radio e lingua
Il Novecento è il secolo dell’immagine e del suono, e la radio ne è una delle espressioni più caratterizzanti. La voce esce per la prima volta dal privato, dallo spazio comunque limitato nel quale da sempre è stata racchiusa, si diffonde a grandi distanze ed è ascoltata simultaneamente da milioni di persone. Anche nella seconda parte del secolo, dopo l’avvento della televisione (1954) e di Internet (la cui diffusione inizia negli anni Novanta), l’interazione tra la radio e i diversi strumenti audiovisivi, analogici e digitali, diventa sempre più frequente e contribuisce a rafforzare il complessivo sistema dei media e il suo potere sociale (Ortoleva 2001; ➔ lingua e media). Il trasmesso acquista un’indiscussa centralità nell’architettura dell’italiano contemporaneo. La sua natura complessa e artificiale, fortemente asimmetrica, presenta tratti comunicativi sia dello scritto sia del parlato e permette combinazioni inedite tra lontananza/estraneità e dialogicità/privatezza (Sabatini 1997; Menduni 2002).
In Italia, il processo postunitario di unificazione linguistica (De Mauro 1963) appare largamente influenzato dall’oralità dei mezzi di comunicazione di massa, a cominciare appunto dalla radio. Al parlato faccia a faccia, che continua a essere fino a oggi per molti (oltre il 30% della popolazione italiana) un parlato bilingue (italiano e dialetto si alternano in famiglia, con gli amici, sul luogo di lavoro), si è venuto affiancando, dagli anni Venti del Novecento, un parlato trasmesso dalla radio, che in un fluire continuo ha raggiunto tutti, indipendentemente dal luogo, dalla classe sociale, dalla cultura, dal sesso o dall’età. Un’assoluta novità: un parlato pubblico, che ha voluto essere per molto tempo soprattutto un parlato italiano comune, al quale tuttavia, dopo gli anni Settanta, si sono mescolate le molte altre lingue usate in Italia: varietà regionali, dialetti, lingue minoritarie, lingue straniere. Da un monolinguismo, essenzialmente basato sulla scrittura (parlato-scritto esecutivo), a un multilinguismo che riflette, filtra, reinventa e amplifica (iperparlato) il panorama sonoro dell’Italia contemporanea.
La radio ha agito in modo duplice: da una parte sui singoli parlanti, innalzandone la competenza passiva, ossia la capacità di comprendere l’italiano; dall’altra sull’intera Italia linguistica e sull’italiano stesso, ponendosi di fatto, insieme alla televisione, come nuovo modello normativo e contribuendo negli ultimi decenni all’affermazione dell’italiano neostandard (o italiano dell’uso medio).
La storia della radio italiana, anche per quanto riguarda la lingua, si può schematicamente articolare in tre grandi periodi: dalle prime trasmissioni (1924) alla fine del fascismo; dal 1945 al 1976, anno dell’attuazione della riforma RAI e della nascita ufficiale dell’emittenza privata; dal 1976 ad oggi, anni caratterizzati da un’offerta molto ampia e differenziata, tra radio a diffusione locale e radio a diffusione nazionale, tra radio di palinsesto (basate su una programmazione giornaliera e settimanale) e radio di flusso (con un formato orario che si ripete nel corso della giornata), tra radio musicali (soprattutto giovanili) e radio esclusivamente parlate.
La storia della radio, nei due decenni iniziali, è strettamente intrecciata a quella del fascismo (➔ fascismo, lingua del), al suo impegno per la modernizzazione del Paese, allo sforzo di controllare ogni tipo di informazione e di manifestazione culturale, alla ricerca crescente ed esasperata del consenso. La ➔ politica linguistica del regime trova nella radio un potente canale di realizzazione e di diffusione.
