DELLA TORRE (Dalla Torre, De Turri, Torre), Raffaele
Nacque postumo a Genova nel 1579. Il padre Raffaele, imprenditore commerciale con rapporti a Firenze, Messina e Napoli, morì il 22 marzo 1579. La madre, Brigidina da. Bene, risulta ancora incinta il 13 maggio.
Nonostante le difficoltà derivanti da tale situazione familiare, fu avviato agli studi. In una tarda testimonianza ricordò di esser stato fuori Genova dal 1597 al 1605: nella dedica del De cambiis rammenta un periodo trascorso presso il Collegio Romano, sotto la guida di personaggi come Famiano Strada e Terenzio Alciato. Dagli atti per l'ammissione al Collegio dei d ottori di Genova risulta che studiò diritto a Roma nel 1601-1602, poi a Bologna ed. infine a Parma fino al 1606. Il 4 novembre presentò domanda e il 3 dic. 1606 venne cooptato.
Agli inizi dell'anno successivo ottenne il primo incarico pubblico (il vicariato di Chiavari) e iniziò così la sua lunga carriera di uomo politico e di operatore dei diritto. A trent'anni sposò Maria Giustiniani, da cui ebbe numerosi figli. Come uno dei membri più giovani del Collegio tenne nel 1611 il discorso ufficiale per l'assunzione al dogato di Alessandro Giustiniani, che giudicò l'orazione "Bella assai, ma alquanto lunga" (Oratione nell'incoronatione del Serenissimo Alessandro Giustiniani, Genova 1611).
Nel luglio del 1613 fu incaricato, insieme con Giulio Pallavicino, Federico Federici e altri, di rivedere e ordinare l'immensa mole di appunti stesi da Antonio Roccatagliata sulla storia di Genova, ma di questo lavoro non si conoscono gli esiti, né sembra che il D. si sia mai molto interessato alla storia antica di Genova da un punto di vista erudito. Furono le sue competenze giuridiche a essere ben presto messe a frutto dalla Repubblica: nel 1615 fu chiamato a far parte dei "sapientes Reipublicae", incarico che ricoprirà numerose altre volte, sia negli anni immediatamente successivi (1619, 1622, 1624, 1627), sia nella maturità e nella vecchiaia.
In effetti è difficile trovare qualche unità archivistica per il periodo 1620-1666 in cui non vi sia traccia di suoi interventi; come ricorderà egli stesso nel testamento del 1662 "se faran riconoscere li atti della loro cancelleria [dei Supremi sindacatori], vi ritroveranno più scritti miei ... di quanti ne habbiano fatti tutti li altri dottori in mio tempo" (Arch. di Stato di Genova, Notaio G.A. Toso, sc. 1019, f. 5). A questa si affiancò un'intensa attività professionale, come risulta dai decreti con cui venne autorizzato a patrocinare cause di particolare rilevanza pubblica (nel solo 1616, ad esempio, difese personaggi quali il marchese di Fosdinovo; Andrea Grimaldi; Costantino Doria per la questione del feudo di Sassello; Giov. Angelo Chiavari contro i governatori del Moltiplico istituito da Franco Lercari).
Si delinea insomma la figura di un personaggio non solo estremamente capace e competente, ma anche conscio del suo ruolo. Già nel 1619 abbiamo uno dei primi screzi con il Senato, che gli proibiva di parlare in Minor Consiglio. Ma l'anno successivo il D. fu chiamato a far parte della commissione che doveva rivedere alcuni capitoli degli statuti criminali; e nel 1621 non solo fu incaricato di tenere l'orazione per i funerali di Filippo III, ma intervenne più volte durante l'inchiesta sul funzionamento della.giustizia criminale. Nel maggio 1623 fu nominato residente a Roma, ma riusci a non. andarci. Lo stesso anno, per la prima volta, fu posto nel bussolo del Seminario, e nel 1624 fu sorteggiato governatore, trovandosi così a far pane dei Collegi durante la guerra del 1625, di cui scriverà anche un breve resoconto, rimasto manoscritto, una delle prime opere in cui si intrecciano riflessione politica e ricostruzione storiografica (Genova, Arch. storico civ., MSS. 22: Commentario dell'impressione ostile fatta dall'armi francesi e piemontesi nella Liguria l'anno 1625, cc. 682-693, e Mss. 341, cc. 6-22). Il suo operato fu evidentemente considerato in modo positivo, se nel 1626 fu nuovamente "imbussolato". Sempre in questo periodo scrisse un Ragguaglio di risposta a quello redatto da Giov. Antonio Ansaldi per conto del duca di Savoia, in cui il D. rigettava soprattutto l'opinione che il governo di Genova fosse in mano ad un'oligarchia composta da una quarantina di persone (Ibid., Mss. 359, cc. 28-74; Mss. Brignole Sale 109. A. 13, cc. 56-142; Parigi, Bibl.nat., Fonds. Ital. 749, cc. 25-74).
