Rafael Bombelli
Ultimo esponente della scuola algebrica italiana cinquecentesca, Rafael Bombelli è autore del trattato L’algebra (1572) che, da un lato, presenta un quadro organico e completo di una disciplina che si era arricchita di diversi risultati originali nel corso del secolo – primo tra tutti, la risoluzione delle equazioni di terzo e quarto grado – e, dall’altro, cerca di affrancarsi dalla tradizione abachistica, privilegiando un approccio speculativo mutuato dall’Aritmetica di Diofanto (3°-4° sec.). Uno dei risultati più notevoli dell’Algebra è la soluzione, in alcuni casi particolari, del caso irriducibile dell’equazione cubica, brillantemente ottenuta da Bombelli con l’introduzione dei nuovi segni «più di meno» e «meno di meno».
Le scarse notizie relative alla vita di Rafael (o Raffaele) Bombelli si possono desumere dai suoi scritti e da diversi documenti ritrovati presso alcuni archivi bolognesi e romani (Jayawardene 1963 e 1965). La famiglia, originaria di Borgo Panigale, aveva cognome Mazzoli e parteggiava per la famiglia Bentivoglio, che governò Bologna fino al 1508, anno in cui papa Giulio II la spodestò e ne mandò in esilio i membri, confiscando i beni anche alle famiglie che l’avevano sostenuta. Fu il padre di Rafael, Antonio, che rientrò in possesso delle proprietà familiari e probabilmente assunse l’alias Bombelli che trasmise ai propri figli, nessuno dei quali infatti usò il cognome Mazzoli.
Antonio si trasferì a Bologna, dove divenne commerciante di lana e sposò Diamante Scudieri, figlia di un sarto. Ebbero sei figli, il primo dei quali fu Rafael, battezzato il 20 gennaio 1526. Le uniche notizie sulla sua formazione matematica provengono dalla dedicatoria dell’Algebra, in cui afferma di aver avuto come precettore l’architetto-ingegnere Pier Francesco Clementi di Corinaldo, che aveva partecipato ai lavori di bonifica delle paludi di Foligno sotto il pontificato di Paolo III. Lo stesso Bombelli divenne architetto-ingegnere e si pose al servizio di monsignor Alessandro Rufini, chierico papale e poi vescovo di Melfi dal 1548 al 1574. In veste di «ingegniero della diseccatione» partecipò alla bonifica della Val di Chiana, iniziata nel 1549; alcuni documenti, stilati per stabilire i confini delle terre bonificate, certificano la sua presenza in quei luoghi fin dal 1551. Si tratta però di una presenza intermittente – per es., Rafael e il fratello Ercole erano a Bologna nel 1556 per un atto notarile – dovuta alle frequenti interruzioni occorse negli anni Cinquanta a causa dei disordini politici di cui quelle terre furono teatro.
Nel 1560 Bombelli era di nuovo in Val di Chiana, ma l’anno successivo i lavori di bonifica si conclusero ed egli andò a Roma per sovrintendere alla riparazione del Ponte Santa Maria sul Tevere (oggi noto come Ponte Rotto), che era stato danneggiato da un’alluvione nel 1557. I lavori, tuttavia, non andarono a buon fine a causa del cedimento della struttura in legno che avrebbe dovuto sorreggere il ponte. Per quanto risulti plausibile, data la fama che i lavori in Val di Chiana gli avevano procurato, non è certo che Rafael sia stato incaricato per la bonifica delle Paludi pontine, progettata durante il pontificato di Pio IV, ma mai realizzata. La data di morte, ignota, è compresa tra il 23 giugno 1572, data della lettera dedicatoria dell’Algebra, e il 5 maggio 1573, giorno in cui venne stilato un atto notarile in cui si citano i figli Antonio ed Ercole come eredi «Domini Raffaelis de Bombellis Bononiensis».
