CONFORTI, Raffaele
Nacque a Calvanico (Salerno) il 4 ott. 1804 da Luigi e da Maddalena Montefusco. Il padre, ricco possidente, era lontano parente di quel G. Francesco Conforti che, ministro dell'Interno della Repubblica partenopea del 1799, era finito sulla forca al tempo della reazione borbonica. Compiuti in casa i primi studi, il C. fu iscritto al liceo di Salerno uscendone nel '24 con la laurea in diritto e l'intenzione di intraprendere l'avvocatura. Il buon successo conseguito nei primi impegni professionali lo spinse intorno al '32 a trasferirsi a Napoli; il fatto di riuscire ad emergere in un ambiente dalle antiche tradizioni e tra figure di prestigio come D. Capitelli, G. Poerio, G. Pisanelli, R. Savarese testimonia le indubbie doti di penalista del C., in cui una grande padronanza del codice si completava con un'eloquenza incisiva, e fantasiosa.
Da quando, nel 1808, era stata decisa la pubblicità dei processi, il ruolo dell'avvocato difensore aveva finito per esercitare soprattutto a Napoli un richiamo fortissimo su vasti strati della cittadinanza; e gli studi giuridici, stimolati anche da questa popolarità, erano stati una delle componenti non minori del risveglio culturale della città. D'altro canto la consapevolezza dell'interesse suscitato nel pubblico influiva sui moduli espressivi dei penalisti cui conferiva un'impronta di maniera ed una ripetitività retorica. Cosa che ben si vede dalle arringhe giovanili del C., di una eloquenza enfatica e pesante, imbevute di citazioni che erano il retaggio della sua cultura umanistica e di immagini a forti tinte dei male, rappresentato di volta in volta come "demone furibondo il quale si abbevera e gavazza nel sangue", "occhi nuotanti nel sangue e spiranti ferocia", "congrega tenebrosa", "sozze voglie". Molti anni più tardi, nell'aula del Parlamento italiano, il C. sarà fiero di ricordare questo periodo napoletano in cui "tutti gli accusati da me difesi avevano avuta salva la vita" (Atti parlamentari, Camera, legislatura VIII, sessione 1861-63, Discussioni, XI, p. 8588), cosa che indubbiamente torna a merito della sua preparazione: ma la celebrità gli venne appunto dal sapiente impasto di immagini, ora tenui ora crude, con cui l'esperto mestierante andava incontro ai gusti del pubblico.
Con la concessione regia dello statuto il C. fu quasi naturalmente, uno dei maggiori esponenti di quel gruppo dirigente liberale cui toccò gestire e quindi veder naufragare l'esperienza costituzionale: prima ai vertici della magistratura come procuratore generale della Gran Corte criminale, il C. fu in seguito chiamato dal presidente designato C. Troya a far parte del ministero del 3 apr. '48 in cui assunse, dopo una breve esperienza al dicastero della Polizia, il portafoglio dell'Interno (12 apr. 1848).