Alla scoperta della congiura dei Vachero fu nominato consultore dei governatori che dovevano seguire il processo, in cui svolse un ruolo non certo secondario se il cancelliere scrisse su una copia degli atti: "Mag.co, I. C. Raphaele de Turri ipsum contexente ac ad finern optimurn dirigente" (e sarà consultore degli Inquisitori di Stato nel processo contro Marco Antonio Grillo nel 1629).
L'intensa partecipazione alla vita politica non impediva però al D. di trovare il tempo di scrivere: già nel testamento del 1628, lasciava all'amico avvocato Giacomo Della Chiesa "tutti li miei manuscritti, pregandolo a bruggiarne la maggior parte come cose imperfette et indegne di memoria" (Arch. di Stato di Genova, Notaio G. B. Cangiolanza, sc.583, f. 15).Nel 1630 fu nominato conservatore delle Leggi (e lo sarà numerosissime altre volte), consultore della Camera, e nell'estate fu inviato sotto Casale per assicurare ad Ambrogio Spinola che la presenza di un residente francese a Genova non era di per sé pregiudizievole ai rapporti con la Spagna. In effetti questi anni segnano una svolta nella politica internazionale della Repubblica; e il D. si segnalava fin d'ora come esponente dei gruppo filofrancese; nel 1633 l'ambasciatore spagnolo a Genova lo ricorderà come "mal affecto" (ed era l'anno in cui il D. fu sorteggiato procuratore). L'anno successivo il D. partecipò alle trattative per la pace con i Savoia.
Nel frattempo scriveva una relazione della Congiura di Giulio Cesare Vachero, una delle opere sue più famose, ma rimasta inedita fino all'800 (pubblicata da C. L. Bixio, in Arch. stor. ital., App., III [1846], pp. 545-634).
Nonostante la dedica ai Collegi, le critiche in essa contenute all'operato del Senato fecero si che il 24 novembre 1634 gli Inquisitori di Stato presentassero ai Collegi una relazione in cui si affermava "che in niun modo s'habbia a permettere che l'historia o sia relatione della congiura, etiamdio in qualunque maniera reformata, si stampi, anzi che ... si debba in ogni modo prohibire" (Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto 1568), e così fu deciso. Nonostante questo divieto, continuò a circolare manoscritta in innumerevoli copie; già nel marzo dell'anno successivo una lettera anonima contro il D. ricordava a suo demerito proprio la relazione in cui tanti "secreti insieme si palesino in materia così grave"; ma vi si trovano anche altre accuse: si parla di lui come di "questo nostro Dittatore che vorrebbe menar il mondo a sua posta, confidato in quell'eloquenza che in lui si prova tanto perniciosa per la Republica". La lotta politica all'interno del patriziato genovese assumeva toni sempre più accesi, e il problema dei rapporti con la Spagna era uno dei nodi cruciali.
Nel 1636 il D. fu nuovamente posto nel bussolo dei Seminario, e sarà sorteggiato nel giugno dell'anno successivo. Ma prima di analizzare il suo operato in quel biennio cruciale, bisogna ricordare che alla fine del 1635 fu incaricato di scrivere una risposta ai pareri di J. Ruiz Laguna sul problema di Finale Ligure.
