RADIOATTIVITÀ
1. Introduzione. - Alcuni elementi pesanti [tra cui uranio (U), radio (Ra), torio (Th), attinio (Ac), polonio (Po)] emettono spontaneamente radiazioni, che non vengono percepite direttamente dai nostri sensi; la loro esistenza viene rivelata da varî effetti che esse producono. Per es., un tubetto di vetro, contenente sali di uranio in quantità sufficiente, posto accanto a una lastra fotografica per qualche ora, la impressiona. L'effetto si osserva anche se tra tubetto e lastra sono interposte sottili lamine metalliche. Da questa esperienza si deduce che la radiazione emessa dai sali di uranio, o almeno alcune componenti di essa, hanno un potere penetrante che ricorda quello dei raggi X. Gli elementi che godono delle proprietà descritte vengono detti radioattivi.
Un'altra importante proprietà di queste radiazioni è la seguente: poniamo due lastrine metalliche affacciate a una distanza di qualche centimetro una dall'altra e portiamole a diverso potenziale. Da una lastrina all'altra non passa, quasi, corrente; l'aria interposta è un buon isolante; se ora si accosta un preparato radioattivo, si constata che l'aria diventa conduttrice; ciò è dovuto alla formazione di ioni (v. ionizzazione). Le radiazioni emesse dai corpi radioattivi ionizzano fortemente l'aria. Azione fotografica e azione ionizzante forniscono i due mezzi più potenti per rivelare e studiare le radiazioni emesse dai corpi radioattivi.
La radioattività, diversamente dalla stragrande maggioranza dei fenomeni fisici e chimici, non è affatto influenzata dallo stato di combinazione in cui si trova l'elemento radioattivo, né dalla pressione, né dalla temperatura (certamente fino a temperature assai superiori a quelle che si possono raggiungere in laboratorio) né da altri mezzi fisici o chimici (la lieve correzione che portano a queste affermazioni le esperienze sulla radioattività artificiale, per cui v. n. 17, non altera per nulla le conclusioni a cui ora giungeremo).
Perciò si ritiene che la radioattività sia un fenomeno che interessa essenzialmente l'atomo, e più precisamente quella parte interna dell'atomo (nucleo) che per la sua stabilità non subisce l'influenza delle ordinarie azioni fisiche e chimiche (v. appresso n. 7; nucleo).
La radioattività è accompagnata dalla trasmutazione dell'elemento radioattivo in un altro elemento di diverse proprietà chimiche e fisiche. Così il radio si trasmuta in un gas nobile, detto emanazione del radio: contemporaneamente si forma elio. L'emanazione è essa pure radioattiva e si trasmuta in un elemento (RaA) anch'esso radioattivo, ecc. Si forma così una famiglia radioattiva, finché dopo varie generazioni, si giunge a un elemento stabile (non radioattivo).
La radioattività fu scoperta nel febbraio 1896 da H. Becquerel. L'elenco cronologico seguente contiene soltanto le principali scoperte. Il significato di alcune delle parole e frasi usate si può desumere dai numeri che seguono.
Radioattività del torio 1898 (G. C. Schmidt e Marie Curie). Scoperta del radio e del polonio 1898 (coniugi Pierre e Marie Curie). Segue un intenso studio delle proprietà delle radiazioni per opera di varî studiosi, che portano a conoscenze definitive sulla natura dei raggi α (particolarmente per opera del Rutherford), β e γ. Nel 1903 E. Rutherford e F. Soddy, indipendentemente, riconoscono nella radioattività una manifestazione della trasmutazione spontanea degli elementi radioattivi, una delle scoperte più importanti per lo sviluppo della radioattività e per l'intera fisica. Nel 1911 il Rutherford, in seguito agli esperimenti di H. Geiger e E. Marsden sulla dińusione delle particelle α, suggerisce il modello dell'atomo che da lui e dal fisico teorico danese Niels Bohr prende il nome. Quasi contemporaneamente C. T. R. Wilson inventa la sua meravigliosa "camera". Negli stessi anni O. von Baeyer, O. Hahn e L. Meitner fotografano i primi spettri di raggi β. La teoria delle trasmutazioni viene completata con le essenziali "leggi di spostamento" da K. Fajans e F. Soddy nel 1913. Dalla scoperta della disintegrazione artificiale (1919; Rutherford e J. Chadwick) in poi, gran parte dei lavorí verte su questo argomento. Citiamo ancora la disintegrazione per mezzo di ioni accelerati artificialmente (J. D. Cockcroft e E. T. S. Walton, 1932), la scoperta del neutrone (W. Bothe e H. Becker, I. Curie e F. Joliot, J. Chadwick, 1932), dell'elettrone positivo (Anderson, Blackett e Occhialini, 1933) e della radioattività artificiale con particelle a (Curie e Joliot, 1934), con neutroni (E. Fermi, 1934).
2. Metodi di osservazione. - Le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive dànno luogo a svariate azioni fisiche e chimiche (v. n. 15), alcune delle quali si prestano per una misura qualitativa o quantitativa delle radiazioni stesse.
L'azione fotografica può essere utilizzata per rivelare la presenza di radiazioni, siano esse α, β o γ (vedi nn. 4-6). I raggi γ anneriscono l'emulsione sensibile in modo analogo ai raggi X; l'azione non è però molto intensa a causa della piccola frazione dell'energia che è assorbita e quindi utilizzata nel processo fotochimico. Per aumentarla si usano spesso schermi fluorescenti, per es., di tungstato di calcio. I raggi β hanno un'azione fotografica più cospicua, corrispondentemente al loro maggiore assorbimento; negli spettrografi magnetici generalmente lo spettro è registrato sopra una lastra fotografica, come uno spettro ottico in uno spettrografo ordinario.
L'effetto fotografico di particelle fortemente ionizzanti, come quelle α o i protoni, è poi così forte da permettere in opportuni casi di osservare nella gelatina l'annerimento prodotto da una singola particella; questo si manifesta allora come una traccia costituita da una fila di granuli di argento ridotto, della lunghezza complessiva di poche decine di micron, perché tale è la penetrazione delle particelle α nell'emulsione fotografica.
Le radiazioni si possono rivelare anche mediante la fluorescenza, che esse eccitano in molte sostanze. L'applicazione più importante ne è fatta nello spinteroscopio, o apparecchio per l'osservazione delle scintillazioni. Se si mette una debole sorgente di particelle α in presenza di uno schermo fluorescente di solfuro di zinco e si osserva quest'ultimo nell'oscurità mediante un microscopio, si vede una scintillina corrispondente a ciascun urto di una particella contro un granulo di solfuro di zinco. Il metodo permette di contare tutte le particelle emesse da una sorgente e ha avuto grande importanza nello sviluppo dello studio della radioattività.
Di gran lunga più numerosi e più spesso applicati sono però i metodi di osservazione e di misura che si basano direttamente sulla ionizzazione prodotta dalle radiazioni nel passaggio attraverso ai gas.
Una camera di ionizzazione è semplicemente un recipiente nel quale si trova un elettrodo isolato, mantenuto a potenziale diverso da quello della parete. Se nel gas che riempie la camera si produce una ionizzazione, si ha un passaggio di corrente, cioè un trasporto di carica elettrica sull'elettrodo isolato. Questo è connesso con un elettrometro in modo che le variazioni del suo potenziale possano essere misurate.
Il metodo può essere reso straordinariamente sensibile. Spesso la camera di ionizzazione e l'elettrometro sono riuniti in un unico strumento, o elettroscopio (per es., del tipo semplicissimo a foglia d'alluminio). Lo strumento viene caricato, e la velocità di scarica misura la ionizzazione del gas e quindi l'intensità della radiazione.
Una camera di ionizzazione di piccola capacità unita a un elettrometro pronto e sensibile permette di registrare la ionizzazione dovuta ad una singola particella α (circa centomila ioni).
Per questo scopo oggi si preferisce però amplificare il debolissimo impulso di corrente primario, servendosi di un sistema a più valvole termoioniche.
In questo modo la variazione di corrente dovuta ad un numero modesto di ioni (di alcune centinaia) può essere amplificata tanto da essere comodamente registrata mediante un oscillografo (fig. 1).
Anche quest'ultimo metodo ha però una sensibilità insufficiente per rivelare una singola particella poco ionizzante (per es., un elettrone); esso trova applicazione soltanto per lo studio di particelle molto ionizzanti (per es., protoni o particelle α). Per mettere in evidenza la ionizzazione dovuta ad un elettrone servono invece ottimamente il contatore a punta di H. Geiger o il contatore a tubo di Geiger e Müller.
Questi ultimi tipi di apparecchi sono basati sul principio che se in una camera di ionizzazione, in cui gli elettrodi hanno una forma opportuna, si mantiene una differenza di potenziale sufficientemente elevata, la corrente di ionizzazione primaria dovuta alla particella è enormemente amplificata dalla ionizzazione secondaria per urto (valanga di ioni), tanto da divenire rivelabile con mezzi di sensibilità modesta.
Nel contatore a punta, l'elettrodo isolato è una punta di acciaio o una sferetta fusa all'estremo di un filo metallico sottile; nel contatore a tubo esso è costituito da un filo metallico teso sull'asse di un cilindro. In ogni caso la parete è portata a un potenziale elevato (per lo più negativo), e l'elettrodo è messo generalmente a terra attraverso a una resistenza molto grande, per modo che il suo potenziale normale sia zero (fig. 2). Il passaggio di una particella ionizzante nel contatore dà luogo a una scarica, nella quale si ha una amplificazione della corrente primaria di un fattore che può arrivare a cento milioni. Ciò dà luogo a una variazione del potenziale dell'elettrodo, la quale può essere rivelata mediante un elettrometro a filo. Per cause non bene conosciute questa corrente s'interrompe dopo un tempo brevissimo, e l'apparecchio è di nuovo pronto a registrare una seconda particella. Gl'impulsi di corrente possono essere comodamente amplificati e contati sopra un numeratore meccanico (per es., contatore di conversazioni telefoniche).
Caratteristico di questi contatori è che l'impulso di corrente dipende soltanto dalle caratteristiche dell'apparecchio e non dall'entità della ionizzazione primaria. In certi casi un solo ione primario è sufficiente ad innescare la scarica.
I contatori sono gli apparecchi ideali per rivelare e misurare deboli radiazioni β o γ. I raggi γ agiscono in quanto dànno luogo a elettroni secondarî (v. n. 6).
Opportuni dispositivi permettono anche, dati due o più contatori, di registrare esclusivamente gl'impulsi contemporanei, che si producono allorché una stessa particella ionizzante attraversa i varî contatori (metodo delle coincidenze).
Gli apparecchi fin qui descritti permettono di rivelare la presenza di una particella ionizzante e, in certi casi, di misurare il numero di ioni da essa generati nel suo percorso. Per studiare poi la forma della traiettoria della particella si presta il mirabile metodo della camera a espansione di C. T. R. Wilson.
Quest'apparecchio si basa sul fatto osservato che gli ioni agiscono da nuclei di condensazione per un vapore soprasaturo. Se in un gas privo di pulviscolo e di ioni si produce una soprasaturazione del vapore, quest'ultimo non si condensa immediatamente; ma se, mentre permane la soprasaturazione, una particella dà luogo a ionizzazione, ciascun ione diviene centro di una gocciolina, e tutta la traiettoria del corpuscolo si rende visibile come un sottile filo di nebbia.
In pratica la soprasaturazione si ottiene mediante una rapida espansione della miscela gas-vapore (per es., aria e vapor d'acqua). La temperatura si abbassa secondo l'equazione delle trasformazioni adiabatiche Tvγ-1 = costante (γ è il rapporto dei calori specifici). Per il buon funzionamento si richiede un determinato grado di soprasaturazione del vapore e quindi un determinato rapporto tra il volume finale e il volume iniziale (per la miscela aria-vapor d'acqua circa 1,3).
La camera di solito è cilindrica, chiusa superiormente da una lastra di vetro per l'osservazione delle tracce, mentre il fondo è costituito dal pistone mobile che produce l'espansione. Un'intensa illuminazione laterale permette di vedere e anche di fotografare le tracce di nebbia. Con quest'apparecchio non solo si osserva la traiettoria di qualsiasi corpuscolo ionizzante, per es., particella α, elettrone, protone, ma anche si possono mettere in evidenza le modalità dei processi nucleari (urti, disintegrazioni artificiali, ecc.). Si vedano le figg. 3 e 4.
3. Misure di attività e unità relative. - L'attività α si può rivelare con uno degli svariati metodi precedentemente descritti. Se occorre misurare tale attività, si può, per es., contare il numero di particelle emesso dalla sorgente in un certo tempo ed entro un dato angolo solido; questo metodo fornisce senz'altro una misura assoluta dell'attività del preparato. Spesso però o non si ha a disposizione un contatore o altro strumento del genere oppure l'attività è troppo forte, perché sia possibile, senza speciali accorgimenti, rivelare le particelle singolarmente. In questi casi ci si serve di una camera di ionizzazione o di un elettroscopio. Se la sorgente è molto intensa, la corrente di ionizzazione potrà essere misurata direttamente mediante un galvanometro; è da notarsi però che con sorgenti forti si ha sempre una certa ricombinazione degli ioni, che impedisce di raggiungere la saturazione anche con campi elettrici molto intensi. Una misura del genere, se si conosce il numero di ioni prodotti da una singola particella, fornisce una determinazione assoluta dell'attività.