L’URI (Unione radiofonica italiana) inizia ufficialmente le trasmissioni il 6 ottobre 1924 in condizioni di assoluto monopolio: la sua unica fonte di notizie è l’agenzia giornalistica Stefani, sotto il diretto controllo del governo (delibera del 31 ottobre 1924). L’URI è sostituita nel 1928 dall’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche), a cui è affidato il rilancio della radio, che infatti diventa rapidamente il più potente strumento di propaganda. Lo provano moltissime testimonianze, a cominciare da quelle interne. Un particolare significato hanno, da questo punto di vista, i discorsi dello stesso Mussolini, trasmessi per radio e destinati all’ascolto di massa, tra i quali quello famoso del 2 ottobre 1935, all’inizio della guerra d’Etiopia. Il duce apre, rivolgendosi a una folla immensa di persone, alle quali subito chiede di porsi all’ascolto:
Uomini e donne di tutta Italia, Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari, ascoltate: un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco (Isola 1998: 32)
In piena sintonia con le parole del duce sono quelle del direttore generale dell’URI e poi e dell’EIAR Raul Chiodelli, che nel tracciare nel 1942 un consuntivo delle attività radiofoniche (Isola 1998: 336-345) definisce la radio «imbattibile arma di propaganda» e ne individua la funzione principale «nelle manifestazioni in cui tutto il paese diviene un colossale arengo e si stabilisce il contatto del duce col suo popolo».
L’ascolto collettivo della radio, come è stato opportunamente sottolineato dagli storici, ha chiari obiettivi ideologici. La funzione fortemente coesiva del mezzo trova nella lingua la sua manifestazione più diretta e naturale, come sottolinea con grande convinzione Nicola De Pirro (uno dei direttori del Ministero della Cultura popolare) nel suo discorso inaugurale del Centro di sperimentazione radiofonica (1937):
la radio col suo carattere di onnipresenza libera da ogni ostacolo fisico, superando agevolmente tutte le barriere naturali, giungendo ovunque con rapidità eterea, riesce per ciò stesso ad abolire anche tutti gli ostacoli di carattere ideale e a fondere le particolari inflessioni regionali nell’unicità del linguaggio nazionale che essa porta dovunque incessantemente e con tutti i mezzi e con tutte le forme (soprattutto le artistiche e letterarie che sono dotate di un particolare fascino persuasivo) all’orecchio e all’animo degli italiani (Isola 1998: 326)
Ma c’è anche un ascolto collettivo diverso, che risponde a quelle finalità di tipo educativo, informativo e di intrattenimento (educare, informare, divertire) considerate specifiche, in tutta Europa, del nuovo mezzo di comunicazione. Dal 1933 la Radiorurale, acquistabile solo da enti pubblici, parroci e scuole, si ascolta obbligatoriamente nelle aule scolastiche, e contribuisce a diffondere l’italiano in zone del Paese in cui domina il dialetto in forma pressoché esclusiva. Molte persone nel primo decennio di vita della radio, non potendo acquistare l’apparecchio per il costo troppo elevato (più del salario medio annuale, più di un’automobile) si riuniscono, spontaneamente, nei luoghi pubblici (nelle piazze, nei caffè, nei ritrovi), attratte dal fascino magico della voce che arriva dall’etere.
Solo dalla metà degli anni Trenta in poi, con la messa in commercio di apparecchi economici, si diffonde anche l’ascolto domestico, destinato a incidere profondamente sulle abitudini degli ascoltatori, sul loro immaginario e quindi anche sulla loro lingua, grazie a programmi di grande successo, al felice accoppiamento di parole e musica e al nuovo divismo: annunciatrici, radiocronisti, conversatori e attori. Mentre nel 1927 gli abbonati alla radio sono solo 4000, nel 1939 superano il milione. Si teorizza quindi da più parti l’esigenza di scelte linguistiche volte a una maggior colloquialità, quasi come se la radio si rivolgesse a un unico ascoltatore.
Il combinarsi di ascolto collettivo e ascolto privato, di trasmissioni rivolte alle masse e di altre pensate per il singolo (o per la famiglia riunita intorno all’apparecchio) caratterizza fin da subito la radio come mezzo comunicativo dotato di straordinaria flessibilità, potenzialmente capace di soddisfare i gusti di un pubblico vasto e differenziato dal punto di vista sociale e culturale. I referendum indetti dall’EIAR mostrano nei cosiddetti radioauditori una predilezione per la musica, ma risulta anche un alto gradimento per le lezioni di lingua straniera, per il teatro e soprattutto per l’informazione (Isola 1990).