Finale, feudo imperiale occupato da tempo dagli Spagnoli, era sempre stato una spina nel fianco della Repubblica; l'aggravarsi dei rapporti con la Spagna fece sì che venissero posti in discussione i privilegi fiscali della Casa di S. Giorgio, soprattutto in tema di commercio del sale. I protettori della Casa avrebbero voluto che il D. rispondesse al Laguna "stringatamente e per le rime", ma come "testimonio della penna lussureggiante del Sr. Rafaello" venne fuori un volume di più di 700 pagine (Controversiae Finariensis adversus senatorem Lagunam., Cyrologia, Genuae s. d. e gli Excursus, Genuae 1642). Non furono solo le dimensioni a scontentare i protettori e i Collegi. L'opera era sostanzialmente finita nel 1640, e per diversi mesi una commissione la lesse e ne discusse; già stampata fu però trattenuta; si volevano cambiamenti nella dedica e nel contenuto, temendo il guastarsi dei rapporti anche con l'Impero ("chi non teme che. la lussuria d'una penna, benché felice e benché fusse veritiera, si debba pagare con qualche grave risentimento, non conosce la natura de' grandi": Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto 1655). L'indicazione di stampa porta come data il 1642, ma alla fine del 1644 si stava ancora discutendo sui cambiamenti alla dedica. Evidentemente non era solo questo o quel passo a bloccare l'uscita di un'opera su cui tanto avevano contato i protettori; probabilmente va tenuto conto del quadro politico generale.
Nel giugno del 1637 una squadra navale spagnola aveva assalito dieci navi olandesi da carico dirette a Genova, nei pressi di Diano. Il caso non solo era grave da un punto di vista diplomatico, ma poneva in discussione tutti i diritti che la Repubblica vantava sul mar Ligure. Il D. scrisse una "lettera" al marchese Vincenzo Giustiniani in cui difendeva la giurisdizione e il dominio di Genova sul mare (Savelli, Un seguace). Il 15 giugno fu sorteggiato governatore, e poté così partecipare direttamente, da posizioni di governo, alla lotta politico-diplomatica contro la Spagna, in stretto raccordo con il doge Agostino Pallavicino. Lo scontro nei Collegi e nel patriziato giungerà a tali asprezze da costringere il Pallavicino a minacciare le proprie dimissioni dal dogato. Il D. nell'opera della vecchiaia, le Historie, si difenderà dall'accusa di essere filofrancese, affermando di essere solo "contrario alle voglie irragionevoli dei Spagnoli e insofferente de gravami che tutto giorno ne riceveva la sua Republica". In realtà il rapporto del D. con la Francia era molto più stretto di quanto non volesse far credere.
A indubbio però che il D. si poneva in una posizione di contrasto con molti dei gruppi dominanti tradizionali genovesi anche su altri fronti: proprio nel 1637-38 sarà infatti tra i propugnatori del nuovo armamento di galere "di libertà" (e tra i soci della compagnia troviamo il figlio Giovanni Tommaso). Nonostante i contrasti continuò a giocare un ruolo di primo piano nel personale di governo della Repubblica: nel maggio del 1640 fu ammonito per aver parlato "con troppa caldezza" in Consiglio su temi di politica internazionale, ma nell'estate fu inviato in missione presso l'ammiraglio della flotta francese che incrociava di fronte a Genova, per giustificare, la Repubblica che rifiutava l'ingresso delle navi da guerra in porto.
La presenza dei D. sulla scena genovese non si riduceva però solo all'attività politica o professionale, sempre molto intensa: nel 1641, ad esempiò, in casa sua si tenevano le riunioni di un'accademia (forse quella degli Addormentati), cui partecipavano anche membri del governo, e già nel novembre i Collegi si premuravano di chiamare "il Prencipe dell'Accademia" per ordinargli "che ne i discorsi, colloquij, essercitij e conferenze che si fanno nell'Accademia non si tratti in modo veruno della Republica, né del governo e stato di essa". Sempre nel 1641 fu nominato per la seconda volta rettore del Collegio dei dottori (lo era già stato nel 1635-36), e fece sì che anche il Collegio contribuisse alle spese per il nuovo armamento navale. E sempre nel 1641 vide la luce l'opera cui aveva nel frattempo atteso indefessamente, il Tractatus de cambiis (Genuae; e Francofurti 1645), un'opera monumentale, che, insieme a quella dello Scaccia, "marque l'apogée de l'école scolastique" (De Roover).