Per sorgenti meno attive converrà servirsi di un elettroscopio; in tal caso è poco pratico fare misure assolute e, in generale, ci si riferisce a un preparato campione. Questo potrà convenientemente essere costituito da uno strato di ossido di uranio.
Si è definita un'unità di attività, il Curie, che equivale all'attività di un grammo di radio elemento; per questo talvolta si chiama anche grammo-equivalente di radio. È stato determinato che un grammo di radio emette 3,70 × 1010 particelle α per secondo, cioè che altrettanti atomi si disintegrano; questo dato permette di esprimere in curie attività misurate contando il numero di particelle o viceversa. Un curie di un corpo radioattivo qualsiasi è la quantità che possiede l'attività predetta; trattandosi di un'unità molto grande si usano frequentemente il millicurie e il microcurie.
Tra le misure di attività α ha notevole importanza pratica quella dell'emanazione del radio (v. n. 10). Infatti il metodo più sensibile per rivelare la presenza di radio (per es., nelle rocce) consiste nel portare la sostanza in soluzione e misurare l'attività α dell'emanazione che eventualmente si sia formata. A tale scopo questo gas radioattivo è trascinato con l'aria entro alla camera di ionizzazione. Si tara poi l'apparecchio servendosi di una soluzione campione di radio.
Questa misura si fa spesso anche su acque minerali per determinarne il contenuto di emanazione. Per esprimere l'attività ci si serve di solito dell'unità Mache; essa è un'unità di concentrazione e corrisponde all'essere in un litro contenuta tanta emanazione da produrre una corrente di ionizzazione di 10-3 unità elettrostatiche. L'unità mache corrisponde a 3,64 × 10-10 curie per litro.
Sulla misura delle attività β non vi è molto da osservare. Difficilmente si riesce a fare buone misure assolute e più spesso ci si riferisce a preparati campione.
La misura delle attività β ha molta importanza, non foss'altro perché è il metodo normale di misurare le quantità di radio. Ci si serve per solito di camere di ionizzazione, che si possono rendere molto sensibili riempiendole di gas a varie atmosfere di pressione.
Anche qui è poco pratico fare misure assolute e ci si serve di preparati campione di radio. Si noti che il radio stesso non emette raggi γ e neppure l'emanazione, bensì i loro prodotti di disintegrazione detti deposito attivo (RaB, C). Per questo, misurando radio dall'attività γ occorrerà assicurarsi che tutti questi prodotti abbiano raggiunto l'equilibrio (v. n. 9).
Anche l'attività γ di un grammo di radio si suol chiamare un curie.
4. Proprietà dei raggi α. - Studiando l'assorbimento e la deflessione in un campo magnetico delle radiazioni emesse dalle sostanze radioattive, si son potuti distinguere tre tipi diversi di radiazioni, che hanno ricevuto il nome di raggi α (alfa), β (beta) e γ (gamma).
Grosso modo, i raggi β sono 100 volte più penetranti dei raggi α, i raggi γ sono 100 volte più penetranti dei raggi β.
I raggi γ non vengono deflessi da un campo magnetico, i raggi α e β vengono deflessi, ma in sensi opposti.
La natura corpuscolare dei raggi α è implicitamente dimostrata dalla possibilità di "contare" uno per uno i corpuscoli costituenti i raggi (scintillazioni, amplificatore proporzionale). Esperienze sulla deflessione dei raggi α in campi elettrici e magnetici analoghe a quelle descritte alla voce elettrone permettono di determinare il rapporto e/m tra carica e massa dei corpuscoli. Inoltre facendo cadere i raggi α in un cilindro di Faraday collegato a un elettrometro, si può confrontare la carica da essi trasportata con il loro numero. Se ne ricava la carica di un singolo corpuscolo α, e quindi, mediante e/m, la massa. La carica è positiva e uguale al doppio della carica elettrica elementare cioè circa 9,6 × 10-10 u. e. s. La massa è uguale a quella di un atomo di elio cioè circa 6,6 × 10-24 gr. Massa e carica della particella α coincidono dunque con quelle del nucleo dell'atomo d'elio. L'identità tra particella α e nucleo d'elio è dimostrata dal fatto che le sostanze emettenti raggi α producono elio (Rutherford) e da esperienze sulla diffusione dei raggi α nell'elio.
Le esperienze già citate di deviazione elettrica e magnetica permettono di determinare anche la velocità delle particelle. Si trova che alcuni radioelementi emettono particelle α omogenee, cioè tutte con la stessa velocità iniziale, altri emettono più gruppi omogenei (v. n. 11). Le velocità iniziali sono dell'ordine di 20.000 km. al secondo, corrispondenti a energie cinetiche dell'ordine di 10-5 erg.
I raggi α vengono assorbiti molto facilmente. Pochi centimetri d'aria, o uno spessore di 0,006 cm. di alluminio, o un foglio di carta ordinaria sono sufficienti ad assorbirli completamente.
I raggi α non vengono assorbiti con legge esponenziale, ma scompaiono bruscamente per un certo spessore assorbente, posseggono cioè un determinato "percorso". Il percorso dipende dalla velocità iniziale delle particelle, e più precisamente varia circa come il cubo della velocità. Il percorso, e più, in genere, l'assorbimento, dipendono dalla sostanza assorbente. Grossolanamente, l'assorbimento è proporzionale alla densità. Lo spessore di un assorbitore viene spesso indicato mediante il numero di centimetri d'aria equivalenti (a 760 mm. di pressione e 15°).
Il comportamento ora descritto, come l'azione ionizzante delle particelle α (v. in seguito) sono una conseguenza della loro grande massa e della loro carica elettrica. Nell'attraversare la materia una particella perde progressivamente la propria energia cinetica, per urti contro gli elettroni della materia (v. atomo). Poiché la massa di una particella α è circa 7000 volte quella di un elettrone, gli urti non deflettono sensibilmente la traiettoria (ma v. appresso), che è quindi rettilinea. Gli urti sono dovuti all'interazione coulombiana tra le cariche elettriche della particella α e dell'elettrone.
Per urti quasi centrali, l'energia trasferita all'elettrone si può calcolare come se l'elettrone fosse libero; per urti lontani, il fatto che l'elettrone sia legato ha un'importanza essenziale (Bohr).
Il frenamento progressivo della particella α ne riduce finalmente la velocità a valori che corrispondono all'agitazione termica. La particella si perde allora nella folla anonima degli atomi circostanti, e non è più rivelabile. Di qui l'esistenza di un percorso definito per i raggi α.
I raggi α ionizzano fortemente i gas che attraversano. Una particella α del Ra C′ produce nel suo percorso di 6,94 cm. nell'aria ben 2,2 × 105 coppie di ioni. Un fascio parallelo di raggi a omogenei produce nell'aria una ionizzazione, il cui andamento in funzione della distanza dalla sorgente è dato dalla fig. 5. In questa curva si notino: a) l'esistenza di un percorso finito; b) il massimo di ionizzazione verso la fine del percorso con successiva brusca caduta a zero; c) la piccola coda che arrotonda la fine della curva, dovuta alle fluttuazioni statistiche nel percorso delle varie particelle.
Il meccanismo della ionizzazione è quello stesso che produce il frenamento delle particelle α. Un elettrone che ha subito un urto abbandona in generale l'atomo a cui appartiene. Si crea così una coppia di ioni. L'elettrone può poi a sua volta, se ha ricevuto sufficiente energia, urtare altri elettroni, producendo così una ionizzazione secondaria. La ionizzazione osservata è naturalmente l'effetto globale (primaria + secondaria).
Dal numero 2,2 × 105 delle coppie di ioni prodotte dalla particella α del RaC′ di 7,7 × 106 volt-elettrone, si deduce una spesa media di energia di 35 volt-elettrone ossia 5,6 × 10-11 erg per coppia di ioni creata.
Alcuni degli elettroni proiettati dalla particella α hanno una energia sufficiente per dare una traccia visibile con la camera di Wilson (qualche mm. nell'idrogeno). Tali tracce appaiono come sottili protuberanze lungo la traccia principale della particella α che le ha prodotte, e prendono il nome di raggi δ.
Raggi δ, cioè elettroni secondarî, vengono anche emessi da superficie metalliche bombardate con i raggi α. L'emissione dipende fortemente dallo stato della superficie.
Quando la ionizzazione di un atomo avviene in un anello elettronico interno (v. atomo: Teoria elettrica dell'atomo), l'atomo ricade nello stato fondamentale emettendo la radiazione X caratteristica dell'elemento. L'emissione di radiazione X caratteristica è stata osservata in varî elementi, bombardati con i raggi α.
Abbiamo detto che il percorso di una particella nella materia è rettilineo. Dobbiamo ora rettificare quest'affermazione in due sensi. Anzitutto nessuna traccia di particella α è rigorosamente rettilinea, ma contiene una serie di piccole deflessioni, il cui risultato è una deflessione globale che si aggira intorno a un grado per uno spessore di materia equivalente a un centimetro d'aria (diffusione multipla).
Inoltre una percentuale assai piccola delle particelle α subisce deflessioni rilevanti (anche > 90°), che, come dimostrano semplici considerazioni di probabilità, e ancor più nettamente le fotografie con la camera di Wilson (fig. 6), non sono dovute alla sovrapposizione di numerose piccole deflessioni, bensì a un unico urto particolarmente violento (diffusione semplice).
Solo urti contro masse paragonabili a quella della particella α urtante (dunque non elettroni) possono produrre tali rilevanti deflessioni. Si richiedono inoltre forze d'interazione particolarmente intense. La necessità di tali forti interazioni ha condotto al modello nucleare dell'atomo (Rutherford, 1911), ora per varie ragioni universalmente adottato (v. atomo: Teoria elettrica dell'atomo).
Secondo l'interpretazione proposta dal Rutherford, le grandi deviazioni sono dovute a urti quasi centrali tra la particella α e un nucleo. Supponendo che l'interazione fra le due particelle sia quella coulombiana tra le loro cariche, si trova (applicando sia la meccanica ondulatoria, sia quella classica) che la probabilità che una particella α venga deflessa di un angolo ϑ è proporzionale al quadrato della carica nucleare Ze (Z numero atomico dell'elemento diffusore), inversamente proporzionale alla quarta potenza della velocità della particella α, e (per elementi pesanti) inversamente proporzionale alla quarta potenza di
Tali conseguenze della teoria sono state verificate dettagliatamente (Geiger e Marsden, Chadwick).
La formula teorica per gli elementi leggieri, lievemente più complicata, non è sempre verificata. Ciò è doviuto a deviazioni dalla legge di Coulomb per distanze tra particella α e nucleo inferiori a 10-12 cm.
Una posizione particolare occupano gli urti contro nuclei di elio. La teoria porta a formule diverse, secondo che la particella α è considerata come assolutamente identica al nucleo d'elio, o come avente soltanto ugual carica e massa. L'esperienza ha deciso per la prima alternativa (Blackett e Champion).
Nell'attraversare la materia una particella α può talvolta catturare un elettrone (più raramente anche due) e può poi riperderlo. In generale ciò che avviene è questo: nella prima parte del percorso la particella α cattura ogni tanto un elettrone, ma lo riperde immediatamente. Essa si trova quindi per la maggior parte del tempo priva di elettroni. Quando la velocità della particella diminuisce, la probabilità di cattura aumenta enormemente. I due processi di cattura e perdita si alternano alcune migliaia di volte prima che la fine del percorso sia raggiunta.
Quando un atomo radioattivo emette una particella α, riceve esso stesso un impulso in direzione contraria a quella dell'emissione (rinculo delle armi da fuoco). Può così produrre una traccia visibile nella camera di Wilson, oppure abbandonare la superficie su cui è deposto il preparato, e venire eventualmente raccolto, mediante un campo elettrico, su una superficie metallica vicina (preparazione del RaB, ThCn, AcC″ puri). I preparati di polonio emettono per rinculo aggregati di più atomi, contenenti polonio, che "infettano" di radioattività gli oggetti vicini.
L'emissione delle particelle α obbedisce alle leggi del caso (Schweidler). Le particelle non vengono emesse a intervalli regolari. Il numero di particelle emesse in un intervallo di tempo t, subisce fluttuazioni statistiche intorno al suo valore medio N. Se N > 1, le fluttuazioni sono dell'ordine di √N.
5. Proprietà dei raggi β. Natura dei raggi β. - I raggi β, analizzati con metodi analoghi a quelli usati per i raggi α, si rivelano di natura identica a quella dei raggi catodici. Essi sono cioè costituiti da elettroni, aventi una massa m0 = 0,90 × 10-27 grammi, e una carica negativa di 4,77 × 10-10 u. e. s.
A differenza dai raggi catodici ordinarî, si tratta però spesso di elettroni dotati di velocità elevatissime, corrispondenti a raggi catodici accelerati mediante differenze di potenziale di alcune centinaia di migliaia fino ad alcuni milioni di volt. Si osservano però anche raggi β di qualche migliaio di volt. Tali velocità, vicine a quelle della luce, hanno permesso la verifica sperimentale della formula relativistica dell'energia cinetica:
I raggi β emessi da un elemento non sono omogenei; le loro velocità sono in generale distribuite su un grande intervallo (v. n. 11).