Il dibattito intorno allo ‘specifico’ radiofonico, molto vivo fin dai primi anni, presenta aspetti di grande interesse linguistico: lo caratterizza la ricerca diffusa e convinta di un parlato fortemente evocativo, adeguatamente ritmato e intonato, sintatticamente conciso e chiaro. La cosiddetta radiogenicità delle voci è un altro argomento che suscita molta attenzione. Si può facilmente cogliere l’idea che la radio, attraverso un intenso e continuo adattamento di altre forme artistiche e discorsive (dal teatro alla letteratura, dal giornalismo alla conferenza), possa portare un contributo innovativo all’italiano della tradizione: «Brevità e chiarezza si domanda soprattutto all’oratore che parla al microfono [...], di tre aggettivi si appaghi di uno scegliendo il più lucido e significativo» (Mario Vugliano in Maraschio 1999: 51). Enzo Ferrieri nel Manifesto della Radio (1931) sostiene che lo stile più adatto alla radio è «rigorosamente sintetico», fatto tutto di «sostantivi precisi, definizioni esatte, suggestive, pittoresche nella loro sintesi e per la loro fulminea espansione» (Raffaelli 1997: 45), mentre il Manifesto della radia (1933) di Filippo Tommaso Marinetti è ben più radicale: «La Radia sarà libertà da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica. Qualsiasi tentativo di riallacciare la Radia alla tradizione è grottesco» (Ortoleva & Scaramucci 2003: 463-464).
Si inventano in quegli anni alcuni generi radiofonici (giornale radio, radiodramma, varietà, radiocronaca sportiva, conversazione) destinati a trasmettere nel tempo scelte linguistiche e stilistiche specifiche (basti pensare alla fortuna del modello di radiocronaca di Niccolò Carosio, che esordisce nel 1933, in diretta per l’incontro di calcio Italia-Germania) e ad essere imitati poi anche dalla televisione (➔ televisione e lingua); si mise a punto un palinsesto che persino nell’articolazione giornaliera (fra musica, intrattenimento leggero e colto, informazione e programmi educativi anche per i giovani) restò a lungo invariato (Scaramucci 1999).
Ma l’intervento diretto del governo fascista sulla lingua della radio, la «norma linguistica esplicita» (Raffaelli 1997: 31) riguarda soprattutto i due livelli che si ritenevano maggiormente qualificanti dal punto di vista dell’italianità: il lessico e la pronuncia. La nuova terminologia settoriale, in gran parte di provenienza inglese (broadcast e broadcasting, speaker, fading, jack), viene via via assimilata, soprattutto dopo il divieto dell’uso pubblico di parole straniere (1940-1941) e la pubblicazione dei famosi elenchi sostitutivi dell’Accademia d’Italia (1941-1943); così fading > evanescenza, speaker > annunziatore, jack > spina, réclame > pubblicità, volume control > regolatore di volume. La terminologia si assesta quindi progressivamente dopo una fase di oscillazione, per es. tra il femminile e il maschile di radio (il radio, con riferimento all’apparecchio), tra radio giornale, radio informazioni, giornale parlato e finalmente giornale radio (dal 1930); e in ambito più tecnico tra altisonante e altoparlante, amperaggio e intensità, emissione, trasmissione e diffusione, radioauditore e radioascoltatore.
Il fascismo impone alla radio l’uso del voi al posto del lei con azzardate sostituzioni persino in opere letterarie (nel leopardiano dialogo Copernico e in Come tu mi vuoi di Pirandello) mandate in onda nel biennio 1940-1941 (Raffaelli 1997: 39). Ma il suo impegno maggiore è concentrato sull’insegnamento della lingua italiana, avviato dall’EIAR nel 1938-1939 con un corso su La lingua d’Italia, in collaborazione con il Ministero dell’educazione nazionale (ministro Giuseppe Bottai) e con l’Accademia d’Italia (del progetto è responsabile Giulio Bertoni, coadiuvato da Francesco Ugolini). Il corso è dichiaratamente finalizzato a «rafforzare l’italianità del nostro incomparabile idioma e a diffondere le norme di ortofonia». L’uniformità di pronuncia è di fatto il suo obiettivo principale, come risulta dal fortunato Prontuario di pronunzia e ortografia di Bertoni e Ugolini, pubblicato nel giugno del 1939, che ha nel corso dello stesso anno ben 5 ristampe. Il modello di ➔ pronuncia nazionale proposto dagli autori è quello dell’asse linguistico Roma-Firenze, con una decisa inclinazione verso il polo romano (come testimoniano parole come ginèpro, cèmbalo, èmbrice).