Tutti gli aspetti della problematica dei cambi e delle lettere di cambio vi sono affrontati, con un notevole ricorso alla dottrina precedente, sia giuridica sia teologica, con una particolare attenzione anche alla pratica dei tribunali: dopo la terza parte, infatti, vengono ripubblicate e conimentate numerose sentenze della Rota romana (concludono l'opera i "Capitoli e ordini delle fere di Bisenzone", naturale richiamo alla supremazia genovese sul mercato, finanziario).
Nonostante l'età, continua la presenza del D. sulla scena politica: nel 1643 fu nuovamente imbussolato (ma la sorte gli sarà ostile: non verrà più sorteggiato fra i membri dei Collegi) e alla fine del 1644 si decise di inviarlo a Roma per una delicata missione diplomatica, in cui già il suo predecessore, Agostino Centurione, aveva fallito.
Al primo posto delle istruzioni era la questione delle "onoranze", delle formalità riguardanti le relazioni fra Stati, che peraltro venivano a incidere anche su problemi di maggiore rilievo (tema da lui già affrontato in un Discorso inviato nel 1638 al card. Borghese: Genova, Bibl. d. Soc. lig. di st. patria, ms. 264). Oltre a ciò, i temi dei colloqui con il pontefice riguardarono il problema del Finale, delle immunità ecclesiastiche e dei rapporti politico-militari con Venezia nella lotta antiturca. Le trattative non approdarono a nulla, e le lettere del D. sono piene di- amare riflessioni sullo stile della corte pontificia ("in vero è cosa di stupore che in una corte non impiegata in altro maggiormente che in non far niente, ci sia tanta difficoltà in far queste benedette visite": Arch. di Stato di Genova, Arch. segrezo 2355). Lo scritto cui il D. affidò le sue riflessioni sul problema delle onoranze, l'Esame delle preminenze reali pretese dalla Serenissima Republica di Genova nella corte di Roma (non rintracciato), fu criticato dai Collegi e gli fu intimato di far ritirare tutte le copie stampate (anche se il D. negherà di essere stato il responsabile della stampa e della diffusione). L'Esame provocò non solo numerose risposte critiche, ma anche un acre Avviso di Parnaso (Genova, Arch. civ., Mss. Brignole Sale 107, B, 1., cc.22-30, in cui fra l'altro, si accusava il D. di essere "fomite di fattioni", e di "essersi portato non da quel politico che egli si spaccia, da semplice dottore". Ancora nel 1652, gli Inquisitori di Stato ricorderanno la cattiva impressione che l'Esame aveva fatto e rifiuteranno a V. Siri di ristamparlo nel suo Mercurio (ed egli si limiterà a riassumerlo molto sommariamente).
Durante il soggiorno romano il D. strinse cordiale amicizia con l'inviato inglese K. Digby, ma soprattutto stabilì durevoli rapporti con i Barberini, in un momento in cui le fortune dei due potenti cardinali subivano i primi tracolli. Tale amicizia e gli ormai stretti rapporti con la diplomazia francese lo spingeranno a pubblicare, anonima, la Fuga del cardinal Antonio male interpretata e peggio calunniata, Perugia 1646.