Sono numerosi gli aspetti ancora da chiarire circa la genesi dell’Algebra: in primo luogo rimane da stabilire la data della stesura originaria dell’opera, che comunque si ritiene molto antecedente all’edizione del 1572. Nella lettera dedicatoria indirizzata a monsignor Rufini, Bombelli narra di aver composto L’algebra nella Villa Rufina di Frascati (oggi Villa Falconieri), messa a disposizione dal suo protettore, «all’hora che quasi era abbandonata l’impresa della essicatione della Palude Chiana»; aggiunge in seguito di aver lavorato in compagnia del concittadino Francesco Maria Salando e soprattutto del fratello Ercole «anco egli di questa professione e così ben versato nelle Matematiche, che se malvagia morte avanti tempo nol toglieva, egli à sommo grado in quelle sarebbe gionto» (L’algebra, 1572).
Se in un primo tempo i documenti noti sembravano avvalorare l’ipotesi di una prima redazione compiuta all’inizio degli anni Cinquanta (L’algebra opera di Rafael Bombelli da Bologna, a cura di E. Bortolotti, 1929), la ricostruzione più puntuale dei lavori di bonifica e il ritrovamento dell’atto di battesimo di Ercole, datato 3 maggio 1541, rendono plausibile uno slittamento alla fine del decennio (Jayawardene 1965). La stesura originale era più ampia di quella che venne consegnata per la stampa, e alla fine del trattato l’autore annunciava l’imminente uscita di una nuova opera, dedicata alle relazioni reciproche tra algebra e geometria, all’epoca «non ancora ridutta a quella perfettione che la eccellentia di questa disciplina ricerca» (L’algebra, 1572, p. 648). Questo scritto, probabilmente a causa della sopraggiunta morte di Bombelli, non venne mai pubblicato, mentre nel 1579 uscì dai torchi una nuova edizione dell’Algebra, perfettamente identica all’editio princeps a eccezione del frontespizio.
Nel 1923 lo storico della matematica Ettore Bortolotti (1866-1947) ritrovò a Bologna due manoscritti inediti del trattato di Bombelli: il primo, conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, è suddiviso in cinque libri – due in più dell’edizione a stampa – mentre il secondo, custodito presso la Biblioteca universitaria, comprende solo il Libro III e la parte iniziale del Libro IV. La datazione dei codici oscilla tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Cinquecento (rispettivamente L’algebra opera di Rafael Bombelli da Bologna, cit., e Van Egmond 1980). Il manoscritto mutilo non presenta varianti di rilievo, nella parte comune, rispetto a quello completo, ma entrambi differiscono significativamente dall’edizione a stampa. La maggior parte dei marginalia dei primi due libri manoscritti sono stati integrati nell’edizione del 1572, mentre alcune costruzioni geometriche del Libro IV sono confluite nella versione a stampa del Libro II. Infine il Libro III, come vedremo più in dettaglio, è stato quasi completamente riscritto secondo un’impostazione diversa.
Bortolotti pubblicò i Libri IV e V a pochi anni di distanza dal loro ritrovamento (L’algebra opera di Rafael Bombelli da Bologna, cit.), mentre l’edizione completa, che è ancora oggi l’unica disponibile, fu stampata quasi quattro decenni dopo e si basa sulla sola edizione a stampa del 1572 per i primi tre libri e sulla stampa del 1929 per gli ultimi due (L’algebra. Prima edizione integrale, a cura di E. Bortolotti, U. Forti, 1966).
Nel 1539 Girolamo Cardano era riuscito a carpire al matematico bresciano Niccolò Tartaglia la formula risolutiva dell’equazione di terzo grado, ma si era impegnato a non renderla pubblica nella sua Practica arithmetice et mensurandi singularis, di imminente pubblicazione. Secondo il racconto del suo allievo Ludovico Ferrari (Cartelli di sfida matematica, a cura di A. Masotti, 1974, pp. 27-28), dopo aver scoperto che la formula era già nota a Scipione Dal Ferro (1465-1526) da più di un ventennio, Cardano si sentì sciolto dalla promessa e decise di pubblicare tanto la formula risolutiva dell’equazione di terzo grado quanto quella di quarto grado, che nel frattempo era stata trovata dallo stesso Ferrari.