Tra il comportamento dei raggi β, che verrà ora descritto, e quello dei raggi α si notano differenze caratteristiche. Esse sono dovute in gran parte alle velocità più grandi e alla massa più piccola.
La diffusione ha un'influenza assai più grande sulle proprietà dei raggi β che non su quelle dei raggi α. Il meccanismo delle grandi deflessioni è lo stesso, la probabilità di deflessioni rilevanti è, a parità di energia e di spessore attraversato, dello stesso ordine di grandezza. Quindi, poiché lo spessore necessario a frenare i raggi β è assai più grande che per i raggi α, anche la probabilità di una o più deflessioni rilevanti durante l'intero percorso non è trascurabile. Le traiettorie degli elettroni non sono rettilinee.
A ciò è dovuto l'aspetto assai diverso delle curve d'assorbimento dei raggi β (le curve d'assorbimento naturalmente differiscono molto secondo che si misura il numero degli elettroni, o la ionizzazione da essi prodotta). Spesso le curve d'assorbimento hanno forma esponenziale; ciò non è dovuto a omogeneità della radiazione, bensì è il risultato casuale di diversi fattori (inomogeneità, diffusione, ecc.). La forma delle curve d'assorbimento dipende inoltre sensibilmente dalle condizioni geometriche dell'esperienza. Ora, poiché la diffusione è proporzionale al quadrato della carica nucleare, essa ha maggiore importanza negli elementi pesanti che in quelli leggieri.
Una conseguenza delle deflessioni rilevanti è la forte "riflessione" da parte di superficie. Per es., una superficie di carbonio riflette il 17% dei raggi β del RaE, una di oro (elemento pesante) il 68%.
Secondo la teoria di Dirac, nel fenomeno della diffusione i raggi β dovrebbero venire parzialmente polarizzati. Sperimentalmente, la polarizzazione prevista non si osserva (E. G. Dymond, G. P. Thomson).
La lunghezza della traiettoria di un elettrone è, come per una particella α, una funzione ben definita della sua energia iniziale (a parte le lievi fluttuazioni statistiche). Questa lunghezza non è tuttavia in generale uguale alla distanza della fine della traiettoria dalla sorgente, poiché la traiettoria di solito non è rettilinea. Perciò le curve d'assorbimento dei raggi β, anche quando questi sono omogenei, non rivelano così nettamente l'esistenza di un percorso, come le curve d'assorbimento dei raggi α.
Tuttavia lo spessore assorbente, per cui l'azione dei raggi cessa completamente di farsi sentire, corrisponde all'incirca alla distanza a cui arrivano quegli elettroni la cui traiettoria è (per caso) rettilinea, e può venir preso come misura del percorso. Per es., raggi β di velocità pari al 96% della velocità della luce hanno un percorso di circa 2 mm. in alluminio.
I raggi β ionizzano i gas, con un meccanismo che è sostanzialmente lo stesso di quello descritto per i raggi α. Anche qui vale la distinzione tra ionizzazione primaria e secondaria, anche qui la spesa media di energia per coppia di ioni nell'aria si aggira intorno ai 30 volt-elettrone.
Grazie soprattutto alla loro maggiore velocità, ma anche, in parte, alla carica elettrica minore, i raggi β ionizzano assai meno dei raggi α (a ciò si ricollega il maggiore potere penetrante). Il numero di coppie di ioni prodotte per cm. d'aria dipende dalla velocità (215 coppie per
circa 50 coppie per
La teoria prevede un minimo della ionizzazione per una velocità pari al 96% della velocità della luce (non ancora controllato).
I raggi β, come i raggi catodici, producono raggi X, cadendo su una superficie solida. Quest'emissione di radiazione secondaria ha probabilmente una grande importanza nell'assorbimento di elettroni estremamente veloci.
Un atomo che emette un raggio β subisce un rinculo, analogo a quello osservato per i raggi α, ma assai più piccolo.
È conosciuta attualmente, oltre alla radioattività ordinaria, anche una radioattività con emissione di elettroni positivi. I raggi pseudo-β, costituiti da questi elettroni, posseggono proprietà assai simili a quelle dei raggi β. Una loro proprietà a parte è data dai processi di "annichilazione" (v. positrone).
6. Proprietà dei raggi γ. - La radiazione più penetrante emessa dalle sostanze radioattive, o raggi γ, non trasporta carica elettrica e non viene deflessa da campi elettrici o magnetici. Le proprietà dei raggi γ presentano analogie profonde con quelle dei raggi X. I raggi γ si possono infatti considerare (a parte la diversa origine) come raggi X particolarmente "duri" (cioè penetranti). Sono cioè radiazioni elettromagnetiche (come la luce) di lunghezza d'onda estremamente corta (da 10-7 fino a 10-11 cm.). Essi posseggono in particolare proprietà tipiche delle radiazioni di natura ondulatoria (interferenza): come la luce ordinaria cadendo su un reticolo viene diffratta, così i raggi X o γ possono essere diffratti mediante il reticolo naturale costituito dagli atomi di un cristallo. I reticoli ordinarî non sono utilizzabili, poiché la distanza tra due linee vicine del reticolo è troppo grande rispetto alla lunghezza d'onda della radiazione. I raggi γ posseggono anche, come la luce e come i raggi X, ma in modo più spiccato, proprietà corpuscolari. I "quanti" (v. quanti, teoria dei) possono venire contati mediante un tubo di Geiger-Müller (v. n. 2). L'energia dei quanti di una radiazione γ di frequenza v è data al solito dall'espressione hv (h costante di Planck = 6,55 × 10-27 erg/sec.). Le energie dei quanti γ sono dello stesso ordine di grandezza delle energie dei corpuscoli β.
Dall'esistenza della pressione della luce, dalle leggi dell'elettrodinamica, dalla relatività ristretta segue che all'energia hv di un quanto è legata anche una quantità di moto
(c velocità della luce).
La radiazione γ emessa da un radioelemento non è in generale omogenea, ma consta di varie componenti di diverso potere penetrante. Le componenti più assorbibili sono quelle di maggiore lunghezza d'onda. Una radiazione γ monocromatica viene assorbita con legge esponenziale. Le radiazioni γ più dure vengono ridotte a metà da uno spessore di qualche centimetro di piombo. Una distinzione essenziale va fatta tra assorbimento vero e diffusione: un fascio parallelo di raggi γ diminuisce d'intensità nell'attraversare la materia, ma ciò è dovuto solo in parte a processi in cui l'energia dei raggi γ viene convertita totalmente in altra forma di energia (assorbimento vero). In parte l'energia sottratta al fascio primario si ritrova sotto forma di raggi γ diffusi.
Il processo che dà origine all'assorbimento è l'effetto fotoelettrico: un quanto γ scompare, cedendo la sua energia a un elettrone. Nasce così un fotoelettrone, la cui energia cinetica è 1/2 mv2 = hv − ε, dove ε è il lavoro necessario per estrarre l'elettrone dall'atomo, e dipende dall'anello elettronico da cui l'elettrone viene estratto (v. fotoelettricità). L'energia (e quindi la frequenza) dei quanti γ può venire misurata dall'energia dei fotoelettroni che essi producono.
La radiazione γ diffusa è più "molle" (meno penetrante) della primaria. Essa è costituita cioè in parte da quanti γ aventi lunghezza d'onda maggiore di quella dei quanti primarî (v. compton, arthur holly). Quando un quanto γ viene diffuso, contemporaneamente viene proiettato un elettrone, con energia pari alla differenza in energia tra quanto primario e quanto diffuso. Vi sono dunque due specie di elettroni secondarî: fotoelettroni ed elettroni Compton. La diminuzione d'intensità di un fascio di raggi γ è dovuta prevalentemente all'effetto Compton per raggi γ duri, all'effetto fotoelettrico per raggi più molli.
I raggi γ ionizzano i gas grazie agli elettroni secondarî che essi producono. La ionizzazione dovuta ai raggi γ ha notevole importanza pratica per la misura dei preparati radioattivi.
Raggi γ di energia superiore a 1,022 milioni di volt-elettroni vengono assorbiti, oltre che con l'ordinario effetto fotoelettrico, anche mediante la "creazione di coppie". In questo processo un quanto γ scompare, e la sua energia si ritrova come energia di un elettrone positivo e di un elettrone negativo (Chao, Meitner, Gray e Tarrant, Curie e Joliot).
7. L'atomo e il nucleo. - Si deve al Rutherford il modello che ancor oggi è universalmente accettato nel suo aspetto sostanziale (v. atomo). Secondo tale concezione, ogni atomo è costituito da un nucleo centrale carico positivamente, attorno al quale si muove un certo numero di elettroni carichi negativamente: il numero Z di questi ultimi è sempre tale da compensare la carica positiva del nucleo, dando così luogo ad un atomo elettricamente neutro. Se indichiamo con − e la carica del singolo elettrone, si avrà dunque che il nucleo è dotato di una carica positiva pari a + Ze. Il numero Z si chiama numero atomico e definisce completamente il carattere chimico dell'elemento a cui appartiene l'atomo. La massa dell'elettrone è 1840 volte più piccola della massa dell'atomo più leggiero che si conosca, ossia dell'atomo d'idrogeno; ciò significa che la quasi totalità della massa di un atomo di un elemento qualunque è dovuta al suo nucleo e non agli Z elettroni che gravitano attorno ad esso.
Per rappresentare in modo sintetico e suggestivo le proprietà chimiche di tutti gli elementi, si suole disporli in una tabella, detta sistema periodico o tabella di Mendeleev, in modo che elementi con proprietà chimiche simili vengono a trovarsi incolonnati (vedi periodico, sistema); il numero d'ordine dei varî elementi in tale tabella coincide col numero Z sopra definito ossia è uguale al numero atomico; si può dunque dire che le proprietà chimiche di un elemento sono completamente determinate dal numero di elettroni che si muovono nel suo atomo, o, ciò che è lo stesso, dalla carica del nucleo, misurata assumendo come unità la carica dell'elettrone.
Senza entrare ora in particolari riguardanti il sistema periodico degli elementi e le teorie quantistiche che hanno permesso di chiarirne i minori particolari (v. atomo), ci basti ricordare che la periodicità delle proprietà chimiche è dovuta alla particolare disposizione degli elettroni attorno al nucleo.
Da quanto si è detto fino ad ora si conclude che, per esempio, l'idrogeno, che occupa il primo posto nella tabella di Mendeleev, è costituito da un nucleo dotato di una carica + e, attorno al quale si muove un solo elettrone; così nell'atomo di elio vi sono 2 elettroni, in quello di carbonio 6, ed in quello di uranio 92 elettroni che si muovono attorno a nuclei dotati delle corrispondenti cariche positive.
8. La massa dell'atomo e l'isotopia. - A differenza delle proprietà chimiche, altre proprietà, come la massa e le eventuali proprietà radioattive di un atomo, non sono determinate dal numero atomico. Abbiamo visto nel numero precedente che la massa di un atomo è praticamente tutta concentrata nel suo nucleo; per misurare queste importanti grandezze per gli atomi dei varî elementi si assunse convenzionalmente la massa dell'atomo di ossigeno eguale a 16; come vedremo, in tempi più recenti, fu necessario scegliere in modo lievemente diverso questa unità di misura; per ora ci basti notare che con questa convenzione resta definito il peso atomico di ogni elemento; così, per es., l'idrogeno ha peso atomico 1, il neo 20,2; il radio 226; le particelle α, che vengono emesse da alcune sostanze radioattive, sono dotate di massa 4 (e carica positiva + 2 e).
Per molto tempo si credette che gli atomi di un elemento chimico fossero rigorosamente tutti eguali fra di loro; tale concezione si mostrò errata per la prima volta nello studio delle proprietà chimiche degli elementi radioattivi.
Si osservò infatti che alcuni elementi radioattivi sono dotati di proprietà chimiche rigorosamente identiche a quelle di altri elementi non radioattivi; così il RaD, che, come vedremo in seguito, emette particelle β, è chimicamente identico al solito piombo inattivo. Se si mescolano queste due sostanze, è assolutamente impossibile separarle con processi chimici; in seguito a questa osservazione D. Stromholm e T. Svedberg suggerirono, nel 1909, di assegnare a due elementi di questo tipo lo stesso posto nella tabella di Mendeleev. Quest'idea fu poco dopo meglio chiarita da F. Soddy, il quale nel 1911 riuscì a stabilire la "legge dello spostamento radioattivo", nel caso di emissione di particelle α; questa legge dice che ogni qualvolta un elemento radioattivo di numero atomico Z emette una particella γ, si forma un nuovo elemento radioattivo di numero atomico Z − 2; nel 1913 A. S. Russell stabilì una legge analoga per l'emissione di particelle β, la quale fu espressa in forma più precisa da K. Fajans e F. Soddy. La forma completa della legge dello spostamento radioattivo è la seguente: "l'emissione di una particella α fa diminuire di 2 il numero atomico e di 4 il peso atomico, mentre l'emissione di una particella β lascia invariato il peso atomico e provoca un aumento di 1 nel numero atomico". Segue da questa legge che, per esempio, il RaB e il RaD sono formati da atomi aventi lo stesso numero atomico e pesi atomici che differiscono di 4; infatti, come vedremo in seguito, per passare dal RaB al RaD vengono emesse 2 particelle β e 1 particella α; la conferma del fatto che queste due sostanze sono dotate dello stesso numero atomico sta nella loro inseparabilità con processi chimici; gli atomi del RaB e del RaD hanno dunque le stesse proprietà chimiche, ma massa e proprietà radioattive diverse.