Durante la guerra è largamente ascoltata in Italia, in modo clandestino, l’emittente radiofonica britannica a onde corte, Radio Londra (1939-1943), che trasmette in un italiano privo di perentorietà, «con effetti di piano e civile argomentare» (colonnello Stevens), nettamente contrastante con lo stile altisonante dell’EIAR (Mario Appelius). Si deve a Radio Londra la diffusione di alcuni neologismi come repubblichino e resistenza (Tesi 1997).
Il 26 ottobre 1944 l’EIAR si trasforma in RAI (Radio audizioni Italia, dal 1954 Radiotelevisione italiana), ma la nuova programmazione parte in modo sistematico solo dal gennaio 1946. Tuttavia già negli ultimi mesi del 1944 da Radio Firenze libera iniziano alcune trasmissioni che esprimono una decisa volontà di cambiamento; tra queste il primo, popolare, quiz Botta e risposta (14 novembre 1944) condotto, con brio e senso di umorismo, da Silvio Gigli, già famoso (Radio Igea, L’ora del dilettante) dagli anni Trenta (Fracastoro Martini 1951: 65). Ma un significato particolarmente rilevante ha l’avvio dell’Approdo (3 dicembre 1945), programma culturale, ideato dal critico e intellettuale antifascista Adriano Seroni, che mira a ricostruire un’unità italiana culturalmente alta, basata sulla rinascita morale della nazione. Il programma radiofonico (poi affiancato dal periodico L’Approdo letterario, nel 1958, e dalla versione televisiva, nel 1963), con le sue 1700 puntate, vive per oltre un trentennio (fino al 27 giugno 1977).
Le questioni linguistiche non sono affrontate frequentemente all’Approdo; emergono solo in pochi interventi di grande interesse, come in quello del 1952 di Riccardo Bacchelli (Maraschio & Stefanelli 2001: 146), che si occupa della specificità del linguaggio radiofonico e usa espressioni molto simili a quelle usate da ➔ Carlo Emilio Gadda nel suo famoso manualetto Norme per la redazione di un testo radiofonico del 1953 (Ortoleva & Scaramucci 2003: 330-333).
Nel 1945 è confermato responsabile del Giornale radio Antonio Piccone Stella (caporedattore dal 1935 del Giornale radio dell’EIAR, ma dopo l’8 settembre attivo nelle ‘alleate’ radio Bari e Radio Napoli), che scrive un manuale di successo, Il Giornale radio. Guida pratica per quelli che parlano alla radio e per quelli che ascoltano (1948):
per la sua natura di vicenda in atto, la notizia deve assumere uno stile narrativo. Raccontare un fatto vero con chiarezza, evidenza, precisione, incisività è l’arte del giornalista, in particolare di quello radiofonico. Compilare bollettini e stendere comunicati è il mestiere dei burocrati (Ortoleva & Scaramucci 2003: 611)
Se si considera che fino agli anni Sessanta è decisamente prevalente alla radio la lingua ‘trasmessa’ sulla base di un testo scritto, quindi letta o recitata (ancora alla fine degli anni Settanta: parlato-letto 44,3% + parlato-recitato 21,4%), ci si rende facilmente conto che alla Radio RAI dei primi vent’anni il parlato va ricercato soprattutto all’interno di scritture opportunamente predisposte per essere ascoltate, dunque caratterizzate da una regolarità ritmica e intonativa, da molte ripetizioni lessicali, da una sintassi lineare, senza troppe parentesi e incisi e con poche subordinate («ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al “vuoto radiofonico”»: Gadda 1953). Quanto alla pronuncia, la RAI continua a occuparsene, organizzando corsi di dizione per i professionisti della radio e nel 1969 pubblicando il DOP (Dizionario di ortografia e pronunzia, a cura di Carlo Tagliavini, Bruno Migliorini e Piero Fiorelli; il DOP è uscito nel 2010 in una nuova edizione multimediale e multilingue, consultabile anche on line).
