Abstract
Vengono esaminati sinteticamente i principali aspetti dell’articolata disciplina dei servizi di media audiovisivi lineari, soffermandosi in particolare sulla televisione digitale terrestre (attesa la sua ampia diffusione), sul tema del pluralismo e sul ruolo che ha avuto la giurisprudenza costituzionale nel processo di transizione dal monopolio pubblico al sistema misto pubblico-privato.
«Radiotelevisione» è sinonimo di «servizio di media audiovisivo lineare»: tale locuzione designa un servizio di natura editoriale consistente nella diffusione al pubblico, attraverso reti di comunicazioni elettroniche, di «programmi» (contenuti audiovisivi, ossia immagini animate eventualmente combinate a suoni) organizzati in un palinsesto cronologico e quindi resi disponibili agli utenti in visione simultanea (art. 2, co. 1, lett. i, d.lgs. 31.7.2005, n. 177, Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici).
Nell’ambito del genus servizi di media audiovisivi si distinguono due species: a) servizi «non lineari», o «a richiesta» (on demand), che consentono la visione di programmi al momento scelto dall’utente e su sua richiesta, sulla base di un catalogo predisposto dal «fornitore di servizi di media» (l’editore che opera le scelte in ordine alla selezione ed all’organizzazione dei contenuti); b) servizi «lineari» (o televisivi), i cui contenuti vengono trasmessi nel momento predeterminato dal «fornitore di servizi di media lineari» o «emittente».
Connotazione distintiva della televisione è quindi la linearità, intesa come contestuale trasmissione di contenuti a tutti gli utenti nel medesimo momento, essendo irrilevante che i programmi siano criptati o in chiaro e che siano accessibili a pagamento o gratuitamente. Anche prima che la direttiva sui servizi di media audiovisivi (ora direttiva 10.3.2010, n. 2010/13/UE) introducesse le definizioni sopra esposte, la nozione giuridica di radiotelevisione era ancorata alla trasmissione simultanea di contenuti audiovisivi ad una pluralità di destinatari indeterminati (rectius: fungibili).
Tale caratteristica assume rilievo anche ai fini dell’inquadramento costituzionale: consistendo in una tipologia di comunicazione in incertam personam, la radiotelevisione afferisce all’alveo di protezione dell’art. 21 Cost., che tutela la libertà di manifestazione del pensiero, mentre le telecomunicazioni in senso stretto, rivolte a destinatari determinati, trovano il loro referente nell’art. 15 Cost., che tutela «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione». Si insegna tradizionalmente che la distinzione tra l’art. 15 Cost. e l’art. 21 Cost. non ha riguardo al contenuto del messaggio, bensì esclusivamente alla modalità della comunicazione, a sua volta connessa alla posizione rivestita dal destinatario della comunicazione rispetto al mittente: si versa in una fattispecie garantita dall’art. 15 Cost. quando la comunicazione, avente carattere di riservatezza, si rivolga in certam personam, ossia verso soggetti previamente individuati, mentre si è nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. ogni qual volta il vincolo del riserbo sia assente dal rapporto comunicativo e l’espressione del pensiero sia destinata ad essere resa pubblica, sebbene effettivamente ne prenda conoscenza un numero esiguo di destinatari. Quanto sopra va integrato con le recenti elaborazioni dottrinali che, da un lato, suggeriscono una lettura sistematica delle libertà riconosciute dagli artt. 15 e 21 Cost. e, dall’altro – in considerazione del fatto che il fenomeno della convergenza multimediale rende più labili e incerti i confini tra le comunicazioni intersoggettive e le manifestazioni connotate dal carattere della diffusività –, propongono di affiancare al tradizionale criterio della determinatezza del recipiens il parametro della infungibilità dei destinatari e, in maniera meno persuasiva, un parametro quantitativo, che esprima l’intenzione del mittente di delimitare il bacino della comunicazione, di «selezionare e in certo senso ‘separare’ i propri interlocutori dal resto della collettività» (cfr. Zaccaria, R.-Valastro, A., Diritto dell’informazione e della comunicazione, VII ed., Padova, 2010, 92 ss.).
Sin dagli albori le radiocomunicazioni sono state assoggettate ad un regime pubblicistico (l. 30.6.1910, n. 395 e r.d.l. 8.2.1923, n. 1067). Con r.d. 14.12.1924, n. 2191, la concessione per l’esercizio in esclusiva del servizio di radiodiffusione fu assentita all’URI-Unione Radiofonica Italiana, una società a capitale privato destinata a passare gradualmente in mano pubblica. All’URI subentrò l’EIAR-Ente italiano per le audizioni radiofoniche, oggi RAI-Radiotelevisione italiana.