Nelle Historie il D. ricorderà di averla scritta "alle istanze del Cardinal Grimaldi"; già nel gennaio del 1646 il cardinal Mazzarino ne parlava in una lettera a Giannettino Giustiniani: "sarà ottima essendo parto del purgatissimo giudicio del Sig. Raffaele della Torre" (e in una lettera del Giustiniani al Mazzarino del 26 febbr. 1646 gi trova una delle prime testimonianze sulla ricerca che il D. faceva di documenti per la stesura della Historie). Sempre al cardinale Antonio Barberini il figlio Orazio dedicherà una delle opere più interessanti del D., l'Astrolabio distato da raccogliere le vere dimensioni dei sentimenti di Cornelio Tacito (Genova 1647; e Venezia 1647): opera da ricordare, nonostante lo stile prolisso e farraginoso, per una valutazione del pensiero di Machiavelli estremamente spregiudicata e attenta. D'altronde questi sono gli anni che lo vedono allacciare relazioni con personaggi quali Paganino Gaudenzi.
La collocazione del D. negli schieramenti politici cittadini era ormai ben precisa e, nonostante le difficoltà che gliene derivavano, non priva di appoggi: così se nel 1649 gli Inquisitori di Stato aprirono un'inchiesta su di lui, intervennero però i Supremi sindacatori a difenderlo; e quando in un documento spagnolo si trascendeva definendolo "lengua de serpiente", partì subito una protesta per Madrid. Nel 1650, nuovamente rettore del Collegio dei dottori, il D. si fece promotore di iniziative volte a rafforzare l'organizzazione del Collegio, estendendone i poteri e rendendone più difficHe l'accesso. Risultato di un lungo lavoro interno fu un nuovo progetto di statuto che, però, presentato ai Collegi insieme ad altre richieste, fu respinto duramente e bruscamente; anzi, il D. e alcuni suoi colleghi vennero sospesi dal Collegio d'autorità e "ad beneplacitum" del governo. La questione verrà poi appianata, ma lo statuto non fu approvato (a differenza di quanto afferma la Merello Altea).
Contemporaneamente a questi impegni politico-professionali (sarà più volte conservatore delle Leggi in questo periodo) il D. continuava indefessamente a scrivere libri di argomento storico, politico e giuridico: nel 1651 vide così la luce Dissidentis desciscentis receptaeque Neapolis libri VI (Insulis [Genova?]; Neapolis 1770), una corposa ricostruzione della rivoluzione napoletana del 1647, scritta a quanto pare ad istanza del conte di Oñate, e che dovette avere una storia editoriale complessa (inviandone una copia a Francesco I di Modena, il D. scriveva: "molti sinistri han patito queste mie povere fatiche"). Nel 1653 pubblicò lo Squitinio della Republica di Venetia d'autore incognito squitinato (Genova; e Venetia 1654), intervenendo nell'annosa polemica in difesa del governo veneziano.
Il riacutizzarsi delle tensioni con la Spagna riportò nuovamente in primo piano il problema del Finale: non solo il D. redasse memorie sul problema, dirette al governo, ma pubblicò una risposta ad un pamphlet redatto a Milano, Al curioso del vero (Genova 1655).
Anche questa volta l'opera non incontrò il favore del governo genovese e il D., in un nuovo volume indirizzato ai protettori di S. Giorgio, con l'invito a tenerlo segreto, riespose in termini molto franchi tutto il suo pensiero sul problema (Arch. di Stato di Genova, Membranacei di S. Giorgio 66).Il volume è interessante non solo e non tanto per la questione particolare del Finale, ma perché vi si trova un'articolata discussione dei rapporti tra la Repubblica e la Casa di S. Giorgio, fatto estremamente raro nella pubblicistica genovese del tempo. Lo stesso anno andò in stampa anche il volume Reiectiones redargutiones, vendicationes ... ad tractatum suum de cambiis (Genuae 1655), in cui il D. rispondeva alle critiche mosse al suo precedente trattato da Antonio Merenda, Onorato Leotardi e Andrea Bianchi S. I.
Passato indenne attraverso la peste del 1656-57, nonostante l'età il D. partecipò ancora attivamente alla vita pubblica, chiamato a far parte di commissioni che dovevano provvedere alla riforma delle leggi. Nel gennaio del 1658 sembra essere a capo, insieme all'amico Federico Imperiale, di un movimento di opposizione all'interno del Maggior Consiglio: come veniva scritto in un biglietto anonimo "stimano agevolarsi la strada al ducato". Al dogato non arriverà mai (troppi, chiaramente, i nemici); fu invece chiamato a far parte nel 1659 della suprema magistratura di S. Giorgio, e continuò ad essere consultato in questi ultimi anni della sua vita su tutte le questioni di rilievo.