Ma negli anni Sessanta alcune rilevanti trasformazioni sociali e tecnologiche incidono profondamente sulla lingua della radio, perché ne cambiano le funzioni, le modalità d’ascolto, il pubblico: l’affermazione della televisione come medium tipicamente domestico e la diffusione del transistor fanno della radio un importante, economico e portabile medium individuale di informazione e intrattenimento, con molta musica leggera, italiana e straniera. Anche la cultura giovanile fa il suo ingresso nella radio. Programmi come Bandiera Gialla (Arbore e Boncompagni: 16 ottobre 1965), Per voi giovani (Arbore e Roda, poi Giaccio e Luzzatto Fegiz: 3 luglio 1966) e soprattutto Alto gradimento (Arbore, Boncompagni, Bracardi, Marenco: 6 luglio 1970) sperimentano, con enorme successo di pubblico, una inedita miscela di musica (soprattutto rock), parlato spontaneo giovanile, umorismo demenziale, ripetitività e tic sonori di vario tipo.
Ma il primo programma in cui le persone da casa assumono un ruolo da protagoniste, andando direttamente in onda con la loro voce, i loro problemi personali, la loro pronuncia regionale, il loro lessico a volte dialettale, la loro sintassi ‘parlata’ (solo un esempio di ➔ che polivalente: «mi trovo in una città nuova, una città che non conosco nessuno»), il primo programma che rompe, seppur in modo molto filtrato e controllato, l’unidirezionalità propria di tutti i mezzi di comunicazione di massa è Chiamate Roma 3131 (Moccagatta, Boncompagni e Taddei: 7 gennaio 1969). La trasmissione col tempo seppe assumere «uno stile di dialogo meno rigido e ingessato» e avviare quella interattività che avrebbe caratterizzato la futura storia della radio (non solo di quella italiana), con conseguenze linguistiche rilevanti (Ortoleva & Scaramucci 2003: 164-165; Monteleone 1992: 364-367). Comincia ad essere ascoltata in molte parti d’Italia Radio Montecarlo, che dal 1966 trasmette in italiano, con uno stile ironico e contestatore, mandando in onda dischi spesso censurati (De André, Bocca di Rosa) e coinvolgendo gli ascoltatori con le dediche e i giochi. Brevissima l’esperienza del 1970 di Radio Sicilia Libera, «la radio dei poveri cristi» di Danilo Dolci che dà voce, da Partinico, ai terremotati del Belice, ma vive solo poco più di 24 ore. Dal 1975-1976 iniziano a trasmettere molte radio libere (Radio Alice: Bologna; Radio Popolare: Milano; Radio Radicale: Roma, Milano, Bari; Radio Città Futura: Roma), legate ai movimenti politici giovanili degli anni Settanta e Ottanta, impegnate nella controinformazione, in un largo uso della diretta e del microfono aperto per dare un effettivo libero accesso al pubblico per commenti e testimonianze.
Negli ultimi trent’anni (e poco più) la lingua della radio è cambiata radicalmente in tutto il mondo. In Italia la prima forte cesura è rappresentata dalla fine del monopolio RAI (Corte costituzionale, sentenza n. 202, luglio 1976), dalla conseguente liberalizzazione dell’etere e dall’affermazione di un’emittenza privata che appare fin da subito estesa, articolata (radio libere, commerciali, politiche, religiose, musicali) e indirizzata a un pubblico estremamente segmentato, di cui ciascuna radio punta a catturare un segmento, attraverso precise scelte programmatiche e linguistiche. Da una fase caotica (dalle 150 radio del 1975 alle oltre 2600 di tre anni dopo) si è passati a una fase più strutturata (nel 1990 l’approvazione della legge Mammì porta a una regolamentazione: 14 emittenti nazionali, 1100 locali, di cui 250 comunitarie, cioè senza fini di lucro, 5 consorzi o syndications; cfr. Menduni 2001: 150-152). Attualmente [2010] le emittenti sono oltre 1260, una quantità rilevante, superata solo da quella degli Stati Uniti d’America.
