza. Costretto a passare alcuni mesi a Pont-de-Beauvoisin, vi frequentò la casa del governatore, il colonnello Pierre de Magnin de la Villardière (m. 1725/1729) e ne conobbe la figlia Angélique Thérèse. In breve, egli la chiese e ottenne in sposa. Il matrimonio, il 7 maggio 1721, fece scalpore a Torino, poiché la famiglia della sposa apparteneva alla piccola nobiltà del Delfinato e costituiva una chiara mésalliance per Radicati. Nel proprio Manifesto del 1726, scrisse di essere rientrato in patria nel 1721 consapevole di non avervi «pur un solo amico» e di aver quindi cercato una moglie «che per ragione e per affetto tutta dipendesse dai [suoi] voleri». Con tale frase egli non intendeva una moglie su cui poter comandare, ma una compagna che fosse estranea alla nobiltà piemontese e a quegli interessi economici e politici dai quali sino a quel momento era stato schiacciato.
Rientrato in Piemonte, non si stabilì a Torino, ma si ritirò con la moglie e l’unica figlia rimasta, Tecla Maria, nell’avito castello di Passerano. Qui, dove probabilmente anelava soltanto a un po’ di serenità, prese atto di come fosse ormai estraneo agli interessi e alla mentalità della nobiltà piemontese.
Nel feudo di Passerano da tempo i rapporti fra feudatari e comunità erano tesi. Oggetto della questione erano sia la Chiesa (in competizione, per la celebrazione delle messe, con quella del villaggio), sia «gli uomini della terra», che Radicati difendeva. Quest’esperienza, unita a quelle vissute a Torino, lo confermò nella necessità che il sovrano limitasse i poteri dell’aristocrazia feudale. Un tema particolarmente caldo nel Piemonte di Vittorio Amedeo II, che proprio nel 1722 aveva dato il via all’avocazione dei feudi.
Tra la fine del 1722 e l’inizio del 1723, circondato dall’ostilità dei parenti, lasciò Passerano e si trasferì nella propria villa di Casalborgone, sperando di aver trovato infine il porto quieto cui da tempo anelava. Anche in questo caso, però, le speranze furono deluse. Nel breve periodo trascorso a Passerano, Radicati si era spesso lasciato andare a giudizi molto duri contro la Chiesa. Stando a quanto raccontò egli stesso nel Manifesto, in quel periodo aveva partecipato a Torino ad «adunanze» esprimendo duri giudizi sulle ingerenze della Chiesa nel potere politico. Secondo Radicati, i frati domenicani, presso cui era il Tribunale dell’Inquisizione, avrebbero cercato di arrestarlo con la complicità di un suo servitore. Poi, fallito il colpo, si sarebbero rivolti a Vittorio Amedeo II giocando nuovamente la carta delle maldicenze sulla morte delle sue due figlie. Radicati racconta di aver avuto però l’appoggio del re, che lo ricevette a corte, mostrandogli la sua protezione, e gli chiese, inoltre, di scrivere per lui un’opera sul potere temporale della Chiesa. Iniziò allora quel rapporto, ambiguo e oscuro, che lo avrebbe portato alla stesura dei Discours. Quando nel 1725, però, fu chiaro che il re intendeva riprendere le trattative per un concordato, Radicati temette per la propria sicurezza. In maggio rientrò a Torino e dopo avere raccolto tutti i soldi che poteva, nel febbraio del 1726, insieme con la moglie, si trasferì a Londra.