Nelle riunioni politiche che avevano preceduto la riuscita del ministero Troya il C. si era schierato con il gruppo, capeggiato da A. Seliceti e C. De Lieto, che aveva cercato di imporre un programma molto avanzato i cui punti qualificanti erano l'abolizione della Camera dei pari, l'introduzione del suffragio universale, la riforma dello statuto da parte della Camera con funzioni di Costituente, e una decisa partecipazione alla guerra nazionale. Una volta al potere, il C. dovette contemperare queste aspirazioni con il moderatismo dei colleghi di governo che, timorosi di compromettere con atteggiamenti troppo velleitari le riforme ottenute, si muovevano su una linea gradualistica. Il C. rivolse i primi sforzi al tentativo di razionalizzare l'amministrazione statale con provvedimenti tendenti a fare ordine nel campo della burocrazia. Ma l'ideale che più faceva presa su di lui ora quello della guerra nazionale: probabilmente fu proprio per far convergere sul programma indipendentistico il maggior numero di simpatie che il 22 aprile il suo ministero, in una circolare agli intendenti del Regno, sanciva il ritorno ai comuni delle terre usurpate e la divisione dei demani. Era un sostanziale riconoscimento della validità, se non della legittimità, delle occupazioni di terre già effettuate in molte zone dai contadini; ma era un riconoscimento che, in mancanza di misure adeguate di governo, accresceva le aspettative dei contadini senza soddisfarle e allarmava quei ceti possidenti dai quali veniva il maggior sostegno al ministero costituzionale. Messo alle strette dal deteriorarsi della situazione, resa più grave dall'intervento, sobillatore dei reazionari, il C. dovette chiedere la repressione dei moti contadini (circolare del 10 maggio 1848) e accettare il ritiro delle truppe impegnate al Nord nella guerra, che era l'unica concessione strappata a Ferdinando II tra le richieste inserite nel vecchio programma. Le altre, soprattutto quella di "svolgimento" dello statuto in senso liberale, erano il detonatore che di lì a poco avrebbe provocato la tragedia del 15 maggio: di fronte ai rifiuti del re, il C. provò a mediare tra gli opposti interessi della Corona e della Camera (alla quale nel frattempo era stato eletto nei collegi di Napoli e Salerno), ma il 14, visto impossibile ogni tentativo di conciliazione, il governo Troya si dimetteva. Quello che, dopo i fatti del 15 maggio, ne prendeva il posto, interpretava ben più fedelmente, nella sua docilità, il ruolo antico di semplice strumento dell'autorità regia.
Nei pochi mesi che durò ancora l'esperienza costituzionale napoletana il C. prese parte ai lavori di un Parlamento che lottava per sottrarre pochi spazi di libertà al sempre più autoritario potere, e col Poerio e il Pisanelli fu il più implacabile accusatore della illegalità di un ministero che attuava una politica controrivoluzionaria pretendendo di "voler governare a malgrado della Camera legislativa", privo com'era di un qualsiasi sostegno in Parlamento e completamente incurante del fatto che "il reggimento costituzionale è infecondo senza l'armonia dei poteri" (intervento del 12 febbr. '49, in Le Assemblee del Risorgimento, Napoli, II, pp. 141 s.).Quindici giorni dopo il C. affidava ad un progetto di legge per la riforma del codice penale militare l'ultima testimonianza del suo liberalismo: l'umanitarismo che si scorgeva nella sua proposta di abolire la pena delle bacchette ancora in uso nell'esercito borbonico era in evidente collegamento con la lezione di C. Beccaria.
Dopo lo scioglimento della Camera (13 marzo '49) il C. dovette nascondersi per sottrarsi alle ricerche della giustizia che aveva intrapreso le prime azioni giudiziarie contro gli esponenti liberali, considerati non vittime ma colpevoli dei fatti del 15 maggio e perseguitati come autori di una congiura contro il potere monarchico. Il 20 ag. 1853 il processo si concluse con una condanna a morte per il C., reo di essersi recato più volte a Salerno e di avervi avuto contatti "con persone notoriamente reputate settarie e soprattutto con G. A. Romeo" (Mazziotti, pp. 121 ss.), ma a quell'epoca il C., che effettivamente era stato nel '48 membro del Comitato liberale salernitano (cfr. Cassese, p. 223), si era già rifugiato nel regno sardo.