F. Soddy nel 1913 introdusse il nome d'isotopi per indicare sostanze di questo tipo, esprimendo con questo nome il fatto che esse occupano lo stesso posto nella tabella di Mendeleev.
Alla concezione che in natura esistessero atomi con proprietà chimiche identiche (ossia eguale numero atomico) e massa diversa si era giunti quasi contemporaneamente anche per altra via; abbiamo visto, per esempio, che il peso atomico del neo è 20,2; orbene, già nel 1912 J. J. Thomson aveva trovato forti indizî per ritenere che gli atomi di neo esistenti in natura non siano tutti rigorosamente identici fra di loro, ma che siano piuttosto di due tipi: atomi di neo (Z = 10) di peso 20 ed atomi di neo (Z = 10) di peso 22, i quali si trovano in natura mescolati nel rapporto 10 ad 1, in modo che la loro miscela ha peso 20,2. Questo fatto fu dimostrato in modo completo nel 1919 da F. W. Aston.
Il fenomeno dell'isotopia è assolutamente generale, nel senso che la maggior parte degli elementi chimici sono miscugli, in determinate proporzioni, di varî isotopi; è stato anzi dimostrato che l'ossigeno stesso è costituito da 3 isotopi; questo fatto ha resa necessaria una revisione dell'unità di misura dei pesi atomici, la quale è stata fissata assumendo come pari a 16 la massa del più leggiero e abbondante degl'isotopi dell'ossigeno; gli altri due isotopi di questo elemento, che sono mescolati in natura all'ossigeno di peso 16 (16O) in assai piccole quantità, hanno peso atomico 17 e 18. Si deve anzi notare a questo punto che la scoperta degl'isotopi ha portato un'importantissima semplificazione nei riguardi della costituzione dei nuclei; è stato infatti possibile stabilire che, con buona approssimazione, le masse di tutti gl'isotopi sono espresse da numeri interi; questa circostanza suggerisce spontanea l'idea che tutti i nuclei siano aggregati più o meno complessi di poche particelle elementari (v. nucleo).
9. Il nucleo e la disintegrazione radioattiva. - Vogliamo ora occuparci più da vicino del fenomeno della disintegrazione radioattiva e fare alcune considerazioni, che ci permettono di concludere che le particelle α e β, che noi osserviamo, sono emesse dal nucleo degli atomi delle sostanze radioattive. Uno dei caratteri fondamentali di questo fenomeno è che, con gli ordinarî processi chimici e fisici, non è in alcun modo possibile influenzare la disintegrazione radioattiva. Qualora si tenga conto del fatto, a cui abbiamo già accennato, che nei processi chimici vengono interessati gli elettroni che nell'atomo si muovono attorno al nucleo, pare naturale pensare che il fenomeno della disintegrazione abbia luogo in una sede diversa; alla stessa conclusione si giunge anche dallo studio della maggior parte dei fenomeni fisici, come, per esempio, l'emissione dello spettro visibile e dei raggi X (v. atomo). Possiamo quindi dire che il fenomeno della disintegrazione radioattiva ha la sua origine nel nucleo. Allo stesso risultato si giunge dalla considerazione delle sostanze radioattive che emettono particelle α; queste sono dotate di massa 4 e carica positiva + 2 e; poiché nell'atomo l'unica sede della massa (gli elettroni hanno massa trascurabile) e delle cariche positive è il nucleo, è naturale concludere che tali particelle vengono emesse dal nucleo stesso. Un accurato esame della legge dello spostamento radioattivo ci costringe a concludere che anche le particelle β, almeno in parte, vengono emesse dal nucleo e non dalla circostante nuvola elettronica. I raggi γ infine hanno del pari origine nel nucleo e vanno considerati come un fenomeno secondario, che accompagna l'emissione di particelle α e β.
L'interpretazione del fenomeno della radioattività è basato sul fatto che i nuclei degli atomi di alcune sostanze sono sistemi instabili, i quali, dopo aver vissuto per un tempo più o meno lungo, si disintegrano emettendo una particella α o β a seconda dei casi; in seguito a questo processo si forma il nucleo di un nuovo elemento, secondo la legge dello spostamento radioattivo; se la particella emessa è α, il nuovo elemento formatosi precede l'elemento di partenza di 2 posti nel sistema periodico, se la particella è β, occupa invece il posto successivo. Il nuovo nucleo formatosi non è però in generale stabile, per modo che dopo un tempo più o meno lungo si disintegra a sua volta. Si ha così una catena o, come si dice più comunemente, una famiglia di sostanze radioattive, ognuna delle quali si forma dalla precedente in seguito ad un processo di disintegrazione del nucleo. La famiglia radioattiva s'interrompe non appena si giunge alla formazione di un nucleo stabile, che può sussistere inalterato attraverso i secoli. Nel prossimo numero vedremo che in natura esistono tre famiglie radioattive e precisamente le famiglie dell'uranio, del torio e dell'attinio.
Prima di occuparci dei caratteri particolari di queste tre famiglie vogliamo fare alcune considerazioni generali sul fenomeno della disintegrazione e chiarire ciò che s'intende per equilibrio radioattivo.
A tale scopo immaginiamo di avere N atomi di una sostanza radioattiva; com'è già stato detto, noi osserveremo che le particelle (α o β, a seconda dei casi) vengono emesse dalla sostanza in esame in modo casuale; ciò significa semplicemente che i nuclei stessi degli N atomi si disintegrano a caso, o, ciò che è lo stesso, senza influenzarsi in alcun modo gli uni con gli altri. Questo fatto è un aspetto caratteristico della disintegrazione radioattiva, che ci sarà di guida anche in altre considerazioni: i nuclei si disintegrano ognuno indipendentemente dall'altro.
Immaginiamo ora di contare, a partire da un certo istante, quanti dei nostri N nuclei si disintegrano, per esempio, nei minuti successivi e di calcolare quanto tempo in media vivono i singoli atomi: il problema è analogo come impostazione a ciò che si fa nelle scienze sociali, quando si determina la vita media degli uomini di una certa classe sociale, o che esercitano un certo mestiere. Si giunge in tal modo alla definizione della vita media di una sostanza radioattiva, che indicheremo con τ. Un aspetto fondamentale della disintegrazione radioattiva è che la vita media così definita è indipendente dalla storia precedente dell'atomo. In base a questa osservazione ci si può convincere facilmente che un determinato nucleo di una sostanza radioattiva di vita media τ ha la probabilità
di disintegrarsi nell'intervallo di tempo dt; per modo che, se N sono gli atomi di quella sostanza, il numero medio di essi che si disintegrano nel tempo dt è
da questa semplice formula si può calcolare il numero medio di atomi N che noi avremo all'istante t, se al tempo zero ne avevamo N0; il risultato di un semplice calcolo dà
Si trova così che dopo un tempo eguale alla vita media il numero degli atomi rimasti è pari a 1/e del numero iniziale; tutti gli altri, che sono evidentemente
si sono disintegrati, dando luogo ad altrettanti atomi di una nuova specie.
Nella pratica, invece della vita media si usa più spesso il tempo di dimezzamento, che è proporzionale alla vita media; il tempo di dimezzamento T è definito come il tempo che bisogna attendere affinché il numero degli atomi di una certa sostanza si sia ridotto alla metà del suo valore iniziale; esso è evidentemente più breve della vita media ed è legato a questa dalla relazione
Il tempo di dimezzamento delle sostanze radioattive varia entro limiti assai vasti: da frazioni di secondo fino a decine di migliaia di milioni di anni. Nella fig. 7 la curva che decresce da sinistra verso destra è una rappresentazione grafica dell'espressione (1); come si vede, dopo un tempo T il numero di atomi è ridotto a metà, dopo un tempo 2 T è ridotto a 1/4, ecc. La curva crescente da sinistra verso destra è la rappresentazione grafica della formula (2).
Prendiamo ora in esame alcuni esempî che ci permetteranno di chiarire ciò che s'intende per equilibrio radioattivo (secolare e transitorio). Una delle sostanze radioattive più note è il radio, il quale ha un tempo di dimezzamento pari a circa 1600 anni (v. radio); i nuclei del radio nel disintegrarsi emettono una particella α e si trasformano nei nuclei degli atomi dell'emanazione; quest'altra sostanza radioattiva ha un tempo di dimezzamento di 3,8 giorni; come vedremo, dalla disintegrazione dell'emanazione si forma il RaA, al quale segue il RaB, ecc.; tutte queste sostanze hanno vite medie assai brevi, di alcuni minuti.
Immaginiamo ora di rinchiudere in un recipiente del radio insieme con l'emanazione, che si forma da esso, e di aspettare un tempo lungo rispetto al tempo di dimezzamento dell'emanazione, p. es. un mese; data la lunghezza della vita media del radio, la quantità di questo elemento si può riguardare come costante in tutte le nostre considerazioni; dopo un mese si sarà raggiunto ciò che si chiama l'equilibrio radioattivo ossia la quantità di emanazione è andata crescendo fino a che in ogni secondo il numero di atomi di emanazione che si formano è uguale al numero di atomi che si disintegrano. Se indichiamo con N1 e N2 rispettivamente i numeri di atomi di radio e di emanazione che avremo in queste condizioni e con τ1 e τ2 le corrispondenti vite medie, si avrà che
essendo rispettivamente
i numeri di atomi delle due sostanze che si disintegrano in ogni secondo.
Dalla (4) si ha il numero di atomi di emanazione in equilibrio con N1 atomi di Ra:
Dall'istante in cui l'emanazione ha raggiunto l'equilibrio col radio, il numero dei suoi atomi rimane costante ed è dato dalla espressione (5). Immaginiamo ora di allontanare con un processo qualsiasi l'emanazione dal radio; essa decadrà a partire da questo istante secondo la legge (1) in modo che, t secondi dopo, il numero dei suoi atomi si sarà ridotto a
Si sono dunque disintegrati
atomi; d'altra parte l'aver allontanato l'emanazione dal radio non può avere in alcun modo alterato la legge di disintegrazione di questo elemento; siamo dunque costretti a concludere che t secondi dopo che l'emanazione è stata allontanata dalla sostanza madre, da questa si sono formati
nuovi atomi di emanazione; questa espressione è del tipo della (2), per modo che potremo interpretare le due curve della fig. 7 come curva di decadimento dell'emanazione separata dal radio, e curva di formazione dell'emanazione dal radio.
Allo scopo di orientarci sulle quantità di materia che intervengono nella radioattività, calcoliamo quanti atomi di emanazione corrispondono all'equilibrio con 1 grammo di radio. Un atomo di radio pesa 226 volte più dell'atomo d'idrogeno, ossia pesa 226 × peso dell'atomo d'idrogeno = 226 × 1,66.10-24 gr. = 375 × 1024 gr. In i gr. di radio sono contenuti
Dalla (5) abbiamo che il numero di atomi di emanazione in equilibrio con 1 grammo di radio è
e poiché il peso atomico dell'emanazione è 222, la quantità in peso di questo elemento che si mette in equilibrio con 1 gr. di radio è
ossia soltanto sei milionesimi di grammo.
Questa piccolissima quantità di materia è assai facilmente rivelabile grazie alla proprietà di emettere particelle cariche; infatti essa emette tante particelle al secondo quante ne emette 1 gr. di radio; dal punto di vista dell'attività "equivale" dunque ad 1 gr. di radio (vedi n. 3).
L'equilibrio radioattivo che abbiamo esaminato finora corrisponde al caso in cui la sostanza madre ha una vita media così lunga rispetto alle sostanze figlie da poterla riguardare come in quantità costante durante il tempo che noi consideriamo. Questo tipo di equilibrio viene chiamato secolare per distinguerlo da un altro tipo di equilibrio, transitorio, che cercheremo ora di tratteggiare. Assai spesso succede che la vita media della sostanza madre è più lunga di quella delle sostanze figlie ma non di un altro ordine di grandezza, per modo che si deve tener conto anche del decadimento della sostanza madre. Come esempio immaginiamo di avere entro un recipiente chiuso dell'emanazione insieme a quello che si chiama il deposito attivo ossia il RaA + RaB + RaC; fra l'emanazione e questi tre elementi si stabilisce, dopo qualche ora, un equilibrio diverso dall'equilibrio secolare, per il fatto che l'emanazione decade sensibilmente nel tempo che noi consideriamo; infatti il tempo di dimezzamento dell'emanazione (3,8 giormi) è lungo rispetto a quelli del RaA (3,05m), del RaB (26,8m) e del RaC (19,5m) ma non di un altro ordine di grandezza, come accadeva nell'esempio precedente dell'equilibrio secolare. Facendo i calcoli si trova che le quantità di RaA, RaB e RaC che si mettono in equilibrio transitorio con l'emanazione sono rispettivamente del 12‰, 5‰ e 1% maggiori di quello che corrisponde all'equilibrio secolare.