Il 3.1.1954 iniziarono le trasmissioni televisive. Pochi anni dopo, la Corte costituzionale ebbe modo di affermare la legittimità del monopolio pubblico del servizio radiotelevisivo (C. cost., 13.7.1960, n. 59). La Corte rilevò la limitatezza delle risorse frequenziali (cd. physical scarcity), che, in assenza di riserva statale, sarebbero cadute «nella disponibilità di uno o di pochi soggetti, prevedibilmente mossi da interessi particolari», quindi affermò la compatibilità con l’art. 21 Cost. dell’«avocazione allo Stato di quei mezzi di diffusione del pensiero che, in regime di libertà di iniziativa, abbiano dato luogo, o siano naturalmente destinati a dar luogo, a situazioni di monopolio, o – che è lo stesso – di oligopolio», in quanto in tali circostanze lo Stato si presenta come idoneo a svolgere il servizio «in più favorevoli condizioni di obbiettività, di imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale».
Il quadro giuridico rimase immutato per circa tre lustri, fino a quando, nel 1974, la Consulta tornò a pronunciarsi sulla legittimità del monopolio televisivo con due decisioni (C. cost., 10.7.1974, n. 225 e 10.7.1974, n. 226).
Con la prima la Corte ritenne ancora sussistenti le ragioni che nel 1960 l’avevano indotta a dichiarare legittima la riserva statale, nondimeno si pronunciò per l’accoglimento. La Corte dichiarò illegittimo non il monopolio in sé, ma le modalità con cui esso era esercitato e la sua estensione. Quanto al primo punto, la sentenza affermò che il monopolio dovesse garantire obiettività, imparzialità e completezza dell’informazione; la Corte enucleò i principi cui la legislazione in materia doveva conformarsi per risultare costituzionalmente legittima, declinandoli in sette direttive. Quanto all’estensione del monopolio, la Corte censurò il divieto di ripetizione in Italia di programmi esteri, sulla base del presupposto (erroneo) che i ripetitori di stazioni trasmittenti estere non operassero su bande di frequenza assegnate all’Italia.
La sentenza n. 226/1974, dal canto suo, dichiarò incostituzionali le norme che riservavano allo Stato l’installazione e l’esercizio di impianti televisivi via cavo in ambito locale, sulla base di due argomenti: a) alla limitatezza dei canali realizzabili via etere corrisponde la virtuale illimitatezza dei canali realizzabili utilizzando la tecnologia del cavo; b) gli impianti di cablatura di dimensione locale presentavano costi di installazione e di gestione sostenibili, quindi non sussisteva, per tali reti, il pericolo, riconducibile alla cd. economic scarcity, del costituirsi di oligopoli privati che invece giustificava la riserva allo Stato non solo della televisione via etere, ma anche della televisione via cavo in ambito nazionale. Questa pronuncia dava quindi ingresso al fattore economico come causa di giustificazione del monopolio: valutazioni di ordine economico saranno riprese dalla giurisprudenza costituzionale degli anni ’80 e risultano ancora oggi attuali, sia pure solo in parte (v. infra, § 2.4).
L’esito della dialettica fra il legislatore ed il giudice delle leggi fu la l. 14.4.1975, n. 103, la prima «legge di sistema», che confermò la riserva statale e realizzò il passaggio del servizio pubblico radiotelevisivo dall’alveo governativo a quello parlamentare, mediante l’istituzione della Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, la cui composizione rispecchia proporzionalmente la consistenza dei gruppi parlamentari.
Appena un anno dopo l’approvazione della l. n. 103/1975, C. cost., 15.7.1976, n. 202 dichiarò incostituzionale il monopolio televisivo su scala locale per violazione degli artt. 3 e 21 Cost.: dell’art. 3 in quanto la sufficiente disponibilità di frequenze (provata secondo la Corte dalla proliferazione di emittenti locali) e il costo non elevato degli impianti facevano venir meno le ragioni di un trattamento differenziato fra trasmissioni via etere e trasmissioni via cavo; dell’art. 21 perché, «esclusa la possibilità di monopoli od oligopoli per le trasmissioni su scala locale, [veniva] meno l’unico motivo che per queste ultime trasmissioni [potesse] giustificare quella grave compressione del fondamentale principio di libertà, sancite dalla norma di riferimento, che anche un monopolio di Stato necessariamente comporta». Fu invece confermata la legittimità del monopolio in ambito nazionale.