Aveva lasciato Napoli il 1° ott. 1849: una nave francese lo aveva portato, travestito da marinaio, a Genova, ove era rimasto fino al luglio del '52. Non dovette esser facile per il C. adattarsi ad un ambiente che pure mostrava di apprezzare il suo ingegno, gli offriva l'amicizia di un Pareto o di un Mamiani, e gli consentiva attraverso l'Accademia di filosofia italica di far sentire la sua voce sulla riforma del sistema penitenziario sardo e di enunciare il principio della pena come rieducazione e non come punizione del reo. A differenza di tanti altri esuli meridionali, che accetteranno con entusiasmo e proclameranno con fanatismo da neofiti i pregi del sistema di vita piemontese, il C. conserverà sempre il senso di una superiorità culturale del Meridione almeno negli studi giuridici, tanto che nel '61, in pieno Parlamento, si dirà scettico sulla bontà del codice penale sardo e ne chiederà l'integrazione con elementi del codice napoletano (Atti Parlamentari. Camera, legislatura VIII, sessione del 1861, Discussioni, I, p. 775). Gli anni genovesi del C. furono solo anni di "studi speculativi", come scriverà egli stesso al guardasigilli Siccardi chiedendo l'autorizzazione all'esercizio dell'avvocatura a Torino (Roma, Museo centr. del Risorgimento, busta 611/23): ottenutala, il 17 luglio '52 passava a Torino e, prima di riprendere la professione, vi curava le note della versione italiana della Storia della filosofia del diritto di F. G. Stahi (I-II, Torino 1853), un testo che gli forniva materiale di riflessione per un breve saggio sui Motivi del socialismo.
Il lavoro fu pubblicato (Genova s. d.) in un opuscoletto intitolato Pensieri economici e legislativi, comprendente altri studi, primo fra tutti uno Del lavoro e della sua retribuzione, dai quali appariva evidente il fondo riformistico del suo pensiero, articolato sulla classica equazione tra liberalismo politico e liberismo economico, e chiuso a ogni ipotesi di mutamento rivoluzionario della realtà. L'amicizia che da anni legava il C. a C. Pisacane non influiva sulle sue posizioni filosofiche: discutendo di socialismo, teoria che faceva derivare non dall'idealismo germanico ma dal sensismo francese, il C., per il quale l'istituto della proprietà privata andava corretto e temperato, non soppresso, ne traeva stimolo ad una concezione più pragmatica dell'economia, ma ne respingeva fermamente metodi e fini.
Come avvocato seppe farsi valere anche a Torino, ma dovette adattare lo stile delle sue arringhe al clima e ai costumi di una città in tutto diversa da Napoli: fu un bene, perché la sua eloquenza perse ogni traccia di enfasi e guadagnò una asciuttezza che non era solo frutto di maturità. Il riconoscimento delle sue capacità, evidenziate anche dalla collaborazione al Cimento, la rivista dell'intelligencija meridionale, gli venne quando il governo sardo, nel quadro di un'azione propagandistica sui più rappresentativi rifugiati politici, lo chiamò a far parte della commissione incaricata di redigere il nuovo codice penale che, completato nel '59, aboliva la pena di morte per reati politici e riduceva a tredici i casi di sua applicazione per reati comuni. A commento del lavoro concluso il C. pubblicava a Torino altri due saggi, Intorno al nuovo codice, criminale (1859) e Intorno al diritto di punire (1860). Questa ascesa culminò con l'elezione al Parlamento subalpino nel collegio di Broni (5 luglio 1860); subito dopo il C., profittando dell'amnistia concessa da Francesco II il 25 giugno, faceva ritorno a Napoli.