L’Ars magna (1545) di Cardano divenne una pietra miliare dell’algebra cinquecentesca, ma soffriva di alcuni limiti: innanzi tutto non poteva dirsi un modello di chiarezza espositiva e soprattutto lasciava ancora insoluto il caso irriducibile dell’equazione cubica, che si presentava quando nella formula risolutiva comparivano radici di numeri negativi. Nella seconda edizione dell’Ars magna (1570), Cardano aveva apportato alcune correzioni marginali rispetto all’editio princeps e aveva pubblicato un breve trattato, il De regula aliza libellus (1570), in cui aveva raccolto i più che ventennali tentativi di venire a capo del caso irriducibile.
In questo contesto si inserisce la pubblicazione dell’Algebra di Bombelli, che comincia la sua opera con un elenco dei matematici che avevano contribuito allo sviluppo dell’algebra, ma solo per affermare che i loro scritti erano insoddisfacenti e lacunosi con l’unica eccezione di «Cardano Melanese», che aveva composto un’opera veramente profonda, sminuita solo da uno stile oscuro e confuso. Bombelli riteneva l’algebra la più importante tra le discipline matematiche «perché di lei tutte l’altre bisogna», e con la sua opera si proponeva di rappresentare la summa del sapere algebrico, ordinato secondo un criterio di difficoltà crescente e senza lacune, ovvero ridotto «a perfetto ordine». Sebbene l’Ars magna di Cardano rappresentasse un termine di confronto spesso sottinteso, ma pervicacemente presente, Bombelli non condivise la scelta di scrivere in latino per raggiungere anche il pubblico colto oltremontano, ma rimase nell’alveo della tradizione abachistica e scrisse il suo trattato in volgare, venandolo talvolta di coloriture dialettali.
Nel Libro I dell’Algebra vengono definiti gli elementi fondamentali – potenze, radici, binomi, trinomi – e le regole aritmetiche per operare con essi: si tratta in buona sostanza di un’interpretazione aritmetica del Libro X degli Elementi di Euclide, che costituisce un tema ricorrente della matematica abachistica. Esaurite le necessarie premesse, il Libro II si apre con la definizione delle potenze algebriche e prosegue con quella che in termini moderni potrebbe chiamarsi algebra elementare dei polinomi; nella seconda parte si studiano le soluzioni delle equazioni dal primo al quarto grado.
I capitoli sono strutturati in maniera analoga a quel- li dell’Ars magna: enunciato della formula espresso in forma retorica, esempi esplicativi a corredo e interpretazione geometrica dell’algoritmo risolutivo per garantirne la reale generalità. Il mondo di Bombelli non è ancora quello dell’algebra simbolica e le equazioni non solo sono espresse con un linguaggio sincopato, per quanto assai evoluto, ma devono sottostare alla condizione di positività dei coefficienti, il che implica di contemplare un certo numero di casi per ogni tipo di equazione: basti pensare che per l’equazione di quarto grado ne vengono elencati ben 42. È in questa parte del trattato che si affronta il caso irriducibile dell’equazione cubica.
Cardano aveva cercato di trovare delle regole per poter operare con le radici quadrate dei numeri negativi, che aveva chiamato radici sofistiche, ma si era arenato sul problema di stabilire quale segno avessero: il fatto che il loro quadrato fosse un numero negativo contraddiceva palesemente l’usuale regola dei segni. Per superare l’ostacolo, Bombelli inventò i nuovi segni «più di meno» e «meno di meno», per i quali stabilì opportune regole di moltiplicazione. Su questa base costruì un’aritmetica delle «quantità sofistiche» che gli consentì di dare un senso alla formula cardaniana nel caso irriducibile; inoltre, nei casi particolari in cui risultava semplice estrarre le radici cubiche di queste espressioni, Bombelli fu finalmente in grado di ricavare concretamente le tre radici reali dell’equazione e di ottenere il risultato più rilevante di questi primi due libri, che sono tra le migliori sintesi dell’algebra abachistica occidentale.