La sentenza n. 202/1976 indicava expressis verbis la necessità di una legge che disciplinasse il rilascio dell’autorizzazione senza la quale non sarebbe stato lecito ad alcun operatore privato trasmettere via etere, sia pure solo in ambito locale, stante l’esigenza di evitare interferenze. Ma detta legge non intervenne ed all’inerzia del legislatore fece seguito l’«occupazione selvaggia» (Barile, P., Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 251) dell’etere, determinando il «far west» (preconizzato da Amato, G., Monopolio e pluralismo: un dilemma che non doveva proporsi, in Dir. radiodiff. telecom., 1976, 3) che, passando attraverso diverse sanatorie e proroghe disposte ex lege, ha a lungo caratterizzato il sistema italiano, proiettando i suoi effetti fino ai nostri giorni (v. infra, § 2.4).
A breve distanza dalla sentenza n. 202/1976 diversi networks cominciarono a trasmettere su scala nazionale mediante l’interconnessione, ossia la diffusione simultanea dello stesso programma da parte di una pluralità di emittenti locali, ponendo in non cale anche la pronuncia del 1981 con la quale la Corte costituzionale aveva confermato la perdurante legittimità del monopolio pubblico in ambito nazionale, subordinando il superamento dello stesso all’adozione di efficaci misure dirette a impedire concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche (C. cost., 14.7.1981, n. 148).
L’assetto che in tale quadro di illegalità diffusa si era delineato fu sanato ex post dal d.l. 6.12.1984, n. 807, convertito in l. 4.2.1985, n. 10: la sanatoria era però essa stessa illegittima, in quanto si limitava a cristallizzare l’esistente senza predisporre alcuno dei meccanismi anticoncentrazione richiesti dalla sentenza n. 148/1981 (C. cost., 14.7.1988, n. 826).
La Corte, tuttavia, si astenne dal dichiarare l’incostituzionalità che pure aveva accertato, limitandosi a rivolgere un monito al legislatore sulla necessità di un rapido intervento. La sentenza n. 826/1988 enucleò inoltre tre declinazioni del pluralismo, dal cui concorso risulterebbe l’attuazione del valore nella sua interezza: a) il pluralismo interno, rimesso alla concessionaria del servizio pubblico, il cui compito è «dar voce – attraverso un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata nelle sue diverse forme di espressione – a tutte, o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali del Paese»; b) il pluralismo esterno, dato dal dispiegarsi della concorrenza tra il maggior numero possibile di fonti informative; c) il pluralismo diversificato, consistente nella possibilità, offerta all’utente, di scegliere fra più fonti notiziali qualitativamente differenziate. Quale corollario di tale impostazione, la Corte concluse che «il pluralismo in sede nazionale non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato da un soggetto o che comunque detenga una posizione dominante nel settore privato» (sul pluralismo in ambito televisivo cfr. Apa, E., Il nodo di Gordio: informazione televisiva, pluralismo e Costituzione, in Quad. cost., 2004, 337 ss.).
Nonostante la Corte si fosse espressa in termini tanto perentori, l’attesa riforma organica del settore radiotelevisivo, contenuta nella l. 6.8.1990, n. 223, cd. legge Mammì, anziché disarticolare l’assetto duopolistico che il mercato aveva assunto, «fotografò» l’esistente, consentendo ad uno stesso soggetto di essere titolare del 25% delle concessioni (reti) nazionali disponibili: il limite era sagomato in modo tale da evitare di scalfire la posizione della Fininvest, che controllava tre canali.
La Consulta dichiarò quindi incostituzionale l’art. 15, co. 4, della legge Mammì, rilevando che essa, «anziché muoversi nella direzione di contenere le posizioni dominanti già esistenti così da ampliare, ancorché gradualmente, la concreta attuazione del pluralismo», aveva «sottodimensionato il limite alle concentrazioni essendone conseguito l’effetto di stabilizzare quella posizione dominante esistente» (C. cost., 7.12.1994, n. 420). Tuttavia, mediante un dispositivo «ad orologeria», ogni effetto della pronuncia venne differito all’agosto 1996, termine che, ad onta della sua pretesa indifferibilità, sarebbe stato a sua volta prorogato da successivi interventi normativi.
Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, la l. 31.7.1997, n. 249, cd. legge Maccanico, abbassò la soglia di concentrazione al 20%, riducendo a due il numero di concessioni assentibili ad un soggetto privato (una nel caso di emittenti a pagamento), ma differì l’applicazione dei nuovi limiti, affiancando inoltre alla diluizione della posizione del principale operatore privato l’eliminazione della pubblicità da uno dei tre canali della RAI, secondo la discutibile logica del «disarmo bilanciato» (come si dirà, ambedue le misure sarebbero rimaste lettera morta). Inoltre, la legge introdusse un limite quantitativo del 30% nella raccolta delle risorse del settore.