Le novità degli ultimi anni confermano la vitalità della radio anche in Italia, la sua importanza crescente presso pubblici diversi e la sua capacità di adeguarsi ai mutamenti tecnologici e sociali in atto. Ne sono indizi significativi: l’ingresso nella radiofonia dei grandi gruppi editoriali e il felice connubio fra radio e Internet che coinvolge soprattutto i giovani (web radio, utilizzo di piattaforme diverse, mp3) e aumenta le possibilità di una fruizione capillare, personalizzata e interattiva. I due modelli prevalenti di radio, di palinsesto e di formato, tendono a influenzarsi reciprocamente anche dal punto di vista linguistico. Il primo, ben rappresentato dalle tre reti RAI, è caratterizzato da una sequenza settimanale di programmi, e quindi di generi, distinti per fascia oraria e pubblico di riferimento; ma i confini tra alcuni generi tendono a dissolversi all’interno di ampi contenitori. Il secondo, che si afferma dagli anni Novanta con le radio musicali, si basa invece su un formato orario, che procede secondo una struttura circolare (clock), ripetuta nell’arco di una stessa giornata, con un dosaggio pianificato di musica, pubblicità, informazione. Figura chiave è quella del conduttore DJ, che parla in modo informale, allusivo, ricco di ammiccamenti, con ben riconoscibili inflessioni regionali, mostrando di condividere i gusti, le idee e naturalmente la lingua della comunità dei propri ascoltatori. Recentemente in alcune radio musicali (ad es., Radio Deejay) la presenza in voce degli ascoltatori è stata drasticamente ridotta, preferendo sms ed e-mail, mentre è aumentato il carattere di autoreferenzialità (Antonelli 2007: 120-123). Il flusso può essere anche solo parlato: è stata inaugurata nel 1999 una radio di questo tipo che sta avendo un successo crescente: si tratta di Radio24, in concorrenza con la RAI (in particolare con Radio3, la sua rete culturale), grazie a un’offerta molto ricca di informazione, servizi di pubblica utilità e approfondimenti.
L’Accademia della Crusca, organizzando nel 1994 un convegno sulla lingua della radio, decise di intitolarlo Gli italiani trasmessi per mettere in esponente, fin dal titolo, la fondamentale dimensione plurilinguistica assunta dalla radio in Italia nell’ultimo trentennio: da ‘prima scuola’ di lingua a eco o specchio della diversità e della frammentazione linguistica tipica del nostro Paese (Simone 1987; Diadori 2002). E non si tratta solo del rispecchiamento dell’italiano nelle sue molte varietà; è l’intero repertorio nazionale ad essere mandato in onda, come è testimoniato dal fatto che alcune radio locali continuano a usare il dialetto, magari con funzione fatica e in forme ludiche e frequentemente glossate in italiano, ma un dialetto che la radio sa sfruttare meglio di altri media, facendo leva sulla sua forza espressivo-emotiva, e valorizzandolo come strumento di coesione territoriale e di recupero politico-nostalgico (Simone 1980; Coveri & Piccillo 1997; Cordoni, Ortoleva & Verna 2006: 215).
Ma lo specchio della radio è uno specchio a due raggi, che cattura e amplifica, come del resto quello di tutti i mezzi di comunicazione di massa (Masini 2003: 26-32), ed è uno specchio infedele, perché rimanda un parlato che solo apparentemente coincide con il nostro di tutti i giorni: la semplicità e la naturalezza linguistica sono programmate e l’effetto spontaneità è sempre ricercato e strettamente collegato a precise scelte editoriali che puntano a creare una grande prossimità fra chi la radio la fa e chi l’ascolta.