10. Le famiglie radioattive. - Come abbiamo già accennato, si conoscono tre famiglie radioattive, le quali sono rappresentate nella figura 8; le frecce oblique da destra verso sinistra rappresentano l'emissione di una particella α, ossia, secondo la legge dello spostamento radioattivo, un processo in cui il numero atomico diminuisce di 2, ed il peso atomico di 4; le frecce orizzontali rappresentano l'emissione di una particella β, ossia un processo in cui il peso atomico resta costante ed il numero atomico cresce di 1. Al disotto di ogni elemento è indicato il tempo di dimezzamento; il sistema periodico degli elementi posto al di sopra permette di riconoscere facilmente quali sono gli elementi inattivi omologhi.
Il peso atomico e il numero atomico sono stati determinati con misure dirette solo per gli elementi radioattivi: uranio, piombo-uranio (prodotto stabile finale della famiglia dell'uranio), torio, piombo-torio (analogo al piombo-uranio nella famiglia del torio). Per tutti gli altri elementi radioattivi questi due numeri sono stati dedotti in base alla legge dello spostamento.
Si noti che i prodotti B e G delle tre famiglie sono isotopi del piombo, i prodotti C ed E del bismuto, ed i prodotti C″ del tallio. Inoltre le tre famiglie radioattive presentano analogie notevolissime; per es., in tutte e tre le famiglie vi sono gli elementi C che hanno due modi possibili diversi di disintegrarsi: emettendo una particella β si passa ai prodotti C′, mentre emettendo una particella α si passa ai prodotti C″; i due rami in cui si divide ogni famiglia a questo punto si riuniscono subito dopo, perché sia i prodotti C′, che emettono particelle α, sia i prodotti C″, che emettono particelle β, dànno luogo allo stesso prodotto D; nella famiglia del torio e dell'attinio questa sostanza è stabile, mentre invece nella famiglia del radio essa si disintegra emettendo particelle β. Nelle tre famiglie è diversa però la percentuale di atomi del prodotto C che si trasformano rispettivamente nei prodotti C′ e C″; così nella famiglia dell'uranio il 99,96% degli atomi di RaC emettono raggi β dando luogo al RaC′; il RaC″ si forma da solo il 0,04% degli atomi di RaC; nella famiglia dell'attinio, il 99,7% degli atomi di AcC emettono particelle α e si trasformano in AcC″; nella famiglia del torio infine nessuna delle due branche è fortemente privilegiata, poiché il 65% degli atomi di ThC si trasforma in ThC′ ed il 35% in ThC″.
Nella famiglia dell'uranio si deve notare ancora un'altra biforcazione, di natura diversa da quelle fin qui considerate; l'UX1 dà luogo a due diversi prodotti, l'UX2 e l'UZ; nella formazione sia dell'uno sia dell'altro di questi due tipi di atomi viene emessa una particella β, per modo che essi hanno lo stesso peso atomico e lo stesso numero atomico: essi vengono perciò detti isotopi isobari. L'UZ, che si forma da solo il 0,35% degli atomi di UX1, si distiugue dall'UX2 solo per le diverse proprietà radioattive: infatti l'UZ ha un tempo di dimezzamento di 6 ore, mentre l'UX2 ha un tempo di dimezzamento di 68 secondi.
Oltre alle famiglie radioattive che abbiamo qui descritte sono stati scoperti in natura alcuni elementi debolissimamente radioattivi, isolati. Essi sono il potassio, il rubidio e il neodimio, che emettono particelle β, ed il samario, che emette particelle α.
11. Spettri α, β e γ delle sostanze radioattive. - Sappiamo che dal nucleo di un atomo radioattivo può essere espulsa una particella α, oppure una particella β; in ambedue i casi il processo può essere accompagnato da radiazione elettromagnetica (raggi γ ). È importante studiare lo spettro di queste radiazioni (intendendosi con questo, nel caso di raggi corpuscolari, lo spettro di velocità o di energia), perché da tale indagine possiamo ricavare informazioni sulla struttura del nucleo.
Per quanto riguarda lo spettro dei raggi α, il fatto più cospicuo è che le particelle emesse da un dato corpo radioattivo sono in alto grado omogenee, cioè posseggono tutte la stessa velocità; ciò può dedursi misurandone il percorso oppure dalla deflessione nel campo magnetico. Questa velocità è invece diversa da sostanza a sostanza. La seguente tabella dà il percorso in centimetri d'aria di densità normale e la velocità per le particelle α dei principali corpi radioattivi.
Una legge che si può dedurre dall'ispezione di questa tabella e dal confronto con i periodi delle stesse sostanze radioattive è che, in una stessa famiglia, il percorso delle particelle α è in relazione con la vita media, e precisamente che più lunga è la vita, più breve è il percorso. Tale relazione, detta di Geiger e Nuttall, si può rappresentare in un diagramma (fig. 9), nel quale in ascissa abbiamo riportato il logaritmo del percorso, in ordinata log λ, dove λ è il reciproco della vita media τ. Si vede che i punti appartenenti a una singola famiglia stanno press'a poco sopra una retta.
Questa dipendenza della vita media dall'energia della particella emessa si può comprendere in base alle vedute attuali sulla struttura del nucleo e alle leggi della meccanica quantistica. Secondo G. Gamow il nucleo (v. nucleo) è supposto contenere la particella α entro a una "buca di potenziale" circondata da una barriera di potenziale, che impedisce normalmente l'uscita alle particelle. Secondo i concetti classici, una particella o, avendo energia maggiore dell'altezza massima della barriera di potenziale, abbandonerebbe istantaneamente il nucleo; oppure, possedendo un'energia inferiore, non ne uscirebbe mai. Quindi non si riuscirebbe a comprendere l'esistenza di una vita media finita. Al contrario, secondo la meccanica quantistica, una particella, data la sua duplice natura corpuscolare e ondulatoria, può, per così dire, filtrare attraverso a una barriera di potenziale, anche se non possiede energia sufficiente a superarne la sommità.
Così si spiega la possibilità della disintegrazione radioattiva, e di più si giustifica, almeno qualitativamente, la relazione di Geiger e Nuttall. Infatti una particella di maggiore energia avrà una barriera di potenziale più bassa e meno spessa da attraversare per uscire dal nucleo, e la meccanica quantistica dà in questo caso una maggiore probabilità di attraversamento, ciò che corrisponde a una vita media più breve.
La predetta omogeneità delle particelle α emesse da un dato corpo radioattivo soffre alcune eccezioni, che recentemente hanno acquistato molta importanza teorica. In certi casi una sostanza emette due o più gruppi omogenei, con piccola differenza di energia tra l'uno e l'altro (struttura fina); caso tipico il ThC. In qualche caso più raro (ThC′, RaC′) si ha invece, oltre alle particelle α di energia normale, una piccolissima frazione delle particelle emesse con energia notevolmente maggiore (particelle di lungo percorso). Questi fenomeni hanno ricevuto una spiegazione molto semplice, basata sul concetto che il nucleo, al pari dell'atomo, possa esistere in diversi stati quantici, ciascuno di energia ben determinata. Se facciamo l'ipotesi che il nucleo che si forma dalla disintegrazione non sia lasciato sempre nello stato più stabile o stato fondamentale, ma possa rimanere in stati eccitati, è chiaro che il principio della conservazione dell'energia richiede che l'energia di eccitazione sia tanta energia di meno a disposizione della particella uscente. In questa ipotesi le differenze di energia Wi − Wk tra i varî gruppi omogenei (struttura fina) delle particelle α di un nucleo (per es., il ThC) dànno le energie di eccitazione del nucleo residuo (per es., il ThC″). Se così stanno le cose, queste differenze di energia devono ancora apparire come raggi γ, allorché il nucleo, lasciato eccitato dalla disintegrazione α, cade nello stato fondamentale. In questo processo deve valere la solita condizione di Bohr che Wi − Wk = hv. Tutto ciò è confermato dall'esperienza; per es., dallo studio dello spettro α del ThC si trovano cinque livelli energetici nucleari per il ThC″ e le frequenze dei raggi γ osservate sono esprimibili come differenze (combinazioni) tra i livelli. Questo stato di cose è illustrato nello schema della fig. 10, che è costruito nel modo consueto per i livelli atomici e i relativi spettri ottici.
L'altro caso delle particelle α di lungo percorso sta analogamente in relazione con livelli eccitati del nucleo di partenza, anziché con quelli del nucleo di arrivo.
Da tutto quanto abbiamo esposto emerge l'intimo legame tra spettri α e spettri γ.
Si osserva infatti in generale che i corpi a disintegrazione α che irradiano raggi γ sono quelli per cui si presenta struttura fina delle particelle α. Notiamo però che molti corpi che emettono raggi γ (anzi tutti quelli che hanno raggi γ più intensi, quali: RaB, RaC, ThB, ThC, MsTh2, ecc.) sono prodotti che subiscono disintegrazione β. Siamo così condotti a studiare quest'altro tipo di disintegrazione.
Qui ci troviamo in presenza di un fatto nuovo, perché nelle disintegrazioni β gli elettroni emessi hanno, senza eccezione, uno spettro continuo. Si è molto discusso per quale meccanismo nuclei in apparenza identici sia prima sia dopo la disintegrazione β possano espellere elettroni di velocità variabile con continuità, e come ciò sia conciliabile col principio della conservazione dell'energia. Oggi prevale l'ipotesi di Pauli-Fermi del neutrino, il quale sarebbe una particella fin qui rimasta inosservabile, espulsa insieme con l'elettrone all'atto della disintegrazione β. L'energia totale liberata nel processo della disintegrazione β sarebbe eguale per tutti i nuclei di una determinata sostanza, ma essa andrebbe ripartita in modo variabile tra il neutrino e l'elettrone.
Lo spettro continuo β per ciascun corpo ha la forma seguente: s'inizia in modo non ben conosciuto verso le basse velocità, raggiunge un massimo d'intensità per un'energia determinata, e infine cade a zero per un'energia massima caratteristica di ciascuna sostanza. Questa energia massima sarebbe da identificarsi, nell'ipotesi del neutrino, con l'energia totale liberata nel processo. Il valore dell'energia massima varia entro limiti molto vasti nelle varie sostanze ad attività β.
E. Fermi è riuscito a sviluppare una teoria, nella quale il processo della disintegrazione β è trattato nell'ipotesi del neutrino, sulle basi della meccanica quantistica. Secondo questa teoria, le cosiddette particelle leggiere (elettrone e neutrino) non esistono nel nucleo, ma vengono create simultaneamente ed emesse nell'istante in cui un neutrone, contenuto nel nucleo, si trasforma in un protone. Se noi diciamo che il protone e il neutrone non sono due particelle di natura completamente distinta, bensì due stati quantici di una medesima particella, il processo della disintegrazione β viene ad acquistare una spiccata analogia col processo, che ci è famigliare, dell'emissione di un quanto di luce da parte di una particella elettrizzata che salta da uno stato quantico ad un altro stato più basso. Nel nostro caso, alla particella elettrizzata corrisponde la particella pesante che salta dallo stato di neutrone allo stato di protone, al quanto di luce corrisponde la coppia elettrone-neutrino.
Con questa teoria il Fermi è riuscito a spiegare la forma dello spettro continuo dei raggi β. Notiamo che la frequente emissione di raggi γ nelle disintegrazioni β s'interpreta, in analogia con quanto avviene nelle disintegrazioni α, ammettendo che la coppia elettro-neneutrino possa venire emessa con energia minore di quella totale a disposizione, lasciando il nucleo residuo in stati eccitati; da questi poi si passa allo stato fondamentale con emissione di uno o più quanti γ. Vi sono anche dei casi (disintegrazione ThC″ → ThD) in cui tutti i nuclei sono lasciati in stati eccitati. A disintegrazioni di quest'ultimo tipo è associata un'intensissima radiazione γ. È quasi superfluo poi ricordare che in qualsiasi caso i raggi γ, corrispondendo a transizioni tra stati quantizzati del nucleo, hanno frequenze ben definite.
Ci resta ancora da considerare un importante fenomeno connesso con l'emissione dei raggi γ, cioè la conversione interna. Un quanto γ può dar luogo ad effetto fotoelettrico negli anelli elettronici dell'atomo stesso, dal cui nucleo è stato emesso. In tal caso il quanto γ non abbandona come tale l'atomo che gli ha dato origine, ma si manifesta come un elettrone (fotoelettrone), al quale esso ha ceduto tutta la propria energia. L'energia cinetica dell'elettrone sarà allora uguale all'energia del quanto γ, hv, meno l'energia di legame w, necessaria per estrarre l'elettrone dall'orbita in cui esso si trovava vincolato. A seconda che l'elettrone si trovava nell'anello K, L, ecc., dell'atomo, si avrà un'energia di legame caratteristica wk, wL, ecc. Un raggio γ di determinata frequenza v dà così origine a gruppi omogenei di elettroni, di energie hv − wk, hv − wL, ecc.; i quali si dicono costituire gli elettroni secondarî o di conversione, per distinguerli dagli elettroni primarî o di disintegrazione, i quali sono emessi dal nucleo delle sostanze ad attività β ed hanno, come abbiamo visto, uno spettro continuo. Gli elettroni di conversione hanno invece uno spettro a righe, e sono sempre associati ai raggi γ sia delle sostanze ad attività β sia di quelle ad attività α. Dalle energie degli elettroni di conversione è facile risalire alle frequenze dei raggi γ, e anzi questo è in pratica il metodo quasi sempre usato per l'analisi degli spettri γ. Dei quanti γ di una certa frequenza, una determinata frazione esce come tale dall'atomo, un'altra frazione è convertita in qualche anello elettronico dell'atomo stesso; il rapporto tra la probabilità del secondo processo e la probabilità del primo si suol chiamare il coefficiente di conversione. Esso in generale decresce col crescere della frequenza del raggio γ, ed è più grande per l'anello K che per gli anelli più esterni. Per qualche riga γ eccezionalmente si ha conversione totale.