Infine, la legge Maccanico dispose che al Garante per la radiodiffusione e l’editoria, autorità monocratica istituita dalla l. n. 223/1990, subentrasse l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), autorità convergente (preposta cioè a più settori: telecomunicazioni, radiotelevisione, editoria) a carattere collegiale originariamente composta da nove membri, ora ridotti a cinque dal d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito con l. 22.12.2011, n. 214, che durano nella carica sette anni, senza possibilità di rinnovo, e sono assoggettati a rigide incompatibilità, anche post-funzionali (Cheli, E.-D’Amato, G., Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 99 ss.).
In attuazione della legge Maccanico, il Ministero rilasciò le concessioni televisive; ne sarebbe dovuta conseguire la definitiva rimozione della situazione determinatasi in seguito all’occupazione di fatto delle frequenze (v. supra, § 2.2), ma ciò non avvenne per effetto della combinazione di diversi fattori: a) due delle emittenti che si contendevano l’ultima concessione disponibile ottennero dal giudice amministrativo il rilascio di provvedimenti cautelari che consentivano, nelle more della definizione del ricorso, la prosecuzione delle trasmissioni sulle frequenze sino ad allora esercite; b) grazie alla proroga prevista dalla legge in favore delle «reti eccedentarie» (Retequattro e Telepiù Nero), queste ultime proseguirono le trasmissioni, trattenendo di conseguenza le relative frequenze. Queste circostanze determinarono l’impossibilità di procedere alla redistribuzione dello spettro hertziano, per cui anche i concessionari continuarono ad esercitare l’attività di radiodiffusione sulle frequenze già in loro possesso, mentre Centro Europa 7 (che, in quanto emittente di nuova costituzione, non disponeva di frequenze), pur avendo ottenuto il rilascio di una concessione non poté avviare le trasmissioni (sui conseguenti strascichi giudiziari, anche presso corti sovrannazionali, v. infra, § 2.4) . La legge Maccanico non incise quindi sulla struttura del mercato, che rimase immodificata rispetto a quella formatasi nei primi anni ’80 e consolidata per effetto delle norme incostituzionali contenute nelle leggi-fotografia del 1985 e del 1990.
Nel 2002 la Corte costituzionale, dopo aver constatato che «la formazione dell’esistente sistema televisivo italiano privato in ambito nazionale ed in tecnica analogica trae origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze, al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo», accolse parzialmente la questione di legittimità costituzionale relativa ai limiti anticoncentrazione della legge Maccanico, indicando nel 31.12.2003 il «termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile» entro cui i nuovi limiti di concentrazione avrebbero dovuto trovare applicazione (C. cost., 20.11.2002, n. 466).
Nonostante la perentorietà della sentenza n. 466/2002, il termine del 31.12.2013 fu prorogato dal d.l. 24.12.2003, n. 352.
Successivamente intervenne la l. 3.5.2004, n. 112, cd. legge Gasparri, che ridisegnò il quadro dei limiti posti a tutela del pluralismo nel settore radiotelevisivo, introducendo: a) il limite del 20% alla raccolta delle risorse economiche del SIC-Sistema Integrato delle Comunicazioni (un agglomerato economico che comprende televisione, stampa, editoria elettronica, cinema e pubblicità); b) il divieto di costituire o mantenere posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il SIC; c) il divieto, per uno stesso operatore, di diffondere più del 20% dei canali nazionali irradiabili su frequenze terrestri; d) il divieto (destinato a venir meno il 31.12.2013, stante l’ultima proroga) per i soggetti che esercitano attività televisiva in ambito nazionale attraverso più di una rete (ora per le emittenti televisive che raccolgano più dell’8% delle risorse del SIC e per Telecom Italia, a seguito della modifica apportata dall’art. 3 del d.l. 31.3.2011, n. 34) di detenere partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani.
La dottrina (cfr. Pace, A., Legge Gasparri e Corte costituzionale, Relazione introduttiva all’Incontro di studi su «Il sistema radiotelevisivo italiano e la legalità europea», tenuto a Napoli il 2 luglio 2004, 31 s.; Mastroianni, R., Riforma del sistema radiotelevisivo italiano e diritto europeo, Torino, 2004, 62 ss.), l’AGCM-Autorità garante della concorrenza e del mercato (segnalazione AS 247 del 19.12.2002) e l’AGCOM-Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (audizione del 12.12.2002 dell’allora presidente, prof. Enzo Cheli, davanti alle Commissioni riunite VII e IX della Camera dei Deputati) hanno rilevato l’eccessiva ampiezza del perimetro del SIC e l’eterogeneità delle categorie che lo compongono, dubitando della sua idoneità ad assolvere la funzione di contenimento ex ante delle dimensioni economiche degli operatori. Tali dubbi hanno trovato un puntuale riscontro nella prassi applicativa, che ha confermato l’inettitudine del SIC come strumento di contrasto delle concentrazioni: sebbene le relazioni annuali dell’AGCOM abbiano a più riprese rilevato un elevato tasso di concentrazione del settore televisivo italiano, nessuno degli operatori che detengono una posizione di preminenza in tale mercato si avvicina al 20% del SIC.