Ma alla radio, soprattutto alla RAI, c’è, da una parte, ancora molto parlato monologico, letto o recitato: basti pensare all’informazione, alle letture integrali di opere letterarie, alla soap opera, alla pubblicità (nel corpus LIR1/2 – Lessico di frequenza dell’italiano radiofonico, a cura di N. Maraschio e S. Stefanelli – limitatamente alle sole radio RAI: monologo 1995: 53%, 2003: 54%; dialogo 1995: 28%, 2003: 25%; monologo a più voci 1995: 15%, 2003: 17%; telefonata 1995: 3%, 2003: 4%), dall’altra un irrealistico iperparlato, veloce, frammentato e gridato, interpunto da stacchi musicali, più meno abilmente mescolato alla musica (che talvolta resta in sottofondo) per creare e rendere immediatamente riconoscibile il suono che identifica una certa emittente (Moneglia 1997). La chiacchiera, con semplice funzione fatica, per mettersi e tenersi in contatto, spesso su temi futili, fino a dieci anni fa si manteneva a un livello di medietà linguistica, mentre ora le incursioni nei registri bassi e bassissimi (con largo uso di parolacce; ➔ parole oscene) sono diventate molto frequenti (Sergio 2004: 123).
In generale le esigenze di spettacolarità, quelle di rispetto di tempi e di ritmi legati alla programmazione, quelle del rapporto con altri linguaggi – musica e rumori – fanno della lingua della radio qualcosa di profondamente differente rispetto non solo alla lingua faccia a faccia della conversazione, ma anche a quella dell’oralità pubblica e unidirezionale del comizio, della predica o della conferenza accademica. La ripetitività tipica della radio e il suo costante riuso di brani e parole di altri media (Dardano 19972) tendono a favorire la diffusione di frasi fatte, stereotipi o plastismi (piuttosto che nel senso di «oppure», quant’altro, salto di qualità, non c’è problema, alla grande, remare contro, mandare in tilt, avere la coda di paglia, difendersi con le unghie e con i denti (Castellani Pollidori 1995; Masini 2003; LIR1/2).
La radio è anche cassa di risonanza di ➔ neologismi e ➔ forestierismi. Quanto alle parole nuove, studi recenti sembrano indicare una certa lentezza della radio nell’accoglierle. Scorrendo gli indici di frequenza del LIR2 (solo Radio RAI), e confrontandoli con i più recenti dizionari e repertori di parole nuove, emergono neologismi legati alle nuove tecniche e alle nuove tecnologie: autostabilizzante riferito alle sospensioni delle automobili, dolbizzato e microfonizzazione (e naturalmente e-mail, on line), al calcio (euro derby), all’economia (core business); in genere si conferma la produttività di alcuni prefissi (oltre a euro-), eco- (ecoballa «balla di rifiuti pressati», ecomafia), maxi (maxitangente), mega (megaconsulenza) (Biffi & Setti 2008). Quanto ai forestierismi, nella maggior parte anglismi, nel 1994 la percentuale assoluta, ma solo delle reti RAI, non arrivava all’1% (secondo Fanfani 1997, 0,55%), con una media tuttavia intorno al 37% nella pubblicità. Ma dagli anni Novanta a oggi è entrata in italiano una massa di anglismi superiore più del doppio a quella entrata nel decennio precedente (Antonelli 2007: 17) e non si dispone di conteggi radiofonici. Nella pubblicità è diventato del tutto comune l’uso di intere frasi in inglese, soprattutto nel pay off, cioè la frase conclusiva che deve imporsi alla memoria e riassumere il senso del comunicato: life is a game; Siemens, be inspired (Sergio 2004: 205-206).