Nell’excursus storico presentato nel proemio iniziale, oltre ai matematici più noti – al-Ḫwārizmī, Fibonacci, Pacioli e Cardano, per citarne solo alcuni – compare un «certo Diofante alessandrino autor greco», personaggio ancora poco noto negli anni Settanta del Cinquecento, destinato però a rivestire un’importanza rilevante nello sviluppo dell’algebra simbolica e dell’analisi indeterminata.
Bombelli racconta di aver trovato un codice greco dell’Aritmetica di Diofanto nella Biblioteca Vaticana e di averne tradotto cinque libri – l’opera era invece divisa in 13 libri, sei dei quali sono pervenuti in greco e quattro in arabo – con l’aiuto di Antonio Maria Pazzi (morto nel 1585), lettore di matematiche dell’Università di Roma. L’esistenza di un’opera greca dedicata allo studio delle equazioni determinate e indeterminate dei primi due gradi assumeva una straordinaria importanza agli occhi di Bombelli e dei suoi contemporanei, perché consentiva di includere anche l’algebra nel corpus matematico classico del quale la matematica rinascimentale si sentiva legittima erede.
Lo studio dell’Aritmetica influenzò profondamente il matematico bolognese che, verosimilmente, rielaborò il proprio trattato alla luce dell’opera diofantea, a partire dall’adozione di una nuova terminologia algebrica e di un diverso simbolismo. Per es., i termini cosa e censo, che nella tradizione abachistica identificavano l’incognita e il suo quadrato – al punto tale che gli algebristi italiani venivano chiamati cossisti – vengono sostituiti da «tanto» e «potenza», termini «universalissimi» e quindi più adatti a una disciplina che doveva ambire, secondo Bombelli, a studiare quantità generali e a svincolarsi da una realtà esclusivamente mercantile. Inoltre, nei manoscritti viene fatto uso di un simbolismo, in alcuni casi molto prossimo a quello diofanteo, che sarà modificato nel testo a stampa a causa delle difficoltà di composizione tipografica. Nel caso della notazione della potenza di un’incognita, nei manoscritti figura una semicirconferenza al di sopra del coefficiente entro la quale viene indicato il numero cardinale della potenza; nella versione a stampa, la semicirconferenza viene spostata a destra del coefficiente in modo da rimanere nella stessa riga. Il segno di radicale è indicato nei codici da due parentesi quadrate, entro cui si trova il radicando, separate da un tratto orizzontale posto al di sotto della riga di scrittura, ma il tratto si perde nella stampa; infine i simboli di radice quadrata (R) e di radice cubica (R3) vengono sostituiti dai più comuni Rq e Rc.
L’influenza del codice greco è però veramente profonda nel Libro III dell’Algebra, che subisce una trasformazione radicale: nei manoscritti è una miscellanea di problemi palesemente riconducibili alla trattatistica dell’abaco (Jayawardene 1973), nell’edizione a stampa è una raccolta di 272 problemi, 143 dei quali sono tratti dai primi cinque libri dell’Aritmetica diofantea. Bombelli è un matematico e non un umanista né un filologo, per cui non è interessato a compiere una traduzione letterale del testo greco, ma all’occorrenza adatta i problemi diofantei ai suoi scopi, introducendo, per es., numeri irrazionali e radici cubiche al posto dei soli numeri razionali usati da Diofanto. Non di rado allo svolgimento dei problemi vengono aggiunte appendici in cui l’algoritmo risolutivo viene ripetuto eliminando i riferimenti ai dati numerici, in modo da formulare una regola del tutto generale. Con la scelta di pubblicare i problemi diofantei, Bombelli è perfettamente consapevole di aver «deviato dall’uso de’ scrittori di questa disciplina» (L’algebra, 1572, p. 414) ma giustifica la scelta di imitare gli «antichi scrittori» affermando che i problemi astratti, soprattutto nell’insegnamento della matematica, garantiscono una maggior generalità e sottolinea come sia opportuno far precedere l’aspetto teorico a quello meramente applicativo «pensandosi che la capacità dello intelletto humano debbia poi esser tale ch’egli per se debbia, posedendo la Teorica, venire all’uso della pratica» (p. 414).