Quanto al tetto per il numero dei canali, sebbene sia stato mantenuto il 20% previsto dalla legge Maccanico, esso, applicandosi ad una base di calcolo molto più ampia (per il più elevato numero di canali che la tecnologia digitale consente di irradiare), ha consentito agli operatori incumbent di aumentare il numero di canali a propria disposizione. La legge prevedeva inoltre che nella fase di transizione dall’analogico al digitale fossero computati nella base di calcolo anche i canali digitali con copertura pari al 50% della popolazione, sebbene l’equiparazione tra canali analogici e digitali fosse manifestamente irragionevole, in quanto allora era molto ridotta la quota di utenti dotati del decoder necessario per accedere ai canali digitali.
Infine, la legge Gasparri ha consentito ai soggetti che a qualunque titolo esercivano reti radiotelevisive ( essendo indifferente che tali reti avessero ricevuto una concessione o operassero in regime di proroga o sospensiva ( di continuare ad utilizzare le frequenze occupate per proseguire le trasmissioni in tecnica analogica e trasmettere in tecnica digitale, così consolidando lo statu quo che si era determinato come descritto supra, nel § 2.3. Tale ennesima «sanatoria» è stata oggetto di censura da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea (C. giust., 31.1.2008, C-380/05, Centro Europa 7) e della Commissione europea (parere motivato 18.7.2007, reso nell’ambito della procedura d’infrazione 2005/5086); la vicenda Europa 7 è costata all’Italia anche una condanna da parte della Corte di Strasburgo (C. eur. dir. uomo, 7.6.2012, Centro Europa 7 e Di Stefano c. Italia; per un’analisi delle pronunce delle corti di Strasburgo e di Lussemburgo sul caso Europa 7, cfr. Pollicino, O., Has the never-ending Europa 7 saga finally ended? A guide to understand how the Italian audiovisual conundrum has been able to make our Nation sadly famous non only in Luxembourg, but also in Strasbourg, su www.medialaws.it, 2012).
La legge Gasparri ha apprestato quindi un sistema di limiti inefficaci, quando non anche illegittimi. Un adeguamento di tali limiti dovrebbe procedere da una valorizzazione della giurisprudenza costituzionale, non già in maniera formalistica (come ha fatto la legge prevedendo il divieto, per ciascuna emittente, di diffondere più del 20% dei canali nazionali terrestri), bensì congiunta alla capacità di calare i principi affermati dalla Consulta nella nuova realtà tecnologica. In particolare, mentre nel contesto analogico, fortemente condizionato dalla scarsità delle risorse frequenziali e quindi caratterizzato da un numero esiguo di canali irradiabili, un adeguato limite al numero di canali complessivamente controllabili da un singolo editore avrebbe potuto svolgere la funzione di efficace presidio a tutela del pluralismo esterno, nel mutato quadro della televisione digitale multicanale un simile approccio può considerarsi probabilmente superato (esso risulta peraltro di difficile applicazione, stante la maggiore fluidità della struttura del mercato). Occorre quindi immaginare soluzioni nuove, riflettendo, ad esempio, sull’opportunità di strutturare in funzione pro-concorrenziale l’ordinamento automatico dei canali digitali terrestri (cd. LCN; si vedano, al riguardo le proposte di Cuniberti, M., Digitale terrestre e telecomando: il nuovo Piano di numerazione dei canali, occasione mancata?, su www.medialaws.it, 2012) e la disciplina delle guide elettroniche ai programmi (EPG) proprietarie e di introdurre meccanismi di deconcentrazione del mercato che tengano conto dell’audience conseguita da emittenti che controllino più di un canale (cfr., sulle esperienze straniere in questo senso, AGCOM, Allegato A alla delibera n. 555/10/CONS, 54 ss.; AGCM, nota del 10.9.2003 sul d.d.l. n. 3184, 13 ss.). Inoltre, i limiti alle concentrazioni monomediali e alla raccolta di risorse economiche dovrebbero essere affiancati e completati da un limite al numero di multiplex (reti trasmissive digitali) di cui può essere titolare un singolo operatore di rete (v. infra, § 3); in proposito, è utile richiamare quanto rilevato, nella già menzionata segnalazione del 2002 (AS 247 del 19.12.2002), dall’AGCM: «la mancata previsione di una soglia in capo agli operatori di rete permette che si determini il trasferimento dell’attuale duopolio nel mercato nazionale televisivo in tecnica analogica al futuro mercato della