12. Chimica delle sostanze radioattive. - Lo studio di tutte le proprietà chimiche e chimico-fisiche dei radioelementi (solubilità, volatilità dei composti, punto di fusione, velocità di migrazione degli ioni, velocità di diffusione, potenziale elettrochimico, ecc.) presenta caratteri particolari e spesso non può essere eseguito con gli stessi metodi applicati per gli elementi ordinarî.
Questo non dipende dal fatto che il fenomeno radioattivo imprima un carattere specifico alle proprietà chimiche di un radioelemento, perché, come abbiamo visto, radioattività e proprietà chimiche sono fenomeni distinti ed aventi origini e cause diverse. Può accadere che la radiazione emessa da un dato radioelemento produca effetti particolari sopra i suoi composti (per es., alterazione col tempo dei depositi di Po, dei composti di Ra), ma questi effetti non hanno nessun carattere chimicamente specifico né per la radiazione né per il radioelemento.
La difficoltà sostanziale dello studio chimico dei radioelementi risiede invece nel fatto che essi si trovano spesso (in natura o nei prodotti lavorati) in uno stato di estrema diluizione. Quantità di materia dell'ordine di 10-10 gr. fino a 10-17 gr. per cmc. sono, per molti radioelementi, concentrazioni abituali; a queste concentrazioni i radioelementi stessi si possono ottenere e studiare.
Ci si può domandare se le proprietà chimiche della materia così fortemente dispersa rimangano immutate: l'esperienza ha mostrato che ciò accade realmente ed in una misura assai più elevata di quanto ci si sarebbe potuto immaginare. Salvo che in certi casi, la piccola concentrazione del radioelemento rende poco probabili alcuni processi, come per es., la formazione di molecole contenenti più di un atomo dell'elemento stesso.
Nello studio pratico dei radioelementi si deve anche tener conto di un altro fattore; occorre cioè che la vita media del radioelemento sia abbastanza lunga da permettere l'esecuzione delle prove di riconoscimento; in qualche caso questo non è possibile, ed allora le proprietà chimiche sono attribuite al radioelemento solo in base a dati indiretti o alla legge dello spostamento radioattivo.
Il primo problema che si è presentato nello studio dei radioelementi è stato quello della loro separazione dall'enorme massa degli altri elementi che li accompagnano in natura. Questo problema è stato risolto basandosi sopra criterî di omologia delle proprietà morfologiche e chimiche, criterî che sono poi serviti di base per lo studio metodico dei radioelementi.
Uno dei primi metodi impiegati per questo scopo è stato quello di stabilire la capacità dei radioelementi di fornire composti caratteristici poco solubili. Nella maggioranza dei casi la debole concentrazione del radioelemento impedisce l'osservazione diretta della formazione di questi sali insolubili; il procedimento seguito è allora quello di precipitare un elemento chimico noto da una soluzione contenente un radioelemento. La precipitazione simultanea di quest'ultimo può essere osservata mediante la misura radioattività del precipitato. Da questo si può desumere l'esistenza o meno dì un'analogia chimica tra i due elementi. Ripetendo l'operazione con varî reagenti e con varî elementi si ottiene un complesso di dati sufficienti a fissare il carattere chimico del radioelemento.
L'applicazione sistematica di questo procedimento è stata grandemente ostacolata da fenomeni di assorbimento.
Si è riusciti non di meno a formulare due conclusioni riassuntive che pur non avendo un carattere rigoroso, riflettono abbastanza bene l'insieme delle conoscenze chimiche raccolte sui radioelementi.
La prima di esse (Fajans e Richter) afferma che un radioelemento è precipitato insieme con un elemento ordinario, se la precipitazione avviene in condizioni nelle quali il radioelemento precipiterebbe, se fosse presente in quantità ponderabili. Così, per es., il torio B (isotopo del piombo) viene quasi quantitativamente precipitato insieme al solfuro di bismuto, al carbonato di manganese, al solfato di bario, mentre è solo parzialmente precipitato, per es., dagli alogenuri di argento.
La seconda conclusione (Paneth e Horowitz) stabilisce che un radioelemento è precipitato insieme con un sale per trascinamento o assorbimento, se forma col radicale acido del sale un composto poco solubile nel solvente considerato: il radicale acido deve essere presente nel composto assorbente e non nella soluzione. Così, per es., è noto che il solfato di piombo è poco solubile in acqua: se perciò agitiamo una soluzione contenente torio B (isotopo del piombo) col solfato di bario, questo trascina quasi completamente il torio B della soluzione. Se al contrario agitiamo una soluzione di solfato di ammonio contenente torio B con un nitrato insolubile, per es., il nitrato di nitro, questo non trascina il torio B, perché il nitrato di piombo è facilmente solubile e il radicale solforico si trova nella soluzione e non nel precipitato.
Anche il trascinamento per sincristallizzazione (formazione di cristalli misti) ha fornito indicazioni eccellenti per il riconoscimento dei caratteri chimici dei radioelementi. Si segue in questo un criterio analogo a quello usato per gli elementi ordinarî.
Infine lo studio della diffusione o della mobilità degli ioni e le proprietà elettrochimiche hanno fornito un numero assai considerevole di dati sopra le sostanze radioattive.
Caratteristica fondamentale, comune a tutti i procedimenti indicati, è il controllo radioattivo delle varie operazioni. I prodotti di partenza, i prodotti intermedî, precipitati, sali, gas, soluzioni. ecc., che intervengono nei varî metodi, vengono tutti sottoposti all'esame dell'elettroscopio, o altro strumento adeguato: si ha modo così di seguire l'andamento dei processi studiati con l'esame dell'intensità e della natura della radiazione emessa. I metodi usati per queste misure sono già stati indicati.
La scoperta dell'isotopia ha semplificato grandemente lo studio chimico dei radioelementi e l'ha ridotto allo siudio di solo cinque nuovi elementi. Questi elementi sono (a parte il torio e l'uranio) il polonio, l'emanazione, il radio, l'attinio, il protoattinio. Tutti gli altri radioelementi sono isotopi di qualcuno di essi o di qualcuno degli elementi inattivi.
Per stabilire i rapporti d'isotopia, oltre a tutto il complesso delle prove di precipitazione, di cristallizzazione, di volatilità, ecc., sono servite principalmente la misura della mobilità e della diffusione degli ioni, che ha permesso la determinazione della valenza di molti radioelementi e di stabilire il carattere colloidale di alcuni di essi, e la misura dei potenziali elettrochimici, che ha fornito inoltre anche metodi comodi e precisi per la separazione di molti radioelementi e in particolare dei costituenti il deposito attivo delle tre emanazioni.
13. Radioelementi usati come indicatori per ricerche chimico-fisiche, ecc. - Un largo campo di applicazioni hanno ricevuto i radioelementi per la risoluzione di varî problemi chimico-fisici, tecnici, biologici, ecc., riguardanti specialmente il comportamento di piccole quantità dei loro isotopi inattivi.
Lo schema generico del loro impiego per questi usi è intuitivo: il radioindicatore scelto viene mescolato in quantità opportuna al suo isotopo inattivo: le varie fasi del processo che si fanno subire a questo vengono controllate con la misura dell'attività. L'enorme sensibilità della misura radioattiva è il vantaggio principale di queste applicazioni.
Perché un radioelemento possa utilmente servire come indicatore deve possedere un'attività ben distinta e facilmente misurabile e una vita media sufficientemente lunga per permettere che al termine delle operazioni l'attività possa essere ancora convenientemente misurata.
La scoperta della radioattività artificiale, specie quella ottenuta con i neutroni, ha molto aumentato il numero degl'indicatori radioattivi utilizzabili. Ma noi ci limiteremo qui soltanto ai radioindicatori naturali.
I più importanti tra questi sono i seguenti:
S'indicano qui appresso le principali applicazioni.
Nella chimica analitica l'uso dei radioindicatori è servito principalmente a determinare la solubilità di sali difficilmente solubili (cromato di piombo), la volatilità di composti poco volatili (ossidi e alogenuri di piombo, bismuto, ecc.), a determinare tracce di una certa sostanza occlusa o adsorbita in un precipitato, e a studiare le reazioni analitiche di piccole quantità di sostanze. Le applicazioni biologiche e tecniche sono di un particolare interesse. Così, per es., il dosaggio dell'azoto in minime quantità di sostanze organiche puo essere ottenuto facilmente trasformando l'azoto in ammoniaca e precipitando con questa una soluzione diluitissima di un sale di piombo, che viene poi centrifugata: il titolo in piombo della soluzione viene determinato prima e dopo con torio B e dalla differenza si risale al contenuto di azoto.
Analogamente il processo di assimilazione del bismuto (per es., di farmaci) può essere seguito con torio C o radio E. Così pure col torio B o radio D può essere controllata la ripartizione del piombo nelle radici, foglie e frutti di alcune piante, ed eseguita la determinazione della quantità totale di sangue posseduta da un animale, ecc.
In tecnologia presenta un interesse particolare l'applicazione dell'emanazione del radio alla misura della permeabilità ai gas di tessuti impermeabili (fabbricati, per es., per maschere o divise di protezione contro gas asfissianti). Questi studî sono stati poi anche applicati a ricerche scientifiche sulla diffusione in genere degli atomi e delle molecole in mezzi omogenei liquidi o gassosi, come, per es., l'interdiffusione delle molecole di piombo nel piombo fuso o nelle soluzioni di sali di piombo.
Ma particolarmente nell'elettrochimica, nella chimica colloidale e nella preparazione di composti inorganici i radioelementi hanno fornito preziosi servizî.
In elettrochimica i più importanti problemi risolti sono: la conferma diretta della dissociazione elettrolitica, la ripartizione di uno ione metallico tra due radicali acidi, l'intercambiabilità o meno degli ioni di uno stesso elemento tra composti ionizzati, tra loro e rispetto a composti non ionizzati. Un interesse speciale ha presentato lo studio della velocità di variazione di valenza di uno ione metallico, quello degli elementi "ibridi" (elementi che possono fornire contemporaneamente ioni di valenza diversa: tellurio, tallio, polonio); infine la misura della polarizzazione elettrolitica in soluzioni metalliche ha portato alla notevole conclusione della validità, anche per soluzioni estremamente diluite, della formula di Nernst per il calcolo del potenziale di deposizione dei metalli. Nella chimica colloidale è stato possibile dimostrare l'esistenza e la validità di alcuni principî fondamentali anche in condizioni inaspettate e inaccessibili ai mezzi ordinarî, come, per es., la validità della distinzione tra colloidi e cristalloidi anche per concentrazioni inferiori a 10-11 mol. per litro. Un numero considerevole di fenomeni di superficie (chimica capillare) sono stati studiati con i radioindicatori: così, per es., oltre al trascinamento di sali nei precipitati, l'aderenza di tracce di sostanze liquide, solide o gassose a superficie solide o liquide, la variazione di superficie dei precipitati, l'adsorbimento di sali in fibre vegetali e animali, la velocita di solubilità di strati sottili, la determinazione della superficie adsorbente di polveri, ecc.
14. Preparazione dei radioelementi. - Come abbiamo visto, i radioelementi non appartengono a uno stesso gruppo chimico e anche il loro carattere fisico comune, la radioattività, è differente da elemento a elemento.
È perciò chiaro che noi potremo considerare la purezza di un radioelemento sotto due aspetti diversi. Diremo un radioelemento radioattivamente puro, quando la radiazione del prodotto che lo contiene presenta tipicamente e unicamente i caratteri distintivi di esso elemento. Dal punto di vista chimico si può discutere (v. n. 8) se per elemento puro si debba considerare ciascuno dei componenti la miscela d'isotopi esistente in natura oppure la miscela stessa presa come elemento tipo. Ora accade che, a differenza degli elementi inattivi, le miscele d'isotopi di elementi radioattivi che si trovano in natura o che si possono ottenere, non hanno tutte la stessa composizione isotopica: perciò nel caso degli elementi radioattivi prevale, anche dal punto di vista chimico, il concetto di considerare puro soltanto ciascun isotopo considerato isolatamente.
La preparazione di elementi radioattivi allo stato puro è un problema alquanto difficile. Una difficoltà è data dal fatto che la maggioranza dei metodi di separazione porta all'ottenimento di miscugli di un prodotto inattivo con un elemento attivo, la cui separazione, molto spesso, non può essere eseguita per ragioni d'isotopia. Qualche volta, ed è il caso più grave, si ha una mescolanza di due o più isotopi radioattivi.
Per eseguire con metodi chimici la separazione di un radioelemento è necessaria una serie di operazioni manuali, che richiedono un certo tempo. Solo se questo tempo è sufficientemente più breve della vita media del radioelemento considerato, noi possiamo sperare di ottenerlo in uno stato di relativa purezza: ma anche questo stato è transitorio, perché dura soltanto fino a che l'accumulo dell'elemento o degli elementi da esso generati non si renda avvertibile radioattivamente e poi chimicamente. In qualche caso circostanze casuali possono permettere di ottenere un radioelemento esente dai suoi isotopi.