Poco si sa delle sue frequentazioni londinesi: è stato ipotizzato che abbia incontrato Anthony Collins (morto nel 1729) e Voltaire (in quegli anni a Londra), ma non sono state trovate prove documentarie in tal senso (Voltaire, comunque, usò lo pseudonimo di «comte de Passeran» per la sua Epitre aux Romains, traduite de l’italien del 1772). All’inizio del 1727, Radicati si presentò al marchese Victor Amédée Seyssel d’Aix, ambasciatore sabaudo a Londra, per difendersi dal processo che nel dicembre del 1726 era stato aperto contro di lui a Torino per espatrio illegale (un nobile non poteva lasciare gli Stati senza permesso del re). Nello stesso tempo inviò a Torino il Manifesto, un testo che aveva scritto per giustificare il suo operato, ricordando come esso fosse stato originato da un ordine del re. In realtà, quando il Manifesto fu letto dai ministri incaricati di esaminarlo, fu considerato la prova che Radicati era un eretico. Ma ciò poneva un delicato problema giuridico, perché nessuno aveva intenzione di farlo processare dall’Inquisizione. Nel dicembre del 1726 si decise, quindi, di procedere contro di lui solo per la questione dell’espatrio illegale. La sentenza del Senato giunse il 27 agosto 1727: essa infliggeva a Radicati un’ingente multa (che avrebbe comunque potuto essere oggetto di grazia) e gli intimava di tornare in patria entro un anno, pena la confisca dei beni. Fu allora che la moglie di Radicati, forse in accordo con il marito, tornò in Piemonte. Nel frattempo, era stato firmato il Concordato. Nel 1728 la situazione di Radicati, pur grave, non era compromessa in modo irrimediabile. I parenti della moglie interessarono la corte di Versailles e in febbraio il conte Louis-Dominique conte di Cambis, ambasciatore francese a Torino, chiese a Vittorio Amedeo II di riaccordare la propria protezione a Radicati e di difenderlo dall’Inquisizione. A tagliare i ponti con Torino, però, provvide lo stesso Radicati, dicendo al marchese Seyssel che sarebbe tornato solo dopo che Vittorio Amedeo II avesse letto i Discours moraux, historiques et politiques. Probabilmente egli sperava, in cuor suo, che il re, dopo averli letti, ne facesse proprio lo spirito e mutasse la sua politica, richiamandolo in patria per farne il proprio consigliere. Ma la realtà non poteva essere più diversa. Privo del cinismo e della capacità di mentire che caratterizza i politici, abituato a esporsi in prima persona come aveva fatto sino ad allora, Radicati non aveva capito il cinico machiavellismo del sovrano. Quando questi lesse i Discours, giunti a Torino a inizio novembre, la sua reazione fu ben diversa da quella sperata da Radicati. Il 20 novembre, infatti, il re dichiarò di disapprovare totalmente l’opera, la quale, anzi, rendeva l’autore «indigno» della sua protezione, e ne ordinò il bando dagli Stati.
I Discours sono divisi in tre parti: morali (capp. 1-3), storici (capp. 4-9) e politici (capp. 10-12). Nei primi Radicati espone la dottrina di Gesù, evidenziando la contrapposizione dottrinale fra cristianesino e cristianità; al centro dei secondi è la degenerazione dai precetti di Cristo alla realtà della Chiesa, la cui evoluzione storica è raccontata sotto il segno della corruzione, facendo propri i tòpoi del pensiero libertino. Cuore dell’opera sono però i discorsi politici, in cui Radicati affronta il problema del rapporto fra potere e religione, presentando un vero e proprio programma di governo per Vittorio Amedeo II, sviluppato in dodici punti. Fra questi è l’impadronirsi di nomine e beni ecclesiastici per distribuirli a nobiltà e comuni. Modello evidente era l’Inghilterra, la cui riforma era presentata come un’azione in primis politica, che Vittorio Amedeo II avrebbe dovuto riprendere nei propri Stati.
La reazione di Vittorio Amedeo II fu un un colpo violento per Radicati e fu probabilmente all’origine del suo tentativo di suicidio, di cui Seyssel raccontava al segretario di Stato agli Esteri Ignazio Solaro del Borgo. Da questo momento per quasi due anni si perdono le sue tracce. Pare si facesse passare per commerciante, con il falso nome di «monsù Obert» e che le sue condizioni di vita divenissero via via più drammatiche. In cuor suo sperava di poter rientrare a Torino. La notizia dell’abdicazione di Vittorio Amedeo II, il 3 settembre, gli parve, quindi, propizia. Il 15 settembre Giuseppe Osorio, nuovo ambasciatore sabaudo a Londra, inviò a Torino due lettere di Radicati: una per il re e una per la contessa di San Sebastiano (moglie di questi e sua parente), ma entrambe rimasero senza risposta.