fornitura di reti per la trasmissione di programmi in tecnica digitale. Inoltre, i due operatori incumbent, rimanendo liberi di acquisire una posizione di dominanza nel mercato delle infrastrutture trasmissive, potranno controllare, nonostante il limite del 20% sulla fornitura di contenuti televisivi, la futura evoluzione della struttura competitiva del settore. ... In altri termini, si corre il rischio che un operatore in posizione dominante nel mercato delle infrastrutture trasmissive, essendo in grado di condizionare l’accesso al mercato a valle della fornitura di contenuti, possa indirizzare l’evoluzione della struttura competitiva di tale secondo mercato, riproponendo questioni e problematiche tipiche del settore delle telecomunicazioni fisse» (per una più articolata analisi dei profili critici della legge Gasparri e delle proposte per una riforma dei limiti anticoncentrazione nel settore televisivo, cfr. Apa, E., Osservazioni sul disegno di legge sulla disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale, in Rassegna ASTRID, n. 53 del 28.6.2007).
In forza della delega contenuta nella l. n. 112/2004, le norme primarie in materia radiotelevisiva sono state raccolte nel Testo unico di coordinamento di cui al d.lgs. n. 177/2005.
Il 4.7.2012, con la cessazione delle trasmissioni analogiche (switch off), è stato completato il processo di transizione al digitale su frequenze terrestri, che ha consentito finalmente la redistribuzione delle frequenze agli operatori di rete secondo una pianificazione diretta a consentire uno sfruttamento razionale dello spettro hertziano.
La disciplina della televisione analogica imponeva un modello di integrazione verticale: l’esercizio dell’attività radiotelevisiva era soggetta al rilascio di una concessione, che comprendeva sia la componente editoriale, di predisposizione dei palinsesti, sia la componente tecnica, di gestione degli impianti trasmissivi e delle relative frequenze.
La disciplina della televisione digitale terrestre invece distingue tre figure: a) il «fornitore di servizi di media» (v. supra, § 1), che esercita il controllo editoriale sui contenuti; b) l’«operatore di rete», che gestisce le infrastrutture che consentono la trasmissione dei programmi agli utenti, siano esse reti su frequenze terrestri, via cavo o via satellite; c) il «fornitore di servizi interattivi associati o di servizi di accesso condizionato», che fornisce al pubblico servizi di accesso condizionato (mediante la distribuzione di chiavi numeriche per l’abilitazione alla visione dei programmi, la fatturazione dei servizi ed eventualmente la fornitura di apparati quali i decoder), servizi della società dell’informazione o una guida elettronica ai programmi.
L’attività di fornitore di servizi di media lineari è soggetta ad autorizzazione (delibere AGCOM n. 353/11/CONS per le emittenti in tecnica digitale su frequenze terrestri, n. 127/00/CONS per le emittenti via satellite e via cavo coassiale, n. 606/10/CONS per i servizi di media lineari su altri mezzi di comunicazione elettronica, compresi internet e IPTV).
L’attività di operatore di rete e la fornitura di servizi interattivi associati o di servizi di accesso condizionato sono soggette ad autorizzazione generale, pertanto possono essere esercitate a decorrere dalla presentazione di una segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. 1.8.2003, n. 259. Il diritto di uso delle frequenze terrestri, in quanto risorse scarse, è conseguito con distinto provvedimento, rilasciato dal Ministero dello sviluppo economico.
È soggetta ad autorizzazione generale anche l’attività di fornitore di servizi di media non lineari, esterna alla nozione di televisione (delibera AGCOM n. 607/10/CONS).
Alle emittenti televisive è fatto assoluto divieto di diffondere programmi che possono nuocere gravemente allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori, quali quelli che presentino scene pornografiche o di violenza gratuita, insistita o efferata, i film vietati ai minori di anni 18 e i film cui sia stato negato il nulla osta alla rappresentazione in pubblico. Tali contenuti possono essere diffusi solo dai fornitori di servizi di media a richiesta, previa adozione di misure idonee ad impedirne la fruizione da parte di minori; dette misure devono comprendere apposita segnaletica e un sistema di controllo specifico e selettivo conforme alle specifiche determinate dall’AGCOM.