Sin dai primi giorni dopo l'arrivo il C. non ebbe vita facile. I suoi atteggiamenti di poca simpatia per la politica cavouriana, già venuti alla luce nelle riunioni politiche tenute a Torino dagli esuli meridionali nella primavera del 1860 (cfr. Il carteggio del M.se di Roccaforte, a cura di N. Giordano., Palermo 1971 p. 241), e una certa equidistanza tra Destra e Sinistra spinsero Garibaldi ad affidargli compiti di mediazione tra i moderati del Comitato dello ordine e i democratici del Comitato d'azione; ma d'altra parte proprio questa neutralità lo rendeva sospetto ai filopiemontesi, e non gli acquistava il favore dei democratici che per bocca di G. Asproni lo bollavano come "divorato dall'ambizione", "simulatore inveterato" e "il più fino gesuita di Napoli" (Asproni, II, pp. 537, 542). Ma, pur tra mille critiche, il C. riuscì a seguire una sua linea poggiando sulla stima di Garibaldi che lo volle nel primo ministero della dittatura, con a capo L. Romano, e, poi, dopo le dimissioni da questo presentate per i contrasti con la segreteria dittatoriale sulle rispettive attribuzioni, gli affidò la composizione di un nuovo ministero in cui il C. assunse il portafoglio dell'Interno (26 sett. 1860). Grandi furono i timori provocati in Cavour e nei suoi informatori napoletani da questa nomina che sembrava compromettere la linea annessionistica: invece il C. compì l'opera come meglio non si sarebbe potuto fare: innanzi tutto ottenne da Garibaldi la eliminazione della segreteria che, in mano ad uomini come Bertani e Crispi, era stata il maggiore ostacolo al successo dei moderati; quindi manovrò il personale amministrativo in modo da disporre di validi sostenitori del plebiscito, e si accattivò le simpatie della guardia nazionale anche se, a giudizio di taluni, distribuì impieghi in modo troppo disinvolto. Ma la vittoria per il C. arrivò quando, in collaborazione col prodittatore G. Pallavicino e mediante un vero rovesciamento dei rapporti di forza tra i vari consiglieri, riuscì a persuadere Garibaldi a rinunziare alla convocazione dell'Assemblea e ad indire il plebiscito. Per la verità, stando almeno al Cattaneo e all'Asproni che attestano un suo repentino cambiamento di rotta, la scelta del C. in favore dell'annessione incondizionata al Regno di Sardegna non fu facile, ma, una volta compiuta, fu difesa con vigore davanti a Garibaldi; anzi il C. andò anche oltre, minacciando dimissioni, organizzando manifestazioni contro la presenza di Mazzini a Napoli e, spingendo gli ufficiali della guardia nazionale a far pressioni per il plebiscito. Il 13 ottobre Garibaldi cedette: il plebiscito ebbe luogo il 21, e il giorno dopo che il C. gliene ebbe comunicato l'esito il Cavour lo liquidava suggerendo con toni sprezzanti a L. C. Farini, prossimo luogotenente, quale futuro riservargli: "Un posto nella magistratura e non se ne parli più" (lett. 1o nov. 1860, in La liberazione del Mezzogiorno, III, p. 248). Infatti, appena consegnati al re i risultati del plebiscito, il C. era nominato vice-presidente della Suprema Corte di giustizia di Napoli.
Eletto all'VIII legislatura il 26 genn. 1861 e riconfermato il 4 maggio 1862, entrambe le volte in rappresentanza di Mercato San Severino, il C. lasciò temporaneamente la professione per la politica e si schierò al Centrosinistra con i sostenitori del Rattazzi pur mantenendo, secondo la accusa che gli rivolgeva Petruccelli della Gattina nel darne un graffiante ritratto, "un piede nella consorteria" (I moribondi di palazzo Carignano, Milano 1862, pp. 186 s.). Come deputato, e poi come ministro, il C. appoggiò decisioni che non sempre coincidevano con la sua coscienza di giurista, ma lo fece appellandosi alle necessità del momento politico. Fu così quando si discusse la legge Pica per la repressione del brigantaggio che il C. votò, per poi combatterla quando si avvide che, sottraendo il cittadino alla tutela del lo statuto, essa lo esponeva ad insostenibili arbitri (1864); fu così quando si discusse la proposta di abolizione della pena di morte (1865), proposta che il C. avversò come prematura e foriera di gravi pericoli per la sicurezza nazionale, pur ricordando che all'epoca del suo primo incarico nel ministero Rattazzi non una condanna era stata eseguita. In un'occasione, però, non aveva voluto sacrificare i propri principi: nel 1862. Entrato al governo il 7 aprile come guardasigilli, il C. lavorò indefessamente al compimento dell'unificazione legislativa ponendo estrema cura a che si applicasse tutta la legislazione regolante la vita delle organizzazioni religiose in seno al nuovo Stato. Al momento della crisi di Aspromonte fu, nell'esecutivo, il solo sostenitore di una linea morbida e, una volta deciso il processo ai garibaldini, cercò di garantirne il corretto svolgimento; ma quando il ministero adottò una serie di misure punitive contro la magistratura siciliana, particolarmente contro il democratico P. Calvi cui si attribuivano tacite connivenze nei fatti dell'estate, il C., prima ancora che il governo desse le dimissioni, decise di dimettersi dall'incarico.