Sino a quel momento Radicati non aveva ancora pubblicato alcuna opera (i Discours erano rimasti manoscritti e del Manifesto, pur esistendo un paio di copie a stampa, non vi sono prove di una effettiva circolazione). Alla fine del 1730, decise, quindi, di pubblicare una versione inglese dei Discours: Christianity set in a true light in XII discourses political and historical. By a pagan philosopher newly converted (London 1730). Non avendo i soldi per l’edizione, però, ne pubblicò il solo indice e il primo capitolo cercando una sottoscrizione per pubblicare gli altri. Insieme pubblicò anche A preliminary discours in which the author gives a particular account of his conversion: uno dei suoi scritti migliori, pervaso da una vena ferocemente sarcastica che Radicati applica alla propria autobiografia, raffigurata attraverso quella di un giovane musulmano fatto prigioniero da un corsaro, portato a Torino e qui battezzato forzatamente. Con la pubblicazione del Christianity set in a true light, egli tagliava definitivamente i ponti con la vita dell’aristocratico piemontese. Nei pochi anni che gli restarono da vivere egli pubblicò, con il proprio nome, una serie di pamphlet che gli guadagnarono solo ulteriori persecuzioni e povertà. L’annus mirabilis della sua opera fu certo il 1732. All’inizio dell’anno risale l’uscita a Londra dell’History of the abdication of Victor Amedeus II.
L’opera si presentava come una lettera scritta a Radicati dal marchese Francesco Giuseppe Eleazaro Wilcardel de Fleury (m. 1732), già ambasciatore sabaudo a Londra, che in segno di protesta contro le riforme di Vittorio Amedeo II aveva lasciato lo Stato sabaudo passando al servizio del re di Polonia. Diversi autori, riprendendo un’opinione assai diffusa già nel XVIII secolo, attribuiscono tale opera a Radicati, che avrebbe usato il nome del Fleury solo come pseudonimo. Va detto che in una lettera a Osorio del 30 aprile 1732, Radicati si diceva responsabile della sola traduzione, ma poteva trattarsi di una estrema forma di difesa. Certo, il ruolo di Wilcardel nell’operazione resta tutto da chiarire.
In ogni caso, l’opera ebbe edizioni in francese e in tedesco, nonché un ampio numero di manoscritti.
Nei mesi successivi apparvero due testi che si possono considerare fra i suoi lavori migliori: A parallel between Muhamed and Sosem, permeato dall’influenza del deismo inglese, e soprattutto, in dicembre, A philosophical dissertation upon death, in cui Radicati sosteneva la liceità del suicidio. La Dissertation suscitò grandi polemiche da parte della Chiesa anglicana, tanto che nel 1733 Radicati fu arrestato e incarcerato insieme con l’editore, Williams Mears, e il traduttore, Joseph Morgan.
Tra la fine del 1734 e l’inizio del 1735 Radicati lasciò Londra e si trasferì in Olanda. I dati su quest’ultimo periodo della sua vita sono pochissimi. Prese stanza a Rotterdam, dove assunse il nome di Albert Barin, e nel 1736 pubblicò a Rotterdam il Receuil de pièces curieuses sur le materies les plus interessantes.
In esso erano presenti una nuova versione dei Discours (questa volta dedicati a Carlo III di Borbone, da poco divenuto re di Napoli), uniti al Factum d’Albert comte de Passeran. Tali scritti furono seguiti dall’Histoire abrégée de la profession sacerdotale ancienne et moderne, dediée à la très-illustre et très-celebre secte des esprits-forts par un free-thinker chrétien; dal Nazarenus et Lycurgus mis en parallèle e dal Recit fidelle et comique de la religion des canibales modernes, versione francese dell’Account of his conversion.