Vige invece un divieto relativo riguardo alla diffusione di contenuti che siano nocivi (in maniera non grave) per i minori, quali i film vietati ai minori di anni 14. Tali contenuti possono essere trasmessi anche in chiaro in orario notturno (dalle 23 alle 7) o, con accorgimenti tecnici che escludano i minori, durante il giorno. In ogni caso, devono essere preceduti da avvertenza acustica e identificati da apposito simbolo visivo per l’intera durata della trasmissione.
Occorre interrogarsi sulla ragionevolezza del radicale divieto di trasmissione di contenuti gravemente nocivi mediante servizi di media audiovisivi lineari: non si comprende, in particolare, perché il divieto dovrebbe applicarsi anche a fronte dell’adozione di accorgimenti che escludano l’accesso a detti contenuti da parte di minori e di adulti non consenzienti. Tali perplessità sono corroborate dalle argomentazioni che si traggono dalla giurisprudenza costituzionale sull’art. 528 c.p., che individua nella concreta attitudine offensiva «la misura di illiceità dell’osceno e, quindi, il limite della sua stessa punibilità», escludendo quindi la riprovazione penale delle manifestazioni pure intrinsecamente oscene (ad es.: film pornografici) ove esse si esauriscano nella sfera privata o, pur esulando da tale sfera, siano destinate a raggiungere altri soggetti con modalità e cautele tali da prevenire ragionevolmente il pericolo di aggressione al pudore di terzi e della collettività in generale (cfr. C. cost., 27.7.1992, n. 368). Né si scorge un’apprezzabile differenza, in termini di tutela degli utenti, tra alcune modalità di distribuzione lineare, quali la pay-per-view, e i servizi a richiesta, nella misura in cui ambedue siano associati a filtri tecnici idonei ad impedire che minori e adulti che non lo desiderano siano esposti a contenuti particolarmente violenti o sessualmente espliciti.
La legge prevede limiti all’affollamento pubblicitario, per tutelare l’utenza dall’eccessiva invadenza delle interruzioni pubblicitarie e per «non inaridire una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa» (C. cost. n. 225/1974).
Gli spot pubblicitari sono soggetti ad un limite orario del 18% (ma sforamenti contenuti entro il 2% sono tollerati se recuperati nell’ora precedente o successiva) e ad un limite giornaliero del 15% dell’orario di trasmissione; la proporzione di spot pubblicitari e spot di televendita non deve superare il 20% di ciascuna ora. È inoltre possibile dedicare fino ad un’ora e 12 minuti al giorno ad «altre forme di pubblicità», quali le telepromozioni.
Limiti più restrittivi si applicano ai canali a pagamento e alla concessionaria del servizio pubblico; soglie più elevate valgono invece per l’emittenza locale.
Non si computano ai fini dell’affollamento pubblicitario le finestre di televendita di durata pari ad almeno 15 minuti, l’inserimento di prodotti («product placement»), la sponsorizzazione, l’autopromozione ed alcuni messaggi aventi oggetto particolare (es.: i trailer di film europei).
La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile e distinguibile dal contenuto editoriale.
Ove essa interrompa un programma, deve farlo senza pregiudicarne l’integrità. La frequenza dei break pubblicitari e le modalità di inserimento degli stessi nei programmi sono oggetto di specifica disciplina. Ad esempio, a) le funzioni religiose non ammettono interruzioni pubblicitarie; b) i notiziari e i film possono essere interrotti solo una volta per ogni periodo programmato di 30 minuti; c) le serie televisive possono essere interrotte in qualsiasi momento, nel rispetto dei tetti di affollamento; d) ecc.
Tra le fonti secondarie in materia pubblicitaria, particolare importanza riveste il regolamento di cui alla delibera AGCOM 538/01/CSP.
Al fine di promuovere la produzione audiovisiva europea, le emittenti televisive devono riservare a) la maggior parte del loro tempo di trasmissione (escluso quello dedicato ad alcune tipologie di programmi) alle opere europee e b) il 10 % dei propri introiti netti annui ad investimenti in opere europee realizzate da produttori indipendenti. Ulteriori quote di emissione e investimento hanno ad oggetto opere europee degli ultimi cinque anni, opere cinematografiche di espressione originale italiana, opere per i minori.
L’AGCOM, al ricorrere di determinati presupposti, può concedere deroghe.
La concessionaria del servizio pubblico deve rispettare quote più elevate; apposite norme regolano la graduale applicazione di quote anche ai fornitori di servizi a richiesta.
La materia è disciplinata dalla delibera AGCOM n. 66/09/CONS.