Il trasmesso radiofonico varia grandemente a seconda dell’emittente, del genere, della tipologia comunicativa e del parlante. Se ogni descrizione linguistica deve tenere conto di queste variabili – ed è quello che è stato fatto nella costruzione del corpus radiofonico LIR1/2: circa 95 ore di parlato trasmesso radiofonico, in parte del 1995 (64h), in parte del 2003 (31h26ˈ), trascritto e in voce –, tuttavia è possibile indicare alcuni tratti assai generali:
(a) l’innaturale quantità e varietà di lingua diffusa. A qualunque radio ci si colleghi, nell’arco di una giornata si è esposti a una innaturale quantità e varietà di lingua: la radio opera uno sfruttamento intensivo dell’oralità in tutti i suoi aspetti che non è paragonabile a quello attuato dalla televisione. Il fenomeno è particolarmente rilevante nelle radio di palinsesto, come quelle della RAI, basate sul succedersi di programmi e quindi di molti tipi differenti di parlato: monologo, dialogo, parlato a più voci (Maraschio 1997);
(b) l’inedita e veloce mescolanza di ➔ varietà linguistiche diverse, che appare tanto più significativa da quando molti generi tradizionali sono diventati generi misti (per es., l’infotainment), e sono spesso mandati in onda in rapida successione in grandi programmi contenitori;
(c) un italiano dell’uso medio o neostandard. La lingua della radio italiana oggi, considerata nel suo complesso, si può ascrivere a quella varietà che Sabatini ha definito «italiano dell’uso medio» e Berruto «italiano neostandard» (D’Achille 2003), caratterizzata dall’assenza di una norma di pronuncia unitaria (pronunce regionali caratterizzano anche la lingua dei giornalisti conduttori), dalla semplificazione morfosintattica (lui/lei soggetto, gli anche per a loro, presente per futuro, che polivalente, ecc.), dall’alta frequenza di fenomeni di messa in rilievo (frasi scisse e pseudoscisse; frasi con ➔ dislocazioni: è lui che ...; quel libro l’ho letto volentieri; c’è presentativo; altre espressioni che sottolineano il tema: per quanto riguarda …; ➔ focalizzazioni) e dal largo ricorso alla ripetizione, a forme fatiche (sai, capisci bene; ➔ intercalari), ad ➔ avverbi (praticamente, effettivamente, assolutamente, chiaramente), a ➔ segnali discorsivi (allora, appunto, cioè, comunque, ecco) che servono da riempitivi e soprattutto a mantenere o cedere il turno di parola.
C’è da dire, però, che alla radio si riscontra anche un parlato medio-alto che, rispetto a testi scritti analoghi, ha maggiori tratti di naturalezza (secondo Sabatini 1997: «un parlato serio semplice»). Lo si sente, per es., nei programmi di divulgazione scientifica (Antonini 1997), ma anche in alcune trasmissioni di dialogo col pubblico, come Prima pagina (rassegna stampa della mattina su Radio3, in onda dal 1976), che colpisce favorevolmente per la capacità argomentativa e per l’alta competenza linguistica non solo dei giornalisti-conduttori, ma anche della maggior parte delle persone che telefonano.
Anche i giornali radio (GR) tendono a un italiano medio-alto. Atzori (2002) ha descritto alcuni aspetti della sintassi del giornalismo radiofonico contrastivamente rispetto a quella del giornalismo della carta stampata e a quella del parlato-parlato. Se risultano assolutamente marginali nel suo corpus (anche nel parlato semi-programmato delle molte interviste inserite nei GR) tutti i fenomeni tipici del parlato (come interruzioni, esitazioni e autocorrezioni) e vi sono attestate in misura ridotta ellissi, brachilogie e interiezioni, d’altro canto la lunghezza delle frasi, che è decisamente superiore a quella della conversazione informale (5,9 parole), non raggiunge i livelli della prosa giornalistica. La lunghezza media delle frasi nei radiogiornali è infatti di circa 20 parole, molto vicina a quella della cronaca, ma decisamente inferiore rispetto a quella delle altre sezioni del giornale (27,9 parole). Conferme di una specificità radiofonica si hanno anche in altri campi, per es. osservando le frasi nominali: nel giornale radio si trovano soprattutto all’interno del discorso e non all’inizio, come sui quotidiani, e rispondono piuttosto a un’esigenza di chiarezza e di comprensibilità (per es., introducono e scandiscono le diverse sezioni del giornale radio) più che a intenti impressivo-connotativi. È quasi assente peraltro dal giornalismo radiofonico il registro brillante che caratterizza fortemente il linguaggio giornalistico recente, fatto di metafore, neoformazioni lessicali, mescolanza di linguaggi settoriali (➔ giornali, lingua dei).
Antonelli, Giuseppe (2007), L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, il Mulino.
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