Questo può accadere, per es., se gl'isotopi appartengono a famiglie radioattive diverse, quando si parte da minerali che contengono i costituenti di una sola famiglia. Si può avere così radio esente da mesotorio 1 partendo da minerali di uranio esenti da torio.
In qualche altro caso si trae profitto dalla differenza che spesso sussiste tra la vita media dei varî elementi di una stessa famiglia radioattiva. Così, per es., è impossibile ottenere direttamente dai minerali torio X esente dal suo isotopo mesotorio 1 (isotopo del radio), ma si può con relativa facilità ottenerlo invece, separando prima il prodotto intermedio, il radiotorio, a vita lunga, ed attendendo qualche giorno perché torni in equilibrio col torio X, che si può così estrarre chimicamente e radioattivamente puro.
Con un procedimento analogo si può ottenere radiotorio esente da torio, separando prima dal torio il suo progenitore, il mesotorio 1.
In via generale noi possiamo dividere i processi di separazione degli elementi a vita lunga da quelli degli elementi a vita breve.
Osservando la serie di trasformazioni delle tre famiglie radioattive si nota che gli elementi a vita lunga si trovano in maggior parte tra i prodotti di disintegrazione dei tre elementi fondamentali (uranio, torio, protoattinio) precedenti alle tre emanazioni; mentre quelli a vita breve sono in generale compresi fra i prodotti di disintegrazione a queste successivi.
Questi ultimi si ricavano perciò dal prodotto di decadimento delle tre emanazioni (deposito attivo). L'emanazione (radon, toron, actinon) è in genere presente in tutti i preparati di uranio, torio, protoattinio, in equilibrio con i loro prodotti di disintegrazione: tuttavia, in quantità apprezzabili, si ottiene rispettivamente da preparati di radio, radiotorio o radioattinio sciolti per lo più in acqua (per quanto si possano ottenere anche preparati solidi, emananti a temperatura ordinaria).
La più nota e studiata fra le tre emanazioni è quella del radio. Essa si svolge liberamente a temperatura ordinaria da soluzioni di sali di radio (cloruri, bromuri) mista ad azoto, anidride carbonica, gas rari, ossigeno, idrogeno, ozono, provenienti questi ultimi dalla decomposizione dell'acqua della soluzione. Se si fa svolgere sotto vuoto in un recipiente chiuso, essa può essere ottenuta allo stato puro.
Per far ciò l'ossigeno, l'idrogeno e l'ozono vengono distrutti per esplosione: si assorbe quindi l'acqua prodotta insieme con l'anidride carbonica e si condensa con aria liquida l'emanazione: i gas residuati vengono allontanati con una pompa e si ha così l'emanazione allo stato puro. Per il toron e per l'actinon questa depurazione è praticamente impossibile a causa della loro vita breve e perciò essi si ottengono spesso misti a una grande quantità di gas inattivi.
Come prodotto della disintegrazione dell'emanazione si ha un elemento inattivo (elio) e un miscuglio di elementi, che costituisce il deposito attivo, il quale rimane infatti come deposito aderente alle pareti del vaso contenente l'emanazione. La morte completa del deposito attivo avviene in poche ore per quello dell'actinon; in qualche giorno per quello del torio; in un tempo incomparabilmente più lungo per quello del radio (alcune diecine di anni). Per l'ottenimento dei prodotti a vita breve delle tre emanazioni vi sono varî metodi, fra cui i più importanti sono quelli del rinculo e il metodo elettrochimico. Col metodo del rinculo è possibile separare il radio B dal radio A; il radio C dal radio B; l'attinio X dal radioattinio; l'attinio C″ dal deposito attivo dell'attinio, e il torio C″ da quello del torio. I vantaggi del metodo sono principalmente l'estrema rapidità dell'operazione (particolarmente importante, ad es., per il torio C″ e l'attinio C″): inoltre il prodotto è esente dalla contaminazione di altri radioelementi ed infine è ottenuto in una forma assai buona per le misure radioattive.
Il metodo elettrochimico non è solo limitato alla separazione degli elementi che seguono l'emanazione nella serie di trasformazione delle tre famiglie radioattive, ma si può usare anche per l'uranio X e il mesotorio 2. I seguenti gruppi di radioelementi possiedono identiche proprietà elettrochimiche:
Radio, Attinio X, Torio X.
Radio B, Attinio B, Torio B, Radio D.
Radio C, Attinio C, Torio C, Radio E.
Attinio C′′, Torio C′′.
Tutti questi gruppi sono, com'è ovvio, gruppi d'isotopi.
In pratica il metodo elettrochimico di separazione è impiegato per la separazione dei prodotti C dai prodotti B; del radio E dal radio D; del polonio dal radio D e dal radio E.
Il suo impiego è subordinato alla conoscenza di due fattori fondamentali:
1. La differenza di potenziale tra l'elettrodo e la soluzione necessaria alla deposizione del radioelemento considerato. Non è sempre necessario tuttavia applicare agli elettrodi un potenziale esterno, essendo assai spesso sufficiente il potenziale elettrochimico di appropriati metalli immersi nella soluzione.
2. Il fatto che l'aggiunta di una quantità ponderabile di un isotopo inattivo può rallentare o del tutto impedire la separazione di un radioelemento.
Gli elementi a vita lunga possono in generale essere separati direttamente dai minerali. Essi sono: il torio, l'uranio, l'ionio, il protoattinio, il radio, l'attinio, il radio D, il mesotorio 1, il radiotorio, il polonio.
Noi indicheremo qui soltanto lo schema di preparazione di alcuni di questi elementi allo stato puro.
Il torio viene preparato industrialmente per scopi diversi da quelli radioattivi, partendo principalmente da monazite, torite, torianite. I sali (nitrato, solfato, ecc.) puri del commercio non sono, in generale, tali dal punto di vista radioattivo. Però i prodotti di disintegrazìone successivi in generale non vi sono contenuti nello stato di equilibrio: ciò dipende dal fatto che i produttori dei sali di torio, prima di metterli in commercio, ne estraggono il mesotorio 1, che viene venduto a parte. È molto difficile ottenere torio esente da ionio, perché la maggior parte dei minerali di torio contengono uranio: in qualche caso raro però la quantità di uranio e quindi di ionio è trascurabile.
L'uranio, come il torio, viene in commercio sotto forma di sali puri, però non tali radioattivamente.
Il prodotto contiene sempre i due isotopi a vita lunga, uranio I e uranio II, ed anche piccole quantità dei loro prodotti di disintegrazione: tuttavia la quantità di radio e di ionio che vi si può trovare è praticamente trascurabile anche dal punto di vista radioattivo.
Radio. - Tutti i minerali di uranio contengono radio nel rapporto di 3,3 × 10-7 gr. per 1 gr. di uranio. Se si tiene presente che vengono spesso lavorati, per ottenere radio, anche minerali contenenti solo l'1% di uranio, si può avere un'idea dell'enorme quantità di materiale necessaria per l'estrazione di pochi mgr. di radio. Lo schema generale della lavorazione dei minerali si può riassumere in queste cinque operazioni: 1. macinazione e dissoluzione del minerale; 2. separazione di tutti i solfati insolubili, principalmente di bario; 3. loro trasformazione in sali solubili; 4. concentrazione progressiva del contenuto di radio nei sali radiferi ottenuti; 5. frazionamento definitivo del radio dal bario. I prodotti commerciali di radio sono molto spesso mescolati con bario, specialmente per tutte le applicazioni mediche.
Mesotorio 1. - Il mesotorio 1 si trova nei minerali di torio nel rapporto di 3 × 10-10 gr. per gr. di torio. I prodotti commerciali di mesotorio contengono in genere, oltre ai prodotti di disintegrazione in equilibrio, anche piccole quantità di radio, provenienti dall'uranio contenuto costantemente nei minerali di torio. Dalla soluzione del prodotto grezzo, contenente bario, esso può essere isolato allo stato puro, ad es., separando tutta la serie degli elementi che lo accompagnano con ammoniaca esente da carbonato e poi per successiva cristallizzazione frazionata del sale di bario. Ottenuto allo stato puro, esso rapidamente si arricchisce di mesotorio 2 e dopo qualche mese anche di radiotorio e di tutti i componenti la serie radioattiva.
Il protoattinio viene ricavato dai residui della lavorazione dei minerali "ricchi" di uranio, dopo l'estrazione del radio. Al metodo adoperato precedentemente, che consisteva nel trascinamento del protoattinio col tantalio, da cui non si poteva più separare, si preferisce oggi il trascinamento col fosfato di zirconio: il fosfato di zirconio, ricco di protoattinio, viene quindi trasformato in ossicloruro. Si elimina allora lo zirconio con acido ossalico in presenza di torio, da cui infine si separa, allo stato puro, il protoattinio per mezzo di acido fluoridrico. Per ogni grammo di radio presente nei minerali di uranio si ha circa 0,5 gr. di protoattinio, che potrebbe essere estratto e usato come prodotto di sostituzione del radio per le applicazioni mediche.
L'attinio viene estratto anch'esso dai residui della lavorazione di alcuni minerali uraniferi: la sua estrazione, dato il carattere chimico dell'elemento, è assai laboriosa. Il metodo più importante usato è analogo a quello impiegato per le terre rare e cioè una precipitazione frazionata di ossalati.
Lo ionio si estrae anch'esso dai residui di lavorazione dell'uranio. Esso non può in generale essere ottenuto del tutto esente da torio.
Il radiotorio, data la sua isotopia col torio, non può essere ottenuto direttamente dai minerali di torio. Come si è detto, esso viene ottenuto da vecchie preparazioni di mesotorio.
Il radio D viene in generale separato dai minerali di uranio o meglio dai loro residui, oppure da vecchie preparazioni di radio o anche infine dal deposito attivo dell'emanazione. Se è estratto dai minerali di uranio è mescolato a grandi quantità di piombo inattivo (RaG).
Dai residui dei minerali esso in generale viene concentrato nei solfuri (prodotti intermedî della depurazione dei solfati radiferi). Partendo dal deposito attivo, esso viene separato dalla soluzione con metodi elettrochimici.
Il polonio infine viene anch'esso per lo più separato da preparati vecchi di radio o meglio dal radio D estratto da questi preparati, o direttamente separato dai minerali o dai residui di lavorazione.
Anche per esso i metodi elettrolitici sono i più sicuri per ottenerlo allo stato puro.
15. Azioni fisiche, chimiche e biologiche delle radiazioni. - Delle azioni fisiche delle radiazioni α, β, e γ, la più importante, cioè la ionizzazione nei gas, è stata ampiamente trattata più sopra. Per quanto riguarda la fluorescenza eccitata in numerose sostanze, si è già parlato del caso del solfuro di zinco a proposito delle scintillazioni. Questa fluorescenza si presenta, in grado maggiore o minore e con colorazioni diverse, per un numero grandissimo di sostanze. Tra le più cospicue sono da citarsi la willemite, il platinocianuro di bario, il nitrato di uranile. Molte sostanze presentano anche fosforescenza.
Un altro fatto che si nota per molti corpi normalmente trasparenti e incolori è che essi acquistano una colorazione caratteristica sotto l'azione prolungata delle radiazioni. Citiamo a questo proposito il vetro, che a seconda della qualità si colora in bruno o in violaceo; il salgemma, che acquista un bel colore azzurro; molte pietre preziose che assumono colorazioni svariate. Nella maggior parte dei casi la colorazione provocata dai raggi sparisce in seguito a successivo riscaldamento della sostanza.
Tra le azioni chimiche, la più importante è quella fotografica già descritta. Ma numerosissime sono le reazioni, specialmente di decomposizione, che possono aver luogo sotto l'azione dei raggi α, β o γ . Citiamo la decomposizione dell'acqua in miscela tonante la quale si può osservare facilmente nelle soluzioni di radio; la trasformazione dell'ossigeno in ozono, per cui un forte preparato ad attività α emana l'odore caratteristico dell'ozono; la decomposizione di moltissime sostanze organiche.
Per quanto riguarda le azioni biologiche, ci limiteremo qui a brevissimi cenni. Dopo la scoperta del radio venne presto riconosciuto che le radiazioni α, β, e γ davano luogo a svariati effetti sugli organismi, in particolare su quello umano.
Le conseguenze sono diverse a seconda della natura, dell'intensità e del tempo di applicazione della radiazione.
L'azione dei raggi α, dato il loro piccolo potere penetrante, è limitata ad un sottile strato della pelle; un'esposizione sufficientemente lunga ad una sorgente intensa dà luogo ad infiammazione che può essere seguita da formazione di piaghe di difficile guarigione. I raggi β hanno un'azione simile, ma molto più estesa in profondità. Infine i raggi γ attraversano l'intero corpo umano e perciò possono esercitare la loro azione su qualunque organo.
Questi effetti costringono ad usare particolari precauzioni nel manipolare intense sorgenti radioattive; mentre è facile proteggersi dai raggi α e β, riesce più difficile evitare l'esposizione alle radiazioni γ, capaci di attraversare spessi strati di materia. Però si può osservare che, una volta assorbite le radiazioni più molli, quelle più penetranti riescono molto meno pericolose, appunto perché poco assorbite anche nell'organismo.