Nelle elezioni del 1865 fu sconfitto dal conservatore M. Farina; la nomina a senatore, decretata due anni dopo, fu una sorta di compenso, a suo parere tardivo, che tuttavia non lo riportò pienamente alla lotta politica. In precedenza era stato nominato procuratore generale della Corte di cassazione di Firenze, e da allora i problemi della magistratura, la riaffermazione della sua indipendenza dall'esecutivo, la richiesta di precise garanzie per il ruolo da essa svolto, il rifiuto della concezione del pubblico ministero come rappresentante del governo lo impegnarono a fondo, come dimostrano il coraggioso discorso tenuto il 7 genn. 1870 a Firenze per l'apertura dell'anno giudiziario e l'intervento in Senato del 25 genn. 1873. Ma occorre segnalare anche un altro discorso, pronunziato dal C. a Firenze all'inizio del '74, in cui le critiche rivolte all'istituzione della giuria popolare, un organismo giudicante che gli pareva troppo poco selezionato per i compiti cui era chiamato, denunziavano l'evoluzione del suo pensiero verso posizioni di chiusura al limite del corporativismo.
Il ritorno del C., che dal 20 nov. 1876 era vicepresidente del Senato, al ministero di Grazia e Giustizia nel primo governo Cairoli (24 marzo 1878), se sembra sorprendente in considerazione dell'autoemarginazione degli ultimi anni, lo è un po' meno ove si consideri che il suo passato di giurista ben si accordava con i propositi di applicazione non restrittiva dello statuto enunziati dal Cairoli nel suo programma, anche se non mancava chi, come il democratico A. Bizzoni, esprimeva dubbi sulla sincerità del suo liberalismo (La Italia radicale. Carteggi di Felice Cavallotti: 1867-1898, a cura di L. Dalle Nogare-S. Merli, Milano 19593 pp. 46 s.). Il C. si dedicò soprattutto allo spinoso problema dei rapporti tra Stato e Chiesa presentando due progetti di legge, destinati a decadere per fine di legislatura, sull'obbligo di far precedere il matrimonio civile a quello religioso e sull'abolizione delle decime derivanti dalla somministrazione dei sacramenti, mentre si oppose alla presentazione di un progetto di legge sull'introduzione del divorzio. Alla caduta del ministero Cairoli (19 dic. 1878) tornò alla vicepresidenza del Senato; chiamato alla procura generale della Corte di cassazione di Napoli, fu pubblico ministero nel processo a G. Passanante, l'attentatore di Umberto I.
Si spense a Caserta il 3 ag. 1880.