La pubblicazione del Recueil attirò su Radicati gli strali del clero protestante. Quando a inizio ottobre, sempre più povero e sfinito, si ammalò in un estremo attacco di tisi, i pastori ugonotti Jean Royer e Daniel de Superville si recarono da lui, convincendolo a un’estrema abiura e alla stesura di una Palinodia (oggi perduta), in cui elencava tutte le sue opere, dissociandosene. Nulla che non avrebbe fatto, insomma, quel clero cattolico, che tante volte Radicati aveva stigmatizzato nei suoi scritti.
Morì all’Aja, poco prima di compiere trentanove anni, il 24 ottobre 1737.
Poco dopo la sua morte, nello stesso 1737, apparvero con la sottoscrizione Londra (ma Amsterdam) altri due opuscoli: La religion muhammédane comparée à la païenne de l’Indostan e il Sermon préché dans la grande assemblée de Quakers de Londres par le fameux frère E. Elwall. Le carte di Radicati, sequestrate dai solerti pastori protestanti, andarono disperse. Fra i testi che lasciò manoscritti vi erano un Discours sur les religions et les gouvernemens, composto a Londra nel 1728, e dei Remarques critiques sur le Nouveau testament.
Edizioni moderne. Storia dell’abdicazione di Vittorio Amedeo, re di Sardegna, a cura di E. Zanone Poma, Rivoli 1996; Dissertazione filosofica sulla morte, a cura di T. Cavallo, Pisa 2003; Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, a cura di T. Cavallo, Sestri Levante 2006; Dodici discorsi morali, storici e politici, a cura di T. Cavallo, Sestri Levante 2007; Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, a cura di D. Canestri, intr. di G. Ricuperati, Torino 2007; Liberi di morire. Dissertazione filosofica sulla morte, a cura di F. Ieva, Milano 2011.
Fonti e Bibl.: J.T. Bergman, De laaste uren van A. R., graaf van Passeran (Le ultime ore di A. R. conte di Passerano), in Godgeleerde Bijdragen (Studi teologici), II (1868), pp. 685-703; F. Saraceno, Il Manifesto del conte Alberto R. di Passerano, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, I, 1874, pp. 277-349; P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926, passim; A. Alberti, Alberto R. di P., Torino 1931; F. Venturi, Studi sull’Europa illuminista, I, Alberto R. di P., Torino 1954; Id. - G. Spini, Dai libertini agli illuministi, in Rassegna storica del Risorgimento, XLI (1954), pp. 790-808; F. Venturi, Il Manifesto del conte A. R. di P., ibid., XLII (1955), pp. 639-651; Id., La conversione e la morte del conte R., in Rivista storica italiana, LXXV (1963), pp. 365-373; Id., Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 25-28; Id., A. R. di P., in Politici ed economisti del primo Settecento, Milano-Napoli 1978, pp. 3-168; L. Mannarino, Autorità, fede, ragione e ‘paganizzazione’ del Cristianesimo. Il Regno celeste di Giannone e i Discours di R., in Nuova Rivista storica, XLVI (1982), pp. 358-382; S. Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in Rivista storica italiana, XCVI (1984), pp. 510-522; E. Tortarolo, R. di P. nel Settecento tedesco, ibid., pp. 523-539; L. Firpo, Una traduzione settecentesca del Recueil, ibid., pp. 585-590; F. Venturi, A. R. fra giansenisti e teofilantropi, in Rivista storica italiana, XCVI (1984), pp. 540-584; J.I. Israel, Radical enlightenment. Philosophy and the making of modernity 1650-1750, Oxford 2001, passim; G. Mola di Nomaglio, I Novarina fra enigmi e intrighi nella storia del Piemonte, in Studi piemontesi, XXXI (2002), pp. 407-428; S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in R. di P., in Rivista storica italiana, CXVI (2004), pp. 793-811; Alberto R. di P., illuminista europeo, Atti del convegno (Passerano Marmorito... 2007), a cura di V. Gueglio, Sestri Levante 2009; T. Cavallo, “Atheists or Deists, more charitable than superstitious Zealots”: Alberto R.’s intellectuas parabola, in Atheism and deism revalued: heterodox religious identities in Britain, 1650-1800, a cura di W. Hudson et al., Farnham 2014, pp. 173-190.