L'ultima opera a stampa del D. fu il saggio Restaurandae antiquae iurisprudentiae conatus (Genuae 1666); non gli riuscì invece di pubblicare le Historie delli avvenimenti de suoi tempi (1612-1648; uno degli esemplari più completi in Bibl. univ. di Genova, Mss. C.V.6-7), una monumentale ricostruzione della storia europea fino alla pace di Vestfalia; già nel 1663 aveva inviato il primo volume a Ferdinando de' Medici (cui pure dedicherà il Conatus del 1666), e sempre nel 1663 aveva anche scritto un breve saggio contro le storie di G.B. Nani (Genova, Arch. civ., Mss. Brignole Sale 104. F. 2, cc. 78-108).
Il 19 marzo 1666 il D. dettò il suo ultimo codicillo testamentario; e i suoi pensieri erano tutti e solo rivolti alle Historie:si rammaricava di non aver potuto ancora fare gli indici e.disponeva che, "quarn citius et secretius fieri poterit", fossero fatte avere al re di Francia. Morì il 21 marzo 1666; il giorno successivo i Collegi disposero il sequestro di "tutti li papeli spettanti al publico".
Della sterminata produzione di consigli, allegazioni e memorie del D. diamo qui un elenco dei mss. principali, ordinato per depositario e cronologicamente: 1612: Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto 1652 (32), a. 1612; 1037, a. 1634; 1569, 1654, 1666, a. 1641; 1337, a. 1648; 253, a. 1654; 495A, 1380, 2993; Ibid., Mss. 635 (54), a. 1622; 639 (60), a. 1630; 600, a. 1634; 636 (68); Ibid., Bibl., Mss. 103 (155), a. 1622; 103 (22), a. 1631; 103 (227); Ibid., Membr. di S. Giorgio 218, a. 1637; Ibid., Senato, Senarega 1081, a. 1642; 1081, a. 1658; Ibid., Antica Finanza 978, a. 1645; Ibid., Rota criminale 112; Cancellieri di S. Giorgio 595; Genova, Biblioteca universitaria, 3.0.III.44. (22), a. 1618; 3.0.V.5 (30 bis), a. 1648; 3.0.II.44. (31) 1656; Ibid., Biblioteca civica Berio, Mss. VII.3.23 (62), a. 1631; VII.3.23 (18), a. 1641; VII.3.23 (64), a. 1646; VII.3.23 (24); Ibid. Bibl. d. Soc. ligure di storia patria, A.5.9. (39), a. 1645; Ibid., Archivio civico, Mss. Brignole Sale 106.A.2, a. 1646 (pubbl. alle pp. 51 s. di F. Cicala, Discorso sopra le conventioni della città di Sarzana, Lucca 1654); 105.C.2; Ibid., MSS. 261, a. 1664.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Arch. segr. 855, 860, 861, 863, 864, 867-872, 875, 897, 899-902, 904, 905, 1033, 1568, 1569, 1572, 1574, 1575, 1577, 1578, 1581, 1582, 1654-1656, 1904, 1985, 2350, 2355, 2370, 2707E, 2711; Ibid., Senato, Senarega 1081; Ibid., Senato, Gallo 443, 563, 564, 706; Ibid., Cancellieri di S. Giorgio 489, 500, 501, 544, 570; Ibid., Antica Finanza 554; Ibid., Mss. 526-528; Ibid., Mss. tornati da Parigi 14 (cc. 474 s.); Ibid., Notai ignoti 223, 224, 227-229, 392; Ibid., Notai, Lorenzo Palavagna, se. 442, f. 3; B. Cangialanza, se. 583, f. 115; Gio. Francesco Zerbi, sc. 835, f. 43; Paolo Agostino Toso, sc. 1019, ff. 2, 5; Genova, Arch. civico, Mss. 299, c. 252rv; Ibid., Mss. Brignole Sale 105.B.7 (cc. 2r, 378-390), 107.B.1 (cc. 18-31); Arch. Di Stato di Modena, Arch. segr. estense, Canc. ducale, Arch. p. materie letterati, b. 64; Arch. gen. de Simancas, Estado, Genova, leg. 3591 (113); 3602 (55); 3605, (117); Parigi, Arch. du Ministère d. Affaires