I Libri IV e V sono dedicati all’algebra linearia, ovvero all’uso dell’algebra nella risoluzione dei problemi geometrici: mentre il primo si presenta in uno stato di redazione molto avanzato, il secondo è poco più che abbozzato. La prima parte del Libro IV comprende la descrizione di un certo numero di costruzioni geometriche – per es., la perpendicolare o la parallela a una retta data, oppure la divisione di un segmento in 2 o 3 parti uguali – mutuate dagli Elementi di Euclide. La seconda parte, invece, presenta un’interpretazione geometrica delle operazioni aritmetiche elementari (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione, estrazione di radice quadrata e cubica) in cui viene introdotto l’uso del segmento unitario. Queste due sezioni sono propedeutiche alla terza e ultima, in cui vengono date dimostrazioni geometriche delle regole algebriche per la risoluzione di equazioni dal primo al quarto grado, nonché rappresentazioni degli irrazionali quadratici nello stile del Libro X degli Elementi e soluzioni di problemi riconducibili a equazioni di secondo grado. Il Libro V è dedicato alla costruzione di poligoni regolari inscritti in un cerchio, alla divisione di figure piane secondo rapporti fissati e alla costruzione dei cinque poliedri regolari e di tre poliedri semiregolari. Con l’algebra linearia Bombelli evidenzia lo stretto legame che unisce l’algebra alla geometria: la seconda costituisce il fondamento teorico della prima e fornisce i mezzi per rappresentare le soluzioni delle equazioni algebriche; viceversa, le manipolazioni e le formule algebriche si possono opportunamente interpretare come istruzioni per realizzare costruzioni geometriche. Questa reciprocità, influenzata dalle pratiche abachistiche, nell’opera di Bombelli è diretta e ricostruita caso per caso, senza essere mediata da una teoria – come sarà per es. la teoria delle proporzioni per François Viète (1540-1603) – che consenta di formulare regole valide almeno per gruppi di esempi accomunati da affinità strutturali. Eppure, lo spirito del quale René Descartes informerà la sua Géométrie (1637) – una delle pietre miliari della matematica contemporanea – sarà molto più prossimo a quello di Bombelli che a quello di Viète, matematicamente più rigoroso forse, ma meno efficace (Giusti 1992).
La ricezione dell’Algebra di Bombelli attende ancora una ricostruzione dettagliata, ma è probabile che essa non abbia conosciuto la diffusione che avrebbe meritato. Certamente influenzò Simon Stevin (1548-1620), che rese omaggio al matematico bolognese nella sua Arithmétique (1585), mentre Claude-Gaspard Bachet de Méziriac (1581-1638), editore dell’editio princeps del testo greco dell’Aritmetica di Diofanto con traduzione e commento latini (1621), utilizzò frequentemente l’Algebra, preferendola alla traduzione latina curata nel 1575 dall’umanista tedesco Guilielmus Xylander (1532-1576). Tra gli estimatori più illustri si annovera Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716), che apprezzò a tal punto il trattato da fregiare il suo autore del titolo di «Egregium certe artis analyticae magistrum» per aver risolto il caso irriducibile, autentica croce degli algebristi rinascimentali (Briefwechsel von G.W. Leibniz mit Mathematikern, hrsg. G. Gerhardt, 1899, pp. 559, 552).
L’algebra parte maggiore dell’aritmetica divisa in tre libri di Rafael Bombelli da Bologna, Bologna 1572.
L’algebra opera di Rafael Bombelli da Bologna: libri IV e V comprendenti la parte geometrica inedita tratta dal manoscritto B.1569 della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, a cura di E. Bortolotti, Bologna 1929.
L’algebra. Prima edizione integrale, a cura di E. Bortolotti, U. Forti, Milano 1966.
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