Fonti e Bibl.: Non va oltre il 1859 la biogr. in cui il figlio L. Conforti e il nipote L. Conforti (R. C. avvocato. Ricordi ed arringhe celebri, Napoli 1882) presentano materiale relativo soprattutto alla sua opera di penalista. L'attività parlam. del C. nel '48 e dopo l'Unità è docum. rispett. in Le Assemblee del Risorgim., X, Napoli, Roma 1911, I, pp. XXXVII, XLIII, LII, LXVII, LXXI s., 40, 61 s., 76, 78 s., 90 s., 136, 147, 294, 315, 343 s., 351, 416, 438 s., 462, 505 ss.; II, pp. 140-43, 163, 267, 277 s., 297-300, 315, 334; e in Atti parlamentari, Camera, VIII legislatura, sessione 1861, Discussioni, I-II, ad Ind.;sessione del 1861-62-63, III-X, ad Ind.;sessione del 1863-64, I, pp. 181, 253, 372, 570, 640; II, 1232 s., 1335; Atti parlamentari, Senato, Discussioni (per cui si rinvia agli Indici posti in fine di ogni sessione). Per uno sguardo d'insieme, si veda anche la Storia del Parlamento italiano, I, Palermo 1963; V-VIII, ibid. 1968-78, ad Ind. Tra le altre fonti cfr. A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935, p. 314; C. Pisacane, Epistolario, a c. di A. Romano, Milano-Roma 1937, ad Ind.; G. La Cecilia, Memorie storico-politiche, a cura di R. Moscati, s. l. 1946, ad Indicem; La liberazione del Mezzogiorno… Carteggi di C. Cavour, II-V, Bologna 1949-54 (per la consultazione si veda il volume di Indici, a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen); C. Cattaneo, Epistolario, a cura di R. Caddeo, III, Firenze 1954, ad Ind.;F. De Sanctis, Epistolario, I-IV (voll. XVIII e XIX d. Opere complete, a cura di G.Ferretti-M. Mazzocchi Alemanni; XX e XXI, a cura di G. Talamo), Torino 1956-69, ad Ind.;Id., Inviaggio elettorale..., a cura di N. Cortese, Torino 1968, ad Ind.; G.Asproni, Diario politico 1855-1876, a cura di C. Sole-T. Orrù, I-II, Milano 1974-76, ad Ind. La biografia del 1879, un anno prima della morte del C., aveva carattere laudatorio: G. Stopiti, C. R., in Galleria biogr. d'Italia. Seguirono: Il Risorg. ital. Biografie storico-polit. ..., a cura di L. Carpi, II, Milano 1888, pp. 127 s.; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e naz., Terni 1890, ad nomen;E. Sabato, R. C. avvocato, magistrato, uomo polit. nel periodo del Risorgimento, Taranto 1940; Nuovissimo digesto it., IV, sub voce. Su tutte si impone A. Moscati, I ministri del Regnod'Italia, I, Napoli 1955, pp. 535-50 (con biblibgrafia); Diz. d. Ris. naz., II, Milano 1937, ad nomen. Molti gli studi critici con valutaz. sull'attività polit. del Conforti. Sul '48: G. Paladino, Il 15maggio 1848 in Napoli, Milano-Roma-Napoli 1920, ad Ind.;A. Basile, Il moto contadino nelNapoletano ed il ministero del 3 apr. 1848, in Riv. stor. del socialismo, III (1960), pp. 799 ss., 804 s.; G. Berti, I democratici e l'iniziativa merid. nelRisorg., Milano 1962, ad Ind.;F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorg., Roma 1965, ad Ind.;L. Cassese, Scritti di storia merid., Salerno 1970, pp. 245 ss.; A. Lepre, St. del Mezzogiorno nel Risorg., Roma 1974, ad Ind. Sull'esilio: M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno diNapoli, Milano-Roma-Napoli 1912, ad Ind.; Laemigraz. polit. in Genova e in Liguria dal 1848al 1857, Modena 1957, II-III, ad Ind. Sul C.nel '60: L. Conforti, Come si fece il plebiscito di Napoli e di Sicilia, Napoli 1910, passim; F. Zerella, La dittatura di Garibaldi a Napoli, in Rassegnast. d. Ris., XXIX (1942), pp. 626, 634 ss., 646, 653 ss., 669; D. Mack Smith, Garibaldi e Cavournel 1860, Torino 1958, ad Ind.;A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-61), Milano 1963, ad Ind.;M. Montesano, Partiti polit. e plebiscito a Napoli..., in Arch. stor. per le prov. napol., s. 3, LXXXIII (1965), pp. 19, 23, 27 ss.; R. De Cesare, Lafine di un Regno, Roma 1975, ad Ind. Sul periodo postunitario: F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Milano 1964, ad Ind.;M. D'Addio, Politica e magistratura (1848-76), Milano 1966, ad Ind. (importante anche come fonte). Sulla partecipazione del C. al governo Cairoli: A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, ad Ind.;E. Morelli, R. C., P. S. Mancini e l'arcivescovo di Napoli G. Sanfelice, in Rass. stor. salernitana, XXVII (1966), pp. 97-102.