etrangères, Correspondances politiques, Génes, 4 3 5; Bibl. ap. Vaticana, Barb. lat. 5257, 10.036; Urb. lat. 1628; Genova, Biblioteca civ. Berio, Mss. IX.3.16; Ibid., Bibl. univ., Mss. B.III.6, c.97r; P.A. Canonieri, Epistolarum Laconicarum...,Firenze 1607, p. 166; V. Siri, IlMercurio (Casale), V (1655), 1, pp. 805-09; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 249; M. Giustiniani, Lettere memorabili, III, Roma 1675, pp. 66-69; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, III, Spagna (1636-1655), Roma 1955, in Fonti per la storia d'Italia, XXI, pp. 35, 105, 139; A. Spinola, Scritti scelti, Genova 1981, p. 162; V. Ricci, Lettere del cardinale Giulio Mazzarino a Giannettino Giustiniani, in Miscell. di storia italiana, IV (1863), pp. 27, 29, 189; N. C. Garoni, Codice della Liguria diplom. storico e giuridico, Genova 1870, pp. 3 s.; A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1873, pp. 327 s.; U. Gobbi, L'economia politica negli scrittori ital. del sec. XVI-XVII, Milano 1889, pp. 87, 289-93, 295; E. Bensa, Il collegio dei giurisperiti di Genova, Genova 1897, p. 39; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LXIII (1934), pp. 17 s., 57; O. Pastine, Rapporti tra Genova e Venezia nel sec. XVII e Gio. Bernardo Veneroso, in Giorn. stor. e letter. della Liguria, XIV (1938), pp. 191 ss., 202; Id., La politica di Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passarowitz, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LXVII (1938), pp. 22-42; R. Ciasca, Affermazioni di sovranità della Repubblica di Genova nel secolo XVII, in Giorn. st. e lett. d. Liguria, XIV (1938), pp. 87-97; R. De Roover, Lévolution de la lettre de change, Paris 1953, ad Ind.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, ad Ind.; R. Ciasca, La Repubblica di Genova "testa coronata", in Studi in onore di A. Fanfani, IV, Milano 1962, pp. 287-319; M. G. Merello Altea, La professione legale in Genova nel secolo XVII, in Annali della Facoltà di giurisprudenza d. Università di Genova, I (1962), pp. 303, 322; F. Elias De Tejada-G. Percopo, Napoles hispanico, V, Sevilla 1964, pp. 325, 387-90; R. De Mattei, Sulla fortuna di Bodin in Italia. Proiezioni italiane del concetto di sovranità, in Studi in onore di A. Segni, II, Milano 1967, pp. 17-20; Id., Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Firenze 1969, pp. 151-154; G. Galasso, Napoli nel viceregno spagnolo dal 1648 al 1696, in Storia di Napoli, VI, 1, Napoli 1970, pp. 23, 94, 99 ss.; R. Savelli, Un seguace ital. di Selden: Pietro Battista Borghi, in Materiali per una storia della cultura giuridica, III (1973), 1, pp. 16, 25; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, ad Ind.; R. De Mattei, Il problema della "ragion di Stato" nell'età moderna, Milano-Napoli 1979, pp. 181-86; G. Doria-R. Savelli, "Cittadini di governo" a Genova; ricchezza e potere tra Cinque e Seicento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, X (1980), pp. 311 ss., 345; R. Savelli, Tra Machiavelli e S. Giorgio, in Finanze e ragion di Statoin Italia e in Germania nella prima età moderna, a cura di A. De Maddalena-H. Kellenbenz, Bologna 1984, pp. 249-458, 310 ss.