L'effetto delle radiazioni γ non è sempre nocivo; anzi esse, somministrate in dosi convenienti e con opportuna cautela, sono impiegate nella cura di alcune malattie, per es., del cancro. Per questo scopo si usano tubetti saldati contenenti radio, oppure emanazione di radio. I raggi γ utilizzati sono quelli emessi dal deposito attivo che vi si trova in equilibrio.
16. Radioattività e geofisica. - La radioattività ha per la geologia una grande importanza; essa ha infatti fornito un metodo fisico veramente serio per la misura dell'età di varî minerali, e ha posto su basi completamente nuove il problema del bilancio termico della terra.
Età delle rocce. - Le caratteristiche essenziali di un buon orologio sono regolarità di funzionamento, indipendenza dalla temperatura, pressione e altre condizioni fisiche. La disintegrazione radioattiva è un fenomeno che soddisfa a queste condizioni in modo ideale. Alle più alte temperature raggiungibili in laboratorio, e anche a temperature assai più alte, la rapidità di decadimento di un radioelemento è sempre la stessa.
Si può usare la radioattività come orologio: a) misurando la quantità di piombo contenuta in un minerale di uranio. Da quanto sappiamo sulla radioattività si deduce che 1 grammo di uranio produce in un anno: 1,3 × 10-10 grammi di piombo. Questo può venire distinto dal piombo ordinario, da cui differisce nel peso atomico (peso atomico = 206; piombo ordinario: 207,18). L' età della roccia si calcola dai contenuti in piombo e uranio con la formula
La valutazione ha un senso soltanto se il minerale è ben conservato, non ha subito alterazioni meteorologiche, ecc. Si trovano così età variabili da 60 milioni di anni (uraninite del Cretacico superiore) fino a 1400 milioni di anni (Precambrico).
b) misurando il contenuto in elio. Principio analogo ad a). i grammo di uranio produce in un anno 1,16 × 10-7 cmc. di elio. Particolare fiducia meritano le misure su metalli, poiché da questi l'elio sfugge assai difficilmente. In questo modo è stata valutata l'età di alcune meteoriti fino a 2800 milioni di anni.
c) Dal grado di colorazione degli aloni pleocroici: che sono piccole regioni colorate in certe specie di mica (biotite, cordierite, muscovite). Le sezioni di queste regioni sono in generale di forma circolare e mostrano la proprietà del pleocroismo (v. pleocroismo). Al centro si trova in generale un piccolo cristallo estraneo. La colorazione è dovuta a particelle emesse dal cristallo (I. Joly, O. Mügge) e permette una valutazione, non molto soddisfacente, dell'età del minerale.
Bilancio termico della Terra. - L'uranio e i suoi prodotti si trovano sparsi, con varia concentrazione, un po' in tutti i minerali. Un grammo di roccia appartenente alla crosta terrestre contiene in media 4.10-6 grammi di uranio (e quindi 1,3 × 10-12 grammi di radio in equilibrio con l'uranio).
L'energia che le sostanze radioattive emettono sotto forma di raggi α e γ viene trasformata (mediante processi di ionizzazione, ecc.) in situ quasi interamente in calore. Un grammo di uranio in equilibrio con i suoi prodotti produce così in un anno circa una caloria. Questo calore ha un'estrema importanza per il bilancio termico dell'interno della Terra. Disgraziatamente noi non sappiamo qualè il contenuto radioattivo degli strati interni della Terra; esso è però probabilmente assai minore di quello degli strati superficiali. Se si ammette che le rocce siano radioattive solo fino a 16 km. di profondità, e precisamente con un contenuto medio quale si trova alla superficie, si deduce che il calore sviluppato è sufficiente a compensare il calore che il centro della Terra perde per conduzione verso la superficie. Ma, nella realtà dei fatti, può darsi che il calore sviluppato sia anche maggiore; ciò porterebbe a diverse conseguenze interessanti per la geologia.
Ionizzazione dell'atmosfera. - Varie. - Il contenuto medio di radio delle acque marine e dei grandi fiumi è circa mille volte inferiore a quello delle rocce. Vi sono però sorgenti, dette radioattive, il cui contenuto radioattivo (in generale radio-emanazione e suoi prodotti) è assai maggiore. Alla radio-emanazione che dalla terra si diffonde nell'aria è dovuta in gran parte la ionizzazione nelle parti più basse dell'atmosfera (ma non in alto mare; v. sopra); mentre la ionizzazione che si riscontra nelle parti più alte è dovuta a radiazioni di origine extra-terrestre (raggi cosmici).
17. Radioattività artificiale. - Nel 1919 il Rutherford riuscì per la prima volta a provocare una trasmutazione ossia a trasformare il nucleo dell'azoto nel nucleo dell'ossigeno; il fisico inglese usava particelle α emesse dalle sostanze radioattive naturali per bombardare l'azoto; il nucleo di questo elemento colpito dal minuscolo e velocissimo proiettile emette un protone o nucleo di idrogeno ed assorbe la particella α. In seguito a questa celebre esperienza fu possibile realizzare un certo numero di altre trasmutazioni usando come proiettili sia particelle α sia protoni e deutoni accelerati ad altissime velocità a mezzo d'impianti capaci di fornire tensioni dell'ordine del milione di volt. Anche il neutrone, la particella dotata di carica zero e massa 1, era stata usata per provocare le trasmutazioni degli elementi.
In tutte queste esperienze il processo di trasformazione di un nucleo in un altro è istantaneo; ossia, partendo da un nucleo di un elemento ordinario, e quindi stabile, si giunge istantaneamente alla formazione del nucleo di un altro elemento pure stabile (v. nucleo).
Nel gennaio del 1934 F. Joliot ed I. Curie-Joliot scoprirono un nuovo fenomeno: la radioattività artificiale.
I coniugi Joliot osservarono che, in seguito ad un intenso bombardamento con particelle α, alcuni elementi leggieri (alluminio, boro, magnesio) divengono radioattivi. Le sostanze radioattive artificiali ottenute in tal modo hanno in genere un tempo di dimezzamento di alcuni minuti ed emettono, a differenza delle sostanze radioattive naturali, elettroni positivi (v. positrone). Per chiarire il fenomeno della radioattività artificiale consideriamo il caso del boro; questo elemento, colpito dalla particella α, l'assorbe ed emette un neutrone; si forma così un nuovo nucleo, il nucleo dell'azoto di massa 13, che non esiste in natura e che non è stabile; esso quindi si disintegra dopo un certo tempo ed emettendo un positrone dà luogo al carbonio ordinario stabile. Il processo si divide dunque in due fasi: nella prima si ha la formazione dell'elemento radioattivo, nel nostro caso azoto di massa 13; la seconda fase consiste in una trasformazione spontanea del nucleo instabile formatosi in un nucleo stabile, esistente in natura. Comunemente per rappresentare i processi nucleari si usa un simbolismo in un certo senso analogo a quello che serve per rappresentare le reazioni chimiche; così, per es., la prima e la seconda fase del fenomeno della radioattività indotta per il caso del boro sono rappresentate dalle due equazioni
intendendo col simbolo ¹%50%$B il boro (Z = 5) di massa 10 e con 42 H il nucleo dell'atomo di elio ossia la particella α incidente; 01 e rappresenta un positrone di carica positiva uno e massa praticamente zero.
I coniugi Joliot dimostrarono l'esattezza di questa interpretazione del fenomeno da loro scoperto, poiché riuscirono a separare, con i classici metodi della chimica radioattiva, l'azoto instabile (¹%³7% N) formatosi dal boro in seguito al bombardamento con particelle α.
Subito dopo la scoperta dei Joliot, fisici americani ed inglesi cercarono, con successo, di produrre sostanze radioattive artificiali, usando come proiettili i protoni (H. R. Crane e C. C. Lauritsen, J. D. Cockcroft, C. W. Gilbert e E. T. S. Walton) e i deutoni (M. C. Henderson, M. S. Livingstone e E. O. Lawrence) accelerati ad altissime velocità a mezzo di differenze di potenziale dell'ordine di milioni di volt (ricordiamo a questo punto che il deutone è una particella di massa 2 e carica positiva 1, ossia è il nucleo di un isotopo di massa 2 dell'idrogeno, detto assai spesso idrogeno pesante).
Con l'uso di questi proiettili furono scoperti circa 15 elementi radioattivi artificiali, i quali emettono positroni al pari di quelli ottenuti con il metodo dei Joliot.
Tutti i proiettili di cui abbiamo parlato fino ad ora si mostrarono efficaci nella produzione di elementi radioattivi solo quando il nucleo bombardato apparteneva ad un elemento di basso numero atomico. La spiegazione di questo fatto è da ricercarsi nella repulsione elettrostatica che subiscono i proiettili carichi positivamente (particelle α, protoni, deutoni) da parte dei nuclei bombardati, che, com'è noto, sono carichi dello stesso segno. Quest'azione cresce al crescere della carica del nucleo, per modo che già per elementi il cui numero atomico è superiore a 29 (Cu) diventa praticamente impossibile un urto intimo fra un proiettile carico ed il nucleo.
Per evitare tale difficoltà E. Fermi, subito dopo le esperienze dei Joliot, tentò di produrre delle sostanze radioattive artificiali usando come proiettili i neutroni (v. neutrone). I risultati ottenuti dal Fermi sin dalle prime esperienze furono molto soddisfacenti, poiché non solo elementi leggieri, ma anche elementi relativamente pesanti, come lo I (Z = 53), mostrarono il fenomeno della radioattività artificiale. L'efficacia dei neutroni si mostrò ancora più, non appena il Fermi ed i suoi collaboratori fecero uno studio sistematico della radioattività provocata da neutroni sul maggior numero possibile di elementi: di 70 elementi cimentati, 50 hanno mostrato il fenomeno e fra questi molti elementi di numero atomico assai elevato, come l'oro (Z = 79), l'iridio (Z = 77) e perfino l'uranio (Z = 92), il più pesante di tutti gli elementi esistenti in natura.
Nel caso dell'uranio sembra che si formi un elemento radioattivo artificiale, con tempo di dimezzamento di circa un quarto d'ora avente numero atomico maggiore di 92. Si tratterebbe del primo esempio di formazione di un nuovo elemento e non di un nuovo isotopo di un elemento conosciuto.
A diffierenza degli elementi radioattivi artificiali ottenuti con proiettili carichi (particelle α, protoni, deutoni), gli elementi radioattivi ottenuti col metodo del Fermi emettono particelle β, ossia elettroni (negativi), al pari delle sostanze radioattive naturali.
Per la maggior parte dei casi è stato possibile individuare con processi chimici il nucleo instabile che si forma all'atto del bombardamento. Senza entrare in particolari si può dire che esistono tre diversi processi possibili; se MZ X è il nucleo bombardato con i neutroni ¹0 n, le reazioni nucleari osservate sono sempre di uno dei tre tipi seguenti:
Con Y abbiamo indicato il nucleo instabile formatosi all'atto del bombardamento e che si disintegra emettendo un elettrone dopo un tempo più o meno lungo. Le reazioni nucleari a) e b) ci dicono che bombardando certi nuclei questi assorbono i neutroni ed emettono al tempo stesso una particella α (42%He) oppure un protone (¹1%H).
La reazione c) invece consiste semplicemente nell'assorbimento del neutrone da parte del nucleo bombardato senza emissione di alcuna particella pesante. In quest'ultimo caso dunque il nucleo radioattivo formatosi è un isotopo, più pesante di 1 del nucleo di partenza. Mentre si conoscono parecchi esempî di tutt'e tre i tipi di reazioni fra gli elementi leggieri, pare che nel caso degli elementi medî e pesanti solo il processo c) si effettui abbastanza facilmente.
Il Fermi ed i suoi collaboratori, nel corso di esperienze sulla radioattività provocata da bombardamento di neutroni, osservarono che alcune sostanze venivano attivate assai più fortemente se la sorgente di neutroni (ampolla contenente Em e Be) e l'elemento da irradiare venivano immersi in una sostanza fortemente idrogenata, come l'acqua o la paraffina. Questo fenomeno fu interpretato nel modo seguente: i neutroni emessi dalla sorgente ad altissima velocità si muovono rettilineamente attraverso alla paraffina, finché subiscono un urto con un atomo d'idrogeno, in seguito al quale deviano perdendo un'elevata frazione della loro energia; si può anzi mostrare che in media in un urto con un atomo d'idrogeno l'energia di un neutrone si riduce ad un e - esimo (e = 2,71828...) del valore iniziale, per modo che dopo non molti urti la velocità del neutrone viene ad essere fortemente ridotta. Questi neutroni, detti "neutroni lenti", sono particolarmente efficaci per produrre sostanze radioattive artificiali secondo lo schema di reazione c. Con essi in genere non è invece possibile produrre radioelementí secondo gli schemi a e b. L'uso dei neutroni lenti in certi casi particolari ha permesso di moltiplicare per un fattore 20 o 30 l'intensità dei preparati radioattivi artificiali.
Bibl.: E. Rutherford, J. Chadwick, ecc., Radiations from Radioactive Substances, Cambridge 1930; K. W. F. Kohlrausch, Radioaktivität, in Wien e Harms, Handbuch der Experimentalphysik, Lipsia 1927; G. V. Hevesy e F. Paneth, Lehrbuch der Radioaktivität, Lipsia 1931; G. Gamow, Constitutions of Atomic Nuclei and Radioactivity, Oxford 1931; F. Rasetti, Il nucleo atomico, Bologna (in stampa).