Il d.lgs. n. 177/2005 disciplina diversi altri aspetti dell’attività radiotelevisiva, dall’informazione all’obbligo di rettifica, dall’ordinamento automatico dei canali terrestri al rispetto del diritto d’autore da parte dei fornitori di servizi di media audiovisivi, dagli eventi di particolare rilevanza di cui è assicurata la diffusione in chiaro ai brevi estratti di cronaca («news access»), dai comunicati di organi pubblici alle trasmissioni transfrontaliere, dalla limitazione temporale di utilizzo dei diritti secondari alla gestione dello spettro frequenziale, ecc.
Tali norme sono integrate dai regolamenti dell’AGCOM.
Le emittenti sono poi soggette a norme che si rinvengono in altri testi legislativi, ad esempio la disciplina sulla cd. par condicio in periodo elettorale (l. 22.2.2000, n. 28).
Secondo la ricostruzione che ha maggior seguito in dottrina e in giurisprudenza, l’attività radiotelevisiva costituisce un servizio pubblico (oggettivo), per cui è legittima l’imposizione di obblighi anche a carico delle emittenti private. Anche la legislazione vigente accoglie una nozione ampia di servizio pubblico radiotelevisivo (artt. 2, 3 e 7 del Testo unico di cui al d.lgs. n. 177/2005). Limiti più stringenti, sia modali che contenutistici, possono essere imposti alla concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo (inteso questa volta in senso soggettivo).
Il servizio pubblico generale radiotelevisivo è affidato in concessione alla RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A., società in mano pubblica che lo svolge sulla base di un contratto di servizio stipulato con il Ministero competente. La Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi indica sette membri del consiglio di amministrazione della RAI, eleggendoli con il voto limitato a uno; i restanti due membri, tra cui il presidente, sono invece indicati dal Ministero del tesoro.
Eccezion fatta per voci isolate (Zeno Zencovich, V., Motivi ed obiettivi della disciplina della televisione digitale, in Dir. inf., 2005, 678), dottrina e giurisprudenza concordano sull’opportunità di un soggetto investito di una specifica missione di servizio pubblico, ruolo non altrimenti surrogabile in quanto funzionale alla realizzazione del principio democratico, laddove in altri settori l’interesse generale può essere soddisfatto da soggetti privati (in questo ordine d’idee, Cerri, A., Libertà di pensiero: manifestazione, diffusione, mezzi, in Giur. cost., 1972, 2881, sostiene che sarebbe legittimo anche un intervento pubblico nella stampa qualora dall’iniziativa economica privata non derivasse un’offerta informativa sufficientemente ampia e variegata).
Secondo la tesi più accreditata, corroborata dal dettato normativo (v. l’art. 2 del Testo unico), il servizio pubblico radiotelevisivo contraddistingue una complessiva attività che non si esaurisce in alcune determinate tipologie di programmi: quindi non solo i programmi culturali ed informativi, ma tutti i programmi della RAI, anche quelli di intrattenimento, identificherebbero prestazioni di servizio pubblico, in quanto la mission di interesse generale della RAI ne informerebbe l’intera programmazione.
La RAI trae il proprio finanziamento, oltre che dalla raccolta pubblicitaria (che le è consentita con limiti maggiori di quelli applicabili alle emittenti commerciali), dai proventi del canone di abbonamento radiotelevisivo. La disciplina del canone è contenuta essenzialmente nel r.d.l. 21.2.1938, n. 246, a mente del quale «chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento».
La dottrina si è a lungo interrogata sulla natura del canone: se costituisca un corrispettivo corrisposto alla RAI dagli utenti o abbia natura tributaria, di tassa o di imposta. La Corte costituzionale ha affermato la legittimità della disciplina del canone, prospettando una ricostruzione dell’istituto in termini di «imposta di scopo» (C. cost., 26.6.2002, n. 284). Occorre tuttavia rilevare come il giudice delle leggi (C. cost., ordd. nn. 219 e 499/1989) abbia offerto argomenti poco appaganti in ordine alla ragionevolezza della manifestazione di capacità contributiva, individuata nella detenzione di un apparecchio radiotelevisivo, cui l’imposta sarebbe ancorata (per una più articolata critica all’orientamento giurisprudenziale, sia consentito rinviare ad Apa, E.-Ceraso, L., Il canone di abbonamento radiotelevisivo tra servizio pubblico e disciplina europea degli aiuti di Stato, in Luchena, G.-Prisco, S., a cura di, Aiuti di Stato tra diritti e mercato, Roma, 2007, 107 ss.).
Anche la Commissione europea (C(2005)1164 fin, 20.4.2005) ha dichiarato il canone di abbonamento compatibile con la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato.
D.lgs. 31.7.2005